Luxottica, lo scontro Del Vecchio-Essilor fa crollare il titolo

Finisce in uno scontro frontale la relazione tra italiani e francesi nel gruppo EssilorLuxottica che ieri ha perso a Parigi oltre il 5% a causa delle nuove tensioni all’interno del Cda dopo che Leonardo Del Vecchio, primo azionista e presidente esecutivo del gruppo franco-italiano, ha accusato il vicepresidente esecutivo Hubert Sagnieres di aver violato i patti e voler controllare da solo l’azienda. La francese Essilor e l’italiana Luxottica si sono fuse lo scorso ottobre dando vita al maggiore gruppo di ottica al mondo in un’operazione da 54 miliardi di euro. Anche se l’intesa prevede che i due gruppi abbiano uguale peso e potere nella società, Del Vecchio e Sagieres continuano ad accusarsi reciprocamente di voler assumere il controllo. Tanto che in un’intervista pubblicata da Le Figaro, il fondatore di Luxottica ha detto che il manager francese “ascolta solo se stesso senza accettare altre proposte accusandolo” di aver nominato quattro dirigenti chiave provenienti da Essilor senza consultare né Del Vecchio né il board. Non si è fatta attendere la risposta dei francesi: “Del Vecchio ha diffuso accuse gravi e menzognere”. E quella del mercato con un ribasso finale del 6,55%.

Se l’ospedale Bambin Gesù non ha niente da nascondere, pubblichi i suoi bilanci

Intervistata da Avvenire, domenica 17 marzo, la dottoressa Mariella Enoc, direttrice del Bambino Gesù, si lamenta di un’inchiesta del Fatto sui bilanci dell’ospedale pediatrico vaticano a Roma. Domanda la giornalista: “Come risponde a chi avanza dubbi sul vostro bilancio?”, cioè il Fatto. Risposta: “Mi sento la coscienza in pace. Diamo la massima trasparenza possibile, so però che più l’ospedale fa e più saremo attaccati. Sono qui con l’unica volontà di curare al meglio i bambini, con i bilanci in ordine altrimenti non potrei farlo, perché davvero non ho nulla da nascondere. Quindi proseguo nella linea di essere una struttura non profit al servizio del mondo, se qualcuno vuole attaccare me lo faccia, ma non tocchi l’ospedale. Non lo merita”.

Nessuno, per la verità, ha toccato l’ospedale. Il Fatto ha semplicemente sollevato alcune questioni su una struttura di sicura eccellenza ma che, pur essendo vaticana, riceve 193 milioni di euro dalle Regioni come rimborso per le prestazioni sanitarie in convenzione e altri 50 milioni dalla legge di Bilancio nazionale, più altri fondi per la ricerca. Come li spende? Non è ben chiaro: sul sito, il Bambin Gesù pubblica soltanto il “bilancio sociale”, un paio di tabelle sui dati finanziari e nessun dettaglio. Nel 2016 ha abbandonato gli standard di bilancio internazionali Ias per passare ai quasi sconosciuti (in Italia) Ipsas. Con effetti che non si possono verificare, perché i bilanci sociali precedenti sul web non ci sono più e quelli completi sono segreti. Il Fatto ha poi ricostruito una strana operazione immobiliare nel 2018 che ha generato 1,5 milioni di consulenza per una società appena costituita da un imprenditore già in rapporti col Bambin Gesù. Una società di Elio Tesciuba, che però è un esperto di tecnologia per la riabilitazione motoria (nel 2015, ha sperimentato un prodotto medico con l’ospedale), viene assoldata poco prima della firma del rogito. Misteri vaticani. Ecco, se la dottoressa Enoc vuole davvero praticare la “massima trasparenza possibile” basterebbe pubblicare i bilanci dell’ospedale sul sito web. O renderli accessibili a chi è interessato a consultarli, invece che invocare complotti o nascondersi dietro i bambini malati. Altrimenti le sue saranno soltanto buone intenzioni. Delle quali, come ben sanno in Vaticano, sono lastricate strade che è consigliabile non percorrere.

Pizza, la sorpresa tossica nascosta dentro il cartone

È un cibo naturale, costa poco, è il simbolo del Made in Italy. Ne mangiamo 8 milioni ogni giorno, che fa circa 3 miliardi di pizze l’anno di cui 730 milioni arrivano direttamente sulle nostre tavole dentro la scatola da asporto. Un involucro su cui ora si abbatte un’inquietante segnalazione: le belle confezioni di cartone – quelle che mostrano Pulcinella, un fornaio alle prese con una pala o una fumante pizza – sarebbero potenzialmente dannose per la salute perché potrebbero contenere il bisfenolo A (Bpa). Si tratta, cioè, di un composto di sintesi utilizzato nella produzione di plastica e additivi. ma che nel corpo umano si trasforma in un interferente endocrino capace di produrre anomalie riproduttive nell’uomo e nella donna. A scoprire la presenza di questa sostanza nei contenitori della pizza è il Salvagente che, nel nuovo numero in edicola domani, pubblica un’analisi che mostra per la prima volta la “migrazione” dell’interferente endocrino dalla scatola all’alimento. “Un passaggio della sostanza che – spiega il direttore del mensile Riccardo Quintili – viene scatenato dall’alta temperatura che raggiunge il cartone (anche 60/65°C) in cui si mescolano gli acidi del pomodoro e i grassi della mozzarella e dal tempo prolungato in cui la pizza, dopo essere uscita dal forno, resta all’interno del contenitore”.

A finire sotto la lente del Salvagente sono tre aziende leader nella produzione, commercio ed esportazione di contenitori alimentari: l’italiana Liner Italia, la spagnola Garcia de Pou e la tedesca Izmir. Dalle analisi emerge, però, che il bisfenolo è stato rilevato solo nella scatola spagnola (179 parti per miliardo) e tedesca (311 ppb). In quella dell’italiana Linear, invece, non è presente. E la motivazione è chiara: la legge italiana (D.M. 21 marzo 1973), considerata una delle più severe in Europa, obbliga i produttori a usare solo cellulosa vergine per gli imballaggi di cartone destinati ad alimenti umidi.

Un altro divieto legislativo riguarda la presenza di scritte nella parte interna del contenitore per evitare la cessione di sostanze nocive presenti nell’inchiostro. Mentre Spagna, Germania e altri Paesi europei (tranne la Finlandia che ha regole simili all’Italia) hanno normative più permissive: la parte esterna dei cartoni può essere formata da cellulosa riciclata che potrebbe essere stata contaminata da prodotti che contengono bisfenolo.

Per capire la gravità della scoperta basta ricordare che il Bpa A è nel mirino degli scienziati da oltre 70 anni, ma solo nel 2011 l’Unione europea ha deciso di eliminarlo da tutti i biberon. E, soltanto nel gennaio 2018, su indicazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), l’ha classificato tra le “sostanze estremamente preoccupanti” abbassando i limiti di migrazione della sostanza ai contenitori per alimenti da 0,6 a 0,05 mg per chilo. Nonostante la stretta imposta dall’Ue, si può però continuare a trovare il bisfenolo in stoviglie di plastica e involucri per il cibo, cd, dvd, attrezzature sportive, scontrini e, appunto, nei cartoni della pizza.

Del resto è tutta una questione economica: la partita si gioca sui centesimi. Se sul mercato italiano, che ogni anno produce almeno un miliardo di scatole per la pizza (dati Gifc, l’associazione che raggruppa le aziende che fabbricano cartone ondulato), un cartone costa circa 2 centesimi (con 20 euro i pizzaioli ne possono acquistare 100 pezzi), basta acquistare la stessa scatola oltre confine per spendere la metà (circa 1,2 centesimi). Per il consumatore sono cifre ridicole ma, moltiplicate per le 730 milioni pizze d’asporto che si vendono ogni anno fanno l’enorme differenza per i guadagni di forni, pizzerie, rosticcerie, ristoranti e gastronomie. E diventano un pericolo enorme per la salute di tutte le persone.

Così, anche se la normativa italiana vieta l’uso di carta riciclata nei cartoni d’asporto, il pericolo di mangiare sostanze chimiche insieme alla pizza esisterà fino a quando l’Europa non uniformerà la normativa. Dal canto suo, invece, il ministero della Salute – in una nota a cura della direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione – fa sapere che “per coniugare il rispetto dell’ambiente con la sicurezza alimentare ha commissionato al Laboratorio nazionale di riferimento per i materiali e oggetti a contatto con gli alimenti una ricerca sulla presenza dei contaminanti nelle carte/cartoni riciclati i cui risultati potranno essere disponibili a breve”.

Nel frattempo, un’arma a disposizione per scoprire se il cartone della pizza è 100 per cento di cellulosa vergine, e quindi sicuro, è quella di controllare se sul cartone compaiono i simboli di forchette e bicchieri che garantiscono l’idoneità al contatto con gli alimenti.

Auto, in arrivo la targa “portabile”. Risparmi per 42 euro

“La portabilità della targa automobilistica sarà presto realtà e dovrà andare di pari passo all’intestatario”. Ad annunciarlo il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli nel suo intervento al Senato, durante il dibattito sulla mozione di sfiducia nei suoi confronti. “Un’importantissima misura – ha spiegato – che porterà a breve un risparmio in termini di tempo e denaro per tutti i cittadini”.

In realtà, il Codice della strada riformato nel 2010 già prevede la misura annunciata dal ministro, ma la riforma non è mai stata correlata con un regolamento attuativo. Ma ora, secondo Toninelli, la normativa si applicherebbe a coloro che acquistano un nuovo veicolo. Verrebbe così assegnata una targa che resterebbe di proprietà dell’intestatario del veicolo per 15 anni con la successiva possibilità di rinnovo. In caso di acquisto di un mezzo usato, invece, la targa passerebbe al nuovo proprietario come da normativa del 2010. Il che comporterà un risparmio di 41,78 euro per ogni automobilista. Se la macchina fosse, invece, venduta senza acquistarla la targa andrebbe consegnata alla Motorizzazione.

Boom di assunti stabili, ma salgono i disoccupati

I dati sul lavoro pubblicati ieri dall’Inps portano una notizia buona e una cattiva. La prima è che a gennaio 2019 sono esplose le stabilizzazioni dei contratti a termine: ben 115 mila precari hanno ottenuto un posto “fisso” (+100%). Nello stesso tempo, però, sono state presentate 201 mila domande di sussidio di disoccupazione (+13,4%), mai così tante nel primo mese dell’anno dal 2016.

Si possono leggere questi numeri alla luce di due elementi: il momento negativo che sta attraversando l’economia italiana in “recessione tecnica” e il decreto Dignità, con il quale il governo ha cercato di incentivare il lavoro stabile rendendo più difficile il ricorso ai contratti a termine. La somma dei due fattori emerge nelle tabelle: rispetto al passato, le aziende italiane stanno facendo meno assunzioni ma più stabili e tutelate.

Partiamo con i nuovi rapporti di lavoro attivati a gennaio. Quelli a tempo indeterminato sono stati 165 mila; nello stesso mese del 2018 si fermarono a 147 mila. Discorso inverso vale per quelli a termine: 243 mila a inizio 2019, molti meno rispetto ai 293 mila di un anno prima. L’anno in corso è cominciato con 603 mila assunzioni totali, poco più di 100 mila in meno se confrontate con l’avvio del 2018. Nelle aziende entrano meno dipendenti, ma chi ci riesce ha un livello di protezione maggiore. Il saldo tra attivazioni e cessazioni (cioè i licenziamenti o le dimissioni) resta positivo di 170 mila. Ma attenzione: non vuol dire che abbiamo 170 mila persone occupate in più, perché un singolo può essere titolare di più di un contratto e soprattutto perché spesso chi viene assunto era già occupato da un’altra parte, quindi ha semplicemente cambiato azienda. Il numero totale di occupati secondo l’Istat, infatti, a gennaio 2019 è aumentato solo di 21 mila unità.

Guardando al trimestre tra novembre 2018 e gennaio 2019, primi 90 giorni con il decreto Dignità in vigore a pieno regime, gli occupati dipendenti sono rimasti gli stessi: né cresciuti, né diminuiti. Quindi, in un mercato del lavoro che – complice il rallentamento dell’economia – si è fermato, a cambiare è solo la qualità dei rapporti di lavoro che mostra qualche miglioramento. A favorire l’aumento dei posti a tempo indeterminato e la riduzione dei precari è soprattutto il boom di stabilizzazioni, che a gennaio sono arrivate a 115 mila, cifra mai vista di questi tempi. A gennaio del 2018 erano state 57 mila, mentre il record dell’anno appena passato è arrivato a dicembre con 70 mila. È evidente il salto in avanti dopo il decreto Dignità. La stretta imposta dal governo prevede che, una volta trascorsi due anni dall’assunzione – prima erano tre – il datore di lavoro debba scegliere se mandare a casa il dipendente o renderlo stabile. I dati Inps non permettono di capire quanti siano i rapporti a termine convertiti in posti permanenti ogni cento contratti scaduti. Ma il botto delle stabilizzazioni indica che le imprese stanno percorrendo questa strada. Tuttavia, come abbiamo visto, hanno anche tirato il freno alle assunzioni a tempo determinato, in costante calo.

È plausibile che, oltre a quelli mandati a casa dopo i 24 mesi, vi siano altri che anche prima di quella scadenza non hanno ottenuto il rinnovo. Gli imprenditori potrebbero aver deciso così in diversi casi per evitare l’obbligo di causale dopo i dodici mesi introdotto dal decreto. Questo spiegherebbe il record di domande di sussidi registrato a gennaio, quando sono state 201 mila (a gennaio 2018 erano 178 mila). I precari che, per un motivo o per l’altro, sono stati messi alla porta hanno chiesto l’assegno di disoccupazione.

Sblocca cantieri, col decreto si torna ai tempi delle leggi di B.

Un ritorno a un passato non proprio edificante. Il decreto sblocca cantieri non è ancora pronto. Mercoledì il Consiglio dei ministri lo ha approvato “salvo intese”, cioè senza testo definitivo, per lo scontro tra Lega e M5S sui commissari e le norme sull’edilizia. Ma è sulla gran parte del provvedimento, su cui c’è intesa totale tra gli alleati, che crescono gli allarmi. Ieri Cgil, Cisl e Uil hanno attaccato: “Il decreto non sblocca nulla perché non vi è nessuna norma di accelerazione per l’uso degli investimenti. Nessuna modifica è stata fatta per limitare i tempi dei processi autorizzativi e burocratici, mentre aumenta il rischio corruzione”.

Nell’ultima bozza uscita dal Cdm del testo che riscrive il Codice degli appalti del 2016 (governo Renzi) gli elementi critici sono molti. Per prima rende strutturale, non più limitata a un anno, la norma della legge di Bilancio che elimina l’obbligo di fare le gare per appalti di lavori fino a 350 mila euro (la Lega puntava ad arrivare a 5 milioni). Altro tema caldo è il subappalto. Il Carroccio chiedeva di eliminare il tetto del 30% sull’intero importo dei lavori, o quantomeno limitarlo solo alla categoria dei lavori prevalente. M5S ha stoppato il tentativo, che però ritorna nei consorzi. La materia è complessa, ma funziona così: il codice 2016 vietava di subappaltare lavori oltre il 30% ad aziende che partecipavano al consorzio vincitore della gara. Limite che ora viene tolto, dando così mano libera alle aziende più forti per contrattare sconti sui lavori (manodopera e materiali) con le imprese più deboli purché inserite nei consorzi. Viene eliminata anche una norma pensata per evitare i cartelli tra imprese: chi perde una gara potrà di nuovo ottenere lavori in subappalto dal vincitore, con il rischio concreto che le gare vengano di fatto falsate da un meccanismo che permette poi di spartirsi la torta a valle.

La vera rivoluzione, però, riguarda l’incentivazione del contestatissimo criterio del massimo ribasso. Nel 1994 la legge Merloni istituì anche il criterio dell’Offerta economicamente più vantaggiosa (Oev) per evitare le varianti che fanno lievitare i costi, visto che il massimo ribasso, privilegia solo questi ultimi. Nel 2016 l’Oev è diventato la norma. Per gli appalti fino a 5 milioni (il 75% del totale), adesso invece il decreto spinge le stazioni appaltanti a privilegiare il massimo ribasso, che diviene la norma, mentre la Oev l’eccezione. Le stazioni appaltanti infatti possono scegliere l’Oev solo motivandolo. Problema: la motivazione è l’arma che espone al ricorso delle aziende non vincitrici complicando così la vita ai dirigenti che vogliono evitare il massimo ribasso e i contenziosi. Non solo. Finora nell’Oev la componente di costo non poteva superare il 30% del punteggio finale. Questo tetto viene eliminato e così il punteggio può di fatto basarsi anche solo sui risparmi di costo e non sulla qualità tecnica dell’offerta.

Altra norma pericolosa è quella che consente alle stazioni appaltanti di verificare i requisiti delle offerte dopo l’apertura delle buste, così anche chi non ha i requisiti potrà influenzare la media delle offerte. Al concreto rischio di far lievitare i costi contribuirà poi anche la norma che elimina l’obbligo di ottenere un secondo via libera del Cipe (il Comitato per la programmazione economica) per le variazioni che non superano il 30% del valore de progetto approvato.

Il più grande passo indietro è però l’abolizione dell’albo dei direttori dei lavori e dei collaudatori. Si torna così ai tempi della Legge Obiettivo del governo Berlusconi, definita “criminogena” da Raffaele Cantone, in cui il general contractor, affidatario dell’opera, si sceglie queste figure eliminando le barriere tra controllori e controllati.

Dulcis in fundo, il decreto istituisce dei super commissari con l’obiettivo di sveltire i lavori. La Lega ne vuole solo uno per tutte le opere; M5S è contrario perché di fatto esautorerebbe il ministro Danilo Toninelli. Al momento si litiga sulla lista dei cantieri, ma intanto queste figure potranno agire in deroga alle leggi in materia di contratti pubblici, ambiente, tutela del paesaggio e del patrimonio artistico. Sono fatte salve le sole norme antimafia e quelle comunitarie.

Morra (Antimafia): cinque impresentabili candidati in Lucania

Non uno,non due, ben cinque candidati sono stati ritenuti “impresentabili” alle prossime elezioni in Basilicata, cioè non conformi al Codice di autoregolamentazione delle candidature. A dichiararlo è stato Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare Antimafia, che ha reso noti i nomi ai media: il primo è quello di Sergio Claudio Cantiani, della lista “Comunità democratiche” (Pd), imputato di concussione e in attesa della sentenza del Tribunale di Potenza. A seguire c’è Vincenzo Clemente, della lista “Bardi presidente” (centrodestra), accusato di corruzione. Anche lui aspetta il giudizio del Tribunale di Potenza. Si unisce ai rinviati a giudizio con dibattimento in corso Massimo Maria Molinari, della lista del “presidente Trerotola” (Centro Democratico e Progetto Popolare), imputato per due reati di corruzione. I restanti due candidati, Paolo Galante del Partito socialista italiano e Rocco Sarli della lista Fdi, sono stati condannati in primo grado per uno dei delitti previsti dalla legge Severino, in base ai quali, se eletti, scatterebbe la sospensione di diritto dalla carica. Su entrambi pende infatti una condanna per peculato continuato: il 16 maggio 2019 è atteso il giudizio in appello.

Nardella, Adinolfi e gli altri: la grande rete del generale-candidato

Nonostante la diserzione del leader di Forza Italia per l’intervento all’ernia, o forse anche per questo, il generale Vito Bardi potrebbe coronare il suo sogno e diventare presidente della Basilicata. A Potenza in molti lo danno in vantaggio sul candidato del centrosinistra Carlo Trerotola mentre il M5s Antonio Mattia è lontano. Bardi nei comizi parla poco e vola basso tra il rilancio dello sport e le lodi alla società civile.

Il generale però non è un marziano a Potenza. La famiglia Bardi viene dal paesino di Filiano, a metà strada tra il capoluogo e Melfi. Qui i Bardi tornano ogni estate nella villa di campagna. Suo padre era Angelo Bardi, presidente del tribunale di Melfi, con casa a Napoli, come Vito che ne ha appena comprata una (con un mutuo) da 750 mila euro a Chiaia. Il padre è scomparso a 97 anni nel 2017 ed è ricordato dai colleghi più giovani come un esempio. Il generale qui è molto stimato, come il fratello colonnello dei carabinieri, morto a 48 anni. Come il terzo fratello avvocato con studio a Sorrento. Lo zio del candidato era il senatore socialista Francescantonio Bardi, presidente del consiglio regionale fino al 1977, morto nel 2000. Il figlio del senatore è Piervito Bardi. Presidente della Camera Penale fino al 2006, ex presidente del Potenza calcio, molto diverso dal più timido Vito. Un “nemico” però accomuna i cugini: Henry John Woodcock.

La possibile elezione rappresenterebbe una nemesi per il magistrato che divenne famoso 15 anni fa a Potenza. L’avvocato Piervito Bardi fu arrestato ingiustamente da Woodcock nel 2004. La Camera Penale scioperò per 29 giorni e Bardi fu poi assolto definitivamente con formula piena dalla Cassazione. Poi Woodcock ha indagato anche il cugino, due volte, sempre senza alcun risultato. Il generale Bardi era stato accusato de relato da Luigi Bisignani di avere spifferato al magistrato Alfonso Papa l’esistenza delle indagini sulla cosiddetta P4. Bardi querelò tutti e fu prosciolto pienamente dall’accusa. Poi fu indagato di nuovo per i suoi rapporti con il colonnello della Finanza Fabio Massimo Mendella e anche stavolta fu prosciolto. Bardi era comandante in seconda e si ritenne danneggiato dalla gogna mediatica: “Ero accusato di aver diffuso notizie riservate, sapete perché? Perché – spiegò in un’intervista – avevo fatto il mio dovere con una relazione a un mio superiore”. Comportamento che poi fu sancito come pienamente lecito anche da una circolare del ministero.

Nella sua veste di comandante in seconda delle Fiamme Gialle, Bardi veicolava lecitamente in via gerarchica notizie sensibili. “Ho riferito al comandante generale e al capo di stato maggiore ogni volta che veniva fuori il nome di un personaggio di rilievo istituzionale (…) ricordo sicuramente di avere riferito quando Gianni Letta è stato sentito e sicuramente ho riferito dell’intercettazione ambientale intercorsa tra Bisignani e il ministro Prestigiacomo nella quale si faceva riferimento a Gianni Letta”, disse a Woodcock nel 2011 rivendicando il suo comportamento.

Il capo di Stato Maggiore allora era il generale Michele Adinolfi, amico di Bardi, in ottimi rapporti anche con Matteo Renzi come con Adriano Galliani. L’imprenditore, Luigi Matacena, raccontò ai pm una circostanza irrilevante penalmente: “Ho pagato nell’autunno del 2010 in occasione della partita Napoli-Milan un pranzo al ristorante Mattozzi a cui hanno partecipato il generale Bardi, il generale Adinolfi con la moglie” e poi altri generali della Finanza insieme ad Adriano Galliani, allora amministratore del Milan. Il nome di Matacena appariva nella lista Falciani, cioé quella dei correntisti della banca Hsbc trafugata da un dipendente e trasmessa alle autorità italiane alla fine del 2010. Matacena aveva fatto lo scudo fiscale per 2,5 milioni dalla Hsbc di Lugano. Nessuno dei generali probabilmente conosceva la lista e la sua posizione quando pranzava con Matacena.

Sempre Woodcock intercettò Michele Adinolfi, anche lui vittima di un errore giudiziario, anche lui prosciolto su richiesta del pm, nel caso della Cpl Concordia. Le conversazioni intercettate, pur irrilevanti penalmente, disegnano la rete dei rapporti del generale-candidato. Il 28 gennaio 2014 Dario Nardella chiama Adinolfi e gli dice che ha conosciuto Bardi, il quale gli avrebbe raccontato “quella vergogna”, cioè la conferma da parte del governo Letta del comandante in carica allora nella Guardia di Finanza: Saverio Capolupo. Adinolfi era deluso, aveva i titoli per quella carica. I tre si accordano per vedersi a pranzo a casa di Adinolfi. Rapporti trasversali e pienamente leciti che non hanno certo fatto velo a chi ha scelto il generale per le sue esperienze e qualità, cinque anni dopo, come candidato del centrodestra in Basilicata.

Diciotti, i giudici archiviano Conte, Di Maio e Toninelli

Nessuna responsabilità per il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il vicepremier Luigi Di Maio e al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli rispetto alla gestione dei migranti della Diciotti. Lo ha deciso il Tribunale dei ministri di Catania che, per gli stessi fatti, aveva invece chiesto il processo per Matteo Salvini, ipotizzando a suo carico il reato di sequestro aggravato di persona, ossia dei 177 naufraghi trattenuti a bordo della nave della Guardia Costiera già attraccata al porto del capoluogo etneo.

Richiesta respinta due giorni fa dal Senato che, nel caso del capo del Carroccio, ha riconosciuto gli straordinari presupposti che escludono l’ordinaria competenza della magistratura anche nei confronti dei ministri. La memoria difensiva predisposta per Palazzo Madama da Salvini era stata corredata da due lettere vergate rispettivamente da Conte, Di Maio e Toninelli che avevano sentito l’esigenza di sottolineare in atti, sebbene a posteriori, la condivisione delle responsabilità del caso Diciotti: le lettere in questione erano poi state rimesse dalla presidenza del Senato alla valutazione del collegio di Catania.

Quest’ultimo, disponendo l’archiviazione nei confronti dei tre, ha respinto in radice la tesi sostenuta non solo da Salvini, ma pure nell’autodenuncia dei suoi colleghi di governo. A partire dal presidente del Consiglio che, peraltro, solo poche settimane prima del caso Diciotti aveva d’autorità ordinato lo sbarco di migranti dalla stessa nave, con il palese dissenso del ministro leghista.

Il provvedimento di archiviazione nei confronti di Conte, Di Maio e Toninelli è definitivo perché non è impugnabile. Quanto alla posizione di Salvini invece la magistratura potrebbe anche decidere di sollevare un conflitto di attribuzione rispetto a Palazzo Madama. Secondo il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi “se l’autorità giudiziaria ritiene che quella non autorizzazione non sia giustificata, può sollevare il conflitto di attribuzione di poteri contro il Parlamento. Poi – ha precisato – si tratterà di stabilire se è ammissibile o meno”.

Nel corso del dibattito in aula a Palazzo Madama, più d’uno ha sollevato dubbi e perplessità sulla decisione di negare l’autorizzazione a procedere. Pietro Grasso di Leu ad esempio ha tentato di spiegare, senza fortuna, che la condotta di Salvini in quei cinque giorni di agosto finiti nel mirino della magistratura non potesse essere giustificata in base un interesse pubblico di rango costituzionale preminente, vale a dire prevalente sulla libertà personale dei migranti trattenuti a bordo quando già erano in territorio italiano. Ossia in un momento in cui era già nei fatti escluso che potessero rappresentare una minaccia ad esempio all’interesse alla sicurezza delle frontiere.

Contromossa Macron: anche Merkel-Juncker all’Eliseo con Jinping

Il presidente francese Emmanuel Macron riceverà martedì all’Eliseo il presidente cinese Xi Jinping assieme al presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e alla cancelliera tedesca Angela Merkel per parlare di commercio e clima. Lo annuncia l’Eliseo, sottolineando che l’obiettivo è “trovare dei punti di convergenza tra Europa e Cina”: “Il confronto deve essere a livello europeo e non della sola Francia”. “Si tratta di un incontro storico” che “si svolgerà prima del vertice UE-Cina del 9 aprile e del vertice sulla Via della Seta di fine aprile in Cina”, spiega l’Eliseo che sottolinea anche il “gesto importante da parte della Cina”.

L’incontro all’Eliseo tra Macron, Juncker, la Merkel e Xi sarà anche l’occasione per gli europei, continua Parigi, per spiegare a Pechino la loro posizione e si inserisce nel contesto di una trattativa commerciale tra Stati Uniti e Cina in cui “l’Europa non intende essere un semplice spettatore”.

Intanto oggi di primo mattino a margine del Consiglio Ue, Conte ha annunciato (come anticipato dal Fatto) che incontrerà Macron per ridurre e riequilibrare i costi del Tav.