I negoziati concreti dietro le battaglie ideologiche

Gli stessi partiti e gli stessi elettori che per anni hanno contestato accordi commerciali con gli Usa (Ttip) e il Canada (Ceta) perché, secondo loro, erano opachi e mettevano in pericolo gli standard sanitari e di qualità dei prodotti europei, oggi sono indifferenti o favorevoli alla firma di accordi strategici meno vincolanti ma ancora meno chiari con la Cina di Xi Jinping. Temono una globalizzazione le cui regole sono dettate da Washington, ma non una in cui vengono imposte da Pechino, da un governo senza democrazia e da una economia senza mercato.

Palazzo Chigi ha poi gestito la visita di Xi Jinping in modo un po’ pasticciato, offrendone letture diverse a seconda delle richieste dell’interlocutore: alla Cina ha detto che è una partnership strategica, agli americani e alla Ue che è poco più di una formalità, agli elettori che serve ad aprire opportunità alle imprese italiane.

Al netto delle battaglie ideologiche e della propaganda, è ovvio che l’Italia con la Cina deve trattare. Lo fa da tempo, dal 2014 State Grid of China è socia delle reti energetiche della Cassa Depositi e Prestiti, gruppi cinesi hanno comprato l’Inter e Pirelli. E non tutti i business sono politicamente sensibili: Snam, per esempio, si sta inserendo nel mercato cinese dove manca un operatore unico dell’infrastruttura del gas. E gli Usa ne sono felici, perché con i consumi in crescita la Cina dovrà importare gas dall’estero, cioè proprio gli Stati Uniti. Quindi servono i tubi. Intese strategiche in altri campi, come quello della tecnologia 5G, suscitano molte più perplessità: è vero che anche la Nsa americana spiava gli alleati europei, fino al cellulare di Angela Merkel, ma è una buona ragione per rischiare che anche il regime comunista di Pechino faccia lo stesso? Il primo risultato della visita di Xi è che, almeno, di questi temi ora si discute davvero.

Caro Xi, benvenuto in… Cina. Tanti affari, niente domande

Il corteo di blindati è senz’altro lungo. I controlli senz’altro rigidi. L’amicizia senz’altro solida. E la curiosità, poi, che ingenuità, è spasmodica. L’Italia accoglie il presidente cinese Xi Jinping, da ieri sera sul suolo patrio di Roma, con solenni ossequi, pronunciata deferenza e la solita ospitalità scambiata per sudditanza. E pazienza per la stampa italiana relegata al ruolo di spettatore plaudente, che assiste, a debita distanza dai fatti, a un patto culturale, industriale, commerciale che avvicina Roma a Pechino come mai.

Il capo comunista Xi Jinping, la moglie Peng Liyuan, ex celebre cantante negli anni ‘80, e la delegazione dei cinquecento, in visita per tre giorni in Italia, promettono miliardi di euro per l’asfittica economia italiana. Al governo pare un’ottima ragione per ridurre o azzerare i contatti con i giornalisti, le conferenze stampa, le domande a Xi.

Allora va scandagliata l’agenda ufficiale con i secondi contati, le porte chiuse, le poche parole e le molte fotografie. Quelle buone per la propaganda. Oggi Xi Jinping e consorte salgono al Quirinale per l’incontro con Sergio Mattarella, segue un saluto ai giornalisti, e una quantità indefinita di strette di mano agli imprenditori interessati a investire in Cina, o meglio, a ottenere investimenti della Cina. Poi Xi depone una corona di fiori al Vittoriano. Durante il passaggio in piazza Venezia, quattro gruppi in rappresentanza di una ventina di associazioni cinesi, muniti di bandiere metà della Repubblica popolare e metà della Repubblica italiana e foderati di striscioni di benvenuto, sono autorizzati a omaggiare il presidente. Nel pomeriggio, Xi ha colloqui riservati per un massimo di venti minuti ciascuno con i presidenti Elisabetta Casellati e Roberto Fico. Prima tappa al Senato da Casellati, dopo alla Camera da Fico in perfetto ordine di carica istituzionale. Per la pratica “parlamentare”, i funzionari dell’ambasciata hanno effettuato almeno tre sopralluoghi a palazzo Montecitorio per selezionare le inquadrature migliori da somministrare al popolo cinese. Non è ancora confermato un giro al Colosseo, di certo la signora Peng potrà conoscere e apprezzare le meraviglie di palazzo Colonna e villa Borghese. Chiude il venerdì una cena di Stato al Quirinale, offerta dal presidente Mattarella: oltre 170 invitati, tra cui i proprietari cinesi dell’Inter, e un concerto nella cappella Paolina con un’esibizione di Andrea Bocelli, famoso pure a Pechino. Assente Matteo Salvini, che da mesi è filo-americano dopo la passione pericolosa per la Russia amica della Cina. Per il vicepremier leghista, afferma, la priorità sono i lucani che domenica votano per la Regione.

Domani è l’evento, si tiene in Italia, ma il protocollo è cinese. Ore 10:30, villa Madama. Il premier Giuseppe Conte riceve Xi Jinping per firmare il memorandum per la cosiddetta nuova Via della seta e, in una stanza attigua, imprese italiane e cinesi, coinvolta soprattutto Cassa Depositi e Prestiti, siglano accordi di cooperazione e commesse, detto in forma più prosaica: appalti. Dieci, venti, trenta? Chissà. Il numero è “basculante”, per usare l’espressione di un dirigente di un’azienda italiana che malvolentieri accetta la discrezione imposta dai cinesi. I giornalisti accreditati possono osservare la funzione tra Conte e Xi Jinping in videoconferenza, da un luogo ben rinfrescato di villa Madama e però lontano dal memorandum. In un imprecisato momento, ai media saranno forniti comunicati, spiegazioni scritte e perciò non equivocabili. Se la sorte sarà clemente, forse, Luigi Di Maio potrà parlare con i giornalisti.

Dopo una frugale colazione di lavoro a villa Madama, la delegazione cinese partirà per un viaggio privato a Palermo. Agli italiani resta un mastodontico volume di 638 pagine, dal titolo Governare la Cina. Una biografia-agiografia con discorsi, interviste, aneddoti, fotografie di Xi Jinping, appena pubblicata da Giunti in sinergia con una casa editrice legata al governo di Pechino. Nel libro sono riportati frequenti atti di coraggio e di altruismo: “Alla vigilia del capodanno del 2005, Xi andò nelle miniere di carbone e si calò in un pozzo profondo quasi un chilometro e percorse uno stretto corridoio di oltre 1.500 metri prima di arrivare dai minatori”. Con lo pseudonimo di “Zhexin”, si scopre, il segretario generale del partito comunista ha scritto “232 brevi articoli” per rispondere ai lettori. “Xi Jiping è molto attento a comunicare con le masse attraverso i media”. Questo è soltanto un prologo. La seconda parte, altrettanto robusta, è attesa per giugno.

Addio Sansonetti, gli avvocati scelgono Fusi per “Il Dubbio”

Il giornale è troppo schierato, troppo ostile ai ministri Bonafede e Salvini e al governo gialloverde, troppo di sinistra. Sembra così destinata a concludersi, dopo tre anni, l’avventura di Piero Sansonetti alla direzione de Il Dubbio, il quotidiano del Consiglio nazionale forense che rappresenta per legge i 243 mila avvocati attivi in Italia. Cresciuto a l’Unità di cui fu inviato, corrispondente negli Usa e vicedirettore, tifoso del Milan, già direttore di Liberazione, de Gli Altri e di Cronache del garantista, Sansonetti fondò Il Dubbio nell’aprile del 2016 per volontà del presidente del Cnf, Andrea Mascherin, avvocato civilista di Udine, la cui decisione fu contestata dall’Associazione nazionale forense che è invece il sindacato degli avvocati. Il Cnf sarà chiamato a formalizzare l’avvicendamento a giorni, il nuovo direttore dovrebbe essere Carlo Fusi, ex notista politico del Messaggero e firma di punta del Dubbio. Il giornale è venduto in edicola solo a Roma, conta circa 40 mila abbonati all’edizione digitale. La decisione di rimuovere Sansonetti sarebbe maturata dopo il rifiuto del guardasigilli Bonafede di rilasciare un’intervista al Dubbio. Il Cnf ha bisogno di relazioni politico istituzionali che il direttore in carica non poteva garantire.

Toninelli salvo dalla sfiducia, non dagli sfottò

Al Senato è una lunga, crudele esecuzione. Al centro c’è la figura tragica di Danilo Toninelli. Il riccioluto ministro dei Trasporti è oggetto di una doppia mozione di sfiducia: una del Pd e una di Forza Italia. Come previsto sopravvive a entrambe: nel primo caso viene salvato da 159 voti contro 102, nel secondo da 157 contro 110. Ma per il signor Malaussène del Movimento 5 Stelle, il capro espiatorio delle difficoltà grilline, sono ore tremende.

Tanto per cominciare, la Lega lo lascia da solo. Matteo Salvini, appena salvato dal processo Diciotti, non si degna di comparire: è in Basilicata per l’ennesima campagna elettorale. Gli altri ministri del Carroccio se ne restano a casa, si affacciano – dopo diverse ore – solo Gianmarco Centinaio e Giulia Bongiorno. Non c’è nemmeno Armando Siri, quello che a giugno, in diretta televisiva, sosteneva che Toninelli non fosse ministro, malgrado sia tuttora sottosegretario del suo stesso dicastero.

Sui banchi del governo ci sono solo 5Stelle: Santangelo e Lezzi, più tardi Di Maio e Fraccaro insieme al premier Conte.

Per Toninelli è un’agonia, perché la violenza verbale degli interventi è insolita, come pure il livello degli argomenti. Certo, c’è la questione Tav come pretesto di entrambe le mozioni, insieme agli altri piccoli e grandi cantieri bloccati. Ma in fondo tutto si riduce a un’unica contestazione: Toninelli è imbranato. Un gaffeur, un uomo che inciampa sulle parole e sui gesti (il tunnel del Brennero, l’acquisto dell’auto diesel dopo la promozione di quelle elettriche, il pugno alzato per il decreto Genova, il selfie con il plastico del ponte Morandi, e ancora, e ancora e ancora).

Così, durante la corrida di Palazzo Madama, con rare eccezioni, gli attacchi non centrano i veri e presunti demeriti del ministro – che siede a testa bassa, spesso con gli occhi sullo smartphone – ma la sua macchietta, il personaggio di Crozza. Un breve saggio sul bullismo dei senatori: “Noi comprendiamo bene che essere Toninelli oggi è una condizione pesante. Ogni giorno un italiano si sveglia e sa che prima di sera arriverà una gaffe del ministro” (Maria Alessandra Gallone, Forza Italia). Oppure: “Se lei andasse via, mancherebbe una fonte di alimentazione della comicità italiana” (Vincenzo D’Arienzo, Pd). O ancora: “Glielo dico con simpatia. Guardi che i comici che la prendono in giro non ce l’hanno con lei. Se Grillo dice di non sparare su Toninelli perché è come sparare sulla Croce Rossa, non sono io, non è Forza Italia. Su Google c’è scritto: Toninelli gaffe. È la prima occorrenza” (Sandro Biasotti, Forza Italia). A un tratto il capogruppo del Pd Andrea Marcucci si avvicina al ministro e gli porge un foglio con l’elenco delle opere bloccate. Toninelli esita. Dai banchi dem parte un urlo belluino: “Prendilo, cretino!”.

Il resto è ancora folklore. I senatori di Forza Italia espongono i cartelli: “Toninelli lo facciamo per te”. Alberto Airola (M5S) risponde a Biasotti che se Toninelli fa rima con gaffe, Berlusconi fa rima con bunga bunga, la presidente Casellati lo ammonisce. Il forzista Francesco Giro urla ai Cinque Stelle “cometa di Halley!” (si riferisce all’arresto di De Vito) e poi mima le manette. Casellati ammonisce anche lui. Marcucci litiga furiosamente con la presidente perché sostiene che lo interrompa troppo presto (“È da ieri che ci tortura, ci faccia parlare!”).

Un dato sostanziale – a volerlo cercare nel delirio del Senato – è che per il secondo giorno consecutivo, la somma dei voti di Lega e Cinque Stelle è rimasta sotto quota 161, la maggioranza assoluta dell’aula. Nei prossimi mesi potrebbe diventare un tema. Ben più delle figure di Toninelli.

La festa a lutto per il reddito: il risveglio “fracico” dei 5 Stelle

Ai banchi del governo siede solo una sparuta pattuglia di sottosegretari: nemmeno un ministro è venuto per il via libera della Camera al reddito di cittadinanza. Nessuna scenografia allestita, come usa fare per le battaglie del Movimento: più sottotono di così, quest’approvazione, non poteva essere. E allora quando il tabellone si illumina di verde i deputati grillini danno sfogo al loro gaudio costretto a restare sottovuoto, si girano verso Nik Il nero, il fotografo del Movimento. Gli fanno segno: “Qui! scatta qui!”. Alzano la mano per farsi vedere: “Ci sono anch’io!”. Si mettono in posa, che fuori stanno tutti parlando dell’arresto del presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, dell’avviso di garanzia all’assessore braccio destro della sindaca Daniele Frongia, dei Cinque Stelle di Roma caduti in disgrazia e almeno sui loro social vorrebbero provare a cambiare argomento.

Invece no: terreo in volto, il presidente della Camera Roberto Fico li gela. “Colleghi, non è consentito fare queste fotografie! Stigmatizzo questo comportamento e il modo di mettersi in posa davanti alle tribune!”. Nik ripone l’obiettivo, gli onorevoli si rimettono a sedere, il collega questore Federico D’Incà li raggiunge urlando: “Che cazzo fate?” e mima con il pollice e l’indice una misura, probabilmente quella che considera indicativa del loro cervello.

Ecco, il day after dei Cinque Stelle, quello in cui si sono svegliati con il primo arresto per corruzione in casa, è una bolla in cui qualcuno avrebbe solo voglia di festeggiare e invece intorno sono vestiti a lutto. “Ce stamo a fracicà”, è il verdetto brutale che fa la vecchia guardia del Movimento romano. E non solo perché uno degli uomini simbolo dei Cinque Stelle nella Capitale – quel De Vito di cui adesso tutti dicono che, insomma, tanto amico loro non era – lavorava in combutta col costruttore Luca Parnasi: in ballo, ora, c’è la tenuta di un Movimento che ha capito di non avere gli anticorpi. E che, col senno di poi, tira un sospiro di sollievo a ripensare alle sconfitte in Abruzzo e in Sardegna: “Meno male che abbiamo perso, non ci possiamo permettere di avere troppi fronti aperti”.

Sono le conseguenze di un successo che è venuto su dal nulla, in fretta, che ha pochi uomini e pochi filtri e “finora si è retto sulla delazione”. La fedina penale pulita, è evidente, ormai non basta più. “Abbiamo alzato talmente tanto l’asticella – ricordano dal Campidoglio – che non possiamo permetterci neanche di passare con il rosso”. E tra i parlamentari lo sconforto sale, se ripensano alle parole che Luigi Di Maio ha pronunciato in assemblea poche settimane fa: “Siamo un Movimento bloccato, se non ci fossero stati gli uninominali non saremmo mai arrivati al 32 per cento”. Il blocco – come lo definisce il capo politico – sta nel fatto che da una parte c’è lo zoccolo duro di chi vede complotti ovunque, di chi teme le aperture agli esterni, di chi è “ossessionato” dai valori fondativi dei Cinque Stelle. E che in sostanza dice sempre no: “Ho chiesto ai referenti regionali di mandarmi l’elenco di tre opere da fare e tre da non fare – ha detto ancora il leader M5S in assemblea – Mi hanno mandato solo quelle da fermare…”. Dall’altro lato, invece, ci sono quelli saliti sul carro dei vincenti, che hanno preso il Movimento come il modo con cui trovarsi un lavoro. Così, sempre nella lettura del capo, i candidati dei collegi – professionisti, non avventurieri – hanno consentito al M5S di fare il salto che li ha portati al governo. Poi, per carità, bisognerebbe ricordare che negli uninominali c’era il velista sardo Andrea Mura, cacciato per assenteismo; il massone Catello Vitiello, espulso ancor prima del voto; e anche Mauro Vaglio, il presidente dell’ordine degli avvocati (una delle “lobby” che il M5S ha sempre combattuto) e Daniele Piva, indagato (e poi archiviato) nell’inchiesta sullo stadio: nessuno dei due venne eletto, ma fu De Vito a portarglieli in dote.

Lite continua: Conte ritira il patrocinio, Fontana lascia il suo

Continua la polemica nel governo per il World Congress of Families, la manifestazione dell’ultradestra cattolica che si tiene a Verona dal 29 al 31 marzo. La riapre il premier Conte con un post su Facebook: “Il patrocinio sul congresso – scrive – è stato concesso dal ministro (della Famiglia, ndr) Lorenzo Fontana, di sua iniziativa, nell’ambito delle sue proprie prerogative, senza il mio personale coinvolgimento né quello collegiale del Governo. Ho comunicato al ministro Fontana la opportunità che il riferimento alla Presidenza del Consiglio sia eliminato. Il criterio fondamentale che ispira ogni azione di questo governo è il rispetto della persona, della sua dignità individuale e sociale, indipendentemente dall’orientamento sessuale e a prescindere dalle scelte compiute nella sfera di vita privata, che va protetta da ogni indebita interferenza”. Dopo pochi minuti arriva la replica del leghista, sempre su Facebook: “Esattamente come annunciato in aula alla Camera – scrive Fontana – rimane il patrocinio da parte del Ministero della Famiglia. Per quanto riguarda il logo e il suo utilizzo, essi fanno capo ad un altro Dipartimento, e quindi la concessione o il ritiro non sono di mia competenza”.

Mister preferenze non risponde. Il socio: “Mai preso tangenti”

Marcello De Vito ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Come pure il suo amico, l’avvocato Camillo Mezzacapo, che però ha deciso di rendere spontanee dichiarazioni. Entrambi sono stati arrestati e si trovano ora nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Ieri Mezzacapo ha spiegato ai pm: “Non ho mai percepito tangenti, solo compensi per attività professionali: curavo transazioni e attività che si svolgono di norma nella Pubblica amministrazione. E con il ruolo politico di De Vito non ci sono mai state sovrapposizioni”.L’ex presidente dell’Assemblea capitolina, invece, tramite il suo legale, ha fatto sapere: “Chiarirò tutto. Sono sereno anche se molto dispiaciuto per quanto sta succedendo”. Secondo le accuse, De Vito avrebbe messo a disposizione di alcuni costruttori la propria funzione pubblica e in cambio otteneva consulenze da questi gruppi imprenditoriali allo studio legale del suo amico Mezzacapo. Si tratta di un giro di consulenze, tra quelle date e quelle invece promesse, che secondo la Procura ammonta a circa 400 mila euro. Parte di questo denaro finiva in una società, la Mdl srl, per le accuse “cassaforte” dei due.

Da Mafia Capitale alla giunta 5 Stelle. Sei anni di terremoto in Campidoglio

La sensazione a Roma è che da quel 2 dicembre 2014 il terremoto cominciato con la retata di Mafia Capitale non possa finire più. Una sorta di maledizione sul Campidoglio che non lascia tregua.

Dal Mondo di mezzo, quindi, bisogna necessariamente partire per provare a tracciare un elenco della malapolitica romana di questi anni. E, nella sentenza d’appello, spiccano le condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso: otto anni e otto mesi a Luca Gramazio, erede di una dinastia politica missina che ha visto nel padre Domenico un pezzo grosso della destra-destra romana; otto anni e sette mesi a Franco Panzironi, ex numero uno di Ama, l’aziendei rifiuti; sette anni e otto mesi a Carlo Pucci, ex manager di Ente Eur; due anni e sei mesi a Giordano Tredicine, ex onorevole capitolino (come a Roma vengono chiamati i consiglieri comunali) del Pdl, tornato a panini e caldarroste di famiglia dopo aver scontato la pena. Da destra a sinistra: troviamo l’ex capo di gabinetto di Walter Veltroni, ai tempi in cui il fondatore del Pd era sindaco di Roma, e capo della polizia provinciale (con Nicola Zingaretti alla guida dell’ente) Luca Odevaine, 5 anni e due mesi; quattro anni e sei mesi per Mirko Coratti del Partito democratico, predecessore di Marcello De Vito nella carica di presidente dell’Assemblea capitolina; e nove mesi all’ex mini-sindaco del municipio di Ostia Andrea Tassone del Pd.

Sempre in zona Mafia Capitale il processo stralcio ci riporta a destra con la condanna in primo grado, arrivata appena un mese fa, a sei anni di reclusione addirittura per l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, cresciuto nel Movimento sociale per poi diventare ministro con Alleanza nazionale fino all’approdo nell’ormai disciolto Pdl. Corruzione e finanziamento illecito i reati: l’accusa è di aver incassato dall’allora re delle coop romane “rosse” Salvatore Buzzi e soci una cifra di 298 mila e 500 euro per la sua Fondazione nuova Italia. Sostanzialmente Alemanno, da sindaco, sarebbe stato corrotto per indirizzare in favore del Mondo di mezzo provvedimenti del Campidoglio come le nomine in Ama, per sbloccare crediti e per pilotare appalti.

Da un ex sindaco all’altro, di nuovo da destra a sinistra, anche se le due condanne pesano in modo molto diverso, si passa da Alemanno a Ignazio Marino che, dopo l’assoluzione in primo grado è stato condannato in appello a due anni per le spese pazze con la carta di credito del Campidoglio, la celebre vicenda scontrini: si tratta dei reati di falso e peculato per una cifra contestata pari a 13 mila euro per ventisei cene in giorni festivi o prefestivi.

Tra 2015 e 2016, caduto Marino, cacciato con visita al notaio del suo stesso partito, ed eletta sindaca Virginia Raggi del Movimento cinque stelle, i guai non sono tardati ad arrivare neppure per giunta e maggioranza grilline. Già nell’estate 2016 c’è l’iscrizione nel registro degli indagati dell’assessore all’Ambiente Paola Muraro: le vengono contestati reati di abuso d’ufficio e violazioni ambientali. Si dimette quasi subito dalla giunta ma la sua posizione verrà archiviata nel 2018.

Nel frattempo, era il 16 dicembre 2016, Roma è stata di nuovo scossa da un arresto eccellente: Raffaele Marra, capo del personale del Campidoglio, viene arrestato con l’accusa di corruzione. Viene indagata anche la stessa sindaca Virginia Raggi per falso documentale nella nomina proprio del fratello di Marra, Renato, alla direzione del Dipartimento turismo di Roma Capitale, ma lo scorso novembre arriva l’assoluzione in primo grado perchè “il fatto non costituisce reato”: non è finita perché la Procura ricorre in appello.

E così, nel giugno 2018, si arriva alla vicenda del nuovo Stadio dell’As Roma con l’arresto di Luca Lanzalone, presidente di Acea, l’azienda romana dei servizi energetici, noto come il “mister Wolf” della Capitale, ovvero l’uomo che risolve i problemi alla sindaca. Roma, una città sempre più pulp con poca fiction.

Il futuro di De Vito, l’amico Mezzacapo: “In Poste o a Terna”

Marcello De Vito non perdeva di visto il proprio futuro. A febbraio scorso pensava già a cosa fare dopo la fine del mandato in Campidoglio. E magari puntava a una nomina in Terna – la società quotata in borsa che opera nel settore delle reti per la trasmissione dell’energia elettrica – o anche in Poste Italiane. O almeno di questo parla con il suo amico, l’avvocato Camillo Mezzacapo, il 4 febbraio scorso: entrambi sono stati arrestati dalla Procura di Roma con l’accusa di corruzione. Secondo i pm, De Vito avrebbe messo a disposizione di alcuni costruttori, la propria funzione pubblica e in cambio otteneva consulenze da questi gruppi imprenditoriali per lo studio legale di Mezzacapo. Si tratta di un giro di incarichi professionali, tra quelli dati e quelli invece promessi, che secondo la Procura ammonta a circa 400 mila euro. Una parte di questo denaro è finito nella società Mdl Srl, ritenuta dai magistrati la “cassaforte” nella quale arrivava il denaro “provento delle attività corruttive”.

Mezzacapo e De Vito parlavano anche del futuro del pentastellato. Il Nucleo investigativo dei Carabinieri, in un’informativa del 20 febbraio scorso, sintetizza così una conversazione tra i due del 4 febbraio 2019: “Mezzacapo sostiene che è necessario prendere altri mandati (incarichi) per alimentare i bilanci della Mdl e fa riferimento a consulenze che, attraverso l’intervento di De Vito, potrebbero ricevere da Enea. Poi aggiunge che lo stesso De Vito, al termine del suo mandato, potrebbe farsi nominare in una posizione apicale presso Terna o Poste Italiane, intendendo dire che, una volta ottenuto un simile incarico, lui (De Vito) potrà facilmente veicolare incarichi allo studio legale Mezzacapo. De Vito approva appieno le argomentazioni del suo interlocutore”.

La premessa logica alla conversazione tra Mezzacapo e De Vito è che – secondo le attuali regole del M5s – il consigliere comunale non potrà più candidarsi. Al massimo dopo il compimento del secondo mandato potrebbe concorrere a una nomina in una società pubblica e magari di lì provare ad aiutare l’amico avvocato.

Ecco la conversazione captata dalla Procura di Roma. Mezzacapo dice: “Lo so, dopo di che la do… dopo tutte le pacche sulle spalle di Stefano, bisognerebbe cercare di avere o qualche bel mandato non gli dice un cazzo finalmente, sei stato bravo (…). Sei storicizzato… nel mandato Enea della fusione, una cosa 200 mila euro da dare a tu… è normale, cominciamo a staccare una cosa. Oppure un discorso con Fabrizio, quello là che ti dice: ‘Aho, allora hai finito, guarda chiamo… non so… direttore generale di… Che ti posso dire?’”.

Poi l’avvocato Mezzacapo inizia a parlare delle società che potevano interessare il futuro di De Vito: “Terna e… Poste… – aggiunge – Tu vai dentro a fare Poste e ti danno… oppure ‘guarda ti piglio e ti metto’… va beh… ‘e ti metto a fare il consiglio di Terna’, capito che ti voglio dire?”. E De Vito acconsente: “Si”.

Secondo le indagini dei pm Paolo Ielo, Barbara Zuin e Luigi Spinelli erano tre i gruppi imprenditoriali con i quali De Vito e Mezzacapo hanno intessuto rapporti illeciti. Oltre quello di Luca Parnasi, ci sono anche il gruppo facente capo a Giuseppe Statuto e quello di Pierluigi e Claudio Toti. Nei confronti dei Toti e di Statuto, tutti indagati per traffico di influenze illecite, la procura di Roma ha chiesto la misura interdittiva, il gip deve ancora decidere.

Dalle carte depositate nell’inchiesta emerge che Toti anche dopo l’arresto (poi revocato) di giugno scorso di Parnasi, si fosse “incontrato in maniera riservata con Giovanni Naccarato, neo amministratore delegato della società Eurnova, nominato dopo l’arresto di Parnasi. Al termine di uno di tali incontri Pierluigi Toti parla esplicitamente di notizie riservate inerenti un’indagine che riguarderebbe i gruppi Toti e Parnasi acquisite in epoca molto recente”. Non solo, ma Pierluigi Toti – secondo quanto riportato in un’informativa dei carabinieri del 18 gennaio 2019 – “l’11 gennaio 2019, dopo aver espresso i propri timori in merito a un’indagine in corso sulla società ‘Porta di Roma’, ha chiaramente manifestato la volontà, qualora la propria posizione dovesse aggravarsi, di fuggire in uno stato estero (Uruguay), nel quale ha evidentemente dei possedimenti”.

Il Gip ha riqualificato l’accusa per Toti nel reato più grave di corruzione, mentre il pm ha contestato il traffico di influenze e ha chiesto l’interdizione per lui. Nell’ordinanza non si fa riferimento al pericolo di fuga, appena accennato dai Carabinieri nell’informativa. Ecco l’intercettazione tra Pierluigi Toti e un uomo non identificato.

Pierluigi Toti: Nell’ambito dei procedimento… ecco loro, sono chiamati dalla legge ad esprimere il proprio parere su ogni cosa che si fa

Uomo: Mah, ti devo dire finchè si tratta di studiare un paracadute… Eh?

Toti: Mah… valutare pure che ne so? Se e quando prenderci, ecco, non lo so. Senti… (…) per questo l’Uruguay va venduto

Uomo:Per questo?

Toti: L’Uruguay non va venduto (…) C’è l’estradizione in Uruguay, chi lo sa?

Roma, indagato Frongia. Di Maio lo fa sospendere

Il giorno dopo l’arresto per corruzione del presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito, un’altra grana si abbatte sul M5s: anche Daniele Frongia, già vicesindaco in Campidoglio oggi assessore allo Sport, è indagato dalla Procura di Roma nell’ambito del filone principale dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma, quello dal quale è nato il troncone d’indagine che ha portato all’arresto di De Vito. L’accusa per Frongia è corruzione: avrebbe segnalato – come Il Fatto raccontò il 22 settembre – una persona da assumere in una delle società del costruttore Luca Parnasi, accusato dai pm di Roma di essere a capo di una associazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione.

Era stato lo stesso Parnasi a raccontare ai pm, durante un interrogatorio, di aver chiesto lui stesso a Frongia se avesse qualcuno da segnalargli come responsabile delle relazioni istituzionali di una sua società, la Ampersand. Frongia avrebbe proposto una donna di 30 anni. L’incarico poi non fu formalizzato, anche perché Parnasi venne arrestato prima. L’imprenditore romano però ai pm ha anche detto di non aver mai ricevuto pressioni o richieste di favori da parte di Frongia. La Procura ha iscritto quindi l’assessore nel registro degli indagati, ma la sua posizione va verso l’archiviazione.

Quando Il Fatto pubblicò a settembre le rivelazioni di Parnasi, Frongià spiego: “Parnasi avrebbe dichiarato che sarei uno dei pochi, forse l’unico, tra i politici che ha incontrato a non avergli mai chiesto né ad aver ricevuto favori. È così. L’ho incontrato un paio di volte, come faccio con tanti imprenditori che vogliono investire nello sport a Roma, e in una occasione mi disse di essere alla ricerca di personale specializzato per una sua nuova azienda chiedendomi se conoscessi qualcuno con determinate competenze. A puro titolo di condivisione, ho passato questa informazione a persone con i requisiti ricercati”.

Appena la notizia della sua iscrizione per corruzione è diventata pubblica, ieri pomeriggio alle 16, l’assessore – fedelissimo di Virginia Raggi – ha fatto sapere che “avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell’imminente archiviazione”.

Qualche ora più tardi, però, l’ex vicesindaco ha dovuto annunciare la sua autosospensione dal Movimento e rimettere le deleghe da assessore: una decisione arrivata dopo il pressing di Luigi Di Maio, che ieri ha spedito in Campidoglio il suo emissario Max Bugani per capire i contorni della vicenda. Che evidentemente non lo hanno convinto. Più volte, ieri, il capo politico dei 5 Stelle ha sentito Virginia Raggi. E non ha mancato di farle arrivare il suo “disappunto”: in ballo, le ha spiegato, c’è l’immagine del Movimento, che non può essere danneggiata da qualcuno che ha affrontato le cose “con sufficienza”. Non solo perché – secondo i principi grillini – i rapporti con Parnasi andavano gestiti coi piedi di piombo, ma anche perché Frongia non avrebbe informato i vertici M5S dell’indagine a suo carico. Secondo quanto ricostruito, Frongia era a conoscenza da qualche giorno dell’inchiesta che lo riguardava, ma avrebbe sottovalutato la questione, certo della prossima archiviazione. Di Maio – che, ricordiamolo, finì nei guai per non aver condiviso la mail che lo avvertiva dell’inchiesta su un altro membro della giunta Raggi, l’ex assessore all’Ambiente Paola Muraro – non ha gradito tanta riservatezza. Fonti vicine al capo politico fanno sapere che solo ieri alle 14 Frongia avrebbe “furbescamente” scritto ai probiviri, consapevole che la notizia sarebbe stata pubblicata on line, come poi del resto è avvenuto. “Non ci si comporta così”: al di là dell’esito giudiziario della vicenda, insistono dal M5S, l’atteggiamento del braccio destro della Raggi “ha un peso”. E non è passato per nulla inosservato.