Guerre stellari

Ci sono due modi di affrontare la notizia dell’arresto di Marcello De Vito, presidente M5S dell’Assemblea capitolina, per corruzione. Il primo è quello dei partiti e dei giornali al seguito: evviva, anche i 5Stelle (uno in dieci anni, per la verità) rubano; ma, siccome parlano di onestà mentre gli altri se ne guardano bene, le loro corruzioni sono infinitamente più gravi di quelle degli altri; anzi, se ruba un 5Stelle, allora le centinaia di ladri degli altri partiti sono scagionati o autorizzati a rubare; infatti degli scandali del M5S si parla per settimane, mentre di quelli degli altri nemmeno per un giorno. Il secondo è quello di chi vuole capire ciò che accade e possibilmente trovare antidoti per evitare che si ripeta. E quegli antidoti, quando la disonestà è un fatto individuale, non di sistema o di partito, come emerge dalle accuse a De Vito, sono difficili da trovare. Ma passano necessariamente attraverso meccanismi più severi ed efficaci nella selezione della classe dirigente. Abbiamo spesso massacrato i 5Stelle per la loro selezione a casaccio. E confermiamo: le autocandidature votate online, senza una preparazione in apposite scuole di politica e di amministrazione, possono premiare persone di valore come pessimi soggetti. La regola dei due mandati, utile per evitare le incrostazioni di potere e i compromessi per comprarsi la rielezione in saecula saeculorum, può diventare addirittura criminogena: chi è privo di scrupoli, se ha poco tempo, lo impiega per arraffare tutto il possibile.

Contro le mele marce insospettabili (se il resto del cestino è sano), non c’è che la repressione: i casi De Vito si scoprono soltanto con più intercettazioni, anche per reati che ora non le prevedono (finanziamento illecito, abuso d’ufficio, falso in bilancio), e con gli agenti infiltrati introdotti dalla Spazzacorrotti che offrono mazzette e testano l’integrità dei pubblici amministratori. Poi, certo, i partiti devono controllare i loro dirigenti, eletti e amministratori. Ma non solo i 5Stelle: tutti. Chi se la ride per De Vito, fingendo di dimenticare i mille supermegamaxidevito che ha in casa (e si guarda bene dall’espellere), ricorda come un mantra le culpae in eligendo della Raggi e dei 5Stelle con Marra e Lanzalone, dovrebbe spiegare ai cittadini i propri criteri di selezione. Che non sono neppure casuali come quelli pentastellati: sono molto peggio, perché sono scientifici. Come quelli del bar di Guerre stellari. Lasciamo perdere il centrodestra, che s’è appena visto condannare il suo ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a 6 anni, per tacere di tutti gli altri arraffoni del giro Buzzi&Carminati.

Ma Walter Veltroni? È una brava persona ed è stato un buon sindaco: ma come fu che, al suo fianco, spuntò Luca Odevaine, che rubò per anni a man bassa con quelli di Mafia Capitale? E Beppe Sala? Da tutti additato come un sindaco modello, non ha quasi mai azzeccato un collaboratore. Quando dirigeva Expo 2015, si vide portar via uno dopo l’altro tutti i suoi fedelissimi, senza mai accorgersi di nulla: il suo braccio destro Angelo Paris, arrestato con la cupola degli appalti; il suo subcommissario Antonio Acerbo, responsabile del Padiglione Italia e delle vie d’acqua, arrestato con Andrea Castellotti, facility manager di Palazzo Italia; Antonio Rognoni, capo di Infrastrutture Lombarde, arrestato; Pietro Galli, promosso a direttore generale vendite e marketing malgrado una condanna per bancarotta (poi segnalata, invano, da Cantone); Christian Malangone, dg di Expo, condannato. Siccome il talento va premiato, Sala divenne sindaco di Milano e anche lì si dimostrò un talent scout da far impallidire dieci Raggi: nominò assessore al Bilancio e Demanio il suo socio in affari Roberto Tasca; promosse segretario generale Antonella Petrocelli, imputata per turbativa d’asta, poi in cinque giorni fu costretto a revocarla; come capo di gabinetto, chiamò senza gara l’avvocato Mario Vanni, tesoriere del Pd milanese, con stipendio da dirigente, poi purtroppo si scoprì che non aveva i requisiti dirigenziali richiesti dalla legge Madia per ricoprire l’incarico (poco male: il supersindaco si tiene anche il vecchio capo di gabinetto di Pisapia, col compito di firmare gli atti che Vanni non può firmare).

A Roma, poi, non c’è solo “il modello Raggi a pezzi” (il titolo di Repubblica sull’arresto dell’acerrimo nemico della Raggi). Ci sarebbe pure, anche se nessuno se n’è accorto, il governatore del Lazio e neo segretario del Pd Nicola Zingaretti indagato per finanziamento illecito e ancora in attesa di archiviazione per falsa testimonianza al processo Mafia Capitale. E nel caso Parnasi-Lanzalone, gli unici politici imputati sono due di FI (l’ex vicepresidente del Consiglio regionale Adriano Palozzi e il capogruppo in Comune Davide Bordoni) e uno del Pd (l’ex assessore regionale Michele Civita), mentre sono indagati il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, e quello del Pd renziano Francesco Bonifazi. Nessuno dei quali, diversamente da De Vito, risulta espulso dal suo partito. Né tantomeno arrestato, ci mancherebbe. Intanto il dibattito sulla classe dirigente 5Stelle prosegue. Dal bar di Guerre stellari.

Ps. Ieri il sito de La Stampa apriva l’homepage sull’assessore Daniele Frongia indagato perché Parnasi gli chiese consiglio su un giornalista capace per il suo ufficio stampa e lui glielo diede, con questo titolo: “Mazzette a Roma: indagato l’assessore Frongia, fedelissimo della sindaca Raggi. Le intercettazioni: ‘Due anni per far soldi’” (né Frongia, né tantomeno la Raggi, c’entrano nulla con storie di mazzette e di soldi). È la stessa Stampa che mercoledì aveva nascosto la notizia di Zingaretti indagato in un francobollino a pagina 10. Vergogniamoci per loro.

“La verità sul caso Harry Quebert”: come la serie tv intacca il mistero

La classica prima domanda rivolta a chi ha assistito alla trasposizione cinematografica di un romanzo si materializza con modalità simili all’istinto: “È fedele all’originale?”. Conta quello in apparenza, poi dopo aver evaso la prima questione si passa alla sostanza. Con La verità sul caso Harry Quebert, in onda su Sky (Patrick Dempsey è il protagonista), la risposta è “sì”, state tranquilli, fedelissimo, nessuna sorpresa, un tantino noioso, una perfetta fotocopia del best seller firmato nel 2012 dal giovane fenomeno svizzero, Joël Dicker, e diventato un caso editoriale per metà del mondo occidentale.

Passo dopo passo, pagina su pagina, suggestione su fotografia, paesaggi e personaggi, automobili e arredamenti, battute e sviluppo degli intrecci. Manca il pathos. Manca il tocco dello sceneggiatore, la responsabilità del regista di accorpare situazioni per regalare suggestioni, anche a costo di (un ovvio) pericolo: quello di deragliare rispetto alla traccia originale. Succede.

Per questo a volte ci si rifugia nel “liberamente tratto”, o come ne La versione di Barney gli autori denunciano (giustamente) fin dall’inizio l’impossibilità di seguire gli intrecci studiati, pensati e magnificamente realizzati da Mordecai Richler. Ma qui scavalliamo nella zona dei “capolavori”, altro campo rispetto a quello occupato dal pur bravo Joël Dicker, e La verità sul caso Harry Quebert in stile “schermo” riempie in pieno il concetto di “serie”, con tempi differenti, necessità di occupare un numero alto di ore, di chiudere una puntata con il colpo di scena, tanto da dirottare lo spettatore verso esigenze altre. E si è obbligati a scindere il parametro di giudizio.

La storia: nell’estate del 1975, in una cittadina balneare statunitense, scompare una 15enne. Nessuna notizia. Trenta e passa anni dopo ritrovano i resti della giovane all’interno del giardino di un celebre scrittore: si riapre il caso, interrogativi vecchi e nuovi, si intrecciano misteri, si materializza tutta l’atavica ipocrisia delle provincia Stelle e Strisce (la stessa raccontata da tantissimi autori come Jonathan Franzen tra i nuovi, o Bill Bryson con Vestivamo da superman tra i meno recenti), sorrisi e torte di mele, giardini ben curati, vogliamoci bene, il barbecue la domenica, il pastore come punto di riferimento, il ristorante con sgabelli e bancone è una certezza, la perenne birra in mano una filosofia di vita; tutto fino a ribaltare i piani, si scoprono delitti della mente e oppressioni dell’io, le consapevolezze volontariamente allontanate per mantenere uno status perenne, poco piacevole, ma conosciuto e affrontato in decenni di cultura (o sottocultura).

Ed ecco il deficit rispetto al romanzo. Non c’è evoluzione nella struttura dei protagonisti. Non si percepiscono i profondi tormenti, il costo dei compromessi, la violenza di quei compromessi; la riflessione sulle strade sbagliate, i celebri “se” e “ma” della vita, la circolarità della vita stessa che spesso sfocia nel destino, i crucci da affrontare, il desiderio inconscio di venire scoperti, la fortuna di potersi scusare, come se realmente servisse; tutti aspetti centrali nell’opera originaria di Dicker, un libro che nel mondo ha venduto milioni e milioni di copie con un seguito (Il libro dei Baltimore) anche migliore del primo. Capita. Magari anche il seguito televisivo sarà superiore al debutto.

Twitter: @A_Ferrucci

Ascoli & C., le città invisibili del fantasioso Manganelli

L’“Adelphiana” di Giorgio Manganelli, intesa come la serie apparentemente infinita di scritti a volte persino negletti o dimenticati del più imaginifico scrittore italiano del Novecento, continua con l’uscita odierna di una piccola, effimera, trasparente bolla editoriale dal titolo Esiste Ascoli Piceno? Il volumetto nasce dell’unione tra lo scherzo, come si chiamano certe composizioni musicali d’indole giocosa, ideato da Manganelli, quando nei primi anni Ottanta una rivista locale gli chiese di scrivere due o tre cartelle su Ascoli Piceno, e le cartoline di Tullio Pericoli, al quale a partire da domani Ascoli dedica la mostra Forme del paesaggio (1970-2018).

Manganelli è il genio geometrico e fantasioso degli articoli e dei reportage dalle città d’Italia apparsi negli anni ’70 su varie testate e raccolti da Adelphi nel 1991 ne La favola pitagorica: ci si poteva aspettare da lui meno che la squisitezza, lo scatto di muscoli mentali, la nevrosi classificatoria e enciclopedica (cui si aggiungeva quella sua propria del viaggiare) dei suoi testi sull’Abruzzo, la Toscana, le Marche, Roma e Milano? Ma proprio in questo non poter deludere le aspettative su sé stesso quale “fotografo e stenografo delle città” Manganelli si inventò maestro d’elusione, e invece di tratteggiare Ascoli e la sua fenomenologia, raggrumò il suo testo attorno a una questione puramente ontologica: “Il punto è: esiste Ascoli Piceno?”.

Lo sviluppo è esilarante, come sempre quando Manganelli scarta i significati, le morali, i messaggi, per darsi tutto, con la sua mole fisica e mentale, a una fissazione intellettuale: “Rammento di aver bevuto l’anisetta in una piazza estremamente decorativa; ritengo improbabile che una piazza così fatta esista veramente; probabilmente è una allucinazione, come la parola ‘rua’ per designare una strada, o le olive ripiene”.

Tullio Pericoli, che in Ascoli viveva, invece di statuirne l’esistenza di agglomerato architettonico e paesaggistico si abbandona alla fantasia manganelliana disegnando una Ascoli friabile, color crema e pastello, abitata da mongolfiere rosse e verdi, “mosse da venti devoti e miti”.

“Se la città è morbida di scorci medievali, la penserò come un oggetto metallico, che fa rumore se lo si tocca, un rumore aspro e inesatto”, escogita Manganelli con finezza. Se per la Norvegia e la Danimarca punteggiate da città “rigorose a stizzite”, per l’Islanda bruciata dal freddo e per il Polo Nord ustionante de L’isola pianeta Manganelli provoca un collasso del linguaggio, una concentrazione minerale delle parole addosso alla carne compatta del ghiaccio e ai suoi sfrigolamenti indifferenti, descrivendo le città italiane il suo lessico diventa lussureggiante: Firenze è pensata su una “matematica fiabesca”, e la sua San Lorenzo offre “l’immagine di una carne muraria scorticata, sanguinante”; l’Abruzzo è “una regione che si è specializzata in inverno”, un “capolavoro costruito con grandi blocchi di silenzio e scialbato di solitudine”; Torino è “pitagorica, nordica, secentesca, garbata”; Milano è abitata da “una sorta di febbrile bruttezza, una funzionalità frettolosa e sgarbata”; Roma ha piogge di “un furore subitaneo e sfacciato, un che di animalesco, di sventato, di rissoso”, immersa “in un badedas di languido lusso intellettuale”, in “un technicolor di gloria antica e elegante”.

Ma Ascoli Piceno, che appunto forse non esiste, si sottrae agli encomi delle pro-loco e alle finezze dell’intellettuale, diventando il luogo d’approdo ideale per la geografia manganelliana, un giocattolo mentale perfetto e irresistibile: “Non è impossibile che io soffra di una nevrosi ascolana”.

La risorsa testimoniale è inattingibile: “Mi dicono che una corriera vada ad Ascoli. Non posso fidarmi di una corriera, la quale può essere coinvolta in una congiura provinciale, il cui scopo è appunto quello di far credere che Ascoli esista. Non ho mai visto una automobile con targa di Ascoli”. A Tullio Pericoli, e a noi, resta il dubbio se Manganelli sia mai salito sulla corriera per Ascoli, se abbia mangiato le olive ripiene, se abbia preso un caffè da Meletti, se abbia passeggiato per le “rue” della città, che a pensarci bene, dice Pericoli, “sarebbero state davvero un po’ troppo strette per lui”. Del resto, come scrive Manganelli altrove, il mondo dell’inesattezza è sterminato.

Quando c’era lui, i treni (non) erano puntuali

Le fake news, modo moderno e accattivante per definire le bufale, sono una costante non solo nel mondo dell’informazione, ma anche nella storia. Diffondere notizie false sul passato ha lo scopo di mettere a confronto un tempo trascorso che si immagina felice con un presente che non piace: un uso distorto della storia per portare avanti critiche, più o meno fondate, all’attualità. Uno dei soggetti più usati per questo meccanismo perverso in Italia è sicuramente il fascismo: il passato totalitario del nostro Paese stimola da sempre sedicenti storici, specialisti del “si dice” o bugiardi consapevoli a produrre e diffondere le più svariate idiozie sui presunti meriti della dittatura in chiave critica nei confronti del presente.

Quasi tutte le bugie, alcune delle quali nate già in epoca fascista, sono state già smentite dalla storiografia e non hanno alcuna rilevanza per il mondo accademico, ma spesso continuano a girare tra le schiere, oggi un po’ più fitte e coraggiose, dei nostalgici. Mussolini ha fatto anche cose buone nasce dalla raccolta delle principali bugie che ancora girano attorno a lui e ai suoi. Ci si è affidati alla ricerca storica per smentire, una volta di più, le menzogne più grossolane, provando a comprendere da cosa, e perché, nascano queste leggende che ancora oggi avvelenano il dibattito pubblico.

Sono molti i campi in cui si dice che il fascismo abbia primeggiato: nell’economia, ad esempio. Gli ammiratori del duce proclamano che “quando c’era lui” gli italiani erano ricchi e felici come non mai. Sono però gli stessi dati statistici raccolti sotto il ventennio a segnalare un peggioramento nella qualità della vita del Paese: la quantità e la qualità del cibo a disposizione della popolazione peggiorarono e gli embarghi internazionali causati dalla politica mussoliniana colpirono le possibilità di acquisto degli italiani. Alla vigilia della disastrosa guerra voluta dal duce il reddito medio di un italiano era un terzo di quello di un francese; appena un quinto di quello di un inglese. Le mitiche bonifiche, ancor oggi raccontate come un successo fascista, furono per lo più immensi cantieri pubblici che assorbirono risorse e che, alla prova dei fatti, non risolsero il problema delle paludi e delle terre malariche in Italia. Delle abilità guerriere del “nostro” si pensava che si fosse già detto e scritto tutto, ma è tutt’oggi diffuso il mito dell’animo guerresco e dell’onore fascista. Dati alla mano, si deve dire che il fascismo diede pessime prove di sé in tutti i teatri di guerra in cui si presentò. Le conquiste coloniali e imperiali, di cui ancora qualcuno anziché vergognarsi va fiero, furono occupazioni posticce, mantenute solo attraverso una sistematica opera di terrore. La “civiltà fascista”, in Libia come in Etiopia, fu portata con gas, deportazioni e campi di concentramento.

Per quanto riguarda i progressi sociali, un ventennio di dispotismo non è bastato a distruggere in alcuni l’idea che il fascismo fosse una specie di regime illuminato. Così ancor oggi c’è ad esempio chi crede alla bufala del voto fascista alle donne. Una vicenda che dimostra come funzionasse il modo mussoliniano di fare le cose: pressato dai movimenti femministi nel dicembre del 1925 il duce approvò la legge che diede ad alcune categorie di donne la possibilità di votare alle Amministrative. Dopo solo due mesi, nel febbraio del 1926, il Parlamento abolì le elezioni amministrative stesse. In questo, ironicamente, si realizzò una vera parità tra uomo e donna, privando tutti indistintamente dei diritti di rappresentanza. Alcune delle bufale sul duce sono antiche e consolidate, come quella dei treni che arrivavano in orario: in realtà ci si limitò a proibire la pubblicazione delle notizie che parlavano dei ritardi dei treni.

Altre bugie invece sono modellate su sensibilità più moderne, come quella, piuttosto strampalata, che gira in rete e parla del duce che “diede pari diritti a uomini e animali” (sic!). Una bufala nata per far andare a genio il duce agli amanti degli animali, che però non ha alcun fondamento. Anzi, Mussolini impose una tassa sui cani da compagnia, considerati trastulli poco marziali per le famiglie italiche. Una delle bufale più recenti, nata sull’onda delle polemiche sui costi della politica e che strizza l’occhio al movimento ecologista, è quella che vuole Mussolini imporre ai propri ministri di andare in giro in bicicletta. Favola senza nessun fondamento, anzi: Mussolini arrivò a imporre una tassa sulle biciclette per stimolare l’acquisto di automobili.

Fake news nuove, ma con uno scopo antico: usare strumentalmente la storia per ridare dignità a un passato totalitario. Il primo passo per riabilitare e rendere accettabili idee che costituiscono, senza sconti, una delle pagine più tristi della nostra storia.

“No all’Albania paradiso di droga e riciclaggio”

Presidente Lulzim Basha, lei è a capo del partito democratico e leader dell’opposizione che da quasi un mese e mezzo porta in piazza a Tirana migliaia di persone contro il governo Rama. Finora ci sono state cinque manifestazioni, l’ultima sabato scorso, “una delle più grandi proteste di sempre e sicuramente la più rilevante da un mese a questa parte”, secondo lei.

Perché anche questa volta la polizia ha usato idranti e fumogeni?

Le forze dell’ordine lo hanno fatto in modo ingiustificato e pericoloso. Il gas lacrimogeno è stato utilizzato fin dal primo momento e non come ultima opzione possibile. Ci sono immagini che dimostrano come il gas e gli idranti siano stati impiegati intenzionalmente contro le persone con il chiaro intento di ferirle. Evidentemente non vogliono che la gente, soprattutto donne e famiglie con bambini, partecipino alle manifestazioni.

Non crede che avere al vostro fianco un partito come il Movimento socialista dell’integrazione (Lsi), rimasto al potere per quattro anni proprio insieme a Rama, tolga forza e credibilità alla vostra protesta?

La nostra posizione è chiara. Ogni cittadino, organizzazione e formazione politica che ha come obiettivo quello di liberare il paese dalla droga e dalla criminalità organizzata sono ben accetti per far parte del fronte unito di opposizione. Rama è stato ministro per la prima volta nel 1998, è leader del partito socialista da sedici anni e capo del governo da sei. Nel suo periodo di governo l’Albania è diventata un paradiso per i traffico di droga e il riciclaggio del denaro sporco.

Chi lo dice?

Negli ultimi tre anni, secondo l’Europol e il dipartimento di stato degli Usa, l’Albania è stato il principale produttore e fornitore di marijuana verso per i paesi dell’Unione europea, oltre a essere il crocevia dei traffici di eroina e cocaina verso l’Europa occidentale. Il denaro della droga è stato impiegato sia in attività economiche che in politica. I proventi del traffico di droga sono stati riciclati per condizionare la politica e per comprare le elezioni del 2017.

Che cosa chiedete?

Vorremmo che i politici legati alla criminalità e ai narcotrafficanti, come coloro che sono coinvolti nella compravendita dei voti, siano posti di fronte alla giustizia. E questo non può accadere con a capo del governo Rama che è il principale difensore e garante di questa situazione. Perciò vogliamo le sue dimissioni.

Eppure Edi Rama, in un’intervista al “Fatto” ha dichiarato che in Albania non c’è una rivolta di popolo, ma piuttosto quella di un’opposizione che è “stata mandata a casa dopo aver distrutto l’economia e soffocato il Paese nella palude della corruzione e dell’impunità”.

Queste sono tipiche affermazioni propagandistiche di leader autocratici che pensano di parlare in nome del popolo e che considerano le critiche un’espressione della volontà di tornare al passato. C’è una dilagante insoddisfazione e insofferenza che si materializzano non solo in continue rivolte e proteste, ma anche nel crescente flusso di emigrazione. Solo negli anni di questo governo, secondo i dati Eurostat, quasi 200 mila albanesi hanno chiesto asilo politico in uno dei paesi dell’Unione. Prima che Rama prendesse il potere erano meno di 50 mila e il fenomeno dei richiedenti asilo era quasi scomparso.

Se si votasse domani quante probabilità avrebbe il suo partito di vincere?

La nostra non è una battaglia per il potere. Ci battiamo perché ci sia giustizia e un governo per i cittadini. In questa battaglia crediamo di avere il sostegno della maggioranza e i sondaggi lo confermano.

Usa, la lista nera di Trump: 59 nemici schedati e spiati

Donald Trump è ossessionato dal rischio che la Cina abbia la capacità di spiare l’America (e riesca a farlo). Ma se a spiare e schedare è lui, gli va tutto bene. L’Operazione “Secure Line” avrebbe preso di mira 59 tra giornalisti e attivisti che, nei mesi scorsi, hanno seguito la carovana dei migranti approdata a Tijuana, al confine tra Messico e Stati Uniti, dopo avere risalito da Sud a Nord a piedi tutto il Messico partendo da Guatemala e Honduras.

A svelare l’esistenza dell’operazione è stata una tv locale, la Nbc7, le cui rivelazioni, basate sull’acquisizione di documenti riservati, sono state largamente riprese dalla stampa nazionale e internazionale. Il database comprendeva anche “istigatori” e “organizzatori” dell’emigrazione verso l’Unione. L’operazione condusse all’arresto di almeno 37 attivisti “pro-migranti”. Alcuni giornalisti schedati hanno riferito d’avere iniziato a subire più controlli, quando passavano la frontiera nell’uno o nell’altro senso: il loro nome faceva scattare ispezioni e verifiche, anche ripetute, che ad altri colleghi non erano imposte. Secondo le organizzazioni che si battono per i diritti civili, la schedatura dei giornalisti e l’arresto degli attivisti mirava ad avere un effetto dissuasivo. La carovana dei migranti fu scelta da Trump come tema dominante della sua campagna di mid-term, il 6 novembre scorso – l’esito del voto tradì le speranze del presidente, consegnando la maggioranza alla Camera ai democratici –. Trump cerca di incrementare la pressione per innalzare il muro al confine, nonostante il Congresso non gli abbia concesso i soldi per farlo e abbia anche bocciato la proclamazione dell’emergenza nazionale, che sarebbe rappresentata dalla presenza dei migranti alla frontiera. Alla bocciatura il presidente risponde con il veto, che il Congresso potrebbe ancora ribaltare (ma ci vuole una maggioranza impossibile da ottenere al Senato).

Il giro di vite nei confronti dei migranti è stato un elemento costante dell’Amministrazione Trump, annunciato in campagna elettorale: con decisioni contestate dalla giustizia federale, ma in un’ultima analisi avallate dalla Corte Suprema, il magnate presidente ha reso più vulnerabili all’arresto e alla deportazione i quasi 11 milioni di immigrati senza documenti, che abbiano o meno commesso reati; ha imposto il muslim ban, vietando o fortemente limitando l’ingresso negli Usa a viaggiatori provenienti da paesi prevalentemente musulmani; ha messo in forse i diritti acquisiti dai Dreamers, i figli di immigrati illegalmente entrati negli Usa quando erano bambini, ma cresciuti, andati a scuola e divenuti maggiorenni nell’Unione; ha ordinato la separazione dei minori dai loro genitori, una volta entrati illegalmente; e non ha mai abbandonato il progetto di innalzare il muro alla frontiera con il Messico.

La schedatura dei giornalisti e degli attivisti suscita preoccupazione anche nel Congresso: con un’iniziativa bipartisan, i senatori ne hanno chiesto conto all’Agenzia federale per la protezione delle frontiere. La risposta è stata che la Secure Line non riguardava giornalisti in quanto tali, ma persone che potevano essere testimoni di due incidenti, a novembre e a gennaio, nei quali agenti sono stati attaccati da migranti. Da quando Trump è presidente, non si ha notizia di incidenti di confine letali, mentre sono centinaia i migranti vittime del “deserto della morte”.

“Brexit è stato un sintomo, May ha diffuso la malattia”

“Cosa diavolo è successo a questo Paese?”. Anthony Cartwright risponde con una risata nervosa alla prima domanda diretta. È l’autore di The cut, il Taglio, romanzo commissionato dalla casa editrice Peirene per esplorare le radici della Brexit. Il libro è uscito nel Regno Unito nel primo anniversario del referendum e nei giorni del no del Parlamento dell’accordo con l’Unione europea, mentre i tempi del divorzio sembrano allungarsi almeno fino al 30 giugno. Ambientato a Dudley, ex cittadina mineraria dove Cartwright è cresciuto, racconta l’attrazione impossibile fra il proletario Cairo, ex pugile ridotto a guadagnare pochi spiccioli bonificando siti industriali dismessi, e la sofisticata documentarista Grace, piombata a Dudley dalla Londra ricca e intellettuale di Hampstead per un documentario sui Brexiteers. Mondi lontanissimi, che Carthwright racconta in modo credibile.

Si aspettava il risultato del referendum?

Ciò che mi ha sorpreso davvero è stato l’errore di calcolo della politica, indire un referendum nella presunzione di andare sul sicuro. È la grande causa del casino in cui ci troviamo ora. Ma proprio perché continuo a muovermi fra Londra e Dudley, due mondi separati, vedo Brexit come un sintomo, non una causa: la manifestazione di divisioni e disuguaglianze create molto tempo fa, mai sanate e peggiorate nel tempo. L’errore di calcolo è stato non capire che il referendum sarebbe stato l’occasione per dare sfogo a una rabbia profondissima per quelle disuguaglianze.

Ma questo grido è stato ascoltato?

No, questo è l’aspetto avvilente e preoccupante. Dopo quel voto mi pare che nessuno, non la politica, non certo il governo e nemmeno il fronte dei Remainers abbiano mai detto: questa rabbia è giusta. La perdita è reale. Il dolore è reale. Incanalati contro il nemico sbagliato, la Ue come capro espiatorio di problemi che erano qui prima e ci resteranno dopo, comunque vada Brexit. Per 40 anni, politici cinici ed incompetenti hanno dato all’Ue, una entità astratta, la colpa per le proprie incapacità. Negli anni Ottanta, una tragica crisi dell’occupazione, e la colpa ai disoccupati. Oggi crisi dell’edilizia sociale, e la colpa ai senzatetto. La crisi dell’inglese bianco medio? La colpa è dell’Europa. Speravo che lo choc del risultato avrebbe interrotto questo automatismo, ma non mi pare sia successo.

A Dudley, dove il Leave aveva preso quasi il 68% e l’Ukip era fortissimo. Cosa pensa la gente a più di due anni da quel voto?

La gente è stanca, angosciata e sempre più piena di risentimento per come sono andate le cose, e per il senso di sufficienza con cui il loro voto è stato liquidato come ignorante e razzista. Paradossalmente, il dibattito su Brexit ha assorbito tutte le energie del governo e i problemi da cui il voto è nato sono stati ignorati.

Quanto ha contato l’ostilità all’immigrazione?

Penso sia stato un fattore, ma non quello decisivo. E al contrario della diagnosi facile che del referendum è stata fatta, qui non ci sono 17,5 milioni di razzisti xenofobi e 16 milioni di santi. Sarebbe stato più utile andare alle radici sociali e politiche invece di liquidare tutta quella gente come stupida. La mappa del Leave si sovrappone alle aree più disagiate, quelle lasciate indietro da decenni. Perché ha votato contro il proprio interesse? Forse quando la gente è disperata fa cose disperate.

Il Leave è il risultato di una strana alleanza fra la massa degli invisibili e una élite di privilegiati. Cosa li unisce?

Questa strana alleanza credo sia una eredità della prima industrializzazione, quando le fortune del paese dipendevano dal successo dell’imprenditore locale. Ma questo è un paese che sta tornando indietro a tempi vittoriani: negli anni Sessanta e Settanta artisti e giornalisti venivano anche da centri minerari come Dudley, oggi vengono tutti da Eton.

Soluzione democristiana sul “monello” ungherese

Fidesz, la formazione di governo del premier ungherese Viktor Orban, viene sospeso dal Partito popolare europeo (Ppe), di cui è membro in Ue. Sospeso, non espulso. Il segno che alla fine, il compromesso è stato raggiunto e che Orban non ha ancora deciso lo strappo che potrebbe portarlo verso l’alleanza con formazioni euroscettiche o sovraniste. Il documento firmato e poi votato nella tarda serata di ieri al termine dell’assemblea del Partito a Bruxelles specifica trattarsi di “sospensione concordata” tra Popolari e membri della stessa Fidesz. Gli ungheresi si impegnano al rispetto di tre condizioni, già indicate alcune settimane fa dal candidato alla presidenza della Commissione Manfred Weber: interrompere immediatamente la campagna contro Jean-Claude Juncker – presidente della Commissione Ue e lui stesso membro del Ppe – scusarsi con i colleghi di partito per i toni usati durante la stessa campagna e infine permettere il ritorno in Ungheria della Central European University, fondata e finanziata da George Soros, espulsa dal Paese alla fine del 2018.

A verificare il rispetto delle condizioni, sarà una commissione presieduta da Herman Van Rompuy, già presidente del Consiglio europeo. In realtà, quella che è andata in scena nel PPE, ovvero il più grande raggruppamento di partiti europei di tradizione democratico-cristiana, è una battaglia lacerante. Ne è dimostrazione il fatto che l’esito raggiunto è stato in bilico fino alla fine. A lungo si erano rincorse anticipazioni sulla probabile sospensione del leader ungherese dalla famiglia popolare, a cui era legato da un antico vincolo. In particolare con la Cdu tedesca, guidata dalla cancelliera Angela Merkel e dal suo delfino Weber, esponente della Csu bavarese, che ha cercato l’accordo fino alla fine per tenere dentro Orban. Ma nonostante lo scenario più plausibile non fosse quello della rottura definitiva con Budapest, i settori più intransigenti da una parte e dall’altra facevano intendere che l’ipotesi espulsione – o fuga volontaria di Fidesz, magari diretta verso sponde sovraniste – rimaneva possibile. Intanto perché se Orban avesse respinto le condizioni poste da Weber, o se anche lo avesse fatto con riluttanza, questo sarebbe bastato per far oscillare il pendolo verso un voto in favore della cacciata. E poi, perché l’ipotesi di sospensione avrebbe potuto scontentare alcuni settori di Fidesz, come si evince dalle dichiarazioni del vicepremier ungherese Gergely Gulyas, che aveva respinto l’ipotesi, considerandola nociva per la “dignità del nostro partito e del nostro Paese”. “Una decisione senza coraggio politico”, commenta la leader dei Verdi europei Ska Keller. Ma con le elezioni alle porte, l’attendismo dei democratici cristiani serve forse a rimandare lo scontro finale al dopo voto.

Gaza e il tradimento di Hamas

Per quattro giorni di fila migliaia di giovani della Striscia di Gaza sono scesi in strada per protestare contro le terribili condizioni di vita. Un movimento apolitico, nato sul web sotto il segno #We Want to Live. I ragazzi della Striscia si sono scontrati con una brutalità e una violenza inimmaginabile della polizia di Hamas, del suo Mukkhabat in abiti civili, dei miliziani delle Brigate Ezzedin Al Qassam, il braccio armato del movimento islamista. Le dimostrazioni a Jabalya, a Deir al Balah, a Khan Younis, a Rafah, sono state disperse con i proiettili veri sparati in aria, bastoni, spranghe e spray al peperoncino. Indeterminato il numero dei feriti. I poliziotti di Hamas sono entrati anche in diverse abitazioni per sequestrare e distruggere i video girati con i telefonini dalle finestre che mostravano i mezzi violenti usati per sedare le proteste. Oltre 500 dimostranti sono stati arrestati ed erano talmente tanti che nell’abitato di Shejaya è stata sequestrata la scuola Al Hashimiya e trasformata in posto di polizia.

I ragazzi del movimento We Want to Live respingono ogni affiliazione politica, non stanno prendendo di mira nessun partito in particolare, ce l’hanno con le politiche disumane di tutte le parti coinvolte a Gaza. La lista comprende al primo posto le nuove tasse di Hamas, la crisi economica e le sanzioni dell’Autorità nazionale palestinese, il blocco di Israele, le divisioni interne palestinesi. I ragazzi hanno semplicemente voluto urlare: ne abbiamo abbastanza, di tutto. We Want to Live è anche una pagina Facebook con decine di migliaia di follower. È piena di testimonianze, foto e video di questi giorni. “Perché il figlio 20enne di un capo di Hamas ha tutto; casa, macchina e soldi e la gente comune nemmeno un pezzo di pane?”, chiede Adina nel suo post. “Hamas ha ereditato la politica di oppressione di Israele”, chiosa Mohammad. “Tutti hanno il diritto di opporsi a chiunque li punisca, li torturi. Ogni persona ha il diritto di dire “siamo stanchi di tutto questo”, scrive Hafez.

Negli ultimi 12 anni – da quando comanda Hamas nella Striscia – ci sono state tre guerre devastanti e ogni tipo di commercio si è via via sgretolato per il blocco israeliano. È la crisi economica a preoccupare, nella Striscia vivono 2 milioni di persone, oltre 1 milione dipende per vivere dagli aiuti Onu. “In passato la povertà non ha mai raggiunto il livello della fame – dice Samir Zaqout, vicedirettore del Centro Al Mezan per i diritti umani – oggi non posso più dirlo: a Gaza siamo sicuramente alla fame”.

I leader, i funzionari e gli attivisti di Hamas hanno deliberatamente propagandato fake news: le proteste sono spinte dall’esterno, “controllate da Israele e l’intelligence dell’Anp” per far cadere la “resistenza palestinese”. I manifestanti sono stati bollati come suicidi, drogati, traditori e i “loro complici delle Ong per i diritti umani” come “spie pagate dal nemico”.

Non è la prima volta che a Gaza si protesta contro il carovita e la crisi economica che lascia a casa il 56% della forza lavoro (il 70% degli abitanti di Gaza ha meno di 18 anni), e coloro che uno stipendio ce l’avrebbero lo prendono a rate perché le casse delle banche sono vuote. Ufficialmente i 15 milioni di dollari al mese mandati dal Qatar come aiuto umanitario – di cui Israele consente il passaggio – non è chiaro che fine facciano, certamente Hamas paga prima i suoi uomini e poi i dipendenti pubblici. La natura della protesta è la prova delle crepe nel regime e Hamas ha timore che il suo potere stia gradualmente svanendo. Il gruppo islamista non è del tutto sicuro che dopo la dura repressione sarà ancora in grado di arruolare le masse per le marce di protesta che si svolgono da 40 settimane ogni venerdì lungo la barriera di confine con Israele. L’invito via web a tutti i sostenitori di We Want to Live è di disertare le proteste contro Israele il venerdì lungo il confine e lasciare soltanto gli attivisti di Hamas a vedersela con l’IDF.

Il paradosso di Gaza è che in altre circostanze, Israele sarebbe soddisfatto di questa situazione e la vedrebbe come una prova del successo del blocco che potrebbe portare alla caduta degli islamisti. La crisi che Hamas sta vivendo preoccupa invece Israele e il suo premier Benjamin Netanyahu. C’è bisogno di un partner che si assuma la responsabilità di gestire la Striscia, fermare una disintegrazione che potrebbe portare a un conflitto armato su larga scala alla vigilia delle elezioni con il caos di milizie che si contendono queste sabbie. All’improvviso si scopre che gli scontri alla barriera di Gaza ogni venerdì rappresentano una minaccia marginale, rispetto al rischio di default del governo di Hamas e le sue conseguenze.

Piano energia e clima, entro il 2025 l’Italia fuori dal carbone

Decarbonizzazione, efficienza, sicurezza energetica, sviluppo del mercato interno dell’energia, ricerca innovazione e competitività. Queste le 5 linee d’intervento che compongono il nuovo Piano nazionale integrato per l’Energia e il Clima 2030 (Pniec) presentato ieri dai ministri dello Sviluppo economico, Ambiente e Trasporti, Di Maio, Costa e Toninelli, Un provvedimento che consentirà all’Italia di uscire dal carbone entro il 2025, entro il 2030 di ridurre del 33% le emissioni nei settori non energivori con un risparmio energetico del 43% e di arrivare al 30% delle rinnovabili sui consumi complessivi. Online da ieri pomeriggio anche il portale per la consultazione pubblica sul Piano Nazionale (energiaclima2030.mise.gov.it) che permetterà a cittadini e stakeholder di segnalare eventuali proposte per migliorare l’impianto del Piano, prima che questo venga approvato dall’Ue entro il 31 dicembre di quest’anno.

Una road map che si differenzia rispetto ai piani proposti dai governi Renzi e Gentiloni che avevano varato una Strategia energetica nazionale (Sen) che non era vincolante, mentre il Pniec prevede un impegno economico e vincolante per oltre 180 miliardi di euro.