“La crisi al Giornale è la fine del berlusconismo”

“Per certi versi questa storia segna la fine del berlusconismo…”. Un cronista della redazione romana del Giornale sospira sconsolato davanti agli ultimi eventi, che porteranno alla chiusura (il 30 aprile) della sede capitolina del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli. “Ecco, chissà cosa direbbe oggi il grande Indro che, da milanese d’adozione, era ben consapevole dell’importanza del lavoro dei cronisti che nella Capitale devono muoversi nei palazzi del potere come topi nel formaggio…”.

Torniamo, però, al discorso sulla fine del berlusconismo. “Chiudere la redazione romana prima delle Europee – continua il cronista del Giornale – significa due cose: che nemmeno Silvio Berlusconi crede in un rilancio di Forza Italia oppure che la famiglia non è più disposta a seguire il patriarca nella sua avventura politica. Una cosa non esclude l’altra, ma il risultato è lo stesso: per Silvio è game over”. Anche se poi è proprio Silvio ad aver dato l’ok finale.

Il Giornale ieri non era in edicola per una seconda giornata di sciopero su un pacchetto di cinque a disposizione del Comitato di redazione. Ed èstata acquistata una pagina su La Verità di Maurizio Belpietro. “Così stanno distruggendo il Giornale”, recita il comunicato. “La chiusura di Roma con soli 40 giorni di preavviso è l’ultimo incredibile atto di un’operazione in corso da mesi (…) i lettori del Giornale non saprebbero più cosa accade nei palazzi del potere e della politica, in un momento cruciale per la vita del Paese… Non lo permettermo”, si legge. Toni barricaderi in vista di una trattativa che si annuncia durissima. Ma che sembra avere pochi margini. “Anche se dovessi andare a sdraiarmi davanti alla villa di Arcore, non servirebbe a niente. L’interlocutore è cambiato…”, ha detto il direttore Alessandro Sallusti nell’infuocata assemblea di martedì pomeriggio. Non è più ad Arcore, dunque, che bisogna guardare, ma a Segrate, sede della Mondadori, proprietaria del 36% delle quote (il resto è quasi tutto di Paolo). Marina, che si è già liberata di Panorama, vuole vendere e non ha accolto i suggerimenti di tagli proposti dai giornalisti. Come, ad esempio, alcuni illustri collaboratori piazzati a suo tempo da Silvio e molto ben remunerati. O come le due pagine appaltate settimanalmente, a caro prezzo, a Edoardo Sylos Labini, ex marito di Luna Berlusconi. “Gli paghiamo l’assegno di mantenimento…”, sussurra qualcuno.

La chiusura di Roma, però, non se l’aspettava nessuno. “Era già pronto il contratto per la nuova sede, più piccola, a via Barberini, con un risparmio di 10 mila euro al mese. Si era già fatto un sopralluogo con gli architetti…”, racconta un’altra voce della redazione. A Roma si era trovato un giusto compromesso. “Tutti noi siamo coinvolti nel desk, facciamo 3-4 pagine al giorno, tre redattori dipendono direttamente da Milano. E la cosa funzionava…”, raccontano. Segno, dunque, che lo show down segue altre logiche: spingere alle dimissioni, per esempio, così da avere un prodotto più snello e meno dispendioso (30% il taglio agli stipendi richiesto) da mettere sul mercato.

Lo stesso schema seguito per Panorama, venduto a Belpietro. In via Negri, però, ci si divide anche sulla linea politica. “Perdiamo copie perché inseguiamo un centrodestra che non c’è più, i nostri lettori ci vogliono più salviniani…”, dicono alcuni. “Quella parte è già coperta da Libero e La Verità. Noi dobbiamo tornare al primo Montanelli, una destra liberale e anarcoide…”, dicono altri. E si ritorna sempre al vecchio Indro. Che da via Negri fu costretto a sloggiare, e anche in malo modo.

Cassa integrazione, il bancomat della Mondadori

Io chiedo, tu paghi e zitto. Crisi vere o presunte, la cassa integrazione per molte aziende è diventata un bancomat. La reiterata riproposizione all’Alitalia ha indotto la Procura di Civitavecchia ad aprire un’inchiesta ipotizzando che sia stata compiuta una truffa. Alla Mondadori, invece, assuefatti all’idea di poter ottenere per i giornalisti generosi ammortizzatori sociali a scatola chiusa, hanno chiesto un nuovo ciclo di cassa integrazione allegando alla domanda una documentazione ritenuta così poco argomentata e scarsa che il sindacato di categoria (Fnsi), interpellato in prima battuta, ha dovuto dire di no.

Nel caso dell’Alitalia i soldi fatti piovere sulle piste provengono dal Fondo volo dell’Inps. Nel caso della Mondadori a tirarli fuori è l’Inpgi (l’Istituto di previdenza della categoria) che, anche per effetto di queste uscite forzose, non se la passa affatto bene. E per rimediare in corsa ai buchi aperti nei bilanci dalla cassa integrazione pretesa dalle aziende editoriali, l’Inpgi sta tentando di ampliare la platea dei contribuenti tirando dentro nuove figure professionali: i “comunicatori professionali” delle aziende private, gli uffici stampa della pubblica amministrazione e chi si occupa di “contenuti a carattere informativo diffusi sul web”. Un orientamento sposato all’interno del governo dalla Lega, prima dal sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, e più di recente da Massimiliano Capitanio della commissione Lavoro con un emendamento al Decretone che, però, è stato bloccato dal presidente della Camera Roberto Fico (M5S), ma apprezzato dalla dem Debora Serracchiani.

Tra cassa integrazione, solidarietà e prepensionamenti forzati, alla Mondadori la storia degli ammortizzatori sociali va avanti da una decina d’anni anche in presenza di numerosi esercizi di bilancio allietati da ragguardevoli utili e da bonus sibaritici che l’ad Ernesto Mauri e gli altri dirigenti si sono generosamente attribuiti. E ora Mondadori chiede “il ricorso alla cassa integrazione o in alternativa a un contratto di solidarietà laddove tale strumento consenta di raggiungere gli obiettivi di risanamento economico prefissati dall’azienda”. Obiettivi, però, che non sono scritti nel documento di appena 5 pagine e mezzo contenente la richiesta di soldi. Questa volta la cassa integrazione dovrebbe riguardare 35 giornalisti su un totale di 149 rimasti in azienda, esclusi direttori e vice e le redazioni di Tu Style e Confidenze che già hanno subito un taglio alle retribuzioni di circa il 30%.

Ricevuta la richiesta della Mondadori, il segretario del sindacato dei giornalisti, Raffaele Lorusso, ha inviato sei righe di risposta per dire che, stando così le cose, di cassa non se ne parla: “La nostra disponibilità… è condizionata al ricevimento di un piano di interventi in linea con le previsioni… e con la vigente normativa in materia”. Quando nel maggio di 4 anni fa la Mondadori avanzò la precedente richiesta di cassa integrazione si premurò di corredarla con un corposo documento di 90 pagine, anche se allora era sufficiente sostenere che i conti non tornassero. Almeno oggi, per legge, le imprese editoriali dovrebbero sforzarsi di dimostrare che è in atto da un biennio un andamento involutivo.

I licenziati di Sky: una piccola storia da un mondo quasi scomparso

Acosa serve il Jobs act? La risposta, diciamo così, è in una piccola storia che riguarda quattro lavoratori di Sky raccontata ieri solo dal Fatto e il manifesto. Come si ricorderà la tv satellitare nel 2016 decise – pur essendo in utile – di ristrutturare la sua filiale italiana licenziando decine di lavoratori e trasferendone altrettanti da Roma a Milano: quella procedura però, come attestano ormai diverse sentenze, non fu realizzata a norma di legge, ma con illegittime procedure discriminatorie. Pochissimi lavoratori hanno avuto il coraggio e la forza di resistere e, tra quei pochi, i quattro di cui dicevamo: il giudice del lavoro ha ritenuto ingiusto il loro licenziamento, condannato Sky a reintegrarli e, ovviamente, a pagargli gli stipendi arretrati. Martedì, non avendo l’azienda ottemperato entro i termini di legge, l’ufficiale giudiziario s’è presentato in una delle sedi di Roma e ha sequestrato attrezzature video per 300 mila euro. Sky, da parte sua, sostiene che i soldi arriveranno a fine mese, però non ha reintegrato i lavoratori: li pagherà per stare a casa in attesa di capire come liberarsene. Tenetevela cara questa piccola storia di arroganza e resistenza, ché col passare degli anni non ce saranno più: l’unico motivo per cui quei quattro possono ancora battersi è che il loro contratto, precedente al Jobs Act, prevede il vecchio articolo 18 col diritto al reintegro. Ecco a cosa serve quella legge: a rendere monetizzabile persino l’ingiustizia, a fare parti uguali tra disuguali che – lo scrisse un prete tanti anni fa – dell’ingiustizia è il massimo.

L’operazione Scala per l’Arabia Saudita è solo maquillage

Il gran rifiuto della Scala continua a scatenare polemiche. I fatti: lunedì 18 marzo il consiglio d’amministrazione del teatro ha rifiutato 15 milioni di euro che il principe saudita Badr bin Abd Allah aveva offerto alla Scala, chiedendo in cambio un posto nel cda; e ha deliberato di restituire al mittente anche la cifra che era già stata pagata, 3,1 milioni. Le polemiche che sono seguite sono di due tipi. Il primo è strettamente politico, Pd contro Lega, e fa parte della dialettica tra partiti e della propaganda nei confronti dei cittadini elettori. Il culmine è stato raggiunto con lo scontro tra il consigliere e deputato leghista Alessandro Morelli e il sindaco Giuseppe Sala. A proposito dei soldi sauditi, Morelli ha accusato Sala su Facebook di “avere le mani nella marmellata”. Il sindaco, nonché presidente del cda della Scala, gli ha risposto con una querela: “Tutto deve avere un limite. Morelli utilizza i social network per manipolare l’opinione pubblica e attaccare maldestramente raccontando bugie. Ora basta”. Il secondo livello di polemica è invece più profondo e pone domande sulla cultura e la civiltà (e finanche le buone maniere) a cui vale la pena di cercare risposte. I favorevoli all’arrivo dei soldi sauditi sostengono che si è persa una grande occasione, perché quei denari avrebbero fatto bene alla Scala e non si è mai visto un teatro o un ente culturale rifiutare le donazioni di un mecenate: curioso che con l’Arabia Saudita si possano concludere affari e commercio di armi, ma, ipocritamente, non si possa accettare una sponsorizzazione o fare scambi culturali.

L’ipocrisia c’è: è vero – con Ryad e più in generale con Paesi ritenuti poco rispettosi dei diritti umani, Cina compresa – che pecunia non olet quando si tratta di fare grandi affari e perfino di vendere sistemi d’arma, mentre questa volta i soldi dei sauditi sono stati ben annusati e subito rifiutati. Ma è bene non dimenticare le strane anomalie di questa vicenda. La prima è che in nessun Paese al mondo può accadere che il responsabile pro tempore di un’istituzione culturale – in questo caso il sovrintendente Alexander Pereira – stringa accordi internazionali e prometta un posto in cda prima di una decisione del consiglio d’amministrazione e senza avvertire in modo chiaro e distinto i soci: lo Stato, la Regione, il Comune, gli altri “fondatori”. In nessun Paese al mondo può accadere che un principe che si è anche autonominato ministro della Cultura estragga dalle sue tasche 3 milioni di euro e li mandi brevi manu a Pereira tramite un notaio milanese, prima che la Scala abbia deciso che cosa fare. È vero che compito della cultura è quello di saltare muri, abbattere barriere e aprire il dialogo con tutti. Ben venga la moltiplicazione delle recite della Scala in Arabia Saudita, Paese dove era proibita la musica.

Ma in questo caso è accaduto che un Paese, in difficoltà d’immagine davanti al mondo per il caso di Jamal Khashoggi, giornalista dissidente fatto sparire e ucciso in una sede diplomatica saudita, abbia cercato di fare il maquillage alla propria reputazione usando il marchio della Scala, il teatro d’opera più noto al mondo. “Anche sul prezzo c’è poi da ridire”, come direbbe Fabrizio D’André: il principe Badr bin Abd Allah ha offerto 15 milioni in cinque anni chiedendo un posto in cda (3 milioni all’anno, quando la Fondazione Cariplo ne versa 10), mentre la Francia ha chiuso un’operazione da 1 miliardo di euro con gli Emirati Arabi per portare il Louvre ad Abu Dhabi, ma lo ha fatto con incontri e accordi di vertice tra i due Stati e senza vendere alcun posto dei cda di Parigi. Insomma. A difendere Pereira è restato solo Sala. Ma la Scala, il Louvre della lirica, si merita più collegialità e più discernimento.

La vocazione ecologista dei beni comuni

Le piazze dei Friday for future manifestano la critica delle giovani generazioni all’incapacità di quella al potere di fronteggiare o anche semplicemente comprendere la situazione ecologica attuale.

C’è scarsissima quantità di tempo per mitigare le conseguenze disastrose di uno sviluppo umano che ha fatto della trasformazione di beni comuni in capitale la propria cifra. L’impronta ecologica globale di 1,5 (servirebbe per sostenerci la forza generativa di un altro mezzo pianeta ogni anno) non rende l’idea della gravità della situazione, visto che quella dell’occidente industrializzato è superiore a 5 (e altri quattro pianeti a disposizione non li abbiamo!). In un quadro di squilibrio globale in cui pochi soggetti multinazionali controllano la ricchezza e le leve del potere politico, bisogna agire adesso in modo decentrato e diffuso. La protesta di coloro che saranno ancora giovani fra il 2050 e il 2070 (la forbice temporale incerta di una catastrofe globale certa se non si inverte la rotta) deve trovare sbocchi istituzionali concreti. È altrimenti troppo facile strumentalizzarla oppure diluirla in un mare di ipocrisia.

Nell’attuale rapporto di forza fra governi e soggetti multinazionali privati, non ha senso sperare che i primi possano limitare i secondi dall’alto in basso con la legge. Occorre piuttosto canalizzare la forza della nuova consapevolezza giovanile in processi di trasformazione dal basso del diritto. Per questo le proposte che il Comitato Rodotà (www.benipubbliciecomuni.it) ha messo in campo sono una risposta adeguata alle condizioni altrimenti scoraggianti del presente. Un cambiamento fondamentale del diritto privato in una semiperiferia come la nostra può essere modello globale, un percorso efficace che tutti possono iniziare subito, con atti di partecipazione politica non di partito ma neppure contingenti e single issue come talvolta sono quelli di movimento. Una prospettiva ben radicata nella tradizione di Stefano Rodotà è quanto serve per non disperdere le speranze e le energie dei neo-diciottenni, rafforzando le loro istanze con strumenti giuridici davvero efficaci. Il percorso su cui raccogliamo le firme indica lucidamente un fine e i mezzi per raggiungerlo. I mezzi sono l’inserimento dei beni comuni nel cuore del nostro diritto privato (riforma del Titolo II del libro III Codice Civile; costituzione di una coop intergenerazionale) in modo che i “diritti fondamentali della persona” prevalgano sempre sulle esigenze della proprietà, sia privata che pubblica. Il fine è la difesa delle “generazioni future” nel cui interesse tali beni devono preservarsi e tutelarsi.

La struttura del diritto privato attuale ha come mezzo la proprietà (privata o pubblica) e come fine l’accumulo di capitale. Inserire l’interesse delle generazioni future nel suo tronco sarà come innestare con un germoglio buono una pianta selvatica. Ogni futura scelta del giudice, nel bilanciare gli interessi di ogni conflitto relativo a tali beni (acque, aria, fauna, flora selvatica, coste, paesaggio, beni culturali, ghiacciai, foreste…), prenderà in considerazione il nuovo fine e non solo gli interessi estrattivi dei proprietari attuali, pubblici o privati che siano.

Sono centinaia le vertenze in cui la magistratura chiamata a decidere deve avere gli strumenti per invertire la rotta interpretando il diritto in modo ecologico. Si pensi all’espianto degli ulivi secolari in Puglia, ai trafori Tav e ai gasdotti, a Taranto, al Muos, o alle grandi navi nella Laguna veneta… L’inserzione dei beni comuni nel Codice Civile consentirà di affrontare queste scelte decisive per il nostro futuro in un quadro di riferimento che guarda lontano. Per questo i banchetti di raccolta del Comitato Rodotà saranno in piazza a Roma il 23 e in ogni piazza ogni venerdì, per accompagnare alla protesta una proposta praticabile subito.

Cina, è Via della seta o dell’ignoranza?

La visita del presidente cinese per la firma dell’accordo sulla “nuova via della seta” ha dato luogo a un dibattito politico-mediatico inconcludente e povero di contenuti. Anche chi difende le ragioni dell’accordo dimostra una conoscenza a dir poco incerta delle sue premesse e delle sue implicazioni. Ciò si deve a un fondamentale vuoto di conoscenza sulla Cina che viene sostituito da uno schema mentale tanto facile quanto sbagliato: Cina eguale a Stati Uniti. Il Paese di Xi Jinping è – per la quasi totalità dei commentatori italiani di politica estera e per gli sprovveduti leader dell’opposizione e del governo – nient’altro che una replica autoritaria della superpotenza americana.

Pochi di loro, in verità, dubitano che la Cina diventerà entro un decennio la maggiore economia del pianeta, con l’America al secondo posto. Ma ciò avverrebbe grazie al fatto di aver perseguito gli stessi obiettivi, seguito la stessa strategia e usato gli stessi strumenti adoperati dall’Europa negli ultimi secoli, e dagli Usa negli ultimi decenni, per impadronirsi del pianeta. Con la sola differenza della natura antidemocratica del regime di Pechino, guidato dal Partito comunista. Ma una lettura anche sbadata di qualche buon libro di storia della Cina dovrebbe essere sufficiente a smentire questo stereotipo. In materia di pace e di guerra, negli ultimi 2500 anni si è consolidata in Cina una vocazione diametralmente opposta a quella occidentale. Il disprezzo e l’avversione alla guerra sono un filo che corre lungo l’intera storia e cultura del Paese. Mentre nei sette secoli e mezzo che vanno dal 1200 al 1945 l’Europa è stata dilaniata da un massacro ogni pochi anni, la Cina ha goduto nello stesso arco di tempo di periodi di pace lunghi fino a 500 anni. Ed è su questa base non violenta – senza costruire imperi oltremare e senza corsa agli armamenti – che essa ha edificato una supremazia economica globale durata fino al 1820. E terminata a opera delle armi, della droga e dell’espansionismo spoliatorio dell’Occidente.

Tra tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu, la Cina è l’unico a non aver sparato un solo colpo di cannone ai suoi confini negli ultimi 31 anni, dopo un breve scontro armato con il Vietnam nel 1988. L’idea della conquista imperiale, formale o tramite il libero scambio, è estranea alla cultura politica cinese altrettanto di quanto essa sia familiare all’Europa dall’Impero Romano in poi, e agli Stati Uniti dalla loro nascita, 250 anni fa, fino adesso. Consiglio a tutti di riflettere sulla vicenda delle spedizioni oltremare dell’ammiraglio cinese Cheng Ho intraprese 80 anni prima di Cristoforo Colombo. Spedizioni colossali, richiamate in patria perché non animate dall’auri sacra fames, e che ci aiutano a capire perché oggi non parliamo cinese mentre nel continente americano si parla spagnolo e portoghese. La Cina è una potenza non-espansionista, non-militarista e pacifica sin dalle sue origini, e non c’è alcuna ragione di pensare che lo diventerà solo per imitare gli Stati Uniti. Essa non ha alcuna propensione a trasformare la sua potenza economica in potenza militare. Prove recenti? Il suo budget militare, modesto e in costante diminuzione come percentuale del Pil, e il suo approccio al sistema internazionale creato dopo il 1945 dall’Occidente “pentito” delle sue ultime carneficine. L’approccio cinese si è basato sull’accettazione delle regole multilaterali e non sul loro sovvertimento. Dalle Nazioni Unite fino al Wto, dalle missioni di pace Onu (delle quali è il maggior contributore in termini di personale) ai grandi accordi su clima, ambiente, energia, mercati e nucleare, la Cina si comporta come uno Stato membro responsabile e pragmatico e non come una potenza aggressiva e minacciosa. Assomiglia a un’Europa priva della subordinazione agli Stati Uniti. Dal punto di vista politico, la principale differenza tra Cina e Stati Uniti consiste nell’adesione da parte della prima al concetto-guida delle Nazioni Unite, divenuto ormai una realtà di fatto delle relazioni internazionali: la multipolarità di un ordine mondiale basato su norme universalmente condivise e sul rispetto delle sovranità nazionali.

Una potenza in ascesa che fosse simile agli Usa avrebbe avuto tutto l’interesse a sposare una concezione unipolare del mondo, dove un singolo Paese giunto ai vertici del potere globale si assume il compito di dispensare a tutti il bene supremo della sicurezza. Le “dimissioni” di Trump dal ruolo degli Usa come governo mondiale sono di sicuro un passo importante verso la multipolarità, e aprono uno spazio verso la coesistenza con una Cina interessata al “vivi e lascia vivere” invece che all’imperium globale. Come l’ Unione europea. Ma è altrettanto certo che non siamo di fronte all’accettazione di un mondo post-americano. Esso comporta uno choc politico e un colpo al cuore militare-industriale di una potenza che è abituata a non avere rivali nel pianeta. E ciò può sconvolgere tutto.

Mail box

 

Gli elettori non sono stupidi come qualcuno crede

Questa è la volta buona: è stato eletto un segretario che finalmente ripropone la fondazione del Pd di Veltroni. Si cambia tutto per non cambiare nulla, e infatti coloro che sono stati definiti “nuovi” da Andrea Scanzi occupano i seggioloni più alti del partito. Poi, ecco i sondaggi con crescita e superamento dei 5stelle, che calano. Ci dovremmo credere? Ci prendono proprio per polli!

Massimo Fabbrini

 

Geometra: una professione destinata a scomparire

Vorrei evidenziare le assurdità legislative che colpiscono geometri liberi professionisti:

– Lo stop agli ITG ha reso la mia professione a serio rischio di estinzione. Chi pagherà le pensioni

di chi con veri sacrifici rimane iscritto e operante? Inutile il corso di laurea come geometra senza competenze extra alcuna.

– Il geometra ha acquisito una eterogeneità importante ma senza aree esclusive di competenza e in

tempi di crisi ogni ordine cerca di prendersi una nostra fetta con competizione viziata.

– Danno per scontato che il geometra guadagni almeno tot cifra annua (assurdo, è molto variabile) ed è tenuto versare contributi minimi insostenibili (pari a 5.000 euro di base, siamo i più vessati). Meglio abolire i minimi ed imporre una percentuale.

– Formazione professionale sacrosanta, ma è d’obbligo solo raggiungere un fisso numero di crediti

a nostre spese senza cura che siano una crescita per il professionista.

– L’assenza di tariffe minime (Legge Bersani) non crea libero mercato, ma svende solo la professionalità. Si possono chiedere cifre ridicole per prestazioni e responsabilità da matti.

– La percentuale sull’imponibile extra-minimi (5% attuale) dal 4% di partenza come altri ordini sarà gradualmente alzato al 10% con motivazione allucinante: restare indipendenti in tema di previdenza sociale in rispetto della Legge Fornero! Siamo costretti a ridurre ancora l’onorario in un mercato di guerra tra poveri.

Solo un intervento dall’alto può dare effetti percettibili.

Jacopo Arcangeli

 

Il nostro menefreghismo sta uccidendo il pianeta

A est di Davao, nelle Filippine, una balena è stata trovata morta con ben 40 kg di plastica nello stomaco. Per la precisione 16 buste utilizzate per contenere il riso e numerosi sacchetti della spesa. Il povero cetaceo è morto quasi sicuramente dopo una terribile agonia e una conseguente disidratazione. I ricercatori del D’Bone Collector Museum di Davao hanno invitato il governo a prendere seri provvedimenti contro tutti coloro che utilizzano l’oceano come cassonetto. Le recenti speculazioni avverse su ciò che ha fatto e sta facendo la piccola Greta Thunberg, a livello di sensibilizzazione pubblica, sul discorso di ecosostenibilità planetaria, sono miopi e inutili. Il suo impegno è encomiabile e sia d’esempio per tutti. Questo pianeta, la nostra casa, è malato.

La causa siamo noi ed i nostri interessi economici che frenano un’inversione di rotta. Che deve esser risoluta e immediata. Personalmente reputo terribile leggere di animali che muoiono in questo modo orribile. A causa della nostra inciviltà e menefreghismo.

Cristian Carbognani

 

I pensionati sono abbandonati e vivono in povertà

Hanno tolto il bonus bebè a mio figlio disoccupato con famiglia, perché è venuto ad abitare nella mia casa; inoltre gli hanno tolto ogni possibilità di ottenere il reddito di cittadinanza.

In questo modo, con la mia modesta pensione non solo devo mantenere in vita, con tanto amore, la famiglia di mio figlio, ma devo anche provvedere a pagare io quel bonus bebè negato dallo Stato a chi ne ha

davvero bisogno. Una tassa speciale per i pensionati che non hanno il coraggio di negare l’ospitalità a un figlio. Intanto si continuano a pagare gli 80 euro a chi non ne ha un estremo bisogno e qualcuno parla di tassare i miliardari al 15%. Mi dica se non ci sono gli estremi per dichiarare pazzi coloro che ci governano da 25 anni.

Angelo di Taranto

 

Le dichiarazioni di Tajani fanno sfigurare l’Italia

Noi italiani abbiamo una maledizione che ci fa fare perdere le guerre e la faccia con le dichiarazioni che i nostri politici fanno. L’esaltazione del primo tragico ventennio fascista da parte di Antonio Tajani, che ha scelto con disinvoltura alcuni luoghi comuni che circolano da decenni per supportare la sua tesi in base alla quale Mussolini avrebbe fatto anche molte cose buone, ne è la dimostrazione. Bisognerebbe che lo andasse a ripetere nei luoghi in cui furono rinchiusi gli oppositori del regime e anche agli zingari, ai testimoni di Geova e, ovviamente, anche agli ebrei prima che uscissero le leggi razziali.

Se facesse un giro in Africa potrebbe parlare con i libici, abissini e altri popoli che abbiamo bombardato e rinchiuso nei campi di concentramento, prodromici dei campi di sterminio.

Ma Tajani, lo sappiamo, è un prodotto made in Arcore, collegato a B., che ora sta girando l’Italia con comizi deliranti che indicano giorno dopo giorno questo o quel popolo da cui guardarsi.

Franco Novembrini

Anomalie. La destra liberale comincia con Cavour e finisce con Renzi e Calenda

La totale mancanza di una destra moderna, liberale, per i diritti civili, che si rispetti, è un’anomalia, a parer mio, molto grave nel panorama Italiano. Oggi ne stiamo pagando le conseguenze; difatti Salvini è, oramai, il dominus assoluto di un’area politica, in cui l’unica alternativa è il partito azienda affaristico di Forza Italia, i cosiddetti moderati, da cui deriva in parte una concezione della moralità e della giustizia a dir poco vergognosa che tanto ha nuociuto al nostro Paese. Come può un liberale orientarsi in tale contesto? +Europa, espressione politica con non poche contraddizioni, è un timido e sparuto tentativo in tal direzione.

Graziano Rosario Pitino

 

La Destra che lei auspica, gentile Graziano Rosario Pitino, in verità c’è stata, credo ci sia ancora e però – questa è l’anomalia – non rientra nella geografia politica attuale.

La destra moderna e liberale, infatti, è il tracciato su cui l’Italia – con l’aiuto interessato della Francia e dell’Inghilterra – è diventata nazione.

Di destra, e liberale, è stata – e nessuno si offenda – l’Istituzione massonica la cui influenza ha determinato lo sgretolarsi del pur mazziniano motto Dio, Patria e Famiglia per preparare poi la stagione del laicismo, raccolta dai radicali, e le conseguenti battaglie più recenti: dal divorzio all’aborto fino ad arrivare ai diritti civili.

Di destra, e liberali, erano i nazionalisti che si ritrovarono nell’Occidente anglosassone e quello che erroneamente è stato considerato “destra”, fin nell’accezione di “estrema destra”, spesso è stato popolarismo, comunitarismo, perfino fascismo e socialismo ma mai e poi mai parente del conte di Cavour o di don Benedetto Croce. Tanto di destra era quest’ultimo quanto di sinistra – per intendersi, marxianamente – era il suo avversario in filosofia, ossia Giovanni Gentile, autore di “Genesi e struttura della Società”.

La destra che lei cerca, gentile lettore, oggi è quella di Matteo Renzi ed Emma Bonino, di Carlo Calenda e degli editoriali di Angelo Panebianco sul Corriere che segnalano la presenza di un blocco sociale che attende di darsi forma nell’esaurirsi di una parentesi storica. L’eredità del Pci e quella della Dc. Sempre che valga l’aut aut destr-sinistr (il famoso dietro-front!).

Pietrangelo Buttafuoco

Scontri a San Siro, condannati 5 ultrà di Inter e Varese

Cinque ultrà dell’Inter e del Varese condannati per rissa e lancio di oggetti pericolosi. È finita così la prima tranche del processo, celebrato con rito abbreviato, per alcuni dei protagonisti degli scontri del 26 dicembre, poco lontano da San Siro, durante cui Daniele “Dedè” Belardinelli morì travolto da un’auto. La pena più alta (3 anni e 8 mesi) è per Nino Cicarelli, 49enne capo dei Viking, gruppo di punta del tifo nerazzurro; 2 anni e 10 mesi per ill “Rosso” Marco Piovella, figura di spicco dei Boys, altro gruppo intervista; 3 anni invece per Alessandro Martinoli, ultrà della tifoseria gemellata del Varese, che il giorno di Natale era a casa di Belardinelli per pianificare l’agguato di Santo Stefano alle auto guidate dai tifosi napoletani. Più lieve la condanna per Francesco Baj e Simone Tira (2 anni e 6 mesi). Tutti hanno anche ricevuto il Daspo per 8 anni. È andata meglio a Luca Da Ros, anche lui frequentatore della curva dell’Inter, che da subito però ha collaborato con gli inquirenti e ha patteggiato una condanna a 1 anno e 10 mesi. Resta aperta, però, l’inchiesta (una ventina di indagati) per individuare la macchina della carovana di tifosi napoletani che ha investito Belardinelli e quindi i responsabili della morte.

Lunga vita al vecchio Trap, il Gran Signore del Pallone

Giovanni Trapattoni, per tutti “il Trap”, le cose migliori le ha fatte da calciatore (“una vita da mediano”) annullando i più grandi numeri 10 del mondo, a cominciare dal mitico Pelé. Ma le cose più divertenti le ha fatte nella sua lunga carriera di allenatore. Essere di Cusano Milanino ha un’importanza decisiva nel carattere del Trapattoni uomo. Cusano Milanino è oggi un paese dell’hinterland, curato e grazioso: non un semplice nome sulla carta come quasi tutti gli altri centri dello stesso tipo, da Cormano a Canegrate a Carugate, ma affonda le sue radici nella campagna e, come dice il nome stesso, nella milanesità.

Come tecnico Trapattoni era moderno, capace di inventare schemi tattici, mettere insieme zona mista e catenaccio, peraltro da lui prediletto. Ma era ed è un uomo antico e all’antica. Le sue origini campagnole e d’una milanesità d’antan ne spiegano la semplicità, la schiettezza, la modestia e anche l’innocente furbizia. Quel suo fischiare con due dita agli angoli della bocca, quando questa pratica rimaneva solo fra la gente del popolo (per non parlare del mondo degli allenatori ricchi e famosi di oggi, tanto a modino almeno fuori dal campo), ne è ilsimbolo più evidente. Così fischiavano i popolani della mia generazione, soprattutto gli operai, quando passava una bella donna.

Trapattoni aveva girato tutto il mondo, dalla Germania all’Irlanda, ma il suo inglese era maccheronico. Qualcuno ricorderà, forse, come in una conferenza stampa cercò di spiegare in inglese il detto italico “non dire gatto se non l’hai nel sacco” per dire che una vittoria non è mai scontata. Ne venne fuori una cosa esilarante che suonava più o meno così: “No say cat if it is not in the box”. In un’altra conferenza stampa se la prese con alcuni giocatori del Bayern, in particolare col centrocampista Strunz. “Strunz! Strunz! Strunz!” era il suo intercalare. Ma l’ignoranza in questo caso non era sua ma dei giornalisti italiani. Il buon Maurizio Mosca pensava che in tedesco “strunz” significasse “stronzo” e ci fece sopra dei ghirigori interminabili. Poiché abitava due piani sotto casa mia cercai di spiegargli, invano, che Strunz era un nome e che mettere in croce Trapattoni per quell’intercalare era come se un tedesco avesse giudicato “Mosca” un insulto. Ma non ci fu niente da fare e così anche “Strunz” è rimasto nella mitologia.

Tra l’altro che Trapattoni se la prendesse con un giocatore in particolare era una rarità, perché la sua specialità era il cosiddetto “trapattonese” cioè la capacità, quando era intervistato dai fastidiosi giornalisti, di fare lunghi discorsi senza dir nulla. Specialità presa poi praticamente da tutti i suoi colleghi. E anche dai calciatori. Uno può anche aver fatto quattro gol ma se il giornalista gli chiede se è contento della sua prestazione risponde regolarmente “è tutto merito del gruppo”. E così fanno anche gli allenatori e fan bene, perché se osassero dire che tizio ha giocato bene il giorno dopo i giornali titolerebbero che gli altri dieci hanno giocato male. Insomma anche il trapattonese era una furbizia trapattoniana.

Incontrai Trapattoni, con mio figlio che aveva allora dodici anni, a Linate perché stavamo partendo per vedere la finale di Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) fra Olympique Marsiglia e Stella Rossa che si disputava a Bari. Fra la gente in attesa dell’imbarco c’era anche Trapattoni. Mio figlio con l’acquolina alla bocca si diresse verso Trapattoni per avere il classico autografo. Ma l’astuto Trap, che non voleva essere seccato ma neanche scortese, gli disse: “Vai da quello lì che è più importante di me” e gli indicò Michel Platini. E così l’ingenuo Matteo non ebbe l’autografo né di Platini né di Trapattoni.

L’ho poi incrociato molte volte a Talamone dove ho passato per anni le vacanze estive e lui ha una casa. Non una casa sesquipedale sul mare, come l’hanno i ricchi, ma una più modesta e più discreta, come è nel suo carattere, al di là dell’Aurelia. Talamone, a differenza dell’Argentario o di Capalbio, non è un posto frequentato e tantomeno abitato da persone dello star system. Ci arrivavano qualche volta con i loro yacht Giuliano Ferrara e Achille Occhetto. Ma il Trap si guardava bene dal frequentarli. Se ne stava per i fatti suoi e i turisti di Talamone, benché allora fosse ancora nel pieno della sua carriera di allenatore, siamo nei primi anni Duemila, rispettavano questa sua riservatezza. Che non aveva niente a che fare con la superbia, era solo un desiderio, in una vita necessariamente convulsa, di starsene tranquillo con i suoi e la sua famiglia, così come fa ora che, ottantenne, si è definitivamente ritirato. Ma se qualcuno si avvicinava non si sottraeva, stava alla chiacchiera senza dare segni di insofferenza. Qualche volta veniva al bar, all’aperto, del mio albergo, il Capo d’Uomo, a bere qualcosa, rigorosamente analcolica, con qualche suo amico. Era in calzoncini corti. Notai la possanza delle sue cosce. Anche uno che non avesse saputo nulla di calcio avrebbe capito che era stato un atleta. Un grande atleta. A nuotare, giù al mare, non l’ho visto mai. È probabile che da milanese dei vecchi tempi in acqua si trovi molto meno a suo agio che sul campo.