Anche la Federcalcio incontra la Cina: ci va persino Bogarelli

Anche il pallone rimbalza sulla via della seta. Il capo di Stato cinese, Xi Jinping, è in Italia per una visita istituzionale, e per la cena di gala ha voluto al suo fianco Marcello Lippi, ex ct delle nazionali di Italia e Cina. A fine visita, poi, anche la Figc incontrerà la Cina: un bilaterale storico, per esportare il nostro calcio in Asia, terra di grandi affari e sconfinati interessi. Da una parte gli esponenti di Pechino; dall’altra i capi del pallone italiano, il presidente Figc Gabriele Gravina, l’amministratore della Lega Luigi De Siervo. È annunciata la partecipazione persino di Palazzo Chigi, col sottosegretario M5s Simone Valente (da confermare). Un vertice che più istituzionale non si può. E al tavolo pure Marco Bogarelli, ex n. 1 di Infront e “ras” dei diritti tv, fino a qualche anno fa considerato il vero padrone del pallone italiano.

Bogarelli non ha organizzato l’incontro, c’entra poco con la Cina: partecipa in qualità di futuro advisor Figc. È tornato in quel mondo da cui era uscito rischiando le manette (la richiesta di arresti per l’inchiesta sui diritti tv fu respinta dal tribunale del riesame). La tempesta è passata, le accuse sull’asta “truccata” sono tutte cadute e lui da un po’ aveva ripreso, con una consulenza per la Lega Pro (allora guidata proprio da Gravina) e qualche consiglio agli spagnoli di MediaPro quando volevano i diritti tv della Serie A. Tante società, amici presidenti lo ascoltano su tutti i temi più importanti. Ma sempre dietro le quinte.

Ora esce dall’ombra. Nell’invito Bogarelli è qualificato come “advisor”. Della Figc, appunto, con cui da qualche tempo ha un “rapporto di consulenza strategica”; non ancora remunerato, ma presto dovrebbe formalizzarsi dal punto di vista contrattuale. Di recente infatti la Figc ha deciso di non rinnovare il contratto di advisor proprio con la sua ex azienda, Infront, per gestire internamente il marketing. È stata nominata una commissione ad hoc, presieduta da Marco Canigiani, braccio destro alla Lazio di Claudio Lotito, altra vecchia conoscenza di Bogarelli. Il suo aiuto sarà prezioso. Il mondo è piccolo, quello del pallone di più.

Silvia Romano, Conte: “Non siamo riusciti a venirne a capo”

Nessuna notizia, purtroppo. E una breve dichiarazione che testimonia che suona un po’ come un’ammissione di sconfitta, almeno per il momento. “Non siamo ancora riusciti a venirne a capo”: con queste parole Giuseppe Conte ha commentato la situazione relativa a Silvia Romano, rapita in Kenya ormai quasi quattro mesi fa. “Stiamo seguendo il caso da vicino e c’è stato un attimo che ho confidato avessimo un risultato buono a portata di mano. Purtroppo sono gruppi, più o meno conosciamo la dislocazione territoriale”, ha detto il premier in visita all’università Luiss di Roma, dove ha incontrato gli studenti. Per poi aggiungere: “Tutti i cittadini che in questo momento non sono rientrati in Italia sono da noi attentamente monitorati con il massimo dispiegamento dei servizi di intelligence oltre che con l’attivazione dei canali diplomatici. Non per il caso di Silvia Romano, ma per un altro caso che non posso anticipare spero nei prossimi giorni di portare a tutta la comunità italiana una bella notizia.”

“Paolo”, il solitario senza collegamenti jihadisti

Alla stazione di Crema, ieri mattina, Ousseynou Sy è entrato nel solito bar, ha preso il solito caffè, ha salutato, cordiale come al solito. “Porto i ragazzi in palestra e torno”. Non era la prima volta. Chi lo ha visto non ha inteso nel suo sguardo nulla di particolare. “Paolo”, così lo chiamavano in paese “era tranquillo”. Così ogni mattina. Sveglia presto, poi via dalla sua abitazione di via Cremona a Crema e subito al lavoro come autista. Quindici anni alla guida di un pullman. I titolari dell’azienda Autoguidovie, quando il suo nome viene associato al dirottamento dell’autobus con a bordo 51 bambini, restano senza parola. Sotto choc anche i suoi colleghi di lavoro. Uno di loro confida: “L’ho visto martedì mi ha salutato come al solito”. Al suo avvocato Ousseynou spiegherà di “essere esasperato e che non condivide le politiche restrittive in tema di immigrazione” e “il suo disagio è esploso con l’ultimo episodio di cronaca”. L’uomo di origine senegalese ma italiano dal 2004 si sottoponeva ai controlli su alcol e droga. Risultati sempre negativi. Le crepe, però, ci sono. E stanno nascoste nel suo passato. Nel 2007 viene fermato in provincia di Brescia perché ubriaco alla guida. La patente gli viene ritirata. È il primo dato. Il secondo risale al 2011: una denuncia per abusi su minori. Il dato è rubricato come precedente di polizia, “Sy – dice un amico – sarà poi assolto”.

Di tutto questo l’azienda era allo scuro. “Ousseynou, nostro collaboratore dal 2004 era in servizio a tempo pieno – dichiarano da Autoguidovie –. Negli anni non ha mai dato segnali di squilibrio, né avevamo mai ricevuto reclami sulla sua condotta come autista. A livello aziendale, Crema e zone limitrofe, non eravamo a conoscenza dei suoi precedenti penali”. Un grande lavoratore insomma, che ha iniziato in azienda come addetto alle pulizie e poi, visto il suo buon comportamento, promosso a autista. Eppure una falla c’è. Qualcosa attorno al suo profilo inizia a non tornare. E se i piccoli inciampi con la giustizia sono emersi ieri, il percorso della sua vita sentimentale era noto a molti che abitavano accanto alla sua abitazione di Crema. Ousseynou Sy era stato sposato con una donna italiana. Dopo il matrimonio erano arrivati anche due figli che oggi hanno 12 e 18 anni. Poi il divorzio tumultuoso e una brutta separazione con il giudice che decide di affidare i figli alla donna. Da qui l’uomo, per come lo racconta chi lo conosceva, diventa sempre più silenzioso e riservato. “Un lupo solitario”, si dirà in Procura. Ma all’apparenza cordiale. Anche alla scuola media Vailati, anche nelle altre occasioni in cui ha portato i bambini delle medie nella palestra di San Donato dove era conosciuto dagli insegnanti.

Ieri, dopo l’arresto, i carabinieri sono andati nella sua abitazione. La perquisizione non ha dato elementi rilevanti. Il computer è stato portato via. Sarà la sua analisi e la lettura dei suoi profili social a dire se Ousseynou Sy avesse preso una deriva radicale. Lui, nato in Francia e poi arrivato in Italia. Lui, che negli ultimi tempi aveva preso una posizione di forte critica nei confronti delle politiche migratorie del governo italiano. Eppure, nonostante questo, il suo profilo non risulta segnalato in alcun database del nostro Antiterrorismo. Un solitario ma senza collegamenti filo-jihadisti. Il suo è stato un gesto “politico”. Contro le politiche migratorie del ministro dell’Interno. Durante i 40 minuti in cui ha tenuto sotto sequestro i ragazzi ha detto di aver perso tre figlie in mare. Una circostanza da verificare.

“Ora basta stragi in mare”. E brucia il bus dei bambini

Aveva tutto per fare una strage: tre taniche di benzina, alcuni accendini e fascette da elettricista per legare gli ostaggi. Un’azione premeditata “contro la morte dei migranti nel Mediterraneo”. Il suo obiettivo: 51 bambini di una scuola media di Crema dentro a un pullman. Lui alla guida. In mente una folle corsa all’aeroporto di Linate per poi dare fuoco a tutto. “Da qui non esce vivo nessuno, vado a fare una strage in aeroporto”. Quaranta minuti di fuga. Il tempo sospeso e quei bambini con la paura di poter morire a ogni istante. È successo ieri poco prima di mezzogiorno lungo la statale Paullese all’altezza di San Donato in provincia di Milano. Alla guida Ousseynou Sy, 46enne di origini senegalesi ma italiano dal 2004. Stava riportando i bambini alla scuola media Vailati di Crema. Li aveva accompagnati in un centro sportivo. Lui, autista della società Autoguidovie. Poi il dirottamento. Improvviso.

In quel momento gli studenti e i tre insegnanti iniziano a capire. L’uomo è agitato. Racconta un ragazzo uscito illeso come tutti: “Urlava ‘adesso andiamo in aeroporto’. Ci ha ammanettati e ci minacciava. Diceva che se ci muovevamo, avrebbe versato la benzina e acceso il fuoco. Continuava a dire che le persone in Africa muoiono e la colpa è di Di Maio e Salvini. Poi i carabinieri ci hanno salvati” e il senegalese arrestato. Quella di Ousseynou Sy è stata un’azione “politica” contro le posizioni del governo italiano. Un progetto che l’uomo ha confermato durante l’interrogatorio ieri sera in Procura: “È stata una mia scelta personale, non ne potevo più di vedere bambini sbranati da squali nel Mediterraneo, donne incinte e uomini che fuggono dall’Africa”. Solo due giorni fa aveva acquistato la benzina e le fascette. Dopodiché ha spiegato che a Linate avrebbe preso un aereo. “Non volevo fare del male a nessuno, l’accendino era scarico”. Peccato abbia poi dato fuoco allo scuolabus. Secondo la Procura ha deciso di agire solo due giorni fa.

L’uomo è accusato di strage, sequestro di persona, incendio e resistenza, il tutto con l’aggravante del terrorismo. Un’azione “pro migranti” slegata al momento da una matrice filo-jihadista, ma annunciata dal senegalese in un video postato su Youtube. Durante la corsa ha ordinato agli insegnanti di legare gli alunni con le fascette. Nel frattempo teneva vicino due bambini e li minacciava con un accendino. Poi uno studente è riuscito a dare l’allarme. Racconterà: “L’autista ha vuotato le taniche di benzina per terra, ci ha legato e ha sequestrato i telefoni. Il cellulare di un mio compagno è caduto a terra. Allora mi sono tolto le manette e sono andato a raccoglierlo e abbiamo chiamato i carabinieri e la polizia”. L’intervento dei carabinieri è stato immediato. Il pullman ha speronato una loro macchina, poi si è fermato in mezzo alla strada. In quel momento i militari hanno rotto i vetri facendo uscire i primi ragazzi. Il mezzo però è ripartito facendo una decina di metri per poi fermarsi definitivamente. E mentre l’uomo dava fuoco all’interno, gli ultimi studenti sono riusciti a mettersi in salvo. Per questo ieri il procuratore Francesco Greco ha detto che con il loro coraggio i carabinieri “hanno compiuto un’operazione che si vede nei film delle squadre speciali” anche perché “l’intento stragista era partito e l’uomo stava per dare fuoco come poi ha fatto al pullman”. “Se non stiamo a piangere 51 bambini è grazie a loro”.

Ousseynou Sy è stato fermato e portato all’ospedale Niguarda perché presentava ustioni alle mani. In serata è stato interrogato dal capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili. La Procura ha confermato che non vi è alcun legame con Daesh, anche se ha agito come “un lupo solitario” ma senza collegamento con lo stragismo islamico. Inoltre Ousseynou Sy “aveva già registrato un video fatto arrivare in Senegal” in preparazione del suo “gesto eclatante”. Dall’interrogatorio dell’uomo è emerso che la sua azione “voleva mandare il messaggio Africa sollevati”. Ha spiegato Nobili: “Voleva dire agli africani di non venire più in Europa e punire l’Europa per le politiche a suo dire inaccettabili contro i migranti”.

Google, terza multa dall’Ue per abuso posizione dominante

ll colosso di Mountain View finisce per la terza volta nel mirino di Bruxelles per questioni legate alla concorrenza. Dopo la sanzione da 2,42 miliardi nel giugno 2017 e quella da 4,34 miliardi nel luglio 3018, la Commissione Ue ha ora inflitto a Google una multa da 1,49 miliardi di euro per aver abusato della propria posizione dominante, imponendo una serie di clausole restrittive ai siti web che hanno impedito agli altri concorrenti, Microsoft e Yahoo, di inserire pubblicità collegate alle ricerche. Al centro della decisione, il servizio AdSense for Search, attraverso il quale Google fa da intermediario pubblicitario tra inserzionisti e proprietari di siti web. “Si tratta di pratiche illegali ai sensi delle norme antitrust dell’Ue”, afferma la commissaria Margrethe Vestager, sottolineando che “tale condotta illegale si è protratta per oltre 10 anni, negando alle società di competere sulla base dei meriti e di far godere ai consumatori i vantaggi della concorrenza”. Prima di incassare la nuova sanzione, Google aveva reso nota la decisione di modificare in Europa alcune funzionalità del servizio Shopping e di Android, proprio per rispondere alle richieste dell’Antitrust europeo.

Banche, Bruxelles scarica i suoi errori sull’Italia

La sentenza con cui martedì la Corte Ue ha stabilito che i soldi usati dal Fondo di garanzia dei depositi (Fitd) per salvare banca Tercas nel 2014 non erano aiuti di Stato imbarazza Bruxelles. Il governo italiano non esclude di chiedere risarcimenti. Il ministero dell’Economia “studia le possibili azioni, visto che il danno fu enorme”, spiega una fonte di vertice. Mentre si apre lo scontro frontale con la Commissione sui rimborsi ai “truffati” di Etruria & C. I 5Stelle, per dire, ieri hanno intimato inutilmente al ministro Giovanni Tria di firmare subito il decreto che avvia l’iter, bloccato dai dubbi europei.

Ieri il commissario Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager, ha cercato di smarcarsi addossando le colpe alla Banca d’Italia. Ha negato che la decisione su Tercas sia stata anche all’origine della risoluzione di Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti. “Fu un’altra catena di eventi”, ha detto in conferenza stampa. E in ogni caso “quello che ha fatto scattare la ‘risoluzione’ delle quattro banche è stata una decisione di Bankitalia”. I documenti, però, la smentiscono. Fu il no a Tercas e la conseguente arrendevolezza del governo italiano a bloccare l’uso già predisposto del Fitd per le 4 banche. Il governo Renzi non sfidò Bruxelles e a novembre 2015, un mese prima che il no a Tercas venisse formalizzato, mandò gli istituti in risoluzione azzerando i piccoli investitori, atto che per le norme Ue spetta a Bankitalia. Ieri Via Nazionale ha respinto le accuse facendo filtrare che fu il veto di Vestager a portare a quell’epilogo.

Basta scorrere gli scambi tra Roma e Bruxelles per verificarlo. Già il 10 ottobre 2014, la direzione Concorrenza scrisse al Tesoro chiedendo informazioni sul coinvolgimento del Fitd nel salvataggio di Tercas e Banca Marche motivandolo con il sospetto che si trattasse di aiuti di Stato. Sospetto ribadito nei mesi successivi. La risoluzione scattò il 22 novembre 2015. Tre giorni prima i commissari Jonathan Hill (Mercato) e Vestager scrissero al ministro Pier Carlo Padoan che “se uno Stato membro sceglie di usare il Fitd” allora “questo ricade sotto la regola europea per gli aiuti di Stato” (e quindi scatta il salasso ai risparmiatori), salvo mettere le mani avanti: “Se d’altra parte l’uso del Fidt non fosse considerato aiuto di Stato, allora non andrà applicata la direttiva Ue”. Ipotesi esclusa il mese dopo con lo stop a Tercas accettato da Padoan. Il governo Renzi azzerò non solo i 120 mila azionisti, ma pure i 12 mila obbligazionisti subordinati di Etruria e le altre, dando poi il via al balletto di rimborsi.

Ed è proprio su quest’ultimi che si misureranno gli effetti immediati della sentenza della Corte Ue. Da settimane gli uffici della Vestager bloccano il decreto che fa partire l’iter dei rimborsi ai 300 mila piccoli investitori (i “truffati”) delle banche e delle popolari venete deciso dal governo Conte. Sul piatto ci sono 1,5 miliardi. Bruxelles contesta che la norma non prevede l’obbligo di dimostrare la vendita fraudolenta dei titoli, requisito indispensabile per escludere aiuti di Stato. Linea per la verità sostenuta in passato anche dal Tesoro. Gli esponenti di spicco del M5S al ministero ieri hanno intimato a Tria di firmare il testo. Il ministro invece attende la risposta europea, nella speranza che l’imbarazzo della Vestager per la sconfessione della linea tenuta negli ultimi cinque anni sulle crisi bancarie porti a un via libera. Speranza che però al Tesoro nutrono in pochi.

La tela dell’ambasciata Usa per arginare l’intesa con Xi

Ieri pomeriggio, l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg è andato in visita dal vicepremier, Luigi Di Maio, al ministero dello Sviluppo economico. L’incontro è durato più di un’ora ed è solo l’ultimo: in queste settimane è cresciuta la pressione che gli Usa stanno esercitando sul nostro Paese. L’obiettivo numero uno era fermare la firma del Memorandum Italia-Cina sulla “Via della Seta”, prevista per sabato tra il presidente Xi Jinping e il premier Giuseppe Conte. Gli Usa temono che l’Italia diventi il cavallo di Troia per permettere a Pechino di scalzare la loro supremazia in Europa. L’incontro con Di Maio arriva alla vigilia dell’arrivo di Xi Jinping. Eisenberg e il vicepremier hanno parlato pure della visita di quest’ultimo negli Usa prevista a fine mese.

L’Ambasciatore nell’ultimo mese e mezzo ha intensificato le relazioni (che comunque fanno parte del suo ruolo) con tutto il governo. La sponda principale l’ha trovata nella Lega. Tre i fronti aperti che più preoccupano gli Usa: oltre alla Cina, il Venezuela (con il Carroccio che ha appoggiato Juan Guaidò dall’inizio e i Cinque Stelle più orientati su Maduro) e gli F35 (con la Lega favorevole all’acquisto, il M5S perplesso e i ministri della Difesa, Elisabetta Trenta e degli Esteri, Enzo Moavero, che frenano).

Eisenberg aveva già incontrato Di Maio il 18 febbraio: al centro del colloquio, la cybersecurity e i timori relativi all’entrata di Huawei nella rete 5G. Matteo Salvini all’ambasciata c’è stato più volte: è in atto una strategia di riposizionamento geopolitico della Lega, con un avvicinamento agli Usa e una presa di distanza dalla Russia. Con il leghista Giancarlo Giorgetti, Eisenberg ha una consuetudine: d’altra parte il sottosegretario a Palazzo Chigi si è assunto il compito di arginare i potenziali effetti del Memorandum. L’ambasciatore ha incontrato pure il sottosegretario leghista al Mise, Michele Geraci: il più attivo del Carroccio sul dossier. È passato per via Veneto il 13 marzo anche il sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, il primo a porsi come collegamento tra l’amministrazione Trump e il Carroccio. Due giorni dopo, alla ricerca di rassicurazioni, Eisenberg ha visto Moavero. E ha incontrato, nel tentativo di sensibilizzarlo alle varie cause, anche il sottosegretario agli Esteri M5S Manlio Di Stefano. Con il premier, Giuseppe Conte, ha fatto un incontro ufficiale a Palazzo Chigi, il primo febbraio. Ma il suo consigliere diplomatico, Piero Benassi, l’ha visto diverse volte. Degli F-35, Eisenberg ha parlato con la Trenta. E ha avuto contatti con Giovanni Tria, titolare del Tesoro e con i presidenti delle Camere, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico Anche loro incontreranno in questi giorni Xi Jinping.

A porsi come garante nei confronti degli States, dove ha appena fatto una missione politica, è stato Giorgetti. Il primo risultato ottenuto è il rafforzamento della golden power nel decreto Brexit uscito dal Consiglio dei ministri di ieri: la normativa che regola il possibile veto governativo sarà applicata anche per gli acquisti relativi alla progettazione e realizzazione dell’ infrastruttura, “quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea”, come sarebbe il caso con la cinese Huawei. Sono poi in via di perfezionamento i circa 30 accordi su temi specifici che daranno concretezza al Memorandum. Solo quando saranno definiti si capiranno i veri effetti dell’intesa politica tra Italia e Cina.

A proposito di rassicurazioni, da parte di Giorgetti ce ne sarebbe stata una più strutturale: avrebbe detto all’Alleato atlantico che il governo della Lega con i Cinque Stelle, visti oltre Oceano come inaffidabili, ha i giorni contati. D’altra parte, nei Palazzi del potere, la scadenza di quest’esecutivo viene indicata nella prossima manovra economica, dove si rischia una pesante stretta fiscale. Con elezioni nella primavera 2020 e la via spianata a un governo di centrodestra. Uno scenario che sarebbe stato prospettato anche alle grandi banche internazionali.

Salario minimo, riunione positiva con i sindacati

Dopo i proclami, il dialogo. Governo e sindacati hanno avuto un avvio “positivo” del confronto sul salario minimo. Ieri si è svolto un primo tavolo tecnico al ministero del Lavoro tra le segreterie confederali di Cgil, Cisl e Uil, Ugl e Usb. Come proposta iniziale il ministero si è attestato sul disegno di legge 658 del M5S, prima firmataria Nunzia Catalfo, che oltre a prevedere il salario minimo a 9 euro lordi l’ora, prevede anche di fissare come criterio i minimi contrattuali nei rispettivi comparti. I sindacati puntano alla validità erga omnes per gli stessi contratti e, come corollario, la rivendicazione di una legge sulla rappresentanza sindacale oltre alla questione di aumentare i controlli e la vigilanza per la piena applicazione dei contratti. “Bisogna dare valore legale ai minimi contrattuali, così da coprire eventuali segmenti di lavoro dove la contrattazione non arriva. Abbiamo inoltre chiesto e sollecitato di agevolare l’attuazione alle intese in materia di rappresentanza”, hanno sottolineato. L’Ugl ha evidenziato “la volontà di rafforzare e valorizzare il contratto nazionale”. L’Usb, rimarcando di essere favorevole al salario minimo, ha chiesto di “alzare la soglia e ridurre l’abuso del part-time”.

“Stipati e senza cibo nel carcere di Tripoli”

Manca il cibo nei centri di detenzione di Tripoli, centinaia di migranti sono alla fame. L’allarme di Medici Senza Frontiere arriva da uno degli ultimi centri creati nella Capitale, nel quartiere centrale al-Judeida, ribattezzato Sabaa, ossia “settimo”. Secondo lo studio, ripetuto nel gennaio e nel febbraio scorsi, aumentano i casi di malnutrizione tra le oltre 300 persone rinchiuse lì dentro, un terzo dei quali minorenni: il 2% si trova in condizioni severe, ma crescono anche le percentuali di malnutrizione moderata (dal 4 al 5%) e lieve (dal 12 al 16%). Il 24% degli adulti è sottopeso, tra i minorenni sono aumentati dal 21 al 26% in un mese. E sono in forte aumento i casi di tubercolosi a causa della carenza di medicinali.

Il sovraffollamento dei centri gestiti dal Dcim – il ministero per il contrasto all’immigrazione clandestina del governo di Concordia nazionale guidato da al-Sarraj – ha costretto le istituzioni a reperire nuovi spazi dove spostare rifugiati e profughi. Sabaa è uno di questi e dal giugno scorso sono iniziati i lavori di ripristino di un’ex caserma attiva ai tempi di Gheddafi. Non sono ancora terminati, ma nel frattempo, secondo Msf, nel compound cercano di sopravvivere in 300. Stipati come bestie a volte: il 21 febbraio scorso l’équipe di Msf ha trovato 31 persone chiuse a chiave in una cella di pochi metri quadrati: uno spazio di 0,7 metri a persona. Il centro è attivo da otto mesi e ospita soprattutto eritrei, ma anche nigeriani, camerunensi, sudanesi e ghanesi. Parte di loro è stata ripescata in mare, anche grazie alle motovedette fornite dal governo italiano. E lì dovrebbe finire anche chi viene soccorso nel Mediterraneo dalle Ong e riportato in Libia.

L’organizzazione internazionale ha accesso a cinque centri di detenzione “ufficiali”, cioè governativi. Nel Paese ce ne sarebbero una settantina, la maggior parte dei quali gestiti dalle milizie; si stima la presenza in Libia di 670 mila tra rifugiati, richiedenti asilo e migranti, tra cui 5.700 reclusi in centri del governo. A Sabaa come altrove Msf svolge visite settimanali con équipe mediche. Nel centro di al-Judeida gli alimenti vengono consegnati con estrema difficoltà. Dall’autunno scorso, la somministrazione del cibo avviene una volta ogni due o addirittura tre giorni. Spesso, inoltre, i migranti sono costretti a pagare. Tutto ciò ha spinto Msf a intervenire fornendo due settimane di approvvigionamenti alimentari. “Per la prima volta in questi giorni il governo italiano ha scritto nero su bianco che la Libia rappresenta un porto sicuro – commenta Marco Bertotto, responsabile advocacy di Msf –. Eppure le leggi internazionali e marittime, numerosi rapporti delle Nazioni Unite e quanto testimoniano ogni giorno i nostri medici nei centri di detenzione in Libia, affermano esattamente il contrario”.

Mare Jonio, le due versioni e l’insolito ordine della Gdf

Conferma del sequestro e comandante della nave iscritto nel registro degli indagati. La Procura di Agrigento ieri ha notificato a Pietro Massone, comandante della Mare Jonio, l’avviso di garanzia con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione dell’art. 1099 del codice della navigazione, che prevede l’obbligo di obbedire all’ordine impartito da una nave militare. Un ordine impartito, come vedremo, con modalità per certi aspetti insolite, dal pattugliatore della Guardia di Finanza “Apruzzi” quando la nave dell’Ong Mediterranea era da poco entrata in acque Sar italiane, ovvero lo specchio di mare che prevede il coordinamento dei soccorsi da Roma. Nel verbale di sequestro disposto dalla Guardia di Finanza si legge: “Come da disposizioni… si stabiliva un contatto radio mediante il quale venivano chieste delle informazioni generiche, quali numero dei componenti dell’equipaggio, migranti a bordo e porto di destinazione. In maniera collaborativa (la Mare Jonio, ndr) forniva le informazioni richieste affermando di dirigere verso Nord per cercare il ridosso dal maltempo”. E qui viene il punto controverso: la Gdf “informava il rimorchiatore Mare Jonio che non era autorizzato dalle Autorità italiane a entrare nelle acque territoriali e che, qualora non avessero ottemperato a questa disposizione, sarebbero stati perseguiti per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

Il punto, però, è che per non autorizzare l’ingresso della Mare Jonio, che peraltro batte bandiera tricolore, nelle acque territoriali italiane, sarebbe stato necessario un espresso provvedimento di divieto del ministero delle Infrastrutture. Provvedimento mai adottato. In sostanza, nessuna autorità vietava alla Mare Jonio l’ingresso nelle acque italiane. Una comunicazione infondata, probabilmente frutto delle ore concitate per la direttiva emanata dal ministero dell’Interno poco prima. Ed ecco la risposta del comandante della Mare Jonio riportata nel verbale: “In mare non possiamo stare, una volta a ridosso di Lampedusa avanzeremo apposita richiesto di Place of safety (porto sicuro, ndr) per entrare nel porto”. A quel punto la Gdf ribadisce “il divieto di fare ingresso nelle acque territoriali”, che però non sussiste, e intima l’Alt al rimorchiatore. “Siamo impossibilitati a fermare i motori – replica il comandante – qui siamo in pericolo di vita. Ci sono due metri di onda non fermo i motori”. Da qui l’iscrizione per i due reati. Ora la procura dovrà valutare se davvero, come sostenuto dal comandante, ha disobbedito all’alt per ragioni di sicurezza marina. E dovrà verificare anche l’ipotesi – finora considerata piuttosto debole sotto il profilo giuridico – che l’aver violato le regole di coordinamento dei soccorsi in acque libiche, per la Mare Jonio, sia sufficiente di per sé a configurare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Ma cosa sarebbe accaduto se la Mare Jonio avesse obbedito all’Alt? Secondo fonti qualificate a quel punto, essendo ancora in acque internazionali, sarebbe stata invitata a puntare verso le acque maltesi e non italiane. Ieri la procura ha sentito parte dell’equipaggio come persone informate sui fatti. Ecco la ricostruzione del soccorso nella versione della Mare Jonio: l’aereo Moonbird segnala l’esistenza di un natante in difficoltà prima alla Guardia costiera libica e italiana, soltanto poi alla Mare Jonio, alla quale gira le comunicazioni già inviate ai militari. A quel punto, Mare Jonio comunica al comando italiano di aver ricevuto la segnalazione e si dirige verso il punto segnalato, dichiarando di essere disponibile a effettuare il soccorso e chiedendo istruzioni. La Guardia costiera italiana risponde che il soccorso sarà coordinato dalla Libia e invia, per conto dei militari nordafricani, un modulo con le istruzioni: si prescrive di mantenere la distanza di 8 miglia dalle coordinate indicate che non si discostano molto da quelle segnalate da Moonbird. A quel punto, ricostruiscono fonti della Mare Jonio, il rimorchiatore della Ong si dirige in un’altra zona, a circa 20 miglia di distanza dall’evento coordinato dai libici, dove incrocia sul radar un segnale – anch’esso segnalato da Moonbird – e poco dopo individua a vista il barcone con 50 migranti in condizioni di pericolo. La Ong avverte il comando italiano, chiede istruzione avvisando che, considerata la condizione di pericolo, sta procedendo per il soccorso. A operazione conclusa arriva una motovedetta libica che non impartisce istruzioni e chiede solo se l’equipaggio abbia bisogno di assistenza. Le condizioni meteorologiche peggiorano e il rimorchiatore punta verso l’Italia. A questo, però, se la versione è corretta, delle due l’una: o si contano due soccorsi, oppure si tratta dello stesso gommone che ha percorso 20 miglia senza essere raggiunto dai libici. La Procura sta vagliando la ricostruzione e la documentazione sequestrata.