Sblocca cantieri, lite tra i gialloverdi: il testo finale non c’è

Niente da fare per il decreto “Sblocca cantieri”. ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il testo ma solo “salvo intese”, la formula usata quando non c’è accordo e il provvedimento definitivo non c’è. Nei fatti è ancora tutto da definire. L’intesa politica ancora manca. La tensione a Palazzo Chigi è palpabile. I ministri di M5s e Lega già litigano anche sul decreto per la crescita, che il premier Giuseppe Conte annuncia per la prossima settimana. “Rischiamo di approvare un decreto Blocca cantieri, senza la s”, lamenta la Lega. E Matteo Salvini, che al Cdm giunge assai irritato, elenca le cose che “mancano” nel testo preparato da Danilo Toninelli con la supervisione di Conte.

Non c’è l’atteso vertice a tre di Conte con Salvini e Luigi Di Maio per sciogliere i nodi politici. E questo non aiuta in Cd, iniziato dopo pranzo per essere quasi subito sospeso e poi aggiornata alla serata. La Lega chiede un testo più corposo. M5S teme che ci finiscano norme ancora più critiche di quelle già contenute (come il rilancio del massimo ribasso per gli appalti). La Lega, per dire, chiede di eliminare l’obbligo di gara per i lavori fino a 5 milioni e un super commissario alle infrastrutture, che di fatto arginerebbe Toninelli.

Se Salvini ha un problema, sinistra e M5S lo soccorrono

Salvare anche una sola vita non ha prezzo, ci riuscisse pure il diavolo. Figuriamoci se a farlo è il no global Luca Casarini che con l’equipaggio della nave Mare Jonio di esseri umani ne ha tirati fuori dalle onde 49. Poi però la politica è questione soprattutto di consenso (elettorale) e non siamo affatto convinti che oggi a festeggiare lo sbarco dei migranti a Lampedusa, sani e salvi, ci sia l’intera pubblica opinione. Certamente non esulta quella sempre più larga fetta di italiani che vede in Matteo Salvini il vendicatore del “buonismo radical chic”, e che certamente plaude convinta il ministro della pacchia è finita quando chiede alla magistratura di arrestare gli autori del misfatto.

Noi non crediamo che quel 34% che i sondaggi attribuiscono alla Lega sia composto di cittadini dal cuore di pietra, inclini al razzismo e che non muoverebbero un dito se vedessero un loro simile, qualunque sia il colore della pelle, aggrappato a un relitto nel mare in tempesta. Non è così che funziona e continuando a dividere l’Italia in buoni (noi) e cattivi (chi non la pensa come noi) non si fa altro che spingere sempre di più i presunti malvagi tra le braccia di un leader quanto mai scaltro, che ha sdoganato, a proprio uso e consumo, la diffusa insofferenza nei confronti delle anime belle. Quelle stesse che fanno un altrettanto uso e consumo politico dei cosiddetti buoni sentimenti. Quando, sulla Stampa, Vladimiro Zagrebelsky scrive di esseri umani “usati in una battaglia politica che trascende di molto la loro vicenda individuale, la loro stessa vita”, come dargli torto? Disperati, della cui fuga nulla sappiamo, “se abbiano o non abbiano diritto al rifugio come la Costituzione e la legge prevedono” ma “esposti davanti al porto di Lampedusa per ottenere il permesso di sbarco”. Oppure, “in caso di rifiuto, a conferma della disumanità della politica di Salvini (e del governo che defilato lo lascia fare)”.

Salvini a cui proprio ieri il Senato ha negato l’autorizzazione a procedere per la precedente vicenda della Diciotti e che dunque incassa una vittoria immediata e subito ne prenota un’altra nel caso, probabile, la Procura di Agrigento proceda contro Casarini e compagni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Perché, e siamo al cuore del problema, Salvini vince anche se meriterebbe di perdere: come quel Gastone Paperone che nei fumetti Disney quando cade in una buca ne esce senza un graffio e per giunta con un portafoglio smarrito e ben fornito.

Nel nostro caso, il vero colpo di fortuna del ministro è aver trovato degli alleati di governo come i Cinque Stelle che si adoperano in modo indefesso per spianargli la strada verso le vette del potere. Dei generosi donatori di sangue che si consumano nel sacrificio supremo, giorno dopo giorno, mentre lui si gonfia di voti e di boria. Nel mercoledì appena trascorso, mentre al Senato l’Avis grillino si accingeva a salvare Salvini dal processo, il pentastellato Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale di Roma, veniva spedito dietro le sbarre con l’accusa di corruzione. Con il che gli esponenti del già malconcio M5S finivano nel tritacarne di chi non vede l’ora di arruolarli nel magna magna del sono tutti uguali (anche se nel caso in questione e fino a prova contraria, trattasi di responsabilità penale individuale). Categoria, quella del magna a cui per un vero prodigio riesce a sottrarsi il Gastone del Carroccio, pur se gravato dal bottino di quei 49 milioni illecitamente incamerati ma che il partito potrà finire di restituire, per grazia ricevuta dalla magistratura genovese, tra appena 81 anni. Questo senza contare i problemucci del sottosegretario Armando Siri (bancarotta) e del viceministro Edoardo Rixi (spese pazze alla Regione Liguria), che sono un po’ i Cip & Ciop della Lega, ma di cui sui giornali (quasi) nessuno ricorda i trascorsi. Insomma, tutti lavorano per Salvini. Perfino le Ong nostrane che quando al ministro della Paura manca la materia prima gliela vanno a recapitare direttamente al Viminale.

Conte: “Pericoloso abolire la democrazia rappresentativa”

In una delle giornate più lunghe e difficili per i Cinque Stelle, il premier Giuseppe Conte ha incontrato gli studenti dell’università Luiss di Roma. Durante il convegno il capo del governo ha preso le distanze da uno degli storici cavalli di battaglia di Casaleggio (padre e figlio) e del Movimento: il superamento della democrazia rappresentativa e il passaggio alla democrazia diretta. L’innovazione tecnologica, ha detto il premier, “può riproporre l’agorà di un tempo”. Ma ha aggiunto: “Sarebbe molto pericoloso” accantonare la democrazia rappresentativa. Il presidente del Consiglio ha argomentato così: “L’agorà infotelematica moderna può rafforzare la democrazia rappresentativa, ma bisogna avere la consapevolezza che stare a casa e premere un pulsante è una semplificazione che può nascondere anche alcune insidie”. In Parlamento, invece, si realizza “la mediazione, che significa anche dialogo e confronto e comprendere ragioni e istanze dell’altro e filtrarle alla luce di una razionalità politica e pervenire alla decisione che si ritiene ottimale. Nell’agorà infotelematica non riusciamo a ricreare tutte queste condizioni”.

“Manette a uno di noi mentre salviamo Matteo”

“Eanche oggi ci siamo guadagnati la pagnotta”. Nel terribile slargo del disincanto in cui oggi sono confinati i senatori grillini, il cortile a piano terra di Palazzo Madama, il pensiero di Michele Giarrusso, ufficiale laudatore di Matteo Salvini, è comunicato, con il piglio del professionista che emette fattura per il cliente, alla truppa pentastellata particolarmente affranta per le circostanze malefiche in cui il voto si è dovuto svolgere.

La pagnotta è salva, l’alleato e nemico Salvini esce dal processo nel quale il Tribunale dei ministri voleva ficcarlo per merito del Movimento che sul pennone ha issato la parola giustizia. E Giarrusso, che qualche settimana fa mimava le manette col gusto selvaggio del vendicatore seriale, oggi fa i conti con le manette ai polsi di un suo compagno d’avventura, e giunge in aula a liberare dalla giustizia ingiusta “convintamente” il ministro dell’Interno.

Anche la fantasia dovrebbe avere un limite alla propria energia propulsiva, ma invece no. I volti degli onesti, cioè i figli di Beppe Grillo, giungono nell’aula sporcati dalla disonestà domestica: le mazzette che uno di essi, e non l’ultimo della fila, avrebbe intascato. Sulle mazzette hanno costruito l’università della resistenza, contro le mazzette hanno conquistato il governo, dalle mazzette oggi rischiano di venire travolti. “Non è una bella giornata, non leggo serrate analisi, non ascolto riflessioni profonde. Tutto ciò che accade viene valutato con una quota singolare di approssimazione, che è compendio di ingenuità e ignoranza. Oggi siamo a un bivio, ma chi lo sa?”. Nicola Morra presiede la commissione Antimafia ed è dell’ala sinistra del Movimento, quella parte, sofferente e minoritaria, che avvertiva dei rischi: “Mi chiamavano signor Cassandra. Ma è facile prefigurare le disgrazie quando si affronta la realtà senza prima averla studiata, capita, digerita”. Morra è tra i pochi che affronta i cronisti. Gli altri, la folla plaudente e sgargiante che affollava il Transatlantico, è nebulizzata, oppure coperta dal linguaggio della trincea: “Tutto normale, dov’è il problema?”, domanda – stupìto dello stupore altrui – Primo Di Nicola, già giornalista arrembante, oggi senatore prudente.

Parlano, e sembrano liberate dall’incubo della retrocessione tra le infedeli, solo tre donne, le tre contestatrici della linea di Di Maio, a rappresentare l’esile opposizione interna. Prima Elena Fattori, poi Paola Nugnes, infine Virginia La Mura, fanno mettere a verbale il loro sì al processo per Salvini: “Nel nostro Dna c’è il rispetto della giustizia, e vige il principio della sottomissione di ciascuno alla legge. Noi abbiamo le cinquestelle nel cuore”. Cinquestelle? Al banco del governo, mentre Salvini con la penna rossa corregge e lima il suo discorso, che pronuncerà tra gli scranni del suo gruppo politico, perfino emozionandosi, è presente solo Riccardo Fraccaro, ministro per i rapporti col Parlamento. E Di Maio dove diavolo è? Impegnato con Rocco Casalino, questo si dice. Rocco illustra la mossa: cestinare Marcello De Vito, infilare il suo nome nel tritacarte affinché nemmeno l’ombra di una consonante a lui appartenuta sia leggibile. E Di Maio provvede, nella magnifica anarchia delle regole, a far fuori extra ordinem il corrotto e restaurare il lindore perduto.

La nemesi è completa. I Cinquestelle, già discretamente abbattuti per aver dovuto assicurare sostegno all’alleato che gli sta mangiando i voti, liberano Salvini mentre incarcerano uno di loro. “È orribile l’ipocrisia di questa gente, di tipi come Giarrusso”, dice Anna Maria Bernini, che guida i berlusconiani d’appoggio a Salvini. “Sarà un problema anche per noi del Pd se i 5S diverranno i nuovi naufraghi politici. Abbiamo bisogno di tempo per tornare a essere competitivi, ma Di Maio reggerà?”, chiede Anna Ascani che è appena stata a colloquio con Zingaretti, il suo nuovo segretario.

La sera scende, la faccenda si complica un po’.

Il Senato vota il salva Salvini M5S perde altre tre “ribelli”

“C’ho lo scasso di stomaco”. Il grillino Nicola Morra taglia il transatlantico del Senato con un sorriso livido sulle labbra. Traduciamo: ha un forte mal di pancia. Matteo Salvini è salvo, i Cinque Stelle hanno votato (come in Giunta) per garantirgli l’immunità. Non sarà processato, come aveva chiesto il tribunale dei ministri: il caso Diciotti ora è davvero archiviato. L’accusa – sequestro aggravato di persona per aver trattenuto 177 migranti per 5 giorni su una nave nel porto di Catania – è stata respinta dal Parlamento.

Intanto il Movimento rischia di perdere altri pezzi. I voti “ribelli” non sono solo i due messi in preventivo, quelli di Paola Nugnes ed Elena Fattori. C’è una terza senatrice che si è rifiutata di mettere la faccia sul salva-Salvini: Virginia La Mura, anche lei vicina a Roberto Fico. Ora Nugnes, Fattori e La Mura rischiano l’espulsione, visto che sono andate contro la linea stabilita dal voto online su Rousseau. Lo conferma il capogruppo Stefano Patuanelli: “Sono state segnalate ai probiviri. Il termine per la decisione è di 90 giorni ma non è perentorio, i tempi possono essere più rapidi o più lunghi”.

Il problema è che non c’è più margine per le epurazioni (dopo quelle di Gregorio De Falco e Saverio De Bonis): se i Cinque Stelle cacciano le tre dissidenti, i gialloverdi al Senato diventano 162; la maggioranza assoluta è a quota 161.

È molto ampio, invece, il margine che sottrae Salvini ai giudici: la relazione di Maurizio Gasparri passa con 237 voti a favore e 61 contrari. A favore del Capitano c’è un fronte trasversale e inedito che tiene insieme Lega, Cinque Stelle (che insieme si fermano a 153), Fratelli d’Italia e Forza Italia.

La compagnia evidentemente imbarazza: all’appello nel Movimento non mancano solo le 3 senatrici “ribelli”, ma altri 7 colleghi strategicamente assenti durante il voto. Per i grillini, dopo la mazzata dell’arresto di De Vito, è un giorno di passione. Per Salvini un altro giorno di festa.

Il Capitano siede nella postazione del governo, a fianco del premier Giuseppe Conte, ma poi sale ai banchi della Lega – scranno 281 – per leggere il suo intervento. Non l’ha frequentato molto in questo primo anno di legislatura, visto che ha partecipato all’1,73% delle sedute di Palazzo Madama (statistiche Openpolis).

Dice di essere emozionato e si mostra quasi commosso, ma il suo discorso è un altro lucido saggio di propaganda. “Meno partenze, meno sbarchi, meno morti”, ripete tre volte in pochi secondi, con tecnica da pubblicitario. E poi solito canovaccio, Dio, patria e famiglia e una chiusura che ricorda il Berlusconi degli esordi: “Io amo l’Italia, amo i miei figli, amo il mio lavoro. Dedico la mia vita a questo splendido paese”.

Per i 5 Stelle parla Mario Michele Giarrusso, quello delle manette, il primo anche in giunta a difendere il “Capitano”. La prosa è barocca, il concetto chiaro: “Annuncio con orgoglio che M5S, dopo aver condiviso coi cittadini questa decisione, voterà convintamente affinché il governo non debba rispondere di un’azione compiuta nell’interesse dello Stato e dei cittadini”. Salvini dopo il voto va a ringraziarlo. Giarrusso si galvanizza e più tardi alla buvette si pavoneggia con il suo staff (“Ti sono piaciuto?” “Sei stato bravissimo. Anzi: sei bravissimo”).

L’altro lato del Movimento è ancora Morra, immobile mentre Lega e M5S scattano in piedi per l’applauso a Giarrusso. Per disciplina, lui vota secondo Rousseau. Fattori e Nugnes invece annunciano la ribellione. Virginia La Mura non si espone, ma al momento del voto pigia il tasto rosso, mentre i colleghi di partito gridano “verde”. Si scambia uno sguardo con la Nugnes e per un attimo appoggia la testa al banco, tenendola tra le mani. Come a dire: “Cosa ho fatto?”. Risponderanno i probiviri.

Covace: “Abbandono il Movimento, ci ha tradito”

Il Movimento5 Stelle abbandona il consiglio comunale di Taranto. A ufficializzarlo è l’addio di Rita Corvace, prima dei non eletti, subentrata in aula dopo le dimissioni dell’ultimo rappresentante del M5S Francesco Nevoli. Corvace, tra gli esponenti del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti che aderirono al Meetup 5 Stelle, non si è limitata a lasciare il Movimento per aderire al gruppo Misto: nel giorno del suo ingresso in consiglio comunale, martedì, ha lanciato un durissimo attacco al partito, accusandolo di aver tradito la fiducia degli elettori. Nella campagna elettorale per le elezioni politiche di marzo 2018, i pentastellati avevano infatti promesso la chiusura dell’Ilva, fabbrica che, per l’emissione di sostanze tossiche, aveva causato molteplici casi di tumore, tra cui quello della stessa Corvace: “Taranto è la città in cui mi sono ammalata di cancro, causato dall’inquinamento industriale. Per questo ho voluto impegnarmi per migliorarla. Ho creduto che il M5S fosse la strada giusta, ma ora non rappresenta più le istanze dei cittadini”. Questo anche a causa dell’alleanza stretta con la Lega, “un governo razzista e xenofobo, che condanna la diversità”, ha concluso la Corvace.

“È solo uno che s’è venduto: noi le mele marce le cacciamo”

Giura che non ci sono analogie tra gli arresti di membri del Pd e quello del 5Stelle Marcello De Vito. E non si pente per quei comunicati contro il segretario del Pd Nicola Zingaretti poche prima. “Noi le mele marce le cacciamo subito”, ripete il capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, tra una riunione e un lungo e difficile Consiglio dei ministri.

Hanno arrestato De Vito, proprio come era stato arrestato il precedente presidente del Consiglio comunale di Roma, il dem Mirko Coratti. Non è la prova che anche il Movimento ha perso l’innocenza, e che sono saltate le presunte differenze tra voi e gli altri partiti?

Non metterei a confronto i due casi, sono completamenti diversi. Oltre a Coratti vennero arrestati e indagati altri esponenti del Pd. Stiamo parlando di Mafia capitale, mentre nel caso del M5S si tratta di un singolo che ha venduto la sua anima a dei delinquenti e che abbiamo immediatamente espulso. A nessuno permetto di sporcare il nome del Movimento e il progetto di cambiamento del Paese. Questa è la differenza tra noi e gli altri partiti: per le mele marce non c’è posto nel M5S, né ora né mai.

Sarà. Però De Vito è il terzo personaggio di primo piano dell’area M5S a Roma, dopo Raffaele Marra e Luca Lanzalone, a essere arrestato. Si può parlare davvero di mele marce o c’è un problema strutturale dentro il Campidoglio?

Guardi, tutti quelli che hanno una condotta poco limpida vengono cacciati, politici o tecnici che siano. Detto questo, ricordo che Virginia Raggi ha demolito le ville dei Casamonica, e nessun sindaco lo aveva mai fatto. Questo è combattere la criminalità.

Non pensa che il dossier dello stadio della Roma andasse gestito meglio? C’è stato un vorticoso aggirarsi di costruttori e faccendieri attorno a quest’opera…

Il progetto dello stadio, dopo il nostro intervento, è migliorato. Sono diminuite le cubature ed è stato reso meno impattante dal punto di vista ambientale. Si tratta di un progetto ambizioso che andrà avanti. E sui faccendieri sapete come la penso.

Per lei la giunta Raggi deve comunque andare avanti? Tra dimissioni e casi giudiziari è stata falcidiata.

Mi scusi, ma la Raggi è sempre stata assolta. Sapevamo che Roma non sarebbe stata facile, ma da parte nostra c’è sempre stata trasparenza e correttezza verso i cittadini.

Il caso Roma conferma che c’è la necessità di cambiare la struttura del Movimento? Con un M5S più radicato sui territori sarà più semplice controllare i vostri eletti?

La riorganizzazione del Movimento non è una forma di controllo, si tratta di un’evoluzione necessaria per rispondere ancora meglio alle istanze dei territori. Il M5S è una forza politica diversa da tutte le altre: nasciamo per dare voce ai cittadini.

Martedì molti del Movimento si sono accaniti contro Nicola Zingaretti, perché l’Espresso ha diffuso indiscrezioni su un’indagine a suo carico. Sia sincero, non avete sbagliato, anche alla luce dell’arresto di De Vito?

Abbiamo sbagliato? Zingaretti è indagato per finanziamento illecito. Sapeva di esserlo e non ha comunicato nulla ai cittadini, e noi gli abbiamo semplicemente chiesto di dare spiegazioni, prima di tutto ai suoi elettori. Noi non abbiamo esitato un minuto a cacciare Marcello De Vito. È una questione di opportunità politica, poi ciascuno è responsabile delle proprie scelte.

Ma l’assenza di garantismo non resta un vostro problema? Sembra sempre che diate peso agli avvisi di garanzia degli altri e non ai vostri. E una condanna e un’iscrizione sul registro degli indagati sono cose molto diverse tra loro.

Un avviso di garanzia per mafia o per corruzione, piuttosto che per tangenti o finanziamenti illecito, ha un significato politico che va affrontato subito. Noi facciamo nostra la lezione di Borsellino, non basta soltanto essere onesti, bisogna apparire onesti, e noi facciamo pulizia di tutti coloro che sono toccati da episodi o fatti inquietanti.

Tre senatrici hanno detto sì all’autorizzazione a procedere per Salvini. Verranno espulse? In fondo hanno votato tenendo fede ai principi originari del M5S…

Su quella votazione abbiamo interpellato la base che ha dato una risposta precisa, e la loro volontà è stata rispettata anche dai senatori in Giunta. Su quelli che hanno votato in dissenso si esprimeranno i probiviri.

Il Pd in un sondaggio della Swg vi ha superato. È un sintomo dell’aria che tira, non crede?

I sondaggi non ci hanno mai azzeccato. Vedremo. Ma il M5S ha la capacità di evolversi costantemente.

Sicilia, il presidente è indagato. I grillini: via dalla commissione

Indagatoper truffa sui finanziamenti ai corsi di formazione il presidente della commissione Bilancio dell’assemblea regionale siciliana Riccardo Savona (Forza Italia) non si dimette “fino a quando non emergeranno responsabilità nei fatti contestati” e il Movimento 5 Stelle per protesta, diserta da ieri i lavori della commissione dell’Ars chiamata a votare il collegato alla finanziaria da molti considerato il vero bilancio regionale. “Premesso che nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio – dice il capogruppo Francesco Cappello – non nascondiamo il nostro enorme imbarazzo e vedere presiedere la Commissione da una persona oggetto di pesanti accuse”. “Ci saremmo aspettati – conclude Cappello – che l’invito a fare un passo indietro fosse arrivato dagli altri partiti d’opposizione e, soprattutto, da Musumeci il cui silenzio è a dir poco imbarazzante”. La Guardia di Finanza ha intanto allargato le indagini ad altri bandi e altre cooperative diverse da quelle legate a Savona.

L’avvocato dei record che non parlava più

I record gli sono sempre piaciuti. E Marcello De Vito si è preso anche quello di essere il primo eletto nella storia dei Cinque Stelle a finire arrestato per corruzione. In sette anni di onorata carriera nel Movimento, fino all’espulsione di ieri, di “soddisfazioni” se n’è prese parecchie: primo candidato sindaco grillino della Capitale (fu lui a sfidare Ignazio Marino al grido di “saremo una squadra competente, preparata e soprattutto onesta”), delegato di lista per la presentazione del simbolo alle Regionali del 2013, consigliere comunale più votato dai romani alle Amministrative del 2016 con 6.451 preferenze.

Per lui, ormai più di un lustro fa, decisero perfino di violare per la prima volta il divieto di andare in tv. Visto quant’era sacrilego all’epoca, fu indetto un apposito referendum, che tra le altre cose recitava così: “A tre settimane dal voto tutti i sondaggi, anche quelli meno ostili al M5S, ci danno in netto svantaggio rispetto a Marino e Alemanno. Ciò dipende, in gran parte, dalla scarsa visibilità che i media danno al nostro candidato sindaco. L’indice di visibilità di Marcello è al 20%, contro il 70% di Marino e il 90% di Alemanno. Per questo vorremmo migliorare la nostra visibilità accettando alcuni inviti a trasmissioni televisive nazionali, evitando – ovviamente – di stare seduti in talk show e concordando regole e modalità di intervista”.

Finì male, e peggio andò alle elezioni di maggio: De Vito, nonostante il boom dei Cinque Stelle alle Politiche di tre mesi prima, raccimolò uno scarso 12 per cento. Eppure, per i cinque anni a venire, l’avvocato quarantenne del quartiere Talenti, è rimasto il volto più noto dei Cinque Stelle in Campidoglio. Tradotto: alle Comunali del 2016, De Vito era sicuro di correre di nuovo da sindaco, e stavolta con la vittoria in tasca. Non è andata così: il voto online ha premiato Virginia Raggi. E De Vito mai s’è rassegnato a quella sconfitta inattesa. Il Fatto raccontò del presunto dossier che, secondo lui, la stessa Raggi e Daniele Frongia avevano confezionato per danneggiarlo. Di certo c’è che al primo turno, la candidatura “di disturbo” di Annalisa Bernabei, studentessa 27enne considerata vicina a Paola Taverna, ha mosso qualche centinaia di voti, risultati poi decisivi per la vittoria al ballottaggio dell’attuale sindaca di Roma.

Poco male: De Vito nel frattempo aveva incassato un posto da consigliera regionale nel Lazio per sua sorella Francesca, uno da assessore municipale per la sua compagna Giovanna Tadonio ed era diventato il presidente dell’Assemblea capitolina. I colleghi dell’aula Giulio Cesare ricordano che negli ultimi mesi era disilluso, isolato, sempre meno socievole, per nulla ciarliero. Eppure dai piani alti del Campidoglio giurano che i rapporti con la sindaca non fossero più freddi come un tempo. Forse, De Vito, aveva solo cambiato interlocutori.

M5S, paura di nuovi guai. Ma Raggi “andrà avanti”

Nel mercoledì che doveva essere “solo” quello del voto su Salvini, il M5S apre gli occhi e avverte subito la paura. Quella del contagio, del piovere di nuovi guai dentro il Campidoglio, nella Roma che per il Movimento è stata di sicuro più croce che delizia. Perché certo, l’arresto del presidente del Consiglio comunale Marcello De Vito segna innanzitutto la peggiore delle novità per i 5Stelle, quelli che urlavano al Pd e agli altri “arrestano voi” e invece no, non sarà più così semplice, perché l’innocenza da ieri è davvero perduta per sempre.

Ma quelle manette pongono anche domande e ansie ai piani alti, sulla gravità del caso stadio, una ferita che andava suturata e invece stilla disastri. “Certe voci erano forti da settimane, e chissà come siamo messi ora su questa storia dello stadio della Roma”, sussurra un veterano. E allora Luigi Di Maio, il capo che alle Europee di maggio si giocherà molto se non tutto, di prima mattina chiede e fa chiedere ragguagli e manda emissari in Comune, a capire a che punto è la notte. E nel frattempo fa sapere che De Vito è espulso, “è già fuori dal Movimento, mi prendo io la responsabilità della decisione che ho comunicato ai probiviri”. Per poi enfatizzare: “Non lo caccio io ma i nostri anticorpi, De Vito potrà difendersi ma lontano dal Movimento”. Per ora però è espulso solo a parole, perché lo Statuto affida comunque la decisione finale ai Probiviri e al capo politico solo il potere di proposta. E comunque questa vicenda non si cancella in un amen e la slavina giudiziaria è una nemesi e anche un bell’intoppo in prospettiva urne.

Solo martedì sera, poche ore prima l’arresto di De Vito, tanti 5Stelle anche di governo si erano accaniti sul segretario dem Nicola Zingaretti. Avevano letto il sito de l’Espresso, che riferiva di Zingaretti indagato per finanziamento illecito, e giù a infierire e a chiederne le dimissioni. Ma la politica vive di equilibri precari e da qui alle prossime settimane il Pd potrebbe ricordare spesso l’autogol mediatico del Movimento. E sarà altra benzina per l’obiettivo che non pare più solo uno slogan, sorpassare i 5Stelle alle Europee. L’incubo a cui Di Maio non vuole neppure pensare, perché per restare saldo in sella e costruire il nuovo M5S, quello con una struttura sui territori e una filiera ufficiale a cui delegare compiti, il capo deve tenere lontani i dem e non arrivare a distanze siderali dalla Lega. “Luigi punta a prendere almeno il 25%”, spiega un ufficiale alto in grado. E per arrivarci deve innanzitutto presidiare le retrovie.

Così si può anche andare avanti con la giunta Raggi, proprio come vuole la sindaca, che ieri ha rassicurato i vertici. Decisa a tirare dritto anche perché De Vito era un suo noto rivale, vicino a quella Roberta Lombardi con cui è inimicizia giurata. E a Porta a Porta ieri sera, la sindaca lo ha ribadito: “È noto che lui e Lombardi non mi amassero particolarmente, i nostri erano rapporti d’aula e non sapevo cosa facesse”. E Raggi giura di essere andata “su tutte le furie” alla notizia del suo arresto “perché non me lo aspettavo”. Però “andrò avanti, per la legalità” promette. E a Di Maio e ai suoi va bene, a patto che non emergano altri guai, come gli è stato assicurato. Così è già pronta la sostituzione di De Vito, sospeso dalla presidenza, con Enrico Stefano, fedelissimo della sindaca.

Invece un dimaiano di ferro come il sottosegretario Mattia Fantinati dice al Fatto: “Dobbiamo evolverci dal punto di vista organizzativo, perché è necessaria una selezione della classe dirigente in linea con le aspettative degli elettori”. Ergo, ora più che mai serve la struttura, che Di Maio vorrebbe lanciare da metà aprile. Per controllare tutto, e prevenire casi da manette. Un problema che non è più solo degli altri.

@lucadecarolis