C’è stato un tempo in cui si è creduto che l’era dei colpi di Stato militari fosse finita, in Africa come altrove.
Purtroppo, la realtà, almeno nel continente africano, sembra essere diversa, visti i recenti colpi di Stato in successione, alcuni riusciti, mentre altri sono falliti.
I più recenti sono quelli del Mali, della Guinea e del Ciad, e attualmente un altro è in corso in Sudan. Ciò è tanto più preoccupante, in quanto questi eventi si stanno verificando nella zona della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), ossia in una delle Comunità regionali che ha messo in atto forti misure per consolidare la democrazia e il buon governo.
Questa apparente contraddizione a livello regionale tra quanto previsto dalle norme e la realtà sul campo è di fatto la migliore rappresentazione di una tensione all’interno dell’intera Unione Africana (Ua). A partire dagli anni Novanta del Novecento, con la fine della Guerra fredda e la nuova ondata democratica nel continente, si è cominciato a credere nella democrazia. L’allora Organizzazione dell’unità africana (Oua) ha iniziato a mettere in atto misure per incoraggiare i suoi Stati membri ad adottare il processo democratico per i cambiamenti politici. Così, mentre i colpi di Stato militari erano il modus operandi prima degli anni Novanta, durante il decennio successivo c’è stata una netta diminuzione della loro attuazione.
Durante questo periodo e fino a oggi, l’Oua prima e l’Ua poi, hanno istituito un quadro normativo volto a combattere i “cambiamenti di governo anticostituzionale” (Cga) in Africa. Tra le misure più emblematiche e di valore normativo, sono da menzionare la Convenzione di Lomé del 2000; l’Atto costitutivo dell’Unione Africana del 2000; e il Protocollo sugli emendamenti all’Atto costitutivo del 2003, così come laCarta africana per la democrazia, le elezioni e la governance del 2007. Ma anche prima del 2000, c’erano stati documenti importanti che incoraggiavano l’istituzione di procedure democratiche come mezzo per cementare la pace e la sicurezza, al fine di consentire lo sviluppo economico e sociale di cui l’Africa ha tanto bisogno. Oggi esiste un’ampia giurisprudenza in materia, con decisioni dell’Ua e del suo Consiglio di pace e sicurezza (Cps).
Tuttavia, nonostante tutto questo arsenale normativo e giuridico, a partire dall’anno 2000 assistiamo a una recrudescenza dei Cga. Perciò ci chiediamo: perché le disposizioni dell’Oua e dell’Ua non riescono a contenere e a scoraggiare i colpi di Stato e a far adottare il processo democratico come unico mezzo per il cambio del governo?
L’evoluzione politica del periodo post-indipendenza, in Africa è segnata dai colpi di Stato come strumento per accedere al potere, e quindi per cambiare governo. Dopo l’idillio della liberazione – in cui la maggior parte dei Paesi aveva conosciuto un sistema multipartitico che aveva permesso la realizzazione delle prime istituzioni attraverso competizione politica ed elezioni democratiche –, questo sistema multipartitico è scomparso alla stessa velocità con la quale era apparso, lasciando il posto alla soluzione del partito unico, confuso con lo Stato.
Sotto l’influenza del comunismo socialista, che aveva fornito la base ideologica per le lotte per l’indipendenza, questo modello di “Stato-partito” ha fagocitato tutto lo spazio politico e ha imposto un’unica ideologia. Opporvisi significava opporsi allo Stato, e soprattutto all’unità di quei Paesi i cui pezzi erano appena stati messi insieme, ricongiungendo popoli che, a volte, erano stati nemici giurati.
Il multipartitismo delle indipendenze, che riuniva opinioni politiche diverse attorno a una causa comune – mandare via il colonizzatore e riconquistare la libertà sovrana –, non tardò a ripiegare nelle sue trincee etniche. La gestione del potere divenne nepotista, perché era necessario fare affidamento sulla solidarietà etnico-tribale e regionalista per poter controllare tutto il resto. Se l’unità divenne l’ideologia dominante, fu perché le società politiche africane post-indipendenti erano ancora sull’orlo del collasso, in quanto la maggior parte dei Paesi era composta da più nazioni che avevano difficoltà a fondersi in un’unica identità nazionale.
In questo contesto, è ovvio che l’unico modo per cambiare governo dovesse essere anticostituzionale, perché la Costituzione stessa non prevedeva un cambiamento. Era ammesso e persino accettato che il presidente restasse in carica a vita. Ma siccome in molti casi questa presidenza a vita significava il dominio politico permanente di una parte della popolazione sulle altre – e quindi l’esclusione a vita dalla sfera del potere –, è naturale che gli altri gruppi cercassero con ogni mezzo di rovesciare questo “potere a vita”, al fine di assumere le stesse funzioni a proprio vantaggio. Va anche notato che, dagli anni delle indipendenze fino a oggi, ci sono stati più di 200 colpi di Stato (tra riusciti e falliti). Stef Vandeginste, professore di Diritto all’Università di Anversa, osserva che dal 1956 al 2001 ci sono stati 80 colpi di Stato riusciti, 108 falliti, con almeno 30 Paesi che hanno sperimentato un colpo di Stato riuscito. E Solomon Dersso, fondatore di Amani Africa Media and Research Services, segnala che tra il 1952 e il 2014 ci sono stati 91 colpi di Stato riusciti.
(…) Siamo dunque di fronte a una causa persa? Sebbene ci siano alcuni potentati in agguato, emergono segnali di speranza dai movimenti giovanili e della società civile che sono riusciti a spodestare coloro che avevano usato tutti i mezzi per restare aggrappati al potere. Pensiamo al Burkina Faso e alla Tunisia. Ci sono anche casi in cui il movimento della società civile ha resistito ed è riuscito a impedire la modifica costituzionale che permette altri mandati, come in Senegal. Oppure casi di Corti supreme che si sono opposte alla possibilità di ulteriori mandati, come recentemente è avvenuto in Malawi. E poi ci sono alcuni Paesi dove i presidenti sono riusciti a usurpare il potere, ma non sono mancate proteste popolari, che sono costate anche vite umane, come in Guinea e in Burundi.
Tutti questi esempi testimoniano la presenza di una coscienza civica impegnata attivamente per garantire il rispetto del limite dei mandati (dei governanti). Questo fa sperare che, un po’ alla volta, i leader capiranno che tale questione è la base della pace e della sicurezza per il proprio Paese e per tutta l’Africa, perché consolida e assicura il processo democratico.
Si può anche contare sull’influenza dei modelli. È un dato di fatto che i Paesi che rispettano il limite dei mandati sono piuttosto stabili e non conoscono nessun tentativo di Cga. La speranza è che anche altri Paesi li imitino. E più Paesi adotteranno e rispetteranno il limite dei mandati, più l’opzione per la non limitazione sarà accantonata. Questo potrebbe poi spingere l’Ua ad adottare il limite dei mandati formalmente e definitivamente per la pace e la sicurezza del continente, creando così le condizioni favorevoli al rafforzamento del processo democratico, allo sviluppo e al rispetto dei diritti umani.