Gli affari di Toti e il pranzo con il forzista al Colosseo

Sono citate molte delle maggiori operazioni di sviluppo immobiliare di Roma nelle 260 pagine dell’ordinanza di arresto per Marcello De Vito: dai terreni della ex Fiera di Roma dove Luca Parnasi vorrebbe un nuovo stadio di basket e un polo musicale fino allo stadio della Roma. C’è la ex stazione di Trastevere che l’immobiliarista Giuseppe Statuto vuol far diventare un hotel e non mancano gli ex uffici dell’Alitalia che i fratelli Toti vorrebbero trasformare in una torta residenziale con la ciliegina dell’housing sociale.

La storia degli ex Mercati Generali all’Ostiense però è la più interessante. Nel 2001 Walter Veltroni lancia il sogno della Covent Garden romana. Nel 2005 il Comune fa una gara e stipula una convenzione con il vincitore: il gruppo Toti ottiene una concessione per 60 anni per valorizzare quei palazzi pubblici. Poi c’è la crisi. I costruttori chiedono al sindaco Alemanno e al sindaco Marino di ridurre il verde e ampliare le cubature per rendere più redditizio il progetto che viene approvato dalla giunta di destra nel 2009 e rimodulato nel 2015 da quella di sinistra. Nasce la giunta Raggi ma Paolo Berdini, allora assessore all’urbanistica, blocca tutto. Il progetto è approvato quando arriva Luca Montuori e sul Manifesto il 1 dicembre 2017 Berdini scrive un pezzo di fuoco riportato nell’ordinanza di arresto: “Non c’è un metro quadrato di verde e scompaiono molti parcheggi delle aree limitrofe. Il progetto – scriveva Berdini – mi venne sottoposto quando ero assessore all’urbanistica e chiesi formalmente agli uffici che avevano espresso parere positivo di spiegare perché (…)mi risposero che il ‘il verde pubblico era stato compensato a Volusia’ (…) un luogo lontano più di venti chilometri dall’Ostiense (…) insieme alla vicenda dello stadio della Roma, l’affare Ostiense mostra dunque il vero volto dell’urbanistica romana a cinque stelle”. Ora scopriamo che il 24 ottobre del 2017 sul conto corrente dell’avvocato Camillo Mezzacapo, amico di Marcello De Vito, arrestato con lui ieri, arrivano 110 mila euro dalla Silvano Toti Holding Spa per la consulenza sulla “riqualificazione in concessione dei mercati generali”. Lo stesso giorno 48 mila e 800 euro vengono girati da Mezzacapo alla MDL srl, che per i pm fa capo anche a De Vito, ed è “la cassaforte nella quale i due allocano il provento delle loro attività delittuose”. Il contratto firmato da Pierluigi Toti e Mezzacapo prevede il pagamento di 180 mila euro. I 110 mila erano solo la prima tranche. Pierluigi Toti aveva inserito nel contratto una clausola risolutiva se le autorità non avessero approvato la variante che interessava al gruppo.

Il 15 settembre 2017 la Giunta approva e 9 giorni dopo, scrivono i pm, l’avvocato Mezzacapo emette il preavviso di fattura per 110 mila.

Non c’erano solo gli ex mercati in ballo però in quel periodo per i Toti. Il Gip ricorda nel suo provvedimento che il 12 dicembre del 2018 il Consiglio Comunale presieduto da Marcello De Vito ha votato l’accettazione della cessione delle opere di urbanizzazione a scomputo sul progetto edilizio-urbanistico della Collina Muratella ex Centro Direzionale Alitalia.

A mettere in contatto, a maggio 2017, Pierluigi Toti con l’avvocato Mezzacapo era stato Luca Parnasi. Il 20 maggio del 2018 proprio Parnasi parla con Claudio Toti, fratello di Pierluigi, e canta le lodi di Marcello De Vito e del M5S: “Noi abbiamo un presidente di regione che è un cacasotto terrificante, Nicola (Zingaretti, ndr) non si mette a fare … lo conosco è fatto così. Ora i M5S tu poi alla fine hai conosciuto De Vito, siete diventati amici. Poi alla fine 2-3 persone con la testa, una o due persone rispetto al vecchio sistema”. I fratelli Toti ieri sono stati interrogati e il Gip si è riservato di decidere sulla richiesta di interdizione dei pm. Marcello De Vito per la questione dei mercati generali parlava anche con il sub-concessionario.

In un clima di lobby trasversale il 29 maggio 2018 si è svolto un pranzo a tre con vista sul Colosseo, secondo gli investigatori probabilmente al ristorante di lusso “Aroma”. A tavola con il capogruppo di Forza Italia Davide Bordoni, (che ha organizzato il pranzo) c’era Davide Zanchi, amministratore della società sub-concessionaria degli ex mercati generali e c’era anche De Vito. Non solo. Scrive il pm: “Nel corso del pranzo De Vito ha telefonato all’assessore Luca Montuori che in quel momento stava evidentemente curando nella sua veste di assessore all’Urbanistica del Comune di Roma la vicenda dei Mercati Generali. Subito dopo il pranzo le utenze in uso a De Vito e Zanchi si sono spostate e hanno agganciato il ponte ripetitore posto a breve distanza dal Campidoglio”. Il Fatto ha provato a chiedere a Montuori se de Vito gli abbia mai chiesto di incontrare Zanchi ma l’assessore non ha risposto al nostro sms. Comunque de Vito e Zanchi si sentono altre 4 volte a cavallo tra giugno e luglio. Alla fine Pierluigi Toti, intercettato in ambientale da una microspia il 22 gennaio scorso, si dice piacevolmente sorpreso di come è andata: “Noi abbiamo avuto un’accelerazione urbanistica tra ottobre e dicembre che non pensavo neanche io per cui siamo arrivati”. Per la vicenda dei Mercati Generali il pm aveva contestato il traffico illecito di influenze ma il Gip Maria Paola Tomaselli ha riqualificato in corruzione.

“Spartiamoci tutto subito”. E la Raggi incontrò l’amico di De Vito: “Ma lo scartai”

Nell’Assemblea capitolina, Marcello De Vito non era solo il presidente, ma era anche “l’interlocutore privilegiato di numerosi imprenditori”. Per questo lui – primo politico del M5S arrestato – ieri è finito in carcere con l’accusa di aver messo la propria funzione pubblica “al servizio del privato al fine di realizzare il proprio arricchimento personale”. Era questa la “filosofia che dirige l’azione del pubblico ufficiale e del suo compartecipe”, ossia Camillo Mezzacapo, anch’egli arrestato. Si tratta di un avvocato che circa un anno fa ha pure incontrato Virginia Raggi, nell’ambito di una selezione del cda di una società del Campidoglio, Capitale Sociale Spa. Ma la sindaca lo scartò.

De Vito e Mezzacapo sono accusati di corruzione dai pm romani Paolo Ielo, Barbara Zuin e Luigia Spinelli. Secondo il giudice Maria Paola Tomaselli che ieri ha emesso l’ordinanza (anche nei confronti di altre due persone finite ai domiciliari) il loro era un “vero e proprio format replicabile in un numero indeterminato di casi” che funzionava anche grazie a una “congiunzione astrale”, per dirla con le parole di Mezzacapo, con i 5 Stelle sia al governo che al Campidoglio. “È tipo l’allineamento con la cometa di Halley. – dice Mezzacapo a De Vito il 4 febbraio scorso – (…) È difficile (…) che si riverifichi così. E allora noi Marcè dobbiamo sfruttarla sta cosa (…) Ci rimangono due anni”. È un’intercettazione che per il gip rappresenta il “manifesto programmatico della loro collaudata collaborazione”.

Il “format” De Vito-Mezzacapo non si era fermato neanche dopo l’arresto a giugno scorso (poi revocato) di Luca Parnasi, l’imprenditore accusato di essere a capo di associazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione. Secondo le accuse, Parnasi strizzava l’occhio ai 5 Stelle, prima con Luca Lanzalone, ritenuto il referente in Campidoglio per gli affari dello stadio. E ora si scopre pure con De Vito.

Ma il presidente ora sospeso dell’assemblea capitolina ha intessuto, secondo i pm, rapporti illeciti anche con altri gruppi imprenditoriali: quello facente capo a Claudio e Pierluigi Toti, e quello di Giuseppe Statuto, tutti indagati per traffico di influenze. Nel caso di Parnasi al centro della vicenda c’è invece l’iter amministrativo del nuovo stadio della Roma e “l’approvazione di una delibera in consiglio comunale per la realizzazione nella zona della ex Fiera di Roma di un campo di basket e di un polo per la musica superando le limitazioni poste dalla delibera dell’ex assessore Berdini che aveva limitato la realizzazione delle cubature in quella zona a 44 mila metri cubi”. È Parnasi quindi che ai pm ammette di aver dato incarichi legali (per gli investigatori 95 mila euro) allo studio di Mezzacapo – tramite un’altra avvocatessa – sia “per non scontentare De Vito”, sia “perchè lo studio Mezzacapo era qualificato e vicino al M5S”. Nel caso di Toti, Mazzacapo e De Vito, invece, nell’ambito dell’iter amministrativo relativo al progetto di riqualificazione degli ex mercati generali, secondo le accuse, si facevano “indebitamente promettere e quindi dare (…) 110 mila euro” sotto forma di incarico professionale allo studio legale Mezzacapo. Per l’imprenditore Statuto e l’iter per il rilascio del permesso di costruire di un edificio nell’area dell’ex stazione di Trastevere si parla di un incarico di poco più di 24 mila euro. Una parte del denaro allo studio legale veniva poi trasferiti alla Mdl srl, “società di fatto riconducibile a Mezzacapo e De Vito”, la “cassaforte”, nella quale confluiscono i soldi “in attesa della loro distribuzione rinviata alla scadenza del mandato” di De Vito. E lo dice lui stesso a Mezzacapo: “Ma distruibuiamoceli questi”. E l’amico lo invita alla calma: “Ma adesso non mi far toccare niente, lasciali lì… (…) quando tu finisci il mandato…”.

In un caso dai conti di Mezzacapo partono bonifici direttamente per De Vito: uno di 8.550 euro a settembre del 2017, un altro di 4.275 euro a marzo 2018.

Mezzacapo tempo fa ha incontrato la Raggi. Lo racconta lui stesso il 5 marzo 2018 a Parnasi. L’avvocato dice: “Io ci sono andato a parlare due settimane fa con lei (La Raggi, ndr). Mi ha fatto un lungo eloquio di un’ora e mi ha detto che adesso dopo le elezioni loro devono nominare il Cda di una società praticamente l’unica società strumentale della città metropolitana. E quindi mi ha detto che forse c’è questa possibilità della presidenza. (…) Se per caso fanno un gruppetto di nomine potrebbe anche (…), al di là di tutto però sarebbe importante”.

Secondo quanto ricostruito dal Fatto Mazzacapo ha incontrato la sindaca nell’ambito di una selezione per i futuri membri del cda della società unipersonale della Città Metropolitana di Roma Capitale, Capitale Lavoro Spa. “Ha partecipato a una call pubblica come decine di candidati”, spiegano fonti del Campidoglio, ma “la sindaca lo bocciò”.

Devitalizzati

L’arresto per corruzione di Marcello De Vito, presidente dell’Assemblea capitolina, cioè del consiglio comunale della Capitale, è una notizia gravissima. E il fatto che non sia la prima volta – era già toccato nel 2015, per Mafia Capitale, a quello del Pd Mirko Coratti, poi condannato a 6 anni – non la sminuisce. Anzi, se possibile, la aggrava. Sia perché De Vito è un uomo di punta dei 5Stelle, storico militante fin dalla loro fondazione, soi disant campione dell’onestà. Faceva la morale alla sua acerrima nemica Virginia Raggi, che aveva il torto di averlo battuto alle primarie online nel 2016 e vinto le elezioni, diversamente da lui che le aveva straperse quattro anni prima. Accusava la Raggi e Daniele Frongia di avergli fatto la guerra a colpi di dossier, mentre si erano limitati a chiedere spiegazioni su alcune sue condotte opache, com’è giusto in un movimento che sbandiera la trasparenza. Ora, col senno di poi, si può dire che avrebbero dovuto approfondire meglio. Ma non è detto che avrebbero scoperto qualcosa di paragonabile a quel che si legge nell’ordinanza di arresto. L’impressione è che De Vito all’inizio non fosse una mela marcia, ma che – sempreché le accuse siano confermate in giudizio – lo sia diventato strada facendo, accumulando risentimenti per la mancata sindacatura e magari pensando a sistemarsi in vista della fine della sua carriera politica, tra due anni, alla scadenza del secondo mandato.

Di Maio ne ha subito annunciato l’espulsione, marcando la diversità da tutti i partiti che gridano al complotto, alla giustizia a orologeria, alle manette elettorali per rifugiarsi nella comoda scusa della presunzione di innocenza fino alla Cassazione. Si spera che l’espulsione sia stata decisa dopo aver letto le carte, perché un arresto è un fatto pesantissimo, ma non sempre risolutivo. Dipende dagli elementi d’accusa già dimostrati o suffragati da ampi riscontri, e in questo caso ce ne sono parecchi. Leggere le carte è sempre importante per sapere chi ha fatto cosa e assumere le decisioni che la politica deve prendere allo stato degli atti, a prescindere dagli aspetti penali, che seguono tutt’altri binari. Ora, cacciato De Vito, si tratta di decidere la sorte dell’amministrazione Raggi. La sindaca è stata rivoltata come un calzino dalla Procura e ne è sempre uscita pulita. La condanna dell’ex capo del personale Marra riguarda fatti dell’èra Alemanno e le tangenti addebitate al consulente Lanzalone non hanno inquinato alcun atto della giunta. Se però ora emergesse che De Vito aveva complici fra gli assessori, la sindaca dovrebbe trarne le inevitabili conseguenze.

Ma non pare questo il caso: sia per la correttezza dei vertici della giunta, sia per i pessimi rapporti di De Vito con la Raggi e i suoi fedelissimi, sia per gli scarsi poteri operativi del presidente dell’Assemblea, che al massimo può promuovere mozioni o interrogazioni, non risulta che costui abbia assunto o condizionato decisioni sulle operazioni immobiliari contestate dai pm (peraltro bloccate da un’eternità). Evidentemente i palazzinari – veri, eterni e intoccabili re di Roma – non riuscivano a penetrare nella giunta. E, in mancanza di meglio, hanno aggirato l’ostacolo agganciando l’anello più debole della catena, l’unico big M5S risultato finora permeabile alla tentazione. Un tizio che, in attesa delle sentenze, non possiamo ancora definire un corrotto, ma possiamo già considerare un fesso: un politico con un minimo di sale in zucca non parla al telefono con faccendieri di soldi da spartire pochi mesi dopo l’arresto di Lanzalone e tre mesi prima delle elezioni europee che tutto il sistema attende con ansia per ammazzare i 5Stelle. Tutti sanno che ogni scandalo targato M5S fa mille volte più notizia di quelli targati Pd (Zingaretti indagato per finanziamento illecito, ma lui si dice “tranquillo” e morta lì), FI (c’è l’imbarazzo della scelta) e Lega (49 milioni spariti, un sottosegretario bancarottiere, vari amministratori condannati, e tutti zitti). Dunque sta ai 5Stelle spalancare gli occhi per scoprire in anticipo qualunque trave nell’occhio del vicino di banco.

Chissà, forse senza la radicalizzazione della guerra intestina fra meetup “devitiani” e “raggiani”, qualcuno avrebbe potuto notare e segnalare credibilmente certi rapporti poco chiari di De Vito prima che arrivassero le forze dell’ordine. In ogni caso questo ennesimo scandalo in casa M5S, il primo che vede coinvolto un iscritto (e che iscritto) con l’accusa di corruzione, proprio questo segnala: l’incapacità di distinguere non tanto fra politici onesti e disonesti (spesso indistinguibili, specie quando si tratta di mele sane che si guastano strada facendo), ma tra politici capaci e incapaci, tra persone di valore e gentaglia o gentuccia. La selezione a caso, anzi a cazzo, praticata finora è un terno al lotto: può premiare gente valida, come alcuni ministri e sindaci M5S, ma anche soggetti che è meglio perdere che trovare. Ed è stupefacente che, dopo sei anni di esperienza parlamentare, si continui a discutere di regole interne, espulsioni di dissidenti, voti online, doppi mandati e scontrini, e mai di creare una scuola di politica e di amministrazione: cioè uno strumento fondamentale per attirare energie positive dalla società, selezionare una classe dirigente e formarla adeguatamente. Questo non basterebbe mai a scongiurare i casi di corruzione, almeno quelli legati alla disonestà di un singolo. Ma aiuterebbe a far crescere, maturare e nobilitare un movimento a cui, come ha detto Giorgia Meloni, “se levi l’onestà, restano solo gli show di Grillo”.

Il piano per il cinema c’è, gli italiani no

“Siamo all’ultima spiaggia?”. Non scherziamo, domanda irricevibile. Al contrario, “tutto il mondo dell’industria cinematografica si unisce in modo compatto per fare squadra e rilanciare il cinema come forma di intrattenimento culturale per tutto l’anno”, e questo progresso/processo si chiama Moviement. A parte quel sublime “unirsi in modo compatto”, distributori, esercenti, produttori e istituzioni, dal Mibac ai David di Donatello, fanno sistema per creare un mercato estivo con un piano triennale e quattro direttrici: contenuti, abitudine, investimenti e percezione. Stranamente, dal presidente Anica Francesco Rutelli al presidente dei David Piera Detassis, parlano tutti prima che il piano venga esposto: il più icastico è Pif, che per allungare la stagione promette di girare La mafia uccide solo d’estate inoltrata. L’espressione “cambiamento epocale” risuona più volte, Luigi Lonigro, presidente dei distributori Anica, prende le misure, che sono quelle di “una prima della Scala o di un Montalbano ad agosto”, Francesca Cima, presidente dei produttori Anica, “invita a mettere in lavorazione il cervello e chiedere agli autori film consoni a climi estivi”. Il sottosegretario Lucia Borgonzoni cristallizza: “Il settore non chiede aiuti economici e basta, ma riscatto”.

Le sale rimarranno aperte, la campagna promozionale è avviata, gli spot non tarderanno, la spilletta Moviement verrà distribuita ai David il 27 marzo, Pif dovrà “contagiare gli spettatori e i colleghi”, sopra tutto, la bella stagione non significherà più siccità dell’offerta: da maggio ad agosto, blockbuster, film d’autore internazionali e, vedremo, nostrani non ci daranno tregua. Le major garantiranno, tra gli altri, Pets 2, X-Men: Dark Phoenix, Spider Man: Far from Home, Toy Story 4, Godzilla II e il “Bohemian Rhapsody” su Elton John Rocketman, mentre sul versante d’essai potremo bearci di Stanlio e Ollio, I fratelli Sisters di Jacques Audiard, Beautiful Boy, Greta di Neil Jordan, Submergence di Wenders, All Is True di Branagh.

E gli italiani? Direte, forti di questa unione compatta e dei sovranisti contributi (P&A, lancio e copie) del ministero alla distribuzione estiva dei film nazionali, ci sarà la fila di titoli tricolori. Macché, in attesa (?) di quelli che potrebbero approdare dal festival di Cannes ai nostri schermi, solo si vedono due italiani: Il grande spirito di Sergio Rubini e Il signor Diavolo di Pupi Avati. Per carità, l’affiatamento semantico non si discute, ma echeggia il proverbiale “armiamoci e partite”. Ultima o penultima spiaggia che sia, il tentativo Moviement ancorché trionfalmente annunciato è nobile: certo, rimane da trovare gli italiani.

@fpontiggia1

“Sogni, sesso e cuori infranti”: la posta ha svelato le donne

Ci sono film che possono apparire rassicuranti commedie sentimentali e allo stesso tempo inquietanti tragedie che sfiorano l’horror. Dipende da come si ha voglia di osservarli e di conseguenza interpretarli. Il documentario Sogni, sesso e cuori infranti (Piccola posta parla) diretto da Gianfranco Giagni su soggetto e sceneggiatura Silvana Mazzocchi e Patrizia Pistagnesi è uno di questi.

Facciamo chiarezza. Fra gli anni 50 e 60 nascevano le rubriche di “posta del cuore” volte a signore e signorine sui settimanali d’attualità, costume & società, e moda a loro dedicati. Una profusione d’epistolari fra il serio e il faceto ampia quanto la gamma di questioni rivolte alle varie “addette ai lavori” dagli aristocratici pseudonimi di Contessa Clara e Donna Letizia, giusto per ricordare i più bizzarri. Coinvolti non erano solo i rotocalchi: gli accorati consigli “comportamentali” (anche quando non richiesti) abbondavano in programmi radiofonici e televisivi, complice – fra le migliori – l’inarrivabile ironia di Franca “Signorina Snob” Valeri che filtrandosi di una personalissima comicità offriva alle sue spettatrici un sottotesto sovversivo a una pratica non solo inutile ma anche rischiosa, e ahinoi destinata a sopravvivere.

Di fatto, la casa di bambole era ormai arredata: non esisteva casalinga disperata lungo l’intera Penisola che non avesse accesso al nuovo galateo per la donna moderna, o aspirante tale. E tutte, indistintamente, si (af)fidavano coi loro Sogni dentro o fuori dal cassetto. Dall’argomento serissimo (il delitto d’onore, le case chiuse) al più ingenuo (“ci si può lavare i capelli durante la gravidanza?”), da quello di vita pubblica (il suffragio universale alle donne, la loro partecipazione alle giurie processuali) a quello squisitamente intimo in cui – naturalmente – regnava sovrano il tema del sesso, questo mis-conosciuto. Le donne erano assetate di risposte attraverso quesiti che si moltiplicavano per effetto domino. Ma se fin qui la cronaca si tinge di rosa, il rovescio della medaglia è tristemente grigio se non totalmente nero. A dirla senza fronzoli è sempre l’acume di Pier Paolo Pasolini quando nel 1960 denunciò quanto “l’alienazione femminile italiana di tipo arcaico è semplicemente angosciante”. Così era, e le donne più o meno inconsapevolmente arrivavano a dichiarare che “l’unica cosa bella che ho” fosse il proprio organo sessuale. Allo stesso modo una trentenne che “non vuole maritarsi” si convinceva facilmente di essere annoverata nella categoria delle “spostate”; così procedendo madri, mogli, fidanzate e single (che i tempi volevano “zitelle”) somatizzavano frustrazioni, accumulavano nervosismi, si sottomettevano a privazioni e ingiustizie semplicemente perché così mediavano le soluzioni accomodanti delle esperte postine del cuore. Ha detto bene Natalia Aspesi rilevando che “per decenni le donne hanno scritto delle stesse angosce ottenendo le stesse risposte” ovvero “non-risposte” orientate al mantenimento dello status quo. Commedia o tragedia? Facile propendere per quest’ultima al netto dei retroscena elencati.

Eppure il film prodotto e distribuito prossimamente in Dvd dall’Istituto Luce Cinecittà sembra addolcire la pillola, con i suoi toni pink, il sorriso vivident di Anna Foglietta (narratrice iconica del doc), i briosi commenti musicali sembra portarci nell’altra direzione: ma attenzione l’inganno è dietro l’angolo, nulla è ciò che sembra e il testo diretto da Giagni è più intelligente di quanto appaia, sorta di ritratto di Dorian Gray formato confetto. Da allora le donne hanno raggiunto, almeno, consapevolezza ma la domanda resta ostinatamente aperta: cosa vuol dire essere veramente una donna emancipata in Italia? Stasera in premiere mondiale al MAXXI di Roma nell’ambito di Cinema al MAXXI – Extra Doc Festival a cura di Mario Sesti e poi in selezionati eventi circuitando l’Italia.

Sempre caro mi fu quel selfie con Giacomo

Un uomo vestito di nero, con il cappotto nero, la tuba nera e persino lo sguardo nero, attraversa a passo svelto le stradine del centro. Tutto intorno è deserto e silenzioso, quanto basta a generare un brivido. Ecco fatto, pensi, mi sono svegliata nel 1700 quasi 1800 e quello è Giacomo Leopardi. Tanto più che la signora polacca che vive qui da 30 anni e che da appena un mese ha aperto un B&B, ti sussurra solenne: “Ha visto il conte?”. “L’ho visto – rispondi timorosa – mi sembrava un figurante…”. “No, no, intendo quello” e punta il dito verso il giardino di fronte. Ci sono due uomini e un cane che gioca. Uno dei due uomini è il giardiniere. L’altro, con i lunghi capelli brizzolati raccolti in una coda, è il conte Leopardi. L’erede. Non Giacomo, perché Giacomo oggi ha appena 5 anni e di secondo nome fa Patrizio.

Domani Recanati diventa il centro delle celebrazioni italiane per la Giornata mondiale della Poesia. Proprio nell’anno in cui l’idillio Infinito compie 200 anni (scritto tra il 1818 e il 1819 e pubblicato per la prima volta nel 1826), nella città natale di Leopardi arriva il ministro dell’Istruzione Bussetti e sono in programma, fino a domenica, incontri, eventi, conferenze e spettacoli sul tema. Fino al 19 maggio nelle sale di Villa Colloredo Mells sarà esposto il manoscritto vissano del celebre componimento – con la correzioni a mano “infinità/immensità” – e già questo meriterebbe una visita.

Recanati è una lunga striscia di case antiche arroccate su un colle (ermo, appunto) e circondate oggi dalle costruzioni moderne e dalle villette che guardano il mare. A un’estremità del borgo c’è Villa Colloredo, all’altra Casa Leopardi e il Centro studi leopardiano. Sono entità distinte, anche se collaborano tra loro, perché – appunto – gli eredi del conte ci sono ancora, vivono ancora nell’immenso/infinito stabile fatto restaurare a suo tempo da Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, ne detengono i diritti e gestiscono le aziende di famiglia. “I Leopardi sono i nostri titolari”, ci fa sapere una dipendente del museum shop. “Nel senso nobile del termine?”. “No, nel senso che Casa Leopardi è una srl”.

Fino a una ventina d’anni fa, raccontano, la famiglia riusciva a gestire da sola il flusso turistico. Poi, con le proprietà e i terreni da mandare avanti e l’azienda agraria Conti Leopardi di San Leopardo, che produce vini, ha costituito una società vera e propria. “Alcuni di noi sono loro dipendenti – ci spiega una giovane guida – altri tre fanno parte di un’azienda di Ancona che ha vinto l’appalto”. Non c’è da scandalizzarsi, se già Adelaide Antici aveva salvato dalla bancarotta il marito spendaccione Monaldo e i dieci figli (molti dei quali morti in culla o giovanissimi).

Le visite alla biblioteca leopardiana e alla casa di Teresa (Silvia) Fattorini da poco ristrutturata sono guidate, quella al museo appena inaugurato – vi si ammirano gli oggetti del Nostro – è libera. Nonostante la magnificenza dei luoghi e la memoria letteraria degli studi classici, entrando nel palazzo lo sguardo si posa su un cartello tutt’altro che poetico: “Rimani in contatto e condividi il tuo selfie con noi #selfiecongiacomo”. Accanto, un piccolo vano incastonato dalla scritta “Selfie corner” all’interno del quale un busto del poeta e un piccolo scrittoio fanno da sfondo alla modernità dell’autoscatto. Sempre caro mi fu quest’ermo selfie, caro Giacomo. Profano al piano terra, sacro al primo, dove si cammina nel lungo corridoio soleggiato che unisce le tre sale dei 20 mila libri, compresi la biblioteca poliglotta che permise al Nostro di imparare autodidatta greco antico ed ebraico e allo scaffale dei volumi proibiti concessi in lettura dal Papa. “Monaldo voleva realizzare una biblioteca pubblica, ma nessun nobile del paese c’è mai venuto – illustra una guida con fare teatrale – quindi ci fece studiare i figli. Pensate, Giacomo traduceva Orazio quando non aveva ancora undici anni”. Lo scrittoio originale del poeta – piccolo, ma proporzionato al suo metro e 41 di statura – veniva posto davanti alle finestre a caccia della luce, perché Giacomo, oltre a soffrire di una forma di tubercolosi ossea, perse la vista ben prima di morire di colera a Napoli. Che fosse una famiglia sfortunata, quella di Monaldo e Adelaide, lo ricorda una signora in visita, che dopo la lunga lista di decessi senza eredi di Giacomo e i suoi fratelli, si lascia sfuggire un “Ahhh” liberatorio sapendo che almeno Pierfrancesco garantì la sopravvivenza dei conti. Il poeta ammirava Teresa/Silvia da una delle finestre, mentre la fanciulla – morta anch’ella a soli 21 anni – filava. “Questo era il suo letto e questi i suoi oggetti”, sentiamo raccontare nella casa dei Fattorini e poco importa se quegli arredi ottocenteschi sono stati solo ritrovati molti anni dopo in Casa Leopardi. L’importante è la suggestione, l’importante è il turismo (circa 70 mila le presenze nel 2017).

Tutt’intorno, infatti, il paese vive sulle spalle di Giacomo: monumenti e opere moderne (una statua dorata all’interno di una vetrina vuota nella piazza del Comune), cartelli stradali che indicano un otto rovesciato (l’infinito) o un uccellino (la torre del Passero solitario), trattorie che rievocano Il sabato del villaggio persino nel nome. E anche se la preoccupazione maggiore degli abitanti è la chiusura delle strade a causa della gara ciclistica Tirreno-Adriatico, le signore anziane in gita dall’Emilia si commuovono nel pensare al rapporto struggente tra Giacomo e sua madre. Perché “l’infinito non si può esprimere se non quando non si sente”, lui ne era convinto.

Utrecht, i messaggi di Tanis portano alla pista del terrore

“Pazzo, tossicodipendente, psicopatico, ma non un terrorista”. Così la vittima della violenza sessuale commessa nel luglio 2017 da Gokmen Tanis, 37 anni, ha descritto al giornale Algemeen Dagblad il suo violentatore; Tanis è anche il responsabile della sparatoria a Utrecht, due giorni fa, che ha provocato 3 morti e 5 feriti. Tanis era stato rilasciato l’1 marzo scorso in attesa del processo. Il profilo del pistolero di origine turca è quello di un delinquente comune: aveva più volte violato le condizioni della libertà vigilata, era stato condannato per altri reati tra cui taccheggio e furto con scasso, ma nessuno con sentenza definitiva. Eppure, gli investigatori olandesi ritengono ancora valida la pista del terrorismo; il fratello di Gokmen è conosciuto dai servizi di sicurezza per presunti legami con un gruppo radicale islamico turco. Inoltre, la polizia non ha stabilito “alcun legame” fra l’omicida e le vittime. Ci sono poi gli appunti di Tanis ritrovati sull’auto che ha utilizzato per la fuga; secondo alcuni media olandesi, l’assassino avrebbe scritto “di aver agito in nome di Allah” e salutato “i fratelli musulmani”.

Nazarbayev, dimissioni alla kazaka. Tutto il potere nelle mani della figlia

“Per trent’anni ho avuto l’onore di essere leader di questo paese. Ho deciso di porre fine ai mei compiti da presidente”. Era l’ultimo dinosauro del potere sovietico rimasto ancora in carica. Il presidente kazako Nursultan Nazarbaev ieri ha deciso di abbandonare il potere. “Ma non tutto”, spiega Mosca. Nazarbaev ha dato le dimissioni, ma rimarrà presidente a vita del potente Consiglio di Sicurezza e leader del suo partito, Nur Otan. A 78 anni, presidente di uno Stato che ne ha solo 27, rimarrà per sempre elbasy, leader della nazione, un titolo che gli è stato garantito nel 2010 insieme all’immunità a vita. Nazarbaev riesce ad andarsene pur rimanendo: “Popolo, rimarrò con voi, siete ancora la mia preoccupazione”. Lo stupore del Cremlino verso la decisione dell’alleato dura poco. “È un mudry, un saggio e se ha preso questa decisione inaspettata, vuol dire che era necessaria” ha detto la dama di ferro del Senato russo, Valentina Matvinenko. Nello stato tra i più ricchi di idrocarburi al mondo, milioni di ettari e solo 18 milioni di abitanti, la sintonia sotterranea dei tubi dei gasdotti tra Astana e Mosca rimane indissolubile. La capitale kazaka è rimasta fedele al suo primo partner commerciale, la Russia, anche negli ultimi anni di sanzioni, ma ora sente al pari il richiamo di Pechino che vuole rendere il Kazakistan snodo principale del progetto della Nuova via della Seta. Il presidente di questo stato in bilico tra la vecchia amica Russia e la nuova alleata Cina si è dimesso ieri in meno di un quarto d’ora, ma non altrettanto in fretta cambierà la natura delle alleanze.

Dopo la morte del presidente uzbeko Islam Karimov nel 2016, rimaneva l’ultimo superstite del Pcus. Nato nella periferia della vecchia capitale Alma Aty, dopo la ruggine degli impianti di metallurgia dove ha lavorato, Nazarbaev ha conquistato il potere nell’era comunista per abbandonarlo ieri in diretta tv perché “abbiamo bisogno di nuovi leader”, ha chiosato. Con un discorso durato 14 minuti, prima in russo, poi in kazako, ha ricordato gli sforzi compiuti dopo l’indipendenza in quegli anni ’90 di “collasso” per la dissoluzione dell’URSS. Ripetendo più volte la parola uspech, successo, ha sintetizzato i suoi tre decenni di potere in una versione idealizzata e la rinascita dalle ceneri del suo paese sotto la sua guida vigile. “È facile da dire oggi, ma solo la mia generazione sa quanto è stata dura”.

Mai compromissorio e spietato con il suo popolo, despota che ha fatto sparire i dissidenti e che ha divelto ogni volta il potere a suo vantaggio a colpi di diktat e kalashnikov, Nazarbaev aveva già chiesto lo scorso febbraio ai suoi collaboratori l’interpretazione dell’articolo costituzionale sulla fine anticipata del mandato presidenziale. Nello stesso febbraio cinque bambine sono morte in un incendio scoppiato ad Astana, mentre entrambi i genitori, poverissimi, erano al lavoro. Il loro funerale il giorno dopo è diventato una manifestazione dei lavoratori contro il governo e le proteste, non trasmesse dai media locali, si sono diffuse nel paese.

Adesso il potere passa temporaneamente al gregario di poltrona del presidente, che gli rimane accanto come un maggiordomo politico dal 1992. Studente a Mosca e poi a Pechino, fino a nuove elezioni, sarà capo del governo Kassym Jomart Tokayev, 65 anni. In seguito sarà forse proprio la stessa stirpe del presidente a sostituirlo. Il passaggio di testimone potrebbe privilegiare una delle tre figlie di Nazarbaev, la cantante d’opera dilettante e politica Dariga, già sua vice in passato. Oppure toccherà a Imangali Tasmagambetov, attualmente ambasciatore kazako in Russia. Ad alitare sul collo del successore, come burattinaio che assiste dalle quinte con i suoi posticci occhi a mandorla, e non più in primo piano, rimarrà lui, l’elbasy. La stella tiranna di Nazarbaev si è eclissata, ma non spenta.

Baghuz sta per cadere ma il Califfo è introvabile

Lorenzo Orsetti, nome di battaglia Tekosher, lottatore in lingua curda, non tornerá a Firenze, nemmeno per il proprio funerale. “Orso”, quando un anno e mezzo fa aveva deciso di andare in Siria per arruolarsi in prima linea nella brigata internazionale delle Forze Democratiche Siriane (Sdf), la coalizione curdo-araba-cristiana che si batte contro l’Isis dal 2014, era consapevole che probabilmente non sarebbe sopravvissuto. Per questo aveva dato ai compagni di lotta le disposizioni per la propria sepoltura sottolineando che avrebbe voluto una tomba nel Rojava, la zona nel nord-est della Siria a maggioranza curda.

Ma se anche avesse desiderato far seppellire le proprie spoglie nella città natale, ora non sarebbe possibile perché a Baghuz – la zona meridionale a oriente del fiume Eufrate, al confine con l’Iraq – dove è caduto è in corso l’offensiva finale e di conseguenza i suoi compagni correrebbero troppi rischi in una operazione di evacuazione della salma.

I portavoce delle Sdf hanno diffuso la notizia che Tekosher rimarrá nel luogo del suo estremo sacrificio assieme a coloro che sono morti e moriranno per far crollare l’ultima roccaforte dello Stato Islamico. Sotto questo pugno di terra arida e sabbiosa, nella rete di cunicoli scavati dai jihadisti sopravvissuti alla caduta di Mosul e Raqqa, potrebbe nascondersi al Baghdadi, il Califfo nero fondatore dell’Isis, di cui si sono perse le tracce da quasi due anni. È possibile che l’ex detenuto di Guantanamo sia ancora vivo e stia cercando di barattare la propria libertà in cambio del rilascio di prigionieri eccellenti. Secondo alcune fonti, di cui non è stata però comprovata l’attendibilità, tra questi prigionieri potrebbe esserci anche padre Paolo Dall’Oglio scomparso 6 anni fa a Raqqa. I curdi dell’Ypg, l’Unità di protezione popolare, spina dorsale delle Sdf, hanno smentito che il gesuita sia ancora vivo nelle mani dei tagliagole islamici.

Sono stati proprio i combattenti dell’Unità di protezione popolare a rilasciare le ultime informazioni su ciò che sta accadendo a est dell’Eufrate dove nel corso dell’ultimo mese di combattimenti sono fuoriusciti almeno 60.000 tra affiliati dell’Isis e i loro familiari. Secondo i guerriglieri curdi, Baghuz è stato sottoposto a un “rastrellamento totale” grazie anche al sostegno dei militari americani che dal 2014 ( anno dell’invasione di Kobane) sono alleati dell’Ypg contro l’Isis. Nonostante Trump lo scorso 19 dicembre avesse annunciato il ritiro degli ultimi 2.000 soldati ancora dispiegati in Siria adducendo come pretesto la “sconfitta totale dell’Isis”, il Pentagono non ha mai davvero implementato la decisione. E ora, nel momento topico della battaglia decisiva, soldati e jet americani stanno aiutando la fanteria curda a far capitolare gli ultimi guardiani dell’ex Stato Islamico. Un’evidenza che ha fatto infuriare il presidente turco Erdogan, che sostiene e finanzia l’Esercito Libero Siriano proprio contro i curdi dell’Ypg.

Le fonti curde affermano che durante il rastrellamento centinaia di miliziani feriti o ammalati sono stati catturati e trasferiti nel più vicino ospedale da campo. Le Sdf ha inoltre dichiarato che i combattenti dell’Isis che ancora non si sono arresi sono stati cacciati dal loro principale campo e sono stati messi all’angolo in un’area molto piccola sulle rive del fiume Eufrate. “Le Sdf controllano l’area del campo Daesh a Baghuz”, ha detto il portavoce Mustefa Bali su Twitter, usando l’acronimo arabo del gruppo estremista. “Questo non è un annuncio di vittoria, ma un significativo progresso nella lotta a Daesh”, ha aggiunto. Non è possibile sapere quanto i terroristi islamici rimasti possano resistere, ma secondo Bali continuano a rispondere agli attacchi. L’operazione lanciata oltre sei mesi fa è stata rallentata dalla presenza di civili, usati come scudi umani. Ci vorranno probabilmente ancora giorni, dato che dai tunnel continuano a uscire come topi decine di terroristi pronti a tutto. Molti foreign fighters nel frattempo sono riusciti a camuffarsi da profughi e ad andare in Turchia.

L’Internazionale contro l’Isis armata di kalashnikov e ideali

L’internazionale che combatte al fianco dei curdi è nata nel 2014 insieme alla resistenza contro l’Isis, soprattutto a Kobane, delle Unità di protezione del popolo Ypg e Ypj (le due sigle distinguono le truppe maschile da quelle femminili), di fatto l’unica forza militare nella regione dopo il ritiro delle truppe di Assad. Gli Usa non avrebbero preso Raqqa e distrutto gran parte dello Stato Islamico senza le truppe di terra curde che nel frattempo sono diventate Forze democratiche siriane.

L’arrivo dei giovani E qui arriviamo ai giovani che hanno deciso di combattere nelle file curde. Benedetta Argentieri, reporter di guerra e regista, li incontra per la prima volta nel 2014, mentre racconta la storia delle Ypj. I primi internazionali sono per lo più statunitensi, ex soldati che avevano combattuto in Medio Oriente, delusi da come erano andate le cose. Poi, si trova di tutto: l’ex conduttore televisivo di safari, l’attore, l’ex modella in cerca di notorietà, l’anarchico ultra-quarantenne, l’ultracattolico.

Alcuni di questi uomini portavano in dote disciplina e formazione che ai curdi servivano come il pane. Uno di loro organizzerà, grazie all’esperienza nei marines, un’officina di autoproduzione di bombe anticarro. Gli internazionalisti cresceranno fino a diventare qualche centinaio, in media combattono tre-quattro mesi e poi vengono invitati a scegliere. Alcuni rimangono, altri ritornano a casa.

Quelli raccontati in Our War, il film da noi prodotto nel 2016, sono rappresentativi di questa prima ondata, spontanea, fatta di passaparola e un po’ di avventura. Sono i foreign fighters al contrario. Karim Franceschi da Senigallia è forse il più conosciuto e attivo. Tornerà in Siria, nel 2016 e nel 2017, e combatterà con la Brigata internazionale. Ferito nella zona di Raqqa da una granata, rientrerà in Italia.

Una “brigata internazionale della libertà” promossa dal Partito Comunista Marxista Leninista turco, fuorilegge per Ankara, era già attiva dal 2015, ma nel 2017 comincia a raccogliere diversi europei e non, accomunati dall’anticapitalismo. Lorenzo Orsetti è probabilmente caduto con altri quattro combattenti di questa unità, a pochi giorni dalla vittoria definitiva contro l’Isis. Era entrato in Siria nell’ottobre 2017 e faceva parte della seconda ondata di militanti, la più numerosa.

All’inizio del 2017 i comandi curdi non hanno più bisogno di “uomini”, ma di mezzi, quindi gli internazionali vengono sempre più usati come megafono della resistenza: così in Svezia o in Gran Bretagna alcuni ex combattenti diventano noti al grande pubblico grazie a iniziative pubbliche, a documentari e trasmissioni tv. La mediatizzazione alimenta anche il passaparola tra i volontari e si moltiplicano gli arrivi, persone che vanno ad aiutare la ricostruzione, militanti innamorati della rivoluzione del Rojava (come i curdi chiamano le regioni settentrionali della Siria) e del progetto di “democrazia senza Stato”. Arrivano anche ragazzi e ragazze che vogliono combattere per la rivoluzione, l’unico paragone storico è con le brigate internazionali della Guerra di Spagna, anche se allora era il movimento operaio a raccogliere fondi. Oggi sono soli a farlo, senza altra rete che quella Internet. A guardare i martiri, registrati tutti con nome vero e di battaglia, video di saluto in caso di morte, foto commemorativa, sembrano davvero una multinazionale.

La seconda ondata Nella seconda ondata si conta il maggior numero di italiani, una trentina, almeno quattro donne, in stragrande maggioranza ispirati da motivi ideali, di solidarietà antagonista e anticapitalista. Vengono dai centri sociali e dal mondo anarchico. I volontari, non percependo alcuno stipendio o rimborso o contributo, vanno da soli in Rojava e tornano più poveri di prima. Non sono mercenari, né tecnicamente, né concettualmente. Non fanno arruolamento, anzi la maggior parte di loro sconsiglia l’esperienza perché potenzialmente devastante. Perché ci sono tanti modi per portare solidarietà e aiutare il Rojava e i curdi, e combattere non è per tutti. Finora le Procure li avevano solo “sentiti” o comunque monitorati. Perché non c’è un reato. Mentre in altri Paesi europei, come la Spagna o la Danimarca, vengono perseguiti. Finora nessun “italiano” era stato ucciso.

 

* Giornalista a Radio Popolare e autore con Benedetta Argentieri e Bruno Chiaravalloti di Our War, ha prodotto il documentario I am the Revolution.