AMatteo Renzi serve un ottimo avvocato. No, per carità, cosa andate a pensare? Mica perché sia accusato di qualcosa: è che noi, caldamente, gli consigliamo di fare causa per danni alla Commissione Ue. E che è successo? Dirà il lettore. Una cosa enorme. Ieri la Corte Ue ha dato torto alla Commissione: i soldi usati dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), che sono delle banche, per aiutare Popolare Bari a caricarsi la disastrata Tercas su “invito” di Bankitalia non erano aiuti di Stato. E che c’entra Renzi? C’entra. All’epoca Padoan e Bankitalia s’inventarono una soluzione tampone (cambiarono maglietta al Fidt e da “obbligatorio” lo fecero “volontario”) ma per il futuro decisero di piegarsi alla scelta di Bruxelles. Risultato: per Etruria e le altre tre “banchette” il povero Matteo – tra incompetenza, subalternità culturale, conflitti di interessi e relativa coda di paglia – fu condotto al mezzo bail in di fine 2015 senza rendersi conto di cosa avrebbe significato e cioè che non solo gli azionisti sarebbero stati azzerati, ma anche altre migliaia di piccoli risparmiatori; senza contare il seguito, scontato, del crac delle due venete e di Mps e del crollo in Borsa del settore (-60% in pochi mesi). Ora si scopre che fu un errore: non erano aiuti di Stato, Bruxelles aveva torto, si poteva fare senza far male a nessuno. E fosse solo quello: adesso magari con questa sentenza a Berlino danno una mano fischiettando alla fusione tra DB e Commerzbank. Dovrebbe o no Renzi incazzarsi come una biscia e querelare la Ue e, già che c’è, pure Visco e Padoan?
Verona pro family, il premier Conte ritiri il patrocinio
La non notizia di ieri sul fronte Verona, la città per la vita dove tra una decina di giorni si svolgerà il congresso mondiale delle famiglie, è che il segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, interpellato in proposito abbia dichiarato “siamo d’accordo sulla sostanza”. E se non desta stupore il fatto che la Chiesa si allinei su queste posizioni, molta preoccupata meraviglia suscita invece il patrocinio della presidenza del Consiglio concesso alla manifestazione che ospita relatori internazionali portatori di tesi piuttosto violente. Per chiarire di cosa parliamo: ci sarà Dmitri Smirnov, arciprete della Chiesa ortodossa russa che ha definito “assassine e cannibali” le donne che decidono di abortire. Il tono della manifestazione è dunque anche questo. Negli infuocati giorni di vigilia gli organizzatori gridano alla persecuzione: “Non solo non si doveva organizzare un Congresso sulle famiglie ma i papà, le mamme e i bambini non devono avere ospitalità negli hotel di Verona secondo la dittatura del pensiero unico, ragion per cui è iniziato il boicottaggio dei partner dell’iniziativa” spiegano denunciando alle autorità episodi in cui alcuni albergatori di Verona sono stati raggiunti da telefonate intimidatorie. Denuncia alla quale ci uniamo: ci mancherebbe che gli albergatori negassero l’ospitalità, sarebbe gravissimo. Ciò non toglie che altre parti del comunicato facciano accapponare la pelle: “Noi come i neri ai tempi della segregazione. Ci dovremo sedere sui posti in fondo negli autobus o dovremo girare con segni di riconoscimento?”. Insomma: la politica avvelena il clima e alimenta un odio folle, favorendo – attenzione alla metafora – una “moderna caccia alle streghe pro family”.
Come sempre più spesso accade il governo sulla questione è spaccato: tre ministri (il vicepremier Matteo Salvini, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, quello della Famiglia Lorenzo Fontana) saranno presenti, mentre i colleghi 5 Stelle hanno espresso posizioni fortemente critiche, riassumibili nella non elegantissima ma piuttosto efficace definizione dell’altro vicepremier Luigi Di Maio (la destra degli sfigati). E vabbè sai che novità: è solo l’ultimo tema su cui i due alleati di governo si dividono. Qui però bisogna capire sulla base di cosa il patrocinio della presidenza del Consiglio dei ministri sia stato concesso, visto che lo si dovrebbe dare a “iniziative di alto rilievo culturale, sociale, scientifico”. Sul tema c’è stato un rimpallo di responsabilità tra Palazzo Chigi e il ministero della Famiglia che ha portato in un vicolo cieco. Il patrocinio è rimasto, almeno finora, ben visibile sul sito ufficiale. Ma è giusto che un evento in cui si mettono apertamente in discussione leggi dello Stato come quella sull’aborto (già messa in discussione di fatto in molte regioni italiane da un’obiezione di coscienza talmente diffusa da non garantire i diritti delle donne) venga patrocinato dal governo? No, e visto che la via amministrativa non ha portato da nessuna parte, il presidente del Consiglio dovrebbe provare senza indugi quella politica e ritirare il patrocinio. Il medioevo, se di questo si tratterà come certi toni fanno supporre (tra i relatori c’è chi equipara omosessualità e satanismo), può andare in scena perché la libertà di manifestazione del pensiero è tutelata dalla Costituzione. Basta che non succeda sotto l’egida del governo. Che rappresenta tutti i cittadini, comprese le donne “assassine e cannibali” e i satanisti.
Più che un esproprio proletario, un esproprio ai proletari: la flat tax
La velocità con cui è ripartito il trenino della flat tax è direttamente proporzionale alla velocità con cui si avvicinano le elezioni europee. Dopo le felpe geolocalizzanti e le divise delle forze dell’ordine, Salvini si veste da commercialista (bacioni!) e si rivolge al corpaccione scontento del ceto medio italiano (un bel regalone, amici!).
Si tratta di un dibattito altamente teorico, come dire che faremo un cinema sulla luna, ma parlarne tiene vivo il fuoco, sposta Salvini dal tema immigrazione/sicurezza – dove ha preso tutto quello che poteva prendere – al tema silviesco per eccellenza: meno tasse per tutti, con una certa progressività all’incontrario, cioè si favoriscono i più ricchi. Così come è scritta e ipotizzata nei sogni leghisti (e scritta nel contratto di governo), diciamo la versione hard della flat tax, costerebbe più o meno 60 miliardi, il settanta per cento dei quali (più di 40) andrebbero al venti per cento più ricco della popolazione. Più che un esproprio proletario, un esproprio ai proletari.
Oltre alle questioni costituzionali, di cui, ahimé, parlano in pochi (la progressività della tassazione non sarebbe un dettaglio), ci sarebbe il caro vecchio conto della serva. Con 23 miliardi da cacciare in pochi mesi per evitare l’aumento dell’Iva, altri miliardi (parecchi) per rifinanziare quota 100 e reddito di cittadinanza, l’ipotesi che si tirino fuori altri 60 miliardi è abbastanza peregrina, è come andarsi a comprare una Porsche per festeggiare il rosso in banca.
Naturalmente già si parla di varianti, correzioni, gradualità, equilibri, ridisegni e insomma tutto il campionario delle parole vuote per dire che non sarà così: la Lega e i suoi economisti (Signore perdonami) avanzano nuove proposte. Per esempio una flat tax sotto i 50.000 euro di reddito familiare (che sarebbero più o meno l’80 per cento dei contribuenti) e il resto come prima, cioè come adesso. Ma è solo un giro dei tanti giri di valzer che vedremo sul tema: sventolare dei soldi prima delle elezioni (il gioco del portafoglio col filo, che ti scappa via mentre lo raccogli) è una tradizione italiana a cui non rinunceremo mai. E insomma quel che interessa a Salvini, per il momento, è tenere vivo l’argomento in modo da arrivare alle Europee non solo vestito da poliziotto, ma anche da Robin Hood dei ceti medi.
Vorrei però porre da subito una questione, come a dirlo prima e mettere le mani avanti. Una domanda. Si scatenerà anche in questo caso la corsa ai furbetti come fu per il reddito di cittadinanza? Cioè: anche davanti a una riforma che premia i redditi medi ci sarà la caccia grossa al truffatore, al millantatore, a chi se ne approfitta? Eppure il motivo ci sarebbe: sapendo che con un reddito di 50.000 euro paghi il 15 per cento, chi te lo fa fare di denunciarne 51.000 e pagare il 38 per cento? A dirla veloce, un sincero e cordiale incoraggiamento a lavorare in nero, o a non dichiarare tutto, almeno quel che ti porterebbe sopra la soglia fissata per la flat tax. Sarà interessante vedere se si riproporrà la grande canea esplosa quando si parlava di dare soldi ai più poveri: il divano! I furbetti! E via strepitando. Una specie di linciaggio della parte meno protetta della popolazione accusata a gran voce di fregare soldi a tutti.
Altro effetto collaterale (ma mica tanto) con la nuova flat tax “versione popolare” ventilata dalla Lega c’è il rischio che due stipendi in casa facciano varcare alla famiglia la fatidica soglia, e quindi, per motivi fiscali, conviene se lavora solo uno, e la moglie sta a casa, lava, stira, cucina e fa i bambini. E insomma ecco là la famiglia come la vogliono la Lega, il ministro Fontana, il convegno di Verona, Pillon e il Ku Klux Klan. E questo è Salvini vestito da commercialista, perché nulla ci verrà risparmiato.
Incapaci di ribellioni, ci restano i funerali
Al mio paese oggi c’è il vento che ti soffia pure nella testa, istiga i nervi, ti sbatte contro la tua carne, ti fa nemico di te stesso. Siamo qui per il funerale affollatissimo di un ex vigile urbano molto stimato.
Una bella occasione per guardare tutti assieme gli abitanti. Ho visto come sono, come siamo. Credo di aver capito. Non è più popolo, non sono poveri e non sono ricchi, non sono buoni e non sono cattivi. Non contano le caratteristiche singole. Parlo della pasta di cui siamo fatti. Non mi interessa pesare le differenze.
Oggi non vedo differenze, ma un corpo unico, il corpo dell’uomo intermedio. Non è un eroe, non si farebbe bruciare per difendere le sue verità. Non morirebbe per mettere una bomba. Non è terrorizzato dal riscaldamento globale. Ha una vaga idea di Dio, come di un vecchio mal di denti. Non contano tanto neppure gli anni passati. Sembrano tutti dentro un quarantesimo anno sterminato. Più che le facce, ho notato giubbini scadenti. Le nuvole erano grigie, erano fatte col grigio dei capelli che il vento portava in alto. Non c’era un’aria drammatica e neppure lieta. Ognuno tornava a casa, ognuno convinto che lo spazio esterno oggi era necessario attraversarlo per andare al funerale. Non ci sono molti motivi per uscire. Non sei convocato dagli angeli e neppure dai demoni.
I ragazzi che stasera si ubriacheranno non sono tanto diversi dai padri che faranno la cena con la televisione e la famiglia reumatica. Le facce hanno tutte lo stesso sapore di chi non ha mete collettive da perseguire. E quelle individuali vengono perseguite con poca convinzione, giusto perché non si sa che altro fare. Una nuova macchina la puoi pure prendere, oppure un nuovo telefonino, ma sono cose che non scintillano nella mente degli altri: tutti sanno che possono impressionare un poco gli altri solo con la propria morte. Tutti sono abbastanza affaticati e annoiati e tutti hanno il sapore della morte in fondo alla gola. Il cibo non serve a nutrire, ma a dimenticare la morte. In questi mesi al paese sono morti una decina di maschi che non erano vecchi. La morte ha fatto un’ispezione nella mezza età e ha deciso di punire chi non era in regola. Chi rimane non lo dice, ma si sente braccato. Il prossimo potrei essere io. Nei prossimi anni non si intravede nessuna rivoluzione, ma solo altri decessi.
Le persone che stamattina escono dalla chiesa non sono nemici da combattere, ma non sono neppure alleati. Li puoi trovare a cena, verranno volentieri al tuo funerale, ma non aspettarti molto di più. Non sono egoisti e neppure solidali. Non hanno Dio sotto le unghie, nessuno di loro studia da tiranno. Non sono persone da condannare, non sono pericoli. È gente che tira ad allungare la sua vita e non importa se è un poco ammaccata e non ha niente di luccicante. Non c’è vigliaccheria, diserzione dalla storia. Semplicemente la manutenzione della propria giornata è diventato un compito molto faticoso.
Invecchiare con lentezza, questo è il traguardo prevalente. L’uomo appenninico del terzo millennio somiglia all’uomo delle pianure tedesche o americane. È solo appena un poco più povero, ma la sostanza è la stessa, stesse le mete e i compiti. Non c’è più il contadino dei riti magici e non c’è il brigante.
Io stamattina vedevo nelle facce il sollievo di aver dato le condoglianze dopo una lunga fila. Il compito risolto è come stringere un bullone allentato. Il resto della giornata può proseguire con faccende comunque piccole. Ognuno le sue, nessuno che possa interferire, che possa richiederti coerenza e rigore: già c’è l’affanno a giustificare ogni vita. La rivoluzione qui nelle retrovie non si è mai fatta e ora non si fa neppure nelle grandi città: l’utopia ha perso i denti e non interessa neppure ai ragazzi. Basta consumare qualcosa contro la noia, giusto per avere qualcosa da fare. Neppure la merce è un mito. Bisogna aggiornare continuamente il giudizio: appena cogli un difetto, ecco che non lo trovi più, il difetto si è spostato da un’altra parte. E poi devi allenarti anche a cogliere una tiepida bontà, perfino qualche piccolo fervore provvisorio.
Le persone che stamattina escono dalla chiesa non hanno opportunismi feroci, hanno furbizie di piccola taglia, non godono di privilegi clamorosi. Non ci puoi fare la rivoluzione, ma meritano rispetto, non ha senso essere irriverenti con loro, non ha senso fustigarli. Prima o poi dovrai andare al loro funerale e loro verrano al tuo. Non è un mondo nuovo e neppure un mondo vecchio, è quello che diventiamo tutti ogni giorno semplicemente perché non riusciamo a diventare altro.
Mail box
Mogol e la Siae dovrebbero proteggere tutti gli artisti
Scrivo in merito alla email inviata da Mogol (presidente Siae) a tutti i propri soci, sposando la proposta dell’on. Morelli che chiede “che le radio italiano debbano riservare almeno un terzo della loro programmazione alla produzione musicale italiana, opera di autori e artisti italiani, incisa e prodotta in Italia”. Nel mondo della musica, in cui lo spazio per le produzioni indipendenti (tra Talent e radio omologate) è già estremamente ridotto, ho trovato questo messaggio un segnale pericoloso per la libertà d’espressione. La Siae dovrebbe tutelare di fatto i propri soci e mandatari proteggendo le loro opere. Nella mail, invece, si parla di “difendere” solo parte di essi. Mi chiedo, quindi, come mai si avalli una proposta illegittima che creerebbe un caso anticostituzionale e contrario alla libertà di ogni imprenditore. Già le radio si somigliano tutte e i network sono costretti a trasmettere le solite hit imposte dalle Major. Per portarle un esempio, solo Radio1, RMC e Radio Capital hanno trasmesso gli Adika Pongo (band italiana presente in molteplici playlist internazionali di cui sono produttore/musicista).
Temo, quindi, che Mogol abbia intenzione di abbandonarci in questa “terra di mezzo” ove ci troviamo insieme a tanti colleghi, ledendo il già esile legame con l’Italia. Dove andrebbe a collocare noi autori e produttori (che ci sveniamo a fronte di risicati introiti vista l’esigua presenza sui citati canali di divulgazione di massa) che investiamo in collaborazioni internazionali cercando di rendere l’Italia artisticamente cosmopolita? Mogol si occupi piuttosto di diritti sulle piattaforme digitali (che hanno avuto sì il merito di divulgare tanta musica, ma al contempo diminuito drasticamente i proventi) che non del tentativo di imporre i dettami politici mascherati da buoni propositi. Allora sia l’Italia un Paese libero di trasmettere “buona” musica, come in tutte le Nazioni e senza i dettami dell’ennesimo Talent Show (che qui determinano classifiche e programmazioni radio). E noto, ahimè, pochissimi colleghi “fare muro” contro questa iniziativa. Mi piacerebbe, invece, che i grandi autori italiani si affrancassero dalla posizione di chi ha incassato fino ad oggi la SIAE molto più del dovuto (vedere Report di qualche tempo fa) e si schierino compatti contro questa proposta. Ma temo che il popolo italico lotti per i diritti solo qualora non vengano lesi i propri privilegi.
Costantino Ladisa
I media non hanno capito
la rabbia della gente
Ho parcheggiato la macchina di fronte alla sede della Caritas per aspettare un amico del mio Paese, nel nord del Salento.
Ebbene, sono rimasto basito dal numero di persone costrette a chiedere il sussidio alimentare (mi dicono settimanalmente) perché non ce la fanno a tirare avanti: sono veramente poveri, senza nessuna prospettiva di lavoro, e pregano qualche amministratore perché li faccia lavorare un mese (voto di scambio). Però quello che alimenta rabbia è vedere gli immigrati nei supermercati riempire il carrello con ogni ben di Dio e pagare con i buoni comunali, perché ci sono migranti che si gestiscono da soli con 40 euro al giorno, somma che a me non la danno di pensione dopo 50 anni di lavoro, e badi che non sono razzista, ma questo stato delle cose lascia da pensare.
Da qui i suffragi per Salvini, che molti media non vogliono capire, compreso il Fatto.
Antonio Perrone
Chissà perché i cittadini
non votano più per Berlusconi
Visto che Berlusconi continua a offendere i cittadini che non lo votano, ho seguito il suo consiglio e mi sono guardato allo specchio. Ho chiesto: “Ma perché gli italiani non lo votano più?”. Risposta: “Perché è un coglione!”.
Giuseppe Ostellari
Caro Ostellari, e pensi a quelli che continuano a votarlo!
Marco Travaglio
Lorenzo Orsetti è morto
Aveva vissuto come un eroe
Lorenzo Orsetti era un cuoco fiorentino di 33 anni. Un anno e mezzo fa decise di lasciare il suo lavoro ed andare in Siria a combattere i jihadisti al fianco dei curdi dell’Ypg. Era chiamato Tekosher, ossia Lottatore. Proprio i jihadisti lo hanno ucciso in un conflitto a fuoco. Nel suo testamento Lorenzo scrive che se ne sarebbe andato col sorriso sulle labbra, felice di aver combattuto per una giusta causa. Il padre, anche se disperato, lo ricorda con orgoglio. La guerra è una delle cose peggiori che esistano. Ma l’Isis è male puro e va debellato. È questione di cultura della convivenza e di civiltà. Lorenzo Orsetti è morto da eroe. E spero venga ricordato come tale.
Cristian Carbognani
Sono tempi duri, ed è difficile
credere a un futuro migliore
Abbiamo in questi anni due coincidenze terribili per il nostro pianeta: l’allarme di un’emergenza climatica e una delle classi dirigenti a livello mondiale fra le peggiori cui potessimo ambire.
Oggi bisognerebbe soltanto che le menti più avanzate in tutti i campi del mondo si riunissero per deliberare una strategia globale per salvarci. Ma penso proprio sia utopia.
Mauro Stagni
Una domanda legittima: “Ma il governo dove troverà i soldi?”
Leggendo qua e là, già iniziano i bombardamenti sulla prossima Finanziaria, dove dovremo trovare qualche decina di miliardi di euro per non fare ulteriori debiti, e per questo vorrei dare qualche suggerimento terra terra. 80 euro (circa 10 miliardi); nazionalizzazione di tutte le autostrade (circa 6 miliardi); chiusura delle missioni militari in Iraq e Afghanistan (circa 1 miliardo); blocco acquisto F-35 (mi pare 10 miliardi) e così via. Tutti interventi a costo zero senza considerare il Tav, dove ci sono altri risparmi. Ma è così difficile?
Mario Placidi
Sì, è così difficile. Intanto perché lei, caro lettore, commette lo stesso errore di tanti economisti da bar o da social: confonde spese ricorrenti (strutturali) con altre una tantum. Il fatto che il Tav provochi uno sbilancio negativo di 7 miliardi nell’analisi costi/benefici che valuta l’opera sull’arco di vita di mezzo secolo, non significa affatto che cancellandolo si possano spendere 7 miliardi nel 2020 per finanziare qualcos’altro. È uno spreco, ma non si possono sommare le mele con le pere, diceva il mio professore di matematica: per finanziare una spesa strutturale come, per esempio, il reddito di cittadinanza ci vogliono coperture strutturali. E il Tav non lo è. Lo stesso vale per gli F-35: si comprano una volta sola. Quindi cancellando l’acquisto – ammesso che sia possibile nei tempi e nei modi che lei suggerisce – si può al massimo finanziare una spesa una tantum da 10 miliardi. Le autostrade sono già pubbliche, ma date in concessione a privati. Come si evince dal fatto che sette mesi dopo il crollo del ponte Morandi nessuno abbia idea di che fine abbia fatto il progetto del premier Conte di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia, togliere la gestione ai privati è difficile. Anche perché hanno avuto un tale peso sulla politica negli ultimi vent’anni che le regole sono scritte per tutelare i loro interessi, non quelli dello Stato.
Discorso diverso per gli 80 euro: valgono 10 miliardi all’anno. I partiti che li hanno criticati dovrebbero avere il coraggio di revocarli. Non l’hanno fatto per finanziare il Reddito di cittadinanza e Quota 100, ora ipotizzano di dirottare parte delle risorse per finanziare una iniqua e insostenibile flat tax, poco flat per le famiglie. Le ricordo, poi, che prima di preoccuparsi di come spendere soldi che non ci sono, bisognerebbe trovare 23 miliardi per evitare l’aumento automatico dell’Iva e 18 per compensare le privatizzazioni che il governo ha promesso ma non ha intenzione di fare. Dove troveranno questi soldi? Io non lo so.
Stefano Feltri
Fiumicino, 700 accompagnatori turistici rischiano il posto di lavoro
Circa settecento accompagnatori turistici dell’aeroporto di Roma Fiumicino rischiano il lavoro. Alcuni di loro lo hanno già perso, per tutti gli altri sarà questione di mesi. Una crisi inaspettata che è scattata a metà febbraio, dopo una decisione presa dalla società Aeroporti di Roma su impulso delle autorità aeroportuali: questi operatori non potranno più essere ammessi nelle cosiddette “aree sterili” dello scalo. Si tratta di quelle zone aeroportuali che si raggiungono una volta superati i controlli di sicurezza, quindi con ingresso consentito solo a determinati soggetti attraverso una rigida politica di autorizzazioni. Fino a un mese fa, gli accompagnatori turistici erano inseriti tra i soggetti che potevano chiedere il rilascio del tesserino. Per loro quel permesso era strettamente necessario, in quanto incaricati a svolgere attività nei pressi dei gate e dell’area per il ritiro bagagli. C’è chi assiste gli anziani che atterrano a Roma per imbarcarsi in crociera, per fare un esempio, o gli studenti che partecipano a scambi culturali. Insomma, utenti che hanno bisogno di aiuto fin dal loro arrivo. Gli accompagnatori ora potranno operare solo nelle zone aperte al pubblico e questo li porterà a perdere il lavoro o comunque la principale fonte di guadagni, sostiene l’Agilo (associazione che riunisce le guide e gli interpreti turistici). Cosa che è già successa per quelli con il lasciapassare scaduto, mentre quelli che ne hanno uno ancora valido non potranno rinnovarlo al prossimo giro.
Questa è la novità contenuta nel nuovo Regolamento di scalo, che è stata giustificata con il bisogno di adeguarsi a un regolamento europeo e di riorganizzare gli accessi ed evitare abusi. La mannaia, però, ricadrà su tutti. “Per accedere a quelle aree – spiegano dall’Agilo – l’accompagnatore deve essere in possesso di un’apposita tessera rilasciata a seguito della frequenza di corsi e il superamento di esami dedicati, con un esborso di denaro fino a ieri ricompensato dalla possibilità di prestare fondamentali servizi di assistenza ai clienti”. Insomma, lamentano anche la beffa di aver dovuto spendere tempo e soldi per ottenere licenze che ora si rivelano inutili. Questi addetti sono liberi professionisti e hanno rapporti con le agenzie di viaggio e i tour operator; proprio in questi mesi si preparavano all’avvio della stagione turistica. “La situazione rimane drammatica. Il mancato rilascio della tessera – aggiungono – comporta il fatto di non poter più onorare gli impegni contrattuali già assunti”. Essendo lavoratori autonomi, non hanno diritto agli ammortizzatori sociali. Per questo si dicono pronti a portare in tribunale l’Enac e Aeroporti di Roma se non correggeranno la decisione.
Autobrennero, lo Stato ricattato dai politici locali
Il ministro Toninelli si era adoprato per offrire agli enti pubblici (prevalentemente altoatesini) azionisti della Autobrennero una nuova concessione di 30 anni, senza gara, ma l’accordo è di nuovo in stallo perché, incredibilmente, quegli enti non ritengono le condizioni offerte sufficientemente favorevoli. È una telenovela emblematica del potere dei concessionari autostradali in Italia.
L’autostrada fu costruita a cavallo degli anni 70 e finanziata interamente a debito, per lo più con garanzia dello Stato. Gli azionisti non hanno mai versato capitali se non per importi simbolici. Verso la fine degli anni 90 l’autostrada era stata pressoche interamente ammortizzata, i debiti rimborsati e col flusso dei pedaggi la società aveva anche accumulato notevoli attività finanziarie. Uno splendido investimento per gli azionisti, anche se avessero restituito l’autostrada allo Stato/concedente a fine concessione, nel 2005.
Non avendo altre opportunità di investimento nel settore autostradale, per non chiudere i concessionari si sono rivolti agli investimenti su rotaie. Hanno sedotto il “partito del ferro”, i tanti che considerano sempre e comunque “sacro” qualsiasi investimento in ferrovie, e sono riusciti a far infilare nella finanziaria 1997 (governo Prodi) un comma che gli consentiva di detrarre dal reddito tassabile una quota dei proventi per accumularli in un fondo destinato al rinnovo della ferrovia del Brennero. Peccato però che nel comma si indicava sì la destinazione, ma non si specificava a chi sarebbe appartenuto quel fondo. La società, rivendicandone la proprietà, usa da tempo il rilascio di questi fondi (oggi circa 600 milioni) come arma di ricatto verso lo Stato per ottenere il rinnovo della concessione. È paradossale che proprio grazie alla costituzione del “fondo ferrovia” l’Autobrennero abbia poi ottenuto un’altra proroga della concessione, gratuita e senza gara, dal 2005 all’aprile 2014 (un regalo da 6-700 milioni, considerando gli utili nel periodo).
Il ministro Tremonti, in previsione della scadenza del 2014, conscio delle capacità di pressione dei parlamentari espressi dai territori con enti pubblici azionisti, fece inserire per legge l’obbligo per l’Anas di pubblicare il bando di gara per la riassegnazione della concessione, stabilendo anche un importo modesto (70 milioni l’anno) che avrebbe dovuto essere versato allo Stato sino al pagamento del prezzo della concessione. L’Anas ritardò la pubblicazione del bando e scrisse un testo che pareva costruito apposta per escludere qualunque altro concorrente che non fosse il “vecchio” concessionario. Non contenti, gli azionisti dell’Autobrennero riuscirono, mediante tattiche dilatorie, interventi di deputati amici e vari ricorsi al Tar, a vanificare persino la norma approvata per legge ed hanno continuato a gestire l’autostrada con sostanziosi profitti fino ad oggi. La società, sempre in utile (82 milioni nel 2017) ha accumulato un patrimonio netto di 780 milioni e ha liquidità per oltre un miliardo di euro (dati fine 2017).
Finalmente, nel 2016 questi indomiti concessionari riuscirono a individuare il modo di appropriarsi “per sempre” della concessione, senza gara: sostenendo che a fine concessione lo Stato aveva il diritto di gestire in proprio l’infrastruttura senza doverla rimettere a gara, e di svolgere il servizio in house. Giustissimo, ma a che titolo lo Stato avrebbe dovuto “regalare” questo diritto (che per 30 anni vale parecchi miliardi al netto di quanto verrà pagato allo Stato) a degli enti locali in una Regione tra le più ricche e già avvantaggiata fiscalmente? Lo Stato italiano è incapace di creare un veicolo per gestire in proprio un’autostrada? Accettare il principio che ogni regione possa accampare “diritti di passo” sulle reti che attraversano il suo territorio sarebbe nefasto.
In un protocollo del 2016 il ministro Delrio concordava di estendere di 30 anni questa concessione, a condizioni favorevoli per il concessionario, alla sola condizione che venissero liquidati i soci privati (circa il 14% del capitale) e la società fosse interamente pubblica. Questa condizione non si è verificata, forse perché appariva più comodo agli azionisti continuare a gestire in proroga ed incassare profitti.
Il ministro Toninelli ha ritenuto di mantenere l’assegnazione della concessione 30ennale agli enti pubblici attuali azionisti ma ha fatto approvare dal Cipe l’obbligo per il concessionario di versare allo Stato un indennizzo parametrato agli utili conseguiti durante il periodo di proroga. Decisione sacrosanta ma contro la quale si sono scagliati gli enti concessionari, forse per il timore di dover rinunciare a un decimo del miliardo accumulato a oggi.
Toninelli ha poi demandato all’Art (Autorità di regolazione dei trasporti) il compito di stabilire i pedaggi per la nuova concessione e l’Autorità ha fatto un ottimo lavoro, definendo finalmente regole chiare per l’applicazione del price cap, pur continuando ad assicurare buoni e sicuri profitti al concessionario. Ma agli enti pubblici altoatesini non sono piaciuti i parametri stabiliti dall’Art: abituati a lauti guadagni a fronte di nessun investimento, ora fanno difficoltà ad accettare di venire remunerati in proporzione del capitale effettivamente versato. Col rischio di dover ridurre i pedaggi oggi in vigore!
Si è aperto così un nuovo contenzioso. A riprova del potere e dell’arroganza dei concessionari che possono permettersi di aspettare l’arrivo di un altro ministro più compiacente. Non riusciremo mai a scalfire questa sacca di rendite finché lo Stato non si attrezzerà per gestire in proprio le concessioni che scadono e non ci sarà un governo capace di riprendersi davvero una concessione senza riproporla in gara.
Crediti malati, da Strasburgo il colpo ai cittadini più in difficoltà
Il prossimo 1 aprile il Parlamento europeo voterà la direttiva che istituisce un mercato dei crediti deteriorati (Npl) i cui impatti sono preoccupanti e imprevedibili. Mancano circa 9 settimane alle elezioni europee, e all’ultimo minuto, relatori Gualtieri (Pd) e de Langhe portano alla votazione un testo con una formulazione complessa, farraginosa e, soprattutto, senza alcun corredo di una doverosa valutazione di impatto. Il confezionamento del testo ha avuto una gestione opaca: pubblicato sul sito europeo nella versione emendata solo il giorno 12 marzo. Lo scenario del credito, in particolare del credito ammalorato, verrebbe così farraginosamente rivoluzionato da una direttiva che più che rivolgersi al sistema economico viene invece urgentemente incontro alle pressioni e necessità dei grandi fondi speculativi che puntano, ovviamente, a monetizzare il prima possibile gli imponenti acquisti fatti all’ammasso e a prezzi stracciati, realizzati direttamente dalle banche. Gli istituti, soprattutto in Italia, sono stati costretti alla vendita da un meccanismo punitivo per i crediti ammalorati applicato dalla Bce, in maniera ossessiva nella presunzione (fallace, perchè mai dimostrata) che le banche si risanino se buttano il cliente consumatore che ha difficoltà di rimborso nelle fauci della speculazione finanziaria. La cecità della Bce è totale sui derivati finanziari in pancia alle banche ma è penetrante e ossessiva sugli Npl, quando invia reiteratamente ai cda degli istituti letterine che intimano, nell’ambito della ristrutturazione, la loro vendita a qualunque prezzo. Insomma, l’Europa tutta non è preparata a questo rivolgimento indotto dalla direttiva, come non era preparata all’introduzione della direttiva sul Bail in che fu anch’essa approvata dal precedente parlamento europeo quando era agli sgoccioli, sulla base di una situazione emergenziale enfatizzata. Il caso pare ora riproporsi con gli Npl. Questa direttiva aggrava la soluzione punitiva per gli istituti di credito e danneggia ancora i cittadini europei più in difficoltà, con conseguenze sociali e anche economiche non valutate. La speranza è che il Parlamento Ue non la voti.
Così l’austerity ha massacrato Comuni e Regioni
Negli ultimi 20 anni, mentre la spesa pubblica dell’amministrazione centrale aumentava, a pagare il conto del regime fiscale europeo sono state le amministrazioni locali, enti che gestiscono i due terzi degli investimenti pubblici. Dal Patto di Stabilità interno introdotto nel 1999 al Fiscal compact del 2014 e al pareggio di bilancio introdotto in Costituzione, le regole di governance economica hanno via via ridotto l’autonomia finanziaria delle amministrazioni decentrate.
Vincoli di spesa, come quello che impedisce di usare gli avanzi di bilancio dell’anno precedente (saldo tra entrate e uscite non negativo in termini di “competenza”) e tagli che non potendo incidere più di tanto sulla spesa corrente (stipendi, acquisto di beni e servizi) hanno colpito gli investimenti. Un insieme di norme che, secondo uno studio dell’istituto di ricerca Eurispes, commissionato dal Movimento 5 Stelle, e che sarà presentato oggi al Parlamento europeo, dal 2013 hanno portato gli investimenti netti dell’Italia in territorio negativo. Vuol dire che non solo sono diminuite le nuove opere, ma non si è provveduto alla manutenzione necessaria per mantenere il valore del capitale fisso pubblico (edifici, strade, ponti e via dicendo), con gli immaginabili rischi e disagi connessi. Gli investimenti di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni nel 2017 hanno toccato il minimo storico degli ultimi 40 anni, con una contrazione del 9,1%. E non è un problema di mancanza di risorse spendibili. Proprio nel 2017 l’insieme dei Comuni doveva centrare l’obiettivo previsionale di un saldo negativo di 127 milioni di euro tra entrate e spese. Al momento del rendiconto si è certificato un eccesso di risparmio di 33,3 miliardi; in altre parole erano potenzialmente subito spendibili 5,3 miliardi di euro. Le Regioni che presentano la percentuale maggiore di Comuni con risultato di gestione positivo sono Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Sardegna e Umbria; in fondo alla classifica Abruzzo, Marche, Lazio, Puglia e Molise.
Che l’austerità deprima l’economia, e soprattutto quelle con alti debiti, lo ha ammesso dal 2012 anche il Fondo monetario internazionale.
Alla fine dell’anno scorso due stimati economisti, Olivier Blanchard (ex capo economista dello stesso Fmi) e Jeromin Zettelmeyer (ex direttore generale per le Politiche economiche del ministero tedesco dell’Economia), parlando dell’Italia hanno riconosciuto che le politiche del rigore del governo Monti nel 2012 hanno rallentato la produzione di quasi il 2%. Secondo i due, anche in un Paese con elevato debito pubblico sono le politiche fiscali espansive che fanno aumentare la crescita, mentre quelle restrittive la deprimono. La ricerca dell’Eurispes suggerisce come proprio lo sblocco della capacità di spesa degli enti locali possa essere uno strumento di rilancio dell’economia. Per Laura Agea, capo delegazione del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo, “questo rapporto aggiunge un nuovo tassello alla proposta del Movimento, su una nuova Europa capace di adattarsi e cambiare le proprie normative per essere vicina ai bisogni dei cittadini e dei territori. Congelare gli investimenti nei vincoli di bilancio è stata un’operazione masochistica, che ha messo in ginocchio il sistema Paese”.
Da notare che la legge di Bilancio 2019, consentendo agli enti locali di utilizzare parte degli avanzi finora bloccati grazie all’abolizione di alcuni vincoli sull’avanzo di amministrazione, ha consentito nei primi due mesi del 2019 di realizzare un +84,9% di spesa effettiva in conto capitale delle Regioni, rispetto allo stesso periodo del 2018, e un +21,8% dei Comuni, con conseguente sblocco di appalti e investimenti.