Banche, Rossi paga per tutti e deve lasciare Bankitalia

La guerra dichiarata dal governo gialloverde alla Banca d’Italia si conclude con un armistizio italian style. Per salvare il suo pupillo Luigi Signorini – provvisoriamente azzoppato da Luigi Di Maio sulla strada di un nuovo mandato nel direttorio di Bankitalia – il governatore Ignazio Visco ha sacrificato il direttore generale Salvatore Rossi, offrendo la sua testa come segnale di pace al vicepremier M5S. Di Maio è contento, il Quirinale ha benedetto lo scambio di doni. Rossi, dopo settimane di febbrili consultazioni ai massimi livelli, ha capito che erano tutti d’accordo per farlo fuori perché il suo sacrificio era la cosiddetta “quadra”.

Esaurita con esito negativo la ricerca di uno spiraglio, Rossi ha affidato a una primaria società di pubbliche relazioni l’annuncio della sua “indisponibilità” a un secondo mandato nel direttorio e come direttore generale. La forma scelta è quella della commossa lettera di saluto ai dipendenti di Palazzo Koch e dell’Ivass (la vigilanza sulle assicurazioni di cui il direttore generale della Banca d’Italia è presidente), peraltro con due mesi di anticipo sull’effettivo addio fissato per il 9 maggio.

Il commiato è gonfio di veleno. Nella lettera viene ignorata l’esistenza stessa di Visco e degli altri membri del direttorio (Fabio Panetta e Valeria Sannucci). Significativa è anche la scelta di una società esterna per l’annuncio, tagliando fuori la struttura di relazioni esterne di Bankitalia con la quale Rossi ha sempre avuto un rapporto notoriamente stretto. Sgarbo ripagato dai comunicatori di Visco: l’addio del direttore generale è stato ignorato dal sito ufficiale di Bankitalia, sul quale ieri sera la notizia principale era ancora la vibrante “Prefazione del Governatore al volume di Rainer Masera”.

L’aspetto più beffardo della vicenda è comunque l’uso da parte di Rossi della formula “indisponibilità a un secondo mandato”, esattamente quella che avrebbe dovuto sfoderare Visco nell’estate del 2017, quando il premier Paolo Gentiloni si era messo d’accordo con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedere al governatore il fatidico passo indietro. In quell’occasione, secondo la ricostruzione di Gentiloni, Matteo Renzi fece l’errore di rendere pubblica la sua richiesta di cambio della guardia in via Nazionale, costringendo di fatto Quirinale e Palazzo Chigi a “difendere l’indipendenza” di Bankitalia e rinviare ad altra occasione l’appuntamento con il rinnovamento dell’istituto.

L’errore più tragico lo fece però proprio Rossi che – vedendo Visco in difficoltà a causa degli errori gravi, reiterati e ormai evidenti della vigilanza bancaria – propose baldanzosamente la sua candidatura per la successione. In quel momento i suoi rapporti con il governatore – inopinatamente confermato per un secondo mandato di sei anni – si sono irrimediabilmente incrinati.

Quando il Consiglio dei ministri, per iniziativa di Di Maio, ha bloccato la nomina di Signorini per un secondo mandato nel direttorio, è stato subito chiaro che il conflitto aperto, codici e pareri legali alla mano, era sconsigliabile. A quel punto Visco ha capito che poteva prendere due piccioni con una fava, presentando il conto al numero due e offrendo a Di Maio un cambio della guardia a livello della direzione generale, che sul mercato politico vale parecchi punti. In questo modo il governatore ha protetto dagli attacchi governativi il suo tallone d’Achille, il capo della vigilanza Carmelo Barbagallo, mai chiamato a spiegare i disastri combinati negli anni della crisi bancaria. E infatti è proprio la poltrona di Barbagallo che Rossi avrebbe voluto mettere in discussione, aumentando l’attrito con Visco. Adesso la strada della direzione generale è spianata per Fabio Panetta, mentre arriverà in direttorio il Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco, rendendo la sua poltrona disponibile per gli appetiti governativi.

Rossi lascia molti orfani non solo dentro la Banca d’Italia ma anche fuori. Il più inconsolabile, dicono a Palazzo Koch, è l’amministratore delegato della Popolare di Bari Vincenzo De Bustis.

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Attaccare o dialogare: il dilemma dei governi su Amazon e Google

La riscossa degli Stati contro quegli Stati paralleli che sono diventati Amazon, Google, Facebook e Microsoft è iniziata. Finora i risultati sono scarsi, ma lo scontro tra politica e business del web sarà uno dei temi cruciali della campagna elettorale americana del 2020: l’aspirante presidente democratica Elizabeth Warren vuole smantellare le recenti acquisizioni che hanno rafforzato il potere di Facebook, Amazon e Google. E Facebook ha pensato bene di bloccare il post in cui la Warren lanciava la proposta, giusto per confermare che un problema c’è.

Per un po’ i governi dei Paesi industrializzati hanno pensato che il problema si sarebbe risolto da solo, come in passato. Xerox, Ibm, Microsoft, MySpace, Altavista, Nokia: l’innovazione ha sempre generato vincitori che parevano destinati al monopolio eterno e poi li ha abbattuti in pochi anni. Il dimenticato motore di ricerca Altavista è stato dominante solo per un biennio, Myspace (antenato di Facebook) all’apice della sua parabola aveva 100 milioni di utenti ed è stato comprato da News Corporation per 580 milioni. Oggi su Facebook ci sono più di due miliardi di persone e il valore della società è di 470 miliardi. Le nuove piattaforme non si limitano più a offrire servizi ai consumatori digitali ma (attraverso i loro dati) possono condizionarne le preferenze. L’innovazione – che ora passa per l’intelligenza artificiale – sembra destinata a consolidare questi monopoli, invece che a rimetterli in discussione.

Nel 2017 la Commissione europea ha multato Google con 2,4 miliardi di euro perché abusava della propria posizione dominante come motore di ricerca per spingere gli utenti a usare il suo sistema di comparazione tra prodotti da acquistare online, a danno di servizi concorrenti. Nel 2018 la Commissione, sempre con la commissaria all’Antitrust Margrethe Vestager, ha sanzionato Google per altri 4,3 miliardi perché imponeva ai produttori di telefoni che volevano avere le app di Google Play di installare anche altri servizi Google. A novembre la Germania ha lanciato una indagine antitrust su Amazon, per verificare se e quanto la società di Jeff Bezos abusa del suo potere per imporre condizioni vessatorie ai produttori tedeschi che vogliono vendere sul sito. Dall’Australia, all’agenzia Usa di tutela dei consumatori all’Ocse, un po’ tutti si stanno interrogando su come la politica deve regolare queste piattaforme.

Elizabeth Warren, 69 anni, senatrice democratica del Massachusetts, ha proposte radicali. A differenza del suo rivale per la nomination nel 2020, il “socialista” Bernie Sanders, la Warren vuole combattere le disuguaglianze con gli strumenti del mercato, invece che con tasse e redistribuzione. Il punto fondamentale per la Warren è trattare Amazon, Facebook e Google come utilities, sul modello dei settori dell’energia e delle telecomunicazioni liberalizzati negli anni Novanta. Chi controlla la Rete, non può offrire servizi in concorrenza con altri che devono pagare per accedervi. È il principio che in Italia abbiamo applicato con successo all’energia (la rete di Terna è separata dalla distribuzione di Enel, Acea, ecc.). Nel caso di Telecom Italia, invece, dopo vent’anni, ancora paghiamo i costi di aver lasciato la rete dentro la società che lo Stato ha privatizzato. La Warren vuole che tutte le aziende con più di 25 miliardi di dollari di fatturato si limitino a essere “piattaforme”: Google può continuare a fare il motore di ricerca, ma deve vendere tutti i business collaterali, come i servizi pubblicitari di Ad Exchange. Se non lo fa, il governo federale deve poter multare la società fino al 5 per cento del suo fatturato annuo. Per raggiungere l’obiettivo, la Warren vuole anche smantellare importanti acquisizioni recenti che vanno nella direzione opposta: quelle di Whole Foods e Zappos da parte di Amazon, quella di WhatsApp e Instagram comprate da Facebook, quelle di Waze, Nest e DoubleClick da parte di Google. Anche Steve Bannon, il consigliere che ha aiutato Donald Trump ad arrivare alla Casa Bianca nel 2016, voleva la guerra ai monopoli digitali da trattare come utilities. Lui ha perso il lavoro e Trump non sembra considerare il tema una priorità.

Il governo inglese valuta un approccio meno bellicoso. Il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond si è affidato a un professore di Harvard, Jason Furman che ha riunito un gruppo di esperti. Nel rapporto Sbloccare la concorrenza digitale, pubblicato nei giorni scorsi, Furman suggerisce alla politica di trattare coi giganti del web, invece di smantellarli col maglio dell’antitrust (anche se nota con preoccupazione che su 400 acquisizioni negli ultimi anni nessuna è stata contestata da qualche autorità della concorrenza). Il governo inglese dovrebbe “adottare regole chiare per limitare i comportamenti anticompetitivi delle piattaforme digitali e ridurre le barriere strutturali che oggi ostacolano una concorrenza reale”. Queste regole dovrebbero poi tradursi in “specifici codici di condotta”. Costringere Google, Facebook e Amazon a discutere regole e limiti e poi a rispettarli è uno sforzo dall’esito incerto.

Più realistico applicare le altre raccomandazioni del rapporto Hammond: permettere ai clienti un maggiore controllo sui loro dati, fino alla “portabilità” da un servizio all’altro, e prevedere anche che questi diventino pubblici, tutelando la privacy ma permettendo a nuove imprese di entrare in competizione con quelle che oggi sono dominanti anche in virtù dei dati che possiedono. L’email è uno standard che si è affermato sul mercato nell’interazione tra utenti e imprese – nota il rapporto – ma la portabilità del numero di telefono che ha innescato la concorrenza tra operatori e abbattuto le tariffe è frutto di un intervento legislativo a livello europeo. Di misure equivalenti nel settore delle piattaforme digitali, però, al momento non se ne vedono.

Alan Krueger, il suicidio e la sua eredità

Ogni suicidio racchiude un mistero incomprensibile a chi resta. Ma alcuni suicidi sono più incomprensibili di altri, come quello di Alan Krueger, che si è ucciso nel weekend a 58 anni. Chi crede nella funzione pubblica degli intellettuali ha visto in questi anni in Krueger un esempio forse inarrivabile: economista di grande successo accademico a Princeton, disposto a scendere nell’arena della politica quando necessario, consigliere economico prima di Bill Clinton poi di Barack Obama, con un talento da divulgatore (ha inventato “la curva del grande Gatsby” che spiega come la disuguaglianza di reddito può ridurre la mobilità sociale tra generazioni), aveva anche una vena pop che lo ha portato a studiare l’economia del rock. Il tutto sempre accompagnato da una grande curiosità intellettuale che lo spingeva a interessarsi dei cambiamenti della società – da Uber a tutta l’economia del digitale – e da una carica progressista: il suo studio più famoso è quello che ha contestato il preconcetto diffuso tra gli economisti che l’introduzione del salario minimo determini un aumento della disoccupazione. Chi ha incrociato Alan Krueger nei suoi passaggi in Italia, al Festival dell’Economia di Trento, lo ricorda come uno tra i più solari e disponibili frequentatori di quel consesso in cui ci sono parecchi accademici che finiscono per scambiare i mezzi (l’analisi econometrica) per il fine (la comprensione della realtà e, in rari casi, la capacità di cambiarla). Forse la famiglia di Krueger troverà una spiegazione a questa morte così difficile da decodificare. I suoi colleghi economisti possono soltanto farsi carico della sua eredità: in un’epoca in cui i competenti sono guardati con sospetto e l’ignoranza viene esaltata, servono più accademici come Krueger, capaci di farsi capire e di incidere sul mondo che studiano. Limitarsi a qualche tweet sarcastico e convegno per predicare ai convertiti, come fanno tanti economisti, gratifica l’ego ma serve a poco.

Condotte, i 14 milioni in Algeria che fanno litigare i commissari

Un commissario vicino al Vaticano è stato nominato (con il solito metodo del sorteggio) dal ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, per ricostituire il terzetto che guida Condotte. Gianluca Piredda, commercialista di 56 anni in passato ha ricoperto ruoli importanti soprattutto all’epoca di Tarcisio Bertone e Giuseppe Versaldi, dall’Idi alla Mater Olbia. Piredda sostituisce Alberto Dello Strologo, che si era dimesso a inizio marzo. I compensi dei tre commissari, secondo le stime più prudenti, dovrebbero superare alla fine della procedura i 3 milioni di euro a testa. Dello Strologo era stato scelto il 6 agosto, come gli altri due commissari, Matteo Uggetti e Giovanni Bruno, con un sorteggio, partendo da una rosa di cinque nomi per ciascun commissario. A cosa si deve l’addio a sorpresa? Al Fatto risulta che avrebbe manifestato perplessità sul pagamento da parte del capo cantiere locale di 14 milioni di euro ai creditori di Condotte in Algeria. Dall’altro lato sarebbe stato sollevato nei suoi confronti il tema di un credito vantato da una società partecipata da Condotte nella quale lui stesso aveva rivestito un ruolo in potenziale conflitto di interessi.

I pagamenti per 14 milioni nei confronti di decine di fornitori riguardavano rapporti precedenti alla gestione commissariale e quindi potrebbero in astratto violare la regola della par condicio tra i creditori. Insomma, qualcuno potrebbe chiedersi perché – parafrasando Salvini – per una volta dovrebbe valere la regola “prima gli algerini”. Una fonte vicina ai commissari rimasti fa notare però che la regola del blocco dei pagamenti soffre talvolta delle eccezioni nelle procedure dove si punta alla continuità aziendale, come l’amministrazione straordinaria, per proseguire l’attività. La valutazione di queste condizioni però dovrebbe essere fatta dai commissari e dal giudice. In questo caso, invece, pare che al giudice nessuno abbia chiesto nulla prima.

Mentre Dello Strologo chiedeva lumi sui pagamenti algerini, gli altri due commissari, Bruno e Uggetti, lavoravano alla stesura della relazione sulle cause del dissesto di Condotte. E in questa ricognizione della fase pre-crisi è stato inserito un riferimento scomodo per Dello Strologo. Fino a pochi giorni prima della sua nomina in Condotte da parte di Luigi Di Maio, il commissario era stato liquidatore di una partecipata: la Intermetro. Certo, era stato nominato in quota del socio di minoranza, Ansaldo, e non in quota Condotte. Certo, si era già dimesso e aveva dichiarato subito quell’incarico nel curriculum sul sito di Condotte. Però Intermetro, quando Dello Strologo ne era liquidatore, aveva chiesto a Condotte (senza ottenerli) due milioni di euro che la capogruppo deteneva in deposito e Intermetro voleva indietro. Ora proprio Dello Strologo si trovava dall’altra parte della contesa. La situazione, per quanto dichiarata, poteva metterlo in imbarazzo e il commercialista si è fatto da parte. Prima dell’insediamento di Piredda, i due commissari superstiti, Giovanni Bruno e Matteo Uggetti, intanto, hanno proposto al giudice delegato all’amministrazione straordinaria un’istanza di autorizzazione al pagamento dei fornitori algerini. In realtà il capo cantiere di Condotte Algeria, l’ingegnere Donatangelo Pierdomenico, ha già pagato debiti pregressi per circa 14 milioni di euro. I commissari hanno chiesto però al giudice Francesca Vitale, di autorizzare oltre a quelli già fatti, anche altri pagamenti per 10 milioni di euro.

I commissari non hanno risposto alle nostre domande in merito. Parla invece, dall’Algeria, Donatangelo Pierdomenico: “Io ho fatto quel che dovevo fare. Se l’obiettivo era salvaguardare le commesse e i soldi di Condotte, non potevo fare altro. Non ci stavano pagando da oltre un anno e ci avrebbero sbattuti fuori se non avessimo pagato i fornitori che avevano diritto”. I giuristi sanno che il tema della crisi d’impresa transnazionale è molto complesso. Pierdomenico la spiega così: “Il contratto è gestito dalla legge algerina. I contraenti e i rappresentanti dei loro contraenti (come lo stesso Pierdomenico, ndr) sono tenuti a rispettare la legge locale, salvo che non ci siano accordi pregressi in senso contrario, ma non era questo il caso”. Condotte in Algeria è impegnata in due cantieri che valgono un miliardo di euro. La costruzione dell’autostrada e della ferrovia a media velocità Oued Tlelat-Tlemcen. “Quando i commissari mi hanno chiesto se era possibile incontrare il ministro algerino – spiega Pierdomenico – ho fissato un incontro. In Algeria siamo benvoluti ma è grazie al rispetto degli impegni reciproci che ci pagano”.

Tra i creditori già pagati in Algeria ci sono anche un avvocato, un supermercato e un hotel del posto. Tra quelli che devono invece essere ancora pagati e che si sono messi in fila insinuandosi a Roma nello stato passivo di Condotte (per 1,3 milioni di euro) troviamo il Consorzio italiano che ha lavorato in Algeria, Giugliano Costruzioni Campolo. L’amministratore Sossio Del Prete spiega: “In realtà il nostro credito è maggiore. Noi vantavamo crediti in dinari algerini, e per quelli siamo stati pagati, dopo avere fatto la causa, in Algeria. Poi contavamo crediti in euro e, pur avendo ottenuto anche in Italia il decreto, siamo in attesa che ci paghino e ci siamo insinuati allo stato passivo. In Algeria i fornitori sono tutelati meglio che in Italia”. Ora sarà la giudice Vitale a stabilire se i pagamenti algerini dovevano essere autorizzati.

Bollette telefoniche a 28 giorni, rinviati ancora i rimborsi

Ancora un nulla di fatto sulla questione della tariffe telefoniche a 28 giorni: il Consiglio di Stato ha rinviato a fine maggio la decisione sui rimborsi dovuti ai milioni di clienti che per oltre un anno (da metà 2017 a metà 2018) sono stati costretti a pagare una mensilità in più all’anno ai gestori che avevano deciso di modificare la tariffazione di tutti i piani. Ma la questione non riguarda la correttezza dei rimborsi, ma le modalità con cui erogarli. Il Consiglio di Stato aveva, infatti, congelato i rimborsi, confermati dal Tar del Lazio, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza del Tribunale amministrativo. Motivazioni che non sono mai arrivate (almeno quelle relative a Tim), ed è questa la ragione del rinvio. Eppure sul tipo di modalità di ristoro per i clienti vittima della tariffazione a 28 giorni, l’Agcom è stata chiara, con tanto di ok da parte del Tar Lazio: i giorni erosi (in media 20-22) devono essere restituiti sotto forma di sconti in bolletta o sotto forma di servizi o agevolazioni compensative. La restituzione del maltolto sarebbe dovuta avvenire nella prima bolletta del 2019, ma sotto Natale era arrivata la doccia fredda del Consiglio di Stato. E ora i consumatori dovranno attendere ancora.

Fusione Deutsche-Commerz, i dubbi della vigilanza della Bce. La Merkel smentisce sul ruolo del governo

“Una decisionetra due imprese private su cui il governo non deve intervenire”: così ieri la cancelliera tedesca Angela Merkel ha commentato la possibile fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank, una operazione che di fatto farebbe incorporare una banca malata (Deutsche) a una in salute e partecipata dello Stato, darebbe il via alla più grande fusione bancaria europea e, soprattutto, aggirerebbe il bail intanto voluto dalla stessa Merkel. Poco prima Joachim Wuermeling, membro del consiglio esecutivo della Bubdesbank, aveva detto che la Bundesbank e le autorità di vigilanza “sono neutrali”, che “il settore sta vivendo cambiamenti strutturali” e che il ruolo della vigilanza “è controllare i requisiti regolamentari” ovvero “un modello di business sostenibile e solido”. Più esplicito Andrea Enria, presidente del Consiglio di vigilanza bancaria della Bce: “Non amo l’idea dei campioni nazionali, dei campioni europei – ha detto al FT –. Quando sei la Vigilanza, non dovresti promuovere un particolare obiettivo strutturale”. Negativa l’opinione di uno dei consiglieri economici del governo, Isabel Schnabel. “La garanzia dello Stato, che è azionista in Commerzbank con il 15%, crescerebbe perché una banca così grande non si può lasciare fallire, la minaccia graverebbe sui contribuenti”.

Tercas, non fu aiuto di Stato Schiaffo alla Ue sulle banche

La sentenza riguarda un caso specifico: il salvataggio della Cassa di risparmio di Teramo (Tercas). Ma l’impatto va ben oltre: riscrive le regole Ue sugli aiuti di Stato agli istituti di credito e la storia delle crisi bancarie degli ultimi cinque anni, con l’Italia impegnata in un kamasutra giuridico che ha dilatato i tempi e si è concluso con l’azzeramento dei soldi di migliaia di piccoli investitori e il disastro politico del governo Renzi.

Ieri il tribunale Ue ha annullato la decisione della Commissione europea, che aveva giudicato come aiuto di Stato l’intervento del Fondo di tutela dei depositi (Fitd) per il salvataggio di banca Tercas nel 2014. Il Fitd versò alla banca abruzzese (in amministrazione straordinaria dal 2012) 265 milioni a copertura delle perdite per permettere l’acquisizione – caldeggiata dalla Banca d’Italia – da parte della Popolare di Bari. Il Fitd è il fondo che deve rimborsare i depositati sotto i 100mila euro in caso di fallimento di un istituto. Per Bruxelles si trattava di aiuti di Stato, perché l’operazione era guidata dal governo e i soldi erano pubblici visto che tutte le banche devono versare obbligatoriamente per legge la loro quota al Fondo. Il tribunale Ue ha stroncato questa linea: la Commissione non ha dimostrato il ruolo dello Stato; il Fitd è un ente di diritto privato che ha agito nell’interesse delle sue consorziate; e l’intervento rientrava nella possibilità, legittima, di poter intervenire in situazioni di crisi per evitare di dover pagare un costo più alto in caso di liquidazione della banca.

Bruxelles potrà fare appello alla Corte di Giustizia europea, ma intanto la sentenza è uno schiaffo alla linea tenuta finora sulle crisi bancarie italiane dalla direzione Concorrenza guidata da Margrethe Vestager, che ha avuto un impatto dirompente. L’Ue ha bocciato l’aiuto a Tercas a dicembre 2015, costringendo il Fondo ad aprire un braccio volontario per rimborsare la Popolare di Bari, ma il suo “no” risultò determinante nel far fallire l’utilizzo del Fitd anche per salvare Banca Etruria, Banca Marche, CariFe e CariChieti, le cui operazioni erano già partite. Per oltre un anno e mezzo, le trattative per convincere Bruxelles, portate debolmente avanti dal governo italiano – in persona del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – si schiantarono sul muro europeo. Alla fine a novembre 2015 il governo Renzi mandò le 4 banchette in “risoluzione”, con l’azzeramento non solo di 120 mila azionisti, ma anche di 12 mila obbligazionisti subordinati, in ossequio alle norme Ue sugli aiuti di Stato, dando poi avvio al balletto dei rimborsi (che continua tuttora).

Secondo il presidente del Fitd, Salvatore Maccarone, l’uso del Fondo avrebbe comportato una spesa per il settore bancario di 2,2 miliardi. Il conto della “risoluzione” è stato invece di quasi 5 miliardi. Tutto per ripulire le 4 banche e regalarle per 1 euro a Ubi (Etruria, Marche e CariChieti) e Bper (CariFe). Curiosamente, il manager chiamato a gestire la cessione dei 4 istituti, Roberto Nicastro, verrà eletto vicepresidente di Ubi all’assemblea del prossimo 12 aprile.

Nessuno sa se alla fine il conto del salvataggio col Fitd sarebbe cresciuto lo stesso. Resta però il punto che si è perso tempo (fattore chiave nelle crisi bancarie) e il salasso dei piccoli investitori ha terremotato il settore. Non solo. Nelle disastrose trattative con l’Ue, portate avanti dal Tesoro (con il supporto della Banca d’Italia) venne fissato per decreto un “prezzo” assai basso per i crediti deteriorati delle 4 banchette (Bankitalia, peraltro, prima stabilì che valevano il 17,6%, cioè che per ogni 100 euro prestati se ne potevano recuperare solo 17,6, e poi scoprì che era il 22%) che automaticamente diventò quello di riferimento per l’intero comparto bancario: in Borsa perse oltre il 60% in pochi mesi.

Lo stesso balletto si è ripetuto con Popolare di Vicenza e Veneto banca, poi regalate a Intesa Sanpaolo con una dote pubblica di 5 miliardi dopo il disastro del Fondo Atlante, messo in piedi dalle banche per ricapitalizzare gli istituti. Ai critici che contestavano la linea troppo accomodante con Bruxelles, motivandola con le ambizioni di Padoan a ottenere un incarico europeo, Renzi ribatteva di aver messo in piedi le acrobazie giuridiche proprio per evitare l’applicazione delle regole Ue. Salvo poi, a disastro compiuto, addossare la colpa alla sola Banca d’Italia.

La possibilità di usare i fondi di garanzia dei depositi avrà importanti implicazioni per la gestione delle crisi bancarie in tutta Europa. Proprio mentre in Germania si dispiega il salvataggio della banca NordLb che coinvolge il fondo interbancario delle Sparkassen, e si discute la fusione disperata tra Deustche Bank e Commerz. E indebolirà la posizione di Bruxelles che ha fermato i rimborsi ai truffati decisi dal governo sospettando aiuti di Stato. Per il presidente dell’Abi, la Confindustria delle banche, Antonio Patuelli “Vestager deve dimettersi e Bruxelles rimborsare risparmiatori e banche per gli errori commessi”. Stessa linea del sindacato Fabi e di tutte le forze politiche. Pop Bari annuncia che chiederà i danni alla Commissione.

Roma, la dipendente assenteista se la cava: solo 10 giorni di stop

Niente licenziamento, solo dieci giorni di sospensione. E in più, c’è pure il pagamento di tutti gli stipendi non percepiti nell’ultimo anno di allontanamento dal lavoro. Si chiude così la vicenda giudiziaria di Letizia Beato, la dipendente del Comune di Roma licenziata il 19 maggio del 2017 per assenteismo, in applicazione del decreto Madia contro i “furbetti del cartellino” ma poi reintegrata dal giudice. Ieri davanti alla sezione lavoro del tribunale si è arrivati a una conciliazione: il Comune di fatto ha rinunciato al “licenziamento”, accontendandosi di “sostituire la sanzione espulsiva con la sanzione conservativa”. In poche parole, un buffetto: la pena consisterà nella sospensione del servizio e della retribuzione per dieci giorni. In compenso, la Beato ha ottenuto dal Campidoglio il pagamento di tutte le retribuzioni non percepite, pari a circa 12 mesi. La donna nell’aprile di due anni fa era stata sorpresa fuori dagli uffici comunali di via della Greca, da dove si era allontanata, senza timbrare, per recarsi al bar a prendere una camomilla. Tutto dimenticato.

“Concorsi truccati”: interdetti da sei mesi a un anno otto professori universitari

Irregolarità nel reclutamento triennale di ricercatori e professori e un concorso di neurochirurgia il cui vincitore era designato a tavolino. Per questo ieri otto docenti universitari dell’Università di Firenze, sei dei quali operano all’ospedale di Careggi, sono stati interdetti per una durata che va da sei mesi ad un anno dai loro incarichi istituzionali e dalla loro presenza in commissione d’esame. Il provvedimento è stato notificato dal gip di Firenze, Anna Liguori, e riguarda alcuni dei più importanti medici dell’Ospedale fiorentino: i Professori Mirco Santucci, Massimo Innocenti e Domenico D’Avella sono stati interdetti per un anno mentre Gabriella Pagavino, Nicola Pimpinelli, Gianni Virgili, Franco Servadei e Alessandro Della Puppa per sei mesi. I reati contestati vanno dal falso in atto pubblico all’abuso d’ufficio, a quello di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente. Il gip Liguori ha rigettato la richiesta di interdizione per l’ex prorettore dell’ateneo Paolo Bechi e per i prof Donato Nitti e Roberto Delfini perché ormai in pensione. Rigettata anche la richiesta per il chirurgo Fabio Chianchi “per assenza di sufficienti gravi indizi di colpevolezza”. Sono i nuovi sviluppi di un’inchiesta partita a gennaio 2018 dopo un esposto in Procura del professore associato di Otorinolaringoiatria, Oreste Gallo. Quest’ultimo prima aveva presentato un ricorso al Tar per chiedere l’annullamento del concorso e poi, dopo aver inviato una lettera di denuncia al rettore Luigi Dei, aveva deciso di rivolgersi direttamente alla Procura di Firenze. Nell’ordinanza di interdizione c’è anche una mail inviata da Gallo il 22 gennaio 2018 al rettore Dei, che però non risulta indagato né mai intercettato direttamente, e ai colleghi del dipartimento in vista del collegio che si sarebbe tenuto due giorni dopo per decidere i criteri del concorso. L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Tommaso Coletta, ha ricostruito una serie di condotte che comporterebbero la violazione dei regolamenti di ateneo nella programmazione dei concorsi. Il giudice parla di “logica spartitoria nella scelta dei soggetti a cui conferire il posto”.

Sky non reintegra 4 lavoratori licenziati: pignorati circa 300 mila euro in macchinari

La vertenza con i lavoratori licenziata sta diventando un problema sempre più grande per Sky. Ieri mattina l’ufficiale giudiziario ha fatto visita ai nuovi studi televisivi di Roma, di fronte a Palazzo Montecitorio, per effettuare il pignoramento preventivo di circa 300 mila euro in macchinari fra videocamere e monitor.

L’istanza emissari del tribunale è stata richiesta da 4 degli 11 tecnici licenziati più di un anno fa per essersi rifiutati di spostarsi “volontariamente” presso la sede di Milano. Nelle scorse settimane avevano ottenuto il reintegro dal Tribunale e il risarcimento di mensilità arretrate, contributi e spese di lite. Alla base della decisione, la violazione dei criteri della legge 223/1991 sul licenziamento collettivo: “I domiciliati in Lombardia sono stati favoriti con 33 punti in più rispetto ai colleghi del Lazio”, spiega l’avvocato Pierluigi Panici, che ha supportato la class action. “Entro 10 giorni lavorativi – aggiunge Fabiola Bravi, sindacalista Usb – l’azienda avrebbe dovuto ottemperare, ma questo non è avvenuto. Da qui nasce il ricorso all’ufficiale giudiziario”. I trasferimenti erano stati previsti all’interno della riorganizzazione aziendale avviata nel 2016, che ha coinvolto in tutto 153 lavoratori, con la progressiva chiusura degli studi romani di via Salaria e il trasferimento delle attività nella sede di Milano. A distanza di quasi 3 anni, invece, gli uffici di Roma Nord continuano ad operare (anche se in forma molto ridotta), mentre da qualche mese è stata aperta una nuova redazione di fronte alla Camera, dove lavorano 35 persone fra tecnici e giornalisti. L’ufficio stampa di Sky Italia spiega a Il Fatto che l’azienda è “rimasta stupita da un’azione dei lavoratori a 9 giorni dal pagamento previsto, peraltro già comunicato alle parti interessate”. La società, infatti, assicura che “i dipendenti sarebbero stati risarciti il 28 marzo”. Nonostante le sentenze, però, il network non ha ancora provveduto a reintegrare i lavoratori licenziati. “Li stanno pagando per restare a casa”, conclude l’avvocato Panici.