Arriva il corteo di Forza Nuova. E in città compaiono svastiche sulle sedi di Pd e partigiani

Svastiche e scritte inneggianti al fascismo sui muri delle sedi del Pd e dell’Anpi. È successo nella notte tra lunedì e martedì a Prato, dove in questi giorni partiti, sindacati e associazioni di sinistra si stanno battendo per non far autorizzare la manifestazione nazionale di Forza Nuova organizzata proprio nella città toscana questo sabato. L’evento, a cui parteciperà anche il segretario di FN, Roberto Fiore, sarà infatti una celebrazione del centenario della nascita dei Fasci di Combattimento Italiani, ritenuta inaccettabile da più parti. In questo contesto si inseriscono i fatti di lunedì, che Forza Nuova già derubrica a “spettacolo d’avanguardia”: diversi segni di bomboletta nera e croci uncinate, accompagnati dalle parole “Dux” e “Arriviamo” scritte sulle porte e sul pavimento appena fuori i locali dell’Associazione dei partigiani e dei democratici. Un gesto ancora senza colpevoli che ha rinforzato la protesta dell’Anpi nei confronti del partito di Fiore: “Non ci intimidiscono le azioni dei vigliacchi – avvisa la presidente provinciale Angela Riviello – e di chi usa solo violenza e volgarità perché non ha altri argomenti. Fermiamo la manifestazione fascista a Prato”. Eppure Forza Nuova rigetta ogni accusa, paventando persino una matrice diversa per l’accaduto: “La tempistica di questi atti ci insospettisce non poco e ci dà molto da pensare. Ci fa capire chi è che in questi giorni sta continuamente cercando lo scontro, la frustrazione di quelle realtà che hanno bisogno di autentiche sceneggiate degne del miglior teatro d’avanguardia”. L’intero episodio, secondo FN, sarebbe dunque una montatura per provocare lo stop alla manifestazione di sabato. “La nostra città – dice invece il sindaco dem Matteo Biffoni – non lascia spazio all’odio e rigetta con forza questi gesti antidemocratici. Sono fortemente preoccupato”.

Sistema Montante, “soldi di Banca Nuova per pagare 007 e spie dei servizi segreti”

I servizi segreti volevano piazzare la loro base in Sicilia nella sede di Banca Nuova a Palermo. E i rapporti con l’istituto di credito servivano all’intelligence anche per gestire la cosiddetta “cravatta”: cioè l’indennità con cui ricompensare sia gli 007 interni che gli informatori esterni. Lo sostiene la commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana nella relazione sul sistema Montante. L’organo guidato da Claudio Fava non ha gli stessi poteri d’indagine dell’Antimafia nazionale, ma con le sue audizioni ha ricostruito il reticolo d’interessi dell’ex paladino dell’Antimafia, finito a processo a Caltanissetta per corruzione.

Per la commissione di Fava, quella dell’ex presidente di Confindustria Sicilia è stata una “lunga stagione di anarchia istituzionale”, segnata da una “promiscuità malata fra interessi pubblici e privati. Un sistema in cui l’antimafia veniva “agitata come una scimitarra per tagliare teste disobbedienti e adoperata come salvacondotto per se stessi attraverso un sillogismo furbo e falso: chi era contro di loro, era per ciò stesso complice di Cosa nostra”. Seguendo questa pista la commissione s’imbatte in Banca Nuova. Un po’ come era successo a Report, che aveva raccolto le confidenze di un ex manager dell’istituto, costola siciliana della Popolare di Vicenza di Gianni Zonin. “La banca è stata una vera e propria creazione dei servizi. La fa Zonin, ma la pensano i servizi: cioè Pollari, poi Giorgio Piccirillo direttore dell’Aisi e dopo di lui il generale Arturo Esposito. Erano amici della banca, avevano i conti da noi, ma poi appoggiavano Montante. Tanto che Esposito è indagato con lui”.

Quella versione verrà smentita solo da Pollari, ma ora trova riscontro nel lavoro di Fava, costretto a secretare alcuni verbali. “Emerge la concreta ipotesi che i servizi volessero allocare presso la sede di Banca Nuova la propria sede palermitana. Il rapporto tra l’istituto di credito e l’intelligence avrebbe avuto come scopo anche la gestione della cosiddetta ‘cravatta’: in gergo, l’argent de poche che i vertici dei servizi gestiscono per remunerare sia soggetti interni che soggetti collaboranti esterni. Fondi per consuetudine molto consistenti”, scrive nella sua relazione il presidente dell’Antimafia. Al quale interessa soprattutto un passaggio: come mai Banca Nuova diventa tesoriere dell’Assemblea della Regione? La prima gara è del 2009 e partecipano due istituti; alla seconda nel 2014 si presenta solo Banca Nuova. “Si tratta dell’Ars, è normale che si presenti una sola banca?”, ha chiesto Fava a Gaetano Armao, assessore all’Economia. Che risponde: “Il tema sono le intese prima della gara”. A spingere per Banca Nuova è anche Marco Venturi, ex assessore voluto da Montante e poi suo grande accusatore. “Mi scrisse: ‘È una competenza gestionale, non c’è bisogno di parere; adotta l’atto’. Adotta l’atto significa fare l’atto di proroga. Banca Nuova aveva gestito qualcosa come 300 milioni di euro, quindi, gli interessi erano forti”, ha raccontato Rosolino Greco, dirigente generale della Regione. Dove il collegamento tra Banca Nuova e l’intelligence sembra essere noto da tempo. “Che ci fosse questa connessione con i servizi, personalmente, io lo so dal 2013”, ha detto Armao.

Ricattata per foto hot 13enne vuole uccidersi. I compagni la salvano

Ricattata per delle foto hot, derisa pubblicamente, al punto di pensare al suicidio. È successo in una scuola media di Lodi, dove una studentessa di 13 anni aveva intenzione di togliersi la vita per le continue minacce di alcuni compagni. Tutto è cominciato con delle foto osè che la ritraevano in pose intime, mandate ad un compagno di classe. Di lì la richiesta di nuove immagini da parte del ragazzo, e al momento del rifiuto la minaccia di inviare il materiale al padre di lei. Quindi, la diffusione delle foto ad altri ragazzi dell’istituto. Una spirale di umiliazioni che avrebbe potuto concludersi in tragedia: la studentessa aveva scritto un biglietto d’addio indirizzato ai suoi cari, con l’intenzione di togliersi la vita. I suoi compagni di classe, però, sono riusciti a convincerla a parlare con gli insegnanti, e questo ha evitato il peggio. Lo studente (di 2 anni più grande e ripetente) in possesso delle foto è stato invece denunciato alla procura del tribunale dei minori di Milano per estorsione e diffusione di materiale pedopornografico.

Un depistaggio lungo dieci anni, tra falsi e omesse denunce

L’atto conclusivo di due inchieste sul caso Cucchi racconta la storia di un depistaggio durato dieci anni. Che inizia subito dopo la morte del geometra romano – avvenuta nell’ottobre 2009 a una settimana dall’arresto – e che per il pm Giovanni Musarò arriva fino al novembre del 2018 quando un appuntato accusa, pur sapendolo innocente, il collega Riccardo Casamassima, lo stesso che con la propria deposizione ha fatto riapre l’indagine bis che ha portato cinque carabinieri a processo, tre accusati del pestaggio.

È una storia che potrebbe spiegarsi leggendo le poche righe di aggravante contestata ad alcuni degli indagati nelle inchieste che camminavano parallelamente al processo. È l’Arma che come un sol uomo si è mossa per “procurare l’impunità ai carabinieri” della stazione Appia “responsabili di aver cagionato a Cucchi (…) le lesioni che nei giorni successivi ne determinavano il decesso”.

E Stefano non ebbe più problemi a camminare

Così l’accusa si spiega il perché delle due annotazioni ritenute false redatte il 26 ottobre 2009 nella stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Secondo il pm Musarò, chi chiese di modificare quegli atti nella parte che riguardava le condizioni di salute di Cucchi, fu Alessandro Casarsa, nel 2009 comandante del gruppo Roma e in seguito alla guida dei corazzieri del Quirinale. Fino a gennaio scorso quando – dopo che i giornali avevano già collegato il suo nome alla vicenda Cucchi, benché non fosse indagato – viene spostato in sordina per cominciare un corso professionale dell’Istituto Alti Studi della Difesa. Casarsa adesso, con l’allora capo dell’ufficio comando del Gruppo Roma Francesco Cavallo e altri tre carabinieri, è accusato di falso ideologico. Sono due quindi le annotazioni finite nel mirino dei pm. In una si ometteva di riportare la difficoltà di camminare “palesata da Cucchi”. In un’altra invece i dolori al capo, i giramenti di testa e i tremori sono diventati “uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendente”. Ed è a Casarsa e agli altri che la Procura contesta l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di procurare l’impunità ai carabinieri.

I documenti “sbianchettati”

Nel 2015 quei falsi potevano venire a galla. L’occasione era la delega della Procura di Roma al Nucleo Investigativo per acquisire nuovamente tutti i documenti nelle caserme dove Cucchi era passato. Ma anche tre anni fa nulla viene segnalato all’autorità giudiziaria. Per questo il colonnello Lorenzo Sabatino e il capitano Tiziano Testarmata sono indagati per favoreggiamento e omessa denuncia: “Resosi conto che le due annotazioni del 26 ottobre 2009 erano ideologicamente false (…), omettevano di presentare denuncia all’autorità giudiziaria”. E così “aiutavano i responsabili a eludere le investigazioni”.

Ma c’è un’altro documento che non è stato acquisito nel 2015: il registro delle persone fotosegnalate, dove molti anni prima fu sbianchettato il nome di Cucchi. In questo caso, il registro originale rimasto negli scaffali nella stazione Casilina è costato l’accusa di favoreggiamento al solo Testarmata, il quale “nel redigere l’annotazione del novembre 2015 ometteva di dare atto di quanto accertato il 4 novembre 2015 (…) in merito alla cancellatura con il bianchetto apposta sul registro”.

Acque inquinate fino a novembre scorso

Di falsi si parla anche nell’autunno del 2018. Quando l’appuntato Luca De Cianni – nominato nel 2013 cavaliere al merito della Repubblica italiana – in un’annotazione di polizia giudiziaria del 18 ottobre 2018 “in merito a un incontro con Casamassima avvenuto nel maggio del 2015” mette nero su bianco circostanze ritenute false dal pm. Scrive che Casamassina gli riferì che i carabinieri della stazione Appia avevano dato qualche schiaffo a Cucchi, “ma che non si era trattato di un ‘pestaggio’”, e che il geometra si era “procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo” (“sbattendo più volte il viso a terra e al muro della cella”). E ancora: De Cianni dice che Casamassima gli riferì di aver “chiesto una somma di denaro a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e in cambio avrebbe fornito all’autorità giudiziaria dichiarazioni gradite alla stessa”. Tutto falso per il pm Musarò, convito che si tratti dell’ennesimo tentativo di inquinare le acque di una storia che non vede ancora la fine.

Cucchi, un altro pezzo di Arma rischia il processo

Un generale, due colonnelli e poi capitani e marescialli. L’Arma dei carabinieri rischia un altro processo per il caso Cucchi. Non per il pestaggio (cinque militari sono già imputati, tre accusati delle percosse), ma per una serie di falsi e per le mancate denunce dopo la morte del ragazzo. Il pm Giovanni Musarò ha chiuso le indagini, atto che in genere prelude a una richiesta di rinvio a giudizio, nei confronti di otto militari. Il più alto in grado è il generale Alessandro Casarsa, nel 2009 comandante del gruppo Roma e poi fino al gennaio scorso capo dei corazzieri del Quirinale. Secondo l’accusa fu lui che “rapportandosi con il maggiore Luciano Soligo, sia direttamente sia per il tramite del tenente colonnello Francesco Cavallo” (entrambi indagati), chiedeva di modificare il contenuto di due annotazioni redatte nella stazione di Tor Sapienza il 26 ottobre 2009 che furono cambiate nella parte che riguardava lo stato di salute di Cucchi. In una di queste annotazioni – redatta da Francesco Di Sano (anch’egli indagato) – spariva la difficoltà di camminare, in un’altra si ometteva di riportare i dolori al capo, i giramenti di testa e i tremori.

Quelle annotazioni hanno coinvolto nell’indagine anche ad altri due militari: il colonnello Lorenzo Sabatino e il capitano Tiziano Testarmata accusati di omessa denuncia perché nel 2015, una volta compreso che si trattava di falsi, non hanno denunciato. Contestato ai due anche il favoreggiamento: per il pm “aiutavano i responsabili a eludere le investigazioni delle autorità”.

Rischia il processo pure Luca De Cianni, collega di Riccardo Casamassima, l’appuntato che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta sul decesso di Cucchi. De Cianni nel dicembre del 2013, quando al Quirinale c’era Giorgio Napolitano, è stato nominato cavaliere al merito della Repubblica su proposta “della Presidenza del Consiglio dei ministri” (al governo c’era Letta). De Cianni ora deve rispondere di falsità ideologica e calunnia perché in un’annotazione scritta nell’ottobre 2018 su un incontro con Casamassima avvenuto nel maggio 2015, “attestava falsamente che Casamassima gli aveva riferito: che alcuni carabinieri appartenenti alla stazione Appia avevano colpito con schiaffi Cucchi, ma che non si era trattato di un ‘pestaggio’”, che Cucchi “si era procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo” (“sbattendo più volte il viso a terra e al muro della cella”), ma anche che lo stesso Casamassima “avrebbe chiesto una somma di denaro a Ilaria Cucchi e in cambio avrebbe fornito all’autorità giudiziaria dichiarazioni gradite alla stessa”.

Gli otto indagati hanno 20 giorni per farsi interrogare o depositare memorie. Scaduto il termine il pm potrà chiede il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Intanto l’Arma non intraprenderà alcuna azione disciplinare: qualsiasi eventuale decisione di questo tipo potrebbe arrivare solo dopo una richiesta di rinvio a giudizio.

In aula Processo Ruby-ter

Silvio Berlusconi non sa e non ricorda. Il suo avvocato, più tecnico, sostiene che Imane sarebbe meglio viva che morta: “Dal punto di vista processuale, la sua morte nuoce alla difesa di Berlusconi, perché le sue dichiarazioni ora entrano nel processo direttamente e così noi della difesa non possiamo procedere con il controesame”. La ragazza morta il 1 marzo per sospetto avvelenamento è stata citata ieri dai giudici di uno dei tronconi del processo Ruby 3 in cui sono imputati Silvio Berlusconi e Roberta Bonasia, una delle ragazze delle feste di Arcore. Il processo sarà riunito al troncone principale, che il 15 aprile comincerà a giudicare per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza Berlusconi e 28 testimoni accusati di aver mentito, dietro compenso, nei processi Ruby 1 (imputato, poi assolto, Berlusconi) e Ruby 2 (imputati Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti). Imane, prima della malattia, aveva chiesto al presidente del collegio Giuseppe Fazio di essere ammessa come parte civile. Il giudice ha chiesto ieri se ci fosse in aula qualcuno che la rappresentava. Non era presente il suo attuale avvocato, Paolo Sevesi. La questione non sarà riproposta il 15 aprile, davanti al collegio della settima sezione penale presieduto da Marco Tremolada: non soltanto perché Imane è morta, ma perché i giudici in quel processo si sono già espressi a metà gennaio, decidendo di non accettare come parti civili Fadil e le altre due ragazze che lo avevano chiesto, Chiara Danese e Ambra Battilana. Resterà parte civile soltanto la presidenza del Consiglio, rappresentata dall’Avvocatura dello Stato. La questione da affrontare, ad aprile, sarà un’altra: il calendario del processo, che non ha fatto passi avanti, benché sia iniziato nel gennaio 2017. È probabile che continui a procedere lentissimamente, perché Berlusconi potrebbe chiedere la sospensione per legittimo impedimento, essendo impegnato per la campagna elettorale per Europee.

Ruby e Boldrini: gli stessi insulti, sentenze opposte

In questo strano momento storico, doveva arrivare anche il giorno in cui mi sarebbe toccato difendere Ruby Rubacuori. E per una vicenda apparentemente laterale, meno significante dei suoi rapporti con Berlusconi o dei silenzi retribuiti. Una vicenda che invece si infila nello spinoso dibattito sulle sentenze che offendono le donne e su quel linguaggio sessista a cui noi donne non dobbiamo rassegnarci. Come dimenticare le battaglie di Laura Boldrini con screenshot dei post dei detrattori pubblicati su Facebook o la storia del sindaco che le augurò lo stupro con conseguente multa di 20.000 euro? O le recenti discussioni sulla “tempesta emotiva”?

Karima El Marough detta Ruby Rubacuori ha denunciato 176 hater che sotto vari articoli sui suoi rapporti con Berlusconi scrissero frasi quali “si faceva solo scopare a pagamento”, “un ferro nel culo!”, “brutta troia”… Le azioni legali, dal 2013 furono molteplici. Ruby denunciò anche insulti contro la sua bambina e chiunque avesse diffuso le immagini “forti” delle sue esibizioni nei locali liguri, visto che all’epoca era minorenne (il suo ex fidanzato Luca Risso fu condannato per detenzione di materiale pedopornografico poiché aveva nel suo computer il video di una di quelle esibizioni che si era svolta nel suo locale). Il gip ha deciso di archiviare la denuncia di Ruby nei confronti dei 176 hater che la insultarono (e di Michele Santoro che mandò in onda un video di lei minorenne, ma questo è un fatto a parte). Le motivazioni scritte nel decreto dal gip Riccardo Ghio sono sconcertanti: “Il fatto storico posto alla base delle valutazioni espresse nei giudizi oggetto della querela è vero… le sentenze hanno ricostruito univocamente il rapporto tra l’imputato Berlusconi e El Mahroug Karima in termini di rapporto di prostituzione (…) paiono dunque sussistere tutti gli elementi della scriminante del diritto di critica”.

In pratica il gip dice che Ruby è davvero una prostituta, quindi che le diano della prostituta è legittimo, resta da capire il tema della “continenza”, ovvero se nel darle della prostituta si siano utilizzati toni offensivi o aggressivi. Il gip commenta: “Riguardo il problema delle espressioni utilizzate, una buona parte non offende la reputazione altrui specie nel contesto delle discussioni indotte dagli atteggiamenti della querelante medesima”. Il gip cita dunque lo scritto di tale Lilino De Rosa che commentò così una sua foto mentre Ruby faceva la lapdance “Che le serve quel ferro nel culo?” ritenendo che siccome lei aveva oggettivamente un palo tra le natiche non ci fosse nulla di offensivo. Ma c’è di meglio. Secondo il gip altri post sono diffamatori “solo se letti isolatamente mentre letti nell’insieme tenendo conto dell’argomento devono considerarsi scriminanti dal diritto di critica”. Un “troia muori” isolato è grave, ma in un contesto in cui ci sono centinaia di persone che insultano, diventa diritto di critica. È l’annullamento della responsabilità individuale, viene giudicato “il web”, nell’insieme, come se il mondo dei commentatori fosse un’entità unica. Il gip prosegue: pur usando un linguaggio “talvolta scurrile” i soggetti esprimono “una profonda indignazione per la manipolazione e la negazione di condotte giudizialmente accertate”.

Questi passaggi del decreto, come prevedibile, non hanno indignato nessuno e nessuna, eppure le ragioni per indignarsi ci sarebbero eccome. Il rispetto per le donne passa attraverso il rispetto nei confronti di tutte le donne, dalle immacolate – timorate di Dio, alle madri di famiglia, alle soubrette fino alle ragazze che partecipavano ai bunga bunga. Questo naturalmente non significa che si debba avere il santino della Polanco o di Ruby o di Barbara Guerra sul cruscotto. Se però si decide che la violenza fisica sia un’estensione del linguaggio e che il linguaggio tradisca una mentalità, una cultura primitiva in cui la donna può essere linciata solo perché disinibita, abbiamo il dovere di difendere Ruby Rubacuori. Di sostenere che non importa chi sia e con quale divisa intrattenesse Berlusconi e i suoi ospiti.

Chiedo a Ruby il perché, secondo lei, di questa archiviazione. “Perchè per loro sono Ruby, quindi chiunque è giustificato a darmi addosso. Bisogna arrivare a fare gesti folli per far capire il dolore che si prova nel ricevere queste frasi”, risponde. “In quella querela c’erano messaggi come ‘Marocchina troia di merda spero che muori’, ‘Troia torna nel tuo paese col barcone’, ‘Sua figlia sarà di Berlusconi’… Da oggi chiunque mi incontri per strada potrà dirmi brutta troia e sarà il suo diritto di critica. Io sono forte ma non è detto che un’altra ragazza lo sia, queste cose potrebbero finire male. Nel 2015 non reggevo più, sono andata dallo psicologo per un lungo percorso”.

Sarebbe finita così in tribunale se quegli insulti fossero stati destinati ad una donna con la veste più candida di quella di Ruby? Credo di no. Con una Boldrini, anziché con una Rubacuori, le cose sarebbero andate diversamente. Dovremmo arrabbiarci, anziché ignorare perché “tanto si parla di Ruby”. Perché i decreti di archiviazione o le sentenze infelici e irrispettose nei confronti della dignità delle donne non devono piacerci anche e soprattutto quando riguardano le donne che non ci piacciono.

“Sappiamo con chi cenò la sera prima di sentirsi male. Non ci fermeremo”

“Questa volta non ci fermiamo. Non ci fermeremo. Lo dobbiamo a lei, a Imane”. Mentre ricostruisce quell’ultimo mese di sua cognata Imane in ospedale, all’Humanitas a Rozzano, Cosimo, quando Il Fatto lo raggiunge per telefono, ha la voce che trema. Non perché abbia paura o timore, e non solo per la commozione per la perdita di una persona cara (“Era venuta a trovarci in Svizzera prima di Natale: mi sembra ieri…”). Cosimo, che ha sposato la sorella di Imane, è consapevole, coi suoi 51 anni e la vita da emigrante dalla Calabria – coi sacrifici è riuscito ad aprirsi un piccolo negozietto tra Chapelle e Berna – che, Imane, ancora una volta, ha fatto entrare tutta la famiglia in una storia molto più grande. “Quando scoppiò lo scandalo delle cene, noi l’abbiamo sostenuta. Io, mia moglie Fatima… tra sorelle erano legatissime”. Fatima si fa passare il cellulare, ma non ce la fa a parlare. Piange. È Sam, l’altro fratello di Imane che vive in Svizzera, assieme a Cosimo, a voler mettere in chiaro la situazione: “Finora abbiamo deciso di non parlare, perché non siamo abituati a farlo a vanvera. Ora è diverso. Come famiglia ci sentiamo in una posizione molto delicata. Non crediamo più a nessuno. È la prima volta che ci troviamo in una situazione così, e di dubbi sulla vicenda ne abbiamo: ne abbiamo molti. Siamo distrutti dal dolore, sconvolti, ma dobbiamo e vogliamo la verità”.

Cosimo, quando è stata l’ultima volta che ha visto Imane?

In quel mese in cui è rimasta in ospedale sono andato tre volte a trovarla. Purtroppo ho un’attività che non posso abbandonare e, con un bambino piccolo, non siamo riusciti a organizzarci più di così con mia moglie. Sentivamo però Imane ogni giorno ed eravamo abbastanza tranquilli, se così si può dire, perché mio cognato Tarik era sempre con lei all’Humanitas e quindi ci aggiornava sulla situazione. Era stata direttamente Imane a chiamarci, a fine gennaio: ci disse che era stata ricoverata in ospedale perché aveva dei dolori molto forti allo stomaco. Poi, a fine febbraio, l’ultima volta in cui la vidi: fu proprio pochi giorni prima che morisse.

Come trovò Imane?

Era un cadavere. Non era più in terapia intensiva ma in un reparto normale. Era davvero molto malandata. Rimasi impressionato. Come è possibile che una donna giovane e attiva, come era lei, si fosse ridotta così, in un mese? Non esiste cancro o malattia che possa fare a un essere umano quello che ho visto in lei. Imane nel letto di ospedale, il braccio viola pieno di ematomi e una flebo attaccata a una vena del collo: è l’ultima immagine che ho di lei. Stava soffrendo terribilmente…

Quando avete saputo della morte?

Non ci crederà… la vita sa essere crudele. Da noi, in Svizzera, il 1° marzo è festa. Avevamo viaggiato tutta la notte prima: con Fatima e nostro figlio volevamo fare una sorpresa alla “zia” in ospedale. Appena arrivati a Milano, squilla il telefono: ‘Imane è morta’, ci dice Tarik. Ci è crollato il mondo addosso. Anche perché mia moglie non era riuscita ad andare a trovare sua sorella prima, e per questo oggi si tormenta.

Quindi la notizia vi è arrivata nella prima mattinata del 1° marzo. Quando siete arrivati all’Humanitas…

A mia moglie, solo a mia moglie, hanno permesso di vedere il corpo. Lei la prima cosa che mi ha detto, tra le lacrime, è stata: ‘Alla fine l’hanno uccisa veramente’.

Voi credete dunque all’ipotesi dell’avvelenamento?

Io, devo dirle la verità, quando Imane ci diceva ‘Mi hanno avvelenata’, mi stranivo sempre un po’. All’inizio pensavo fosse lupus. Invece aveva ragione lei. ‘Non sono io a dirlo, me lo dicono i dottori’, ripeteva.

Ed era così?

In effetti in un primo tempo era stato proprio lo staff medico a propendere per questa ipotesi, poi hanno fatto marcia indietro.

Ma chi avrebbe voluto ucciderla? Le è sembrato che Imane avesse paura?

Molta paura. Nell’ultimo periodo si era rinchiusa a casa, non usciva più.

Aveva paura di chi?

Sospettava che fosse stato qualcuno a farle tutto ciò.

Cosa le aveva detto?

Mi raccontò della sua ultima cena, la sera prima di sentirsi male. Conosco nome e cognome della persona con cui Imane uscì. Lei, quando avvertì i dolori alla pancia, pensava inizialmente a un’intossicazione alimentare…

Chi era il commensale?

Preferisco non rispondere.

Imane le aveva parlato di un certo “Marco” Saed?

Sì, ma non era con lui a cena quella sera.

Avete dei sospetti?

Non voglio dire niente, ma la storia di Imane la conosciamo tutti…

Che lei sappia, Imane aveva avvertito dolori o malesseri particolari prima di quella cena?

Niente, assolutamente.

Cosa vi aveva detto al momento del ricovero?

Fu qualche giorno dopo la cena. Ci disse che era arrivata in ospedale in ambulanza, con Johnny, l’amico con cui viveva nell’ultimo periodo.

È vero che Imane aveva problemi economici?

L’abbiamo aiutata più volte ultimamente, sì.

Quando le iniziò a parlare della paura di essere stata avvelenata?

Sarà stato intorno a metà febbraio. Qualche giorno dopo il ricovero.

Ma perché non avete denunciato alle autorità?

Imane in ospedale si sentiva protetta, si sentiva al sicuro. E noi anche avevamo fiducia nei medici. Erano stati così scrupolosi durante la terapia intensiva… Io e Tarik potemmo entrare a farle visita solo dopo un lungo colloquio. Poi tutto è successo così velocemente… Pensi che l’ultima volta in cui ero stato all’Humanitas, Imane mi aveva chiesto di portarle, al mio ritorno, del cioccolato svizzero da regalare ai medici. Quel cioccolato il 1° marzo è rimasto nello zaino…

Perché avete deciso di parlare ora?

Perché qui si tratta di cose molto più grandi di noi. In tutta la famiglia era Imane quella che, in un certo senso, sapeva destreggiarsi, anche in cose di un certo livello: noi siamo persone semplici… Fossimo in Svizzera, sarebbe un conto. Ma siamo in Italia. E non ci fidiamo. Abbiamo ora un sacco di domande senza risposta. Tanti dubbi. Paure. Un’ipotesi di avvelenamento radioattivo, lei si rende conto? Il nostro avvocato, in accordo con l’autorità giudiziaria, ci aveva chiesto di mantenere il silenzio sulla morte di Imane, per poter permettere tutti gli accertamenti necessari. Poi all’improvviso, venerdì scorso, la notizia di Imane era su tutti i siti. A noi non hanno nemmeno comunicato che stava per scoppiare il tutto! Vogliamo sapere come e perché Imane è morta. Le hanno mangiato la vita già una volta, otto anni fa. Ma questa volta non ci fermiamo. Lo dobbiamo a lei. Lo dobbiamo a Imane.

Il Vaticano sul Wcf: “Sì alla sostanza, no alle modalità”

Vicini ma non troppo: la Chiesa si allinea con il Congresso Mondiale delle Famiglie per la sostanza dei temi che verranno trattati a Verona dal 29 al 31 marzo, ma si dissocia dalle modalità e dai toni utilizzati. Piero Parolin, segretario di Stato Vaticano, interviene infatti all’indomani delle tensioni nate in seno al governo (tra M5S e Lega) e degenerate in minacce nei confronti degli alberghi che ospiteranno i relatori del Congresso. A fronte dei tentativi di boicottaggio e di intimidazione, Giulio Cavara, presidente dell’Associazione Albergatori di Confcommercio, ha deciso di intervenire: “Siamo pubblici esercenti, diamo ospitalità a tutti e il tema della  polemica, per quanto ci riguarda, è  insignificante”.  Non vale lo stesso per la diocesi di Verona, che si è sentita in dovere di calmare gli animi, sostenendo che il tema non merita “un linguaggio violento e ideologico” e la politica “potrebbe fare di più e meglio”. Il dibattito tra i deputati, infatti, si è fatto sempre più colorito: se la Meloni ha definito il M5S “una comitiva di punkabbestia al governo”, Carlo Calenda (Pd) ha ribattuto alla presidente di Fratelli d’Italia: “Sei la versione burina del Ku Klux Klan”.

Il network della Chiesa sovranista di Matteo I

Oltre che sulla Verità (quotidiano popolare fra i tradizionalisti), Silvana De Mari scrive sulla Nuova Bussola Quotidiana, lo stesso sito che qualche mese fa ha intervistato Matteo Salvini in difesa della Dottrina cattolica. Il network della destra clericale che si prepara al congresso di Verona di fine marzo ormai ha poco da spartire con il pensiero teocon che sostenne il regno del papa teologo, Ratzinger. In poco più di un lustro, dall’elezione di Bergoglio a oggi, tutto è cambiato. I tradizionalisti sono diventati aggressivi a mano a mano che si affermava in Europa e negli Stati Uniti l’onda nera e sovranista. E oggi costituiscono una feroce opposizione a Francesco all’interno della Chiesa. I Dubia contro le aperture dell’Amoris Laetitia sono stati il loro manifesto iniziale, in una guerra condotta dai cardinali Burke, e Caffarra. con l’appoggio esterno dell’ex inquisitore di Benedetto XVI, Müller. Le divisioni sono sempre più profonde e Bergoglio, per esempio, viene accusato apertamente di essere un pontefice gay friendly oppure pro-sodomiti. Il network è eterogeneo. Comprende i blog di autorevoli vaticanisti (Valli, Tosatti, persino Magister) e alcuni siti si trincerano dietro un linguaggio di piena rottura: ci sono la citata Bussola, e poi Messa in latino (dove si esalta l’orbanismo ungherese), Summorum Pontificum, Corrispondenza Romana del professore de Mattei. Per loro la misericordia di Francesco è una vera iattura.