Borghi minaccia il responsabile media del Parlamento Ue

Parole fortida parte del leghista Claudio Borghi. Anzi, tweet: è stato infatti sul social che è nata una discussione, poi trasformatasi in minaccia di licenziamento, tra il presidente della commissione Bilancio della Camera e Maurizio Molinari, responsabile media del Parlamento europeo in Italia. La scintilla è scaturita da un post del Parlamento europeo, che riprendeva un sondaggio secondo cui il 65% degli italiani è a favore dell’euro: Borghi, strenuo oppositore della moneta unica, ha accusato l’Ue di fare “propaganda sulla base dei sondaggi che essa stessa commissiona”, ed è passato poi a Molinari, scrivendo: “Penso che lei non sia lucido e non sia adeguato per il ruolo che ricopre. Provvederemo dopo le elezioni a far presente la cosa al nuovo ufficio di presidenza del Parlamento Ue”. Il giornalista si è difeso ricordando di essere stato assunto tramite regolare concorso, ma il leghista ha infierito: “Faremo il possibile per rimuovere una persona evidentemente inadeguata per il ruolo che ricopre”. Intimidazioni che non potevano rimanere senza risposta: in difesa di Molinari sono intervenuti il Parlamento europeo, il presidente Antonio Tajani e gli eurodeputati del M5S.

La direttiva del Viminale non cambia leggi e trattati

Al Viminale, fin dall’inizio, sapevano benissimo che la nave Mare Jonio “batte bandiera italiana, non olandese come la Sea Watch” e quindi era “difficile non farla entrare in porto”. Il sequestro della nave ha consentito a Matteo Salvini di non perdere la faccia dopo aver ribadito “porto chiuso” per tutto il giorno. Del resto dopo bracci di ferro, tweet e trattative con l’Europa avevano attraccato anche le navi “straniere” delle Ong.

Nessuno, a gennaio, ha avuto il coraggio di dire alla Sea Watch 3 di fare rotta su Gibilterra e poi su Rotterdam. Nel giugno 2018 la Spagna invece ha accolto la Aquarius di Sos Méditerranée e Medici senza frontiere, che prima aveva la bandiera di Gibilterra, poi quella di Panama, poi nessuna bandiera e fu scortata con 600 naufraghi fino a Barcellona da un costosissimo dispositivo militare italiano. Lì nel luglio scorso è arrivata con 60 migranti anche la Open Arms della Ong catalana Proactiva Open Arms, bandiera spagnola. Poi il governo del socialista Pedro Sanchez ha detto stop.

“Non farli entrare in porto avrebbe violato numerose convenzioni internazionali, sarebbe stato un possibile reato, un precedente assoluto per una nave battente bandiera italiana”, taglia corto Antonello Ciervo, avvocato e ricercatore dell’Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione. Anche Cesare Pitea, docente di Diritto internazionale a Milano, sentito da ilfattoquotidiano.it in mattinata sottolineava l’“obbligo di fare sbarcare e offrire una prima accoglienza” ai migranti, sulla base del “principio di tutela della dignità” e del diritto di “domandare, come prevede la Costituzione, asilo in Italia”. Altri sostengono che il divieto di sbarco sarebbe stato un respingimento collettivo, vietato dalla Convenzione europea dei diritti umani: l’Italia è già stata condannata dai giudici di Strasburgo per non aver consentito a migranti giunti via mare di chiedere asilo nel nostro Paese. Altro è dire che il comandante o la Ong hanno commesso reati e se ne occupa la Procura di Agrigento.

Il quadro giuridico è cambiato poco anche con l’ultima direttiva sulle frontiere marittime, emanata in tutta fretta dal ministro dell’Interno lunedì sera attorno alle 22, quando la Mare Jonio aveva già fatto sapere di aver soccorso i 49 in balia delle onde e di aver chiesto il “porto sicuro” alle autorità italiane. “Essendo successiva al salvataggio – sostiene Ciervo – non è applicabile”. La direttiva, rivolta ai responsabili delle forze di polizia e delle Capitanerie di Porto, dice in sostanza che quando le autorità italiane non hanno coordinato il soccorso – come in questo caso nato nell’immensa area Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) affidata in modo un po’ grottesco alla Libia – bisogna impedire lo sbarco nel nostro Paese perché i responsabili delle imbarcazioni compiono un’attività “pregiudizievole per il buon ordine e la sicurezza”, cioè favoriscono l’immigrazione irregolare. Questo, come è noto, è un reato, però fin qui l’accusa rivolta da alcune Procure alle Ong ha superato l’esame dei giudici (in sede cautelare, nessuna condanna) solo quando c’erano indizi di un concorso consapevole con i presunti trafficanti che agiscono per lucro.

Una direttiva ministeriale non cancella diritti soggettivi riconosciuti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali e dalla legge, né può stabilire cosa sia reato e cosa no, ma certo “vincola – sottolinea Ciervo – la polizia, la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera”, specie quest’ultima che fatica a mettere da parte la vocazione al soccorso. C’è però qualche dubbio sulla competenza del ministro Salvini: “L’articolo 83 del codice della navigazione – osserva Vittorio Alessandro, ammiraglio a riposo della Guardia costiera, a lungo in prima linea nel soccorso in mare – assegna al ministro dei Trasporti, non al ministro dell’Interno, il potere di limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico”. “Mrcc (il Centro di coordinamento di Roma, gestito dalle Capitanerie di porto, ndr) fa capo al ministero dei Trasporti – aggiunge Ciervo –. Salvini sta esercitando competenze del premier Giuseppe Conte e del ministro Danilo Toninelli”. Ieri non è stato possibile ottenere dagli Interni una replica qualificata sul piano giuridico. Spetta comunque al Viminale indicare il Pos (Place of safety, il porto sicuro) quando il soccorso dei migranti è coordinato dalle Capitanerie italiane. Si tratta infatti di organizzare identificazione, accoglienza e richieste di asilo.

Salvini non ha chiuso i porti, ha solo ordinato di non indicare il Pos o di ritardare l’indicazione, usando i suoi poteri per finalità diverse da quelle previste da leggi e regolamenti. Perfino nel caso della Diciotti, la nave della Guardia Costiera bloccata per dieci giorni nell’agosto 2018. E infatti il Tribunale dei ministri di Catania vorrebbe processarlo per sequestro di persona e abuso d’ufficio, si fermeranno solo se la maggioranza del Senato ribadirà oggi il no all’autorizzazione a procedere.

E oggi il M5S salva Matteo al Senato per la Diciotti

La nave approdata in agosto incrocia quella appena sequestrata. Il profilo della Diciotti, l’imbarcazione dell’inchiesta a cui è ancora appeso a Matteo Salvini, si confonde con quello della Mare Jonio, in un gioco di specchi e cattivi pensieri. Perché oggi il Senato voterà sulla richiesta di rinvio a giudizio per sequestro di persona di Matteo Salvini, il ministro dell’Interno che proprio sulla Diciotti si accanì in estate con la complicità dei suoi coinquilini di governo, lasciandola al largo per giorni. E alla vigilia della votazione nella pancia di Palazzo Madama diversi 5Stelle fanno notare che in Sicilia è arrivata un’altra nave di una Ong, coincidenza che per alcuni non è una coincidenza. “Doveva arrivare proprio ora” sibilano dal M5S, con letture peraltro opposte. Perché per certi 5Stelle è il favore che gli serviva, per altri un contrattempo.

Però di sicuro pensano e talvolta dicono quello che in serata ringhia proprio lui, Salvini: “Coincidenza tra il caso della Nave Jonio e il voto sulla Diciotti? Io credevo a Babbo Natale fino a che avevo 8 anni”. Più o meno quello che, un paio di ore prima, il senatore Mario Giarrusso, il capogruppo dei 5Stelle nella giunta per le autorizzazioni, aveva detto con sorriso sardonico al cronista del Fatto: “Lei ritiene che sia un caso? Allora crede ancora a Babbo Natale e alla Befana. Mi ascolti, sarà una lunga notte…”. Ma esagera Giarrusso, perché i numeri per fare contento Salvini ci sono tutti. Ne serviranno almeno 161, la metà più uno degli aventi diritto al voto (maggioranza qualificata) per risparmiargli il processo. E i 5Stelle voteranno quasi tutti per salvarlo assieme alla Lega e al centrodestra tutto, perché così hanno deciso gli iscritti nella votazione sulla piattaforma web Rousseau, il 18 febbraio. Proprio come speravano Luigi Di Maio e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che oggi sarà in Aula assieme a Salvini “perché c’è una chiara linea politica in tema di migrazione che questo governo sottoscrive”, scandisce il premier dal microfono a Palazzo Madama, dove ieri ha riferito sul memorandum con la Cina. “Conte ci copre, tutti” riassume un senatore. Ma c’è sempre quel “quasi”. Perché due senatrici del M5S non voteranno come spera Salvini. Elena Fattori, biologa, e Paola Nugnes, vicina al presidente della Camera Roberto Fico, sono pronte a dire sì al rinvio a giudizio, cioè a farsi cacciare. “Chi vota per il rinvio a processo verrà deferito ai probiviri e poi espulso”, confermano dai 5Stelle.

E sarà comunque un problema per il governo, che in Senato ha una maggioranza di soli quattro voti dopo le espulsioni proprio di due 5Stelle, Saverio De Bonis e Gregorio De Falco. E gli altri? Il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, si era esposto per il sì all’autorizzazione. E ora dice con un sospiro: “Gli iscritti si sono espressi e noi siamo portavoce, in questi casi dobbiamo annullare il nostro ego…”. Invece il capogruppo Stefano Patuanelli morde Salvini: “Dice che gli attivisti Ong sulla Jonio andrebbero arrestati? Chi viene arrestato lo decide l’autorità giudiziaria, non lui”. Mentre Gianluca Ferrara guarda lontano: “Se vogliamo fermare davvero le migrazioni smettiamo di vendere armi a certi Paesi”. Nell’attesa oggi si vota, alle 13. E sarà una procedura particolare, con voto palese, ma senza proclamazione immediata del risultato. Ovvero, “i senatori che non abbiano partecipato potranno comunicare il voto ai segretari d’Aula fino alla chiusura delle operazioni, alle ore 19”. Così prevede il regolamento del Senato, in casi di questo tipo. Delicati, nonostante tutto.

Mar Jonio a Lampedusa Salvini: “Ong in manette”

Liberté, Liberté” gridano i migranti a bordo della Mare Jonio, la nave della ong Mediterranea Saving Humans, mentre fa il suo ingresso al porto di Lampedusa, scortata dalle motovedette della Guardia di Finanza. L’imbarcazione battente bandiera italiana ha terminato il suo viaggio sotto sequestro, disposto dalle Fiamme Gialle (ma non dalla Procura di Agrigento), dopo aver soccorso 49 migranti, di cui 12 sarebbero minori, a circa 42 miglia nord delle coste libiche. I naufraghi erano stati segnatati dall’aeromobile Moonbird, della ong tedesca Sea Watch, che aveva comunicato di aver avvistato in mare un gommone in avaria.

L’equipaggio della Mediterranea era quindi intervenuto inviando due mezzi veloci per raggiungere i migranti e trasportarli in nave, anticipando il possibile intervento delle autorità libiche, che erano sopraggiunti poco più tardi.

In seguito, a causa del maltempo, la nave aveva ricevuto l’autorizzazione dalla Capitaneria di porto per avvicinarsi a Lampedusa. La richiesta avanzata dall’equipaggio della Mediterranea di un possibile “porto sicuro” dove poter approdare, aveva ricevuto risposte negative dalle autorità italiane. Nella mattinata la situazione inizia a movimentarsi. Il capo missione Luca Casarini, attivista veneto ex leader del movimento no global, comunica che un giovane migrante affetto da polmonite e necessita di cure mediche specifiche. Il 24enne, originario del Gambia, viene fatto scendere dalla nave e trasportato alla Guardia medica di Lampedusa, dov’è sottoposto a diversi accertamenti. “Non ha particolari problemi – spiega Pietro Bartolo, direttore del poliambulatorio – è solo molto spaventato e sembrerebbe non avere patologie”.

In seguito la Mare Jonio si è spostata per ripararsi dal maltempo, una manovra non condivisa con le autorità italiane, che avrebbe aperto un acceso diverbio via radio tra il comandante della nave e la Guardia di finanza. Le fiamme gialle, basandosi sulla direttiva emanata dal Viminale “per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale”, intimano di spegnere i motori e restare a largo, vietando l’ingresso nelle acque italiane. “Abbiamo persone che non stanno bene – replica il comandante Pietro Marrone –, devo portarle al sicuro e ci sono due metri di onda. Io non spengo nessun motore”. Poco più tardi, la Mediterranea è circondata da tre motovedette delle Fiamme gialle, poi salite a bordo per un’ispezione.

“L’ispezione si è conclusa con un verbale in cui è scritto che non c’è nulla da segnalare se non che le persone a bordo sono provate”, commenta Alessandra Sciurba portavoce di Mediterranea. Al tavolo permanente del Viminale fanno spiegano che la ong avrebbe disobbedito due volte all’ordine delle fiamme gialle, si sarebbe trovata a una distanza minore alle coste libiche e tunisine rispetto all’Italia, e che non avrebbe avvisato Malta.

Sulla vicenda interviene il Ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Nessun pericolo di affondamento né rischio di vita per le persone a bordo, nessun mare in tempesta. Ignorate le indicazioni della Guardia Costiera libica, scelta di navigare verso l’Italia e non Libia o Tunisia, mettendo a rischio la vita di chi c’è a bordo. Se un cittadino forza un posto di blocco stradale di Polizia o Carabinieri, viene arrestato. Conto che questo accada. Era una provocazione preparata da giorni”. Alle parole del ministro fa eco il portavoce della Marina libica, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem, che spiega di aver scoperto di “una ong non aveva preso contatto” con la Guardia costiera libica, che l’imbarcazione dei naufraghi “era senza motore” ma “intatta”, puntualizzando che la Mare Jonio è arrivata prima del loro intervento e avevano “già avviato l’operazione di salvataggio”. Sulla sponda di Lampedusa invece, arriva il sostegno dei cittadini locali e del parroco Don Mimmo Zambito, che sugli scogli, poco distanti dalla nave, espongono uno striscione “Aprite i porti”, com’era già successo a Siracusa con la Sea Watch.

La Mare Jonio resta alla fonda per altre ore, finché il procuratore Luigi Patronaggio non ha disposto lo sbarco dei migranti e il sequestro probatorio della nave. L’intero equipaggio sarà interrogatori dagli inquirenti per ricostruire la dinamiche della vicenda.

Innocente sarà lei

Ieri ho scritto che “sicuramente Silvio Berlusconi non ha ordinato il probabile avvelenamento di Imane Fadil”, ma “purtroppo nessuno può escludere che c’entrino i vari ambienti criminali che lo circondano da quasi mezzo secolo, da Cosa Nostra alla massoneria deviata, dal sottobosco dell’eterna Tangentopoli ai gigli di campo di Putin”. È quello che pensa qualunque persona informata e raziocinante ogni qual volta accade qualcosa di spiacevole a chi si mette di traverso sulla via di Arcore. E mi pareva il minimo sindacale da scrivere dopo la terribile fine di Imane. Non certo per immischiarmi nelle indagini della Procura di Milano sulla morte (non si sa ancora se violenta o naturale) di quella povera ragazza. Ma per rinfrescare la memoria ai sepolcri imbiancati che fingono di dimenticare il côté malavitoso della biografia berlusconiana. Non solo i suoi fedelissimi superstiti, che comprensibilmente non amano vantarsi di succedere a Mangano, Bontate, Gelli, Craxi, Mills, Previti, Dell’Utri, Cosentino, Tarantini, Lavitola e altri noti statisti. Ma anche i politici e giornalisti soi disant di sinistra che ricordano e scordano tutto a intermittenza, a seconda delle convenienze del momento. Non avevo calcolato che, nella fase crepuscolare, B. è assistito da alcune badanti italianissime eppure digiune della lingua italiana.

Il sen. Giacomo Caliendo, inopinatamente ex magistrato e noto frequentatore della loggia P3, si domanda perché io “non metta in evidenza che la povera Fadil ha già deposto nei processi e la sua morte non incide sull’esame di quanto riferito”. É esattamente quel che ho scritto, ma lui purtroppo non l’ha capito. Poi aggiunge che avrei “colpito Berlusconi senza alcun aggancio con la realtà”: in effetti affermare con quella perentorietà che “sicuramente” B. non è il mandante dell’eventuale delitto potrebbe danneggiare la sua immagine negli ambienti di cui sopra. Però, se Caliendo vuole rimediare, può sempre incolparlo lui di qualche delitto, come persona informata sui fatti. Magari chiedendo aiuto all’on. avv. Francesco Paolo Sisto. Siccome ho scritto che B., almeno stavolta, sicuramente non c’entra, Sisto parla di “attacco vergognoso e diffamatorio”: anche lui l’avrebbe preferito colpevole. E va capito: con tutti i problemi che ha Forza Italia, le manca soltanto l’innocenza di B. Infatti Sisto suggerisce agli inquirenti alcune piste investigative, purtroppo prescritte: “C’è da chiedersi se Attilio Regolo fu infilato nella botte chiodata su indicazione di un antenato di Berlusconi, se Martin Luther King fu ucciso da un collaterale afroamericano del Cavaliere”.

Ma non solo: “Se in fondo Jack Lo Squartatore non fosse che un’antesignana espressione dell’uomo di Arcore”. È chiaro che sa molto più di quel che dice. Poi c’è il povero Enrico Costa, nientemeno che “responsabile giustizia di Forza Italia” (più che un incarico, un ossimoro): “Il ‘Fango quotidiano’ pubblica il teorema di Travaglio, un cocktail di accostamenti allucinanti e tesi farneticanti. Ci auguriamo che tutte le forze politiche, anche le più lontane da noi, prendano le distanze”. Purtroppo le forze politiche tutte, anche le più lontane da lui, si sono poi scordate di prendere le distanze da me, forse perché già abbastanza distanti. Giorgio Mulè, già cronista giudiziario del Giornale, poi direttore di Panorama e ora finalmente deputato di FI, dice che sono “peggio di un avvoltoio”, che prima facevo “il guardone di Arcore sbirciando dal buco della serratura” (mi avrà scambiato con qualche suo o sua collega: io purtroppo non fui mai invitato). E ora faccio “il guardone dell’obitorio e lo sciacallo nel senso letterale del termine: si avventa su un povero corpo per una bassissima strumentalizzazione” e “vilipende cadaveri” in quanto “la giovane diventa solo un nome e un cognome nell’editoriale di Travaglio, non è meritevole di alcuna pietà e viene trasformata in un mezzo pur di infangare Berlusconi… con la tecnica vigliacchetta dell’allusione”.

Quanto all’“allusione”, mi corre l’obbligo di deluderlo. Io non alludo, io affermo. E non vorrei ci rimanesse male, ma Mulè alla sua età dovrebbe sapere che B. frequentava Mangano, Bontate, Gelli, Craxi, Mills, Previti, Dell’Utri, Cosentino, Tarantini, Lavitola e fino al 1994 finanziava Riina. Quanto alla “pietà”, ieri i famigliari di Imane Fadil hanno scelto proprio l’avvoltoio sciacallo guardone per parlare della loro congiunta, che l’estate scorsa aveva scelto proprio il giornale dello sciacallo avvoltoio guardone per la sua ultima intervista. Secondo Mulè, “seguendo la follia di Travaglio, egli stesso o qualcuno del suo branco potrebbero essere accusati di aver avvelenato la giovane pur di dare nuova linfa all’odio mai sopito per Berlusconi”. Quindi alla fine l’avvelenatore sarei io. A meno che io non “provi a rinsavire e soprattutto a testimoniare la pietas

dovuta ai defunti”. La stessa pietas che ha spinto il suo padrone a negare di aver mai visto Imane (la incontrò 8 volte in meno di un anno) e di far dire ieri ai suoi avvocati che la sua morte “dal punto di vista tecnico-processuale nuoce alla difesa di Berlusconi perché non possiamo procedere con il controesame” (cosa non si fa per sottrarsi al controesame). Il Mulè, dopo aver “rinunciato all’immunità parlamentare” (bella forza: non c’è più dal ’93), conclude con un simpatico “lo mando al diavolo, perché è intriso di tale cattiveria, di tale odio, che è destinato a non andare in Paradiso, ma all’Inferno” (decide lui, con un emendamento al Milleproroghe). Ora comunque, per evitare ulteriori incomprensioni, stiamo allestendo un centralino riservato ai parlamentari più acuti di Forza Italia. Funzionerà così: io scrivo il pezzo, loro lo leggono e poi, nel caso, mi chiamano e glielo spiego.

Keith solista: 30 anni dopo Talk is cheap è deluxe

Quando nel 1988 il chitarrista degli Stones Keith Richards pubblica il primo disco da solista Talk is cheap, la band non se la passa granché. Gli anni 80 sono il decennio ottimista di Mtv, dei videoclip e delle canzoni pop-dance e per il rock rappresentano una sorta di capolinea. A corto di idee e pronti ad adeguarsi su spinta di Mick Jagger alle nuove mode musicali, gli Stones toccano il punto più basso con Undercover e Richards, che nel frattempo s’è disintossicato, è deciso a mantenere la propria impronta rock tradizionalista. Per questo Talk is cheap è una sorta di valvola di sfogo: un disco che è un mix tra rock, funky e blues, per molti aspetti decisamente migliore e più a fuoco di quanto pubblicato dagli Stones negli 80. E che è in grado di sorprendere lo stesso Richards, che non pensava potesse ricevere appagamento musicale al di fuori della band. “È un album che resiste” dice oggi in occasione del trentesimo anniversario dall’uscita del disco, che ha deciso di ripubblicare in formato box deluxe il 29.3.

Una sola nota ed è subito Gato Barbieri

“L’aspetto che più mi interessa nella musica e nell’improvvisazione è la riconoscibilità. Una nota, una nota solamente, e sai che è Gato Barbieri”. The cat with the hat (Il gatto col cappello, dal 21 marzo) più che un omaggio è un atto d’amore che Daniele Sepe fa al suono graffiante e unico del sassofonista argentino, Gato Barbieri, scomparso il 2 aprile del 2016. I dischi dell’eclettico musicista napoletano sono dei veri e propri viaggi, grazie ai quali è possibile respirare i suoni e gli odori dei sud del mondo. E in queste 11 tracce Daniele Sepe con le note ci porta a spasso per il sud America sulle tracce di Gato Barbieri. “Nello scegliere cosa suonare non ho avuto dubbi: inutile ripercorrere brani suoi, giusto un paio, dopo tutto se uno vuole sentirli sente le sue versioni. Ma ho voluto scegliere una serie di brani, molti tradizionali, che ho sempre cercato di immaginare come li avesse suonati lui”.

Si passa per il Cile, con la rilettura de La partida di Victor Jara, per arrivare in Venezuela attraverso la canzone popolare, Montilla, e poi, Io non canterò alla luna, suonata dallo stesso Gato in un suo disco, Under fire. Per poi ritornare nella tradizione napoletana con Canzone appassiunata. Sepe ha chiamato a raccolta tantissimi musicisti italiani e sudamericani, tra cui, Stefano Bollani e Roberto Gatto, che hanno suonato con il sassofonista argentino, il batterista americano Hamid Drake, il percussionista brasiliano Robertino Bastos e tre voci: Dario Sansone dei Foja, Lavinia Mancusi e Roberto Lagoa. Bello e corposo anche il libretto dove il musicista consiglia dischi e film e racconta il suo amore per Gato. A chiudere le pagine del booklet, il ricordo del trombettista Enrico Rava, amico del sassofonista col cappello. L’unico brano originale di Gato Barbieri è Nunca mas, dedicato alla tragedia dei desaparecidos, con Dino Salluzzi al bandoneon e Osvaldo Berlingieri al piano. “Tutti, come Gato, di origini italiane – spiega Sepe –. Giusto per ricordare che siamo un popolo di emigranti e dovremmo avere più rispetto di chi oggi ci raggiunge nel nostro paese.”

Ligabue è tornato e può ancora ballare sul mondo

Due anni fa Luciano si è operato alle corde vocali. È stato un forte trauma – per sua stessa ammissione –, l’esito dell’operazione non era affatto scontato. Poi tutto si è risolto positivamente, eppure più che l’artista ne ha sofferto l’uomo. Questa sofferenza si è incarnata sublimandosi nelle dieci tracce del suo nuovo album Start, presentato dal vivo alla stampa domenica 17 all’Italghisa di Reggio Emilia. Liga è come rinato, ritrovando la medesima energia di “Balliamo sul mondo” – il suo primissimo lavoro – rinfrescandone il suono e alleggerendosi con una buona dose d’ironia, basti ricordare la sua presenza al Festival di Sanremo, ove si è presentato con una chitarra gigante appesa al collo. Il perno del cambiamento e del ritorno alle origini si chiama Federico Nardelli: ha prodotto e arrangiato Start con l’estro di un polistrumentista ed è riuscito nel difficile ruolo di ricostruire la parte ritmica senza cambiare completamente il “marchio di fabbrica”. I riff iniziali de La cattiva compagnia e Polvere di stelle sono le tracce più evidenti del nuovo innesto, oltre a Vita morte e miracoli con un suono ispirato da Davvero davvero della coppia Pagani/De André. Sarebbe piaciuto a Fabrizio questo sguardo di Luciano sulle relazioni senza mai giudicare, l’enfasi sull’amicizia (Ancora noi) e l’amore smisurato per le donne (Mai dire mai), rispettando sempre la loro intelligenza oltre alla capacità di intrigare e di “vederci sempre meglio” (“perché a guardare resti tu la migliore”).

Liga ha tanti strati, se non si scende in profondità si rischia di giudicare Luci d’America la “stessa canzone del Liga” e invece è il tentativo riuscito di portarci negli spazi selvaggi dei panorami di Paris Texas di Wenders, catturandone l’immaginario (“di certi miracoli uno può accorgersi solo da sveglio”). Senza cercare improbabili featuring per spaccare su Spotify, vampirizzando nuovi talenti, il Liga riporta le chitarre protagoniste nelle radio italiane piazzandosi in vetta. Fragilità e piedi per terra è l’incipit di Polvere di stelle; Ancora noi elogia le facce vissute dei “buoni compagni di viaggio”. Vita morte e miracoli potrebbe essere l’antidoto contro i detrattori, quelli che Certe notti non la scrive più: “ma tu dimmi tutto, che ne so proprio pochissimo di tutto; corpi celesti collidono di notte e tutti quei sogni verissimi, senza ritegno e bellissimi”. È il capolavoro del disco, affamata di vita, commovente e tagliente come un rasoio. Unico rimpianto il tempo che passa: “Tiro con i sandali un pallone che mio padre mi ricalcia male; non abbiamo mai giocato tanto, con il tempo lì davanti”. Chiude la battistiana Io in questo mondo: “vi voglio far ballare, che la giornata è dura, sarebbe il mio lavoro e non lo è per niente”.

Il tour partirà dallo Stadio San Nicola di Bari il 14 giugno e si concluderà allo Stadio Olimpico di Roma il 12 luglio.

Maledetta Neverland

Ora il fantasma rischia di uscire di scena. Per sempre. Jacko e il suo moonwalk: un balletto perverso – giurano gli accusatori – in cui coinvolgeva bambini in giochi per nulla innocenti. Il documentario Leaving Neverland, che verrà trasmesso in due parti stasera e domani su Nove, è un colpo di maglio che polverizza l’immagine del re del pop, e il suo brand da due miliardi di dollari. Andato in onda su Hbo e su Channel 4, il pamphlet diretto da Dan Reed ha già indotto numerose emittenti, tra cui la Bbc, a bandire i megahits di Michael; Louis Vuitton ha ritirato i prodotti ispirati alla star, ed è stata cestinata la puntata dei Simpson con un suo cammeo. Nelle scorse ore, il Children’s Museum di Indianapolis ha deciso di non esporre più il cappello e i guanti bianchi del Mito. Nel frattempo, il clan Jackson ha tacciato i produttori di Leaving Neverland di “pubblico linciaggio” e Paris, la figlia dell’autore di “Thriller” ha smentito con furia le voci su un tentativo di suicidio: ma non sarebbe la prima volta che la ragazza flirta con l’idea di togliersi la vita. I fans irriducibili gridano al complotto, prendendosela anche con Oprah Winfrey, “rea” di aver intervistato (“la pedofilia trascende il caso Jackson”, ha sottolineato l’anchorwoman) i testimoni-vittime di Leaving Neverland, James Safechuck e Wade Robson, adulti usciti straziati dal tunnel in cui erano entrati da piccoli nella residenza da fiaba dell’amico famoso.

Nel docufilm, presentato al Sundance Festival con standing ovation finale, Safechuck e Robson (che anni fa avevano intentato due cause, rigettate, contro il presunto aguzzino), rovesciano con dovizia di particolari disturbanti le dichiarazioni giurate da loro rilasciate al tempo dei processi del ’93 e del 2005 incentrati sulle sospette devianze dell’artista. Allora James e Wade negarono di aver subìto abusi e contribuirono a tirare fuori Michael dalle sabbie mobili. Oggi ce lo spingono di nuovo dentro, e stavolta l’Aldilà di Jacko somiglia a un definitivo inferno. Ascoltare le loro rivelazioni nel film è uno choc. L’australiano Robson, ballerino prodigio sin dall’infanzia, denuncia sette anni di violenze. La prima notte i genitori lo lasciano a Neverland e vanno a visitare il Grand Canyon. Jackson gli infila le mani dentro il pigiama, “ma non mi sentivo minacciato”. Poi l’iniziazione alla masturbazione, il sesso orale reciproco. “Michael amava che gli strizzassi i capezzoli”. E l’altro: “È Dio che ci ha messi insieme, per farci vivere così il nostro amore”. Wade era soggiogato: “Mi piaceva renderlo felice”. L’ultima volta il cantante portò il quattordicenne in un hotel e tentò di penetrarlo, ma il rapporto era troppo doloroso. Jackson intimò alla vittima di sbarazzarsi degli slip insanguinati, altrimenti sarebbero finiti in prigione. Alcool, pornografia. Anche i genitori di Safechuck si fidavano del divo: “Ci sedusse, emanava fiducia. La sua hair stylist ci diceva che era come un bambino di nove anni”. Che però insegnò al malcapitato amichetto a rivestirsi in fretta: “Se ci scoprono siamo rovinati”. Storie allo specchio, quelle di James e Wade. Crescendo diventarono gelosi dei possibili “rimpiazzi”. Tra questi, l’attore Macaulay Caulkin, che ha sempre negato di essere stato insidiato.

Ma come è cominciata la caduta del semidio? Mettiamo in pausa i nastri di Leaving Neverland. Il pretesto del Destino è banale. Un giorno del ’92, un’auto va in panne a Beverly Hills. L’autista apre il cofano. E si scoperchia un verminaio. Il proprietario della vettura è Michael, che chiede assistenza a un noleggiatore: questi convoca la moglie e il figlioccio di sette anni. Si chiama Jordan Chandler: va in visibilio alla vista del beniamino, la simpatia pare ricambiata. Lì il Destino ingarbuglia una trama lurida eppure trasparente: inviti a Neverland, giornate con i due nel paese dei balocchi e nottate con giochi inconfessabili. Jordan segue Jackson in giro per il mondo. L’idolo gli ripete che “lo fa anche con altri, e se Jordi non ci sta vuol dire che non gli vuol bene”. La madre del ragazzino non sembra rendersi conto di nulla. Ci vuole il padre naturale, il dentista Evan Chandler, per illuminare l’horror: porta il figlio dallo psichiatra, ne esce un resoconto dettagliato. Si innesca il braccio di ferro legale, entrano in campo l’Fbi, la stampa, i giudici. I Chandler si mettono d’accordo con Jackson per un risarcimento da 20 milioni di dollari, mentre sul piano legale decisiva è, tra le altre, la deposizione assolutoria del piccolo Safechuck, che aveva conosciuto Michael nell’86 sul set di uno spot Pepsi. Ma per i Chandler quella montagna di soldi è maledetta: Jordan si rende presto irreperibile (non è stato possibile intervistarlo per Leaving Neverland), mentre il papà si spara in faccia nel 2009, poco dopo la morte di Jackson.

Che nel 2005 era stato riportato alla sbarra con il sospetto di aver profittato di un tredicenne, Gavin Arvizo, malato di tumore. Michael fu scagionato dai 14 capi di imputazione, e qui a suo favore c’era stata la parola di Robson. Disse che non era mai stato “toccato in modo inappropriato”: oggi rovescia il ricordo. Nella reggia inaccessibile di Neverland l’incubo si materializzava nell’attico, dove i passi sulle scale annunciavano l’arrivo di un intruso. Qualcuno che avrebbe potuto interrompere l’atroce danza dell’Orco di fronte all’Innocente.

Indro: “Grillo mi piace, censuratelo!” Beppe: “Moriremmo per una battuta”

A me Grillo piace. Lo considero il più efficace comico in circolazione. Anzi: “comico” non è la parola giusta. Grillo non è un comico, non è un moralista, non è un predicatore: è tutte queste cose insieme. Nel panorama dello spettacolo italiano – dove abbonda il bollito misto – è un’eccezione ambulante (e urlante). Non soltanto esagera: provoca anche, e insulta, e offende. Ma tutte le categorie di giudizio, con un tipo così, risultano inadeguate. Grillo appartiene ad una specie animale particolare, formata da un solo esemplare: lui. O lo strozziamo o lo applaudiamo. Io, appena posso, lo applaudo. Perché i suoi eccessi, a differenza di quelli di Sgarbi, odorano di bucato. Detto questo, resta aperta una questione: le parodie violente, i sarcasmi sanguigni, la caricatura grottesca della società fatti da Beppe Grillo sono alla portata di tutti? Non rischiamo che qualcuno lo prenda alla lettera? (So, ad esempio, che è stato criticato sull’Unità

per aver paragonato i gas delle automobili a quelli dei campi di sterminio nazisti). In altre parole: è opportuno che a un personaggio del genere venga concessa la platea della prima serata Rai? Ebbene: su questo punto, mi astengo. Non sono certo che il grande pubblico sia in grado di capire che Beppe Grillo costituisce la versione genovese del folletto dispettoso delle fiabe, un incubo esilarante, il rigurgito della nostra cattiva coscienza. Chissà: forse è meglio che rimanga “off limits”, per il suo stesso bene. Anche se mi mancherà.

O sservare il nostro Paese, descriverne le dinamiche, porsi delle domande, poi porle agli altri e con insistenza. Lasciando agli occhi curiosi e severi l’onere del pressing. Una o due volte ho sognato persino di essere io Indro, abbandonare lo status di comico e smettere di prendere per il collo il pubblico nei teatri, magari lasciandotelo fare a te qualche volta… Questa raccolta di perle scritte da Montanelli è un ritratto seriale di questa terra: da Garibaldi sino al rigurgito della nostra cattiva coscienza; perché senza rigurgito è impossibile parlare di un’infinita pazienza, anche se si tratta di una grossa penisola. È anche l’eco di una sfida: un ritratto di un Paese, noi, e di un italiano, Indro, che ci ha tenuto molto a lungo sotto la sua lente analitica e appassionata. Ma, sempre: cosa ci fosse allora e cosa adesso, in questo Paese, da renderlo degno di qualsiasi possibile sforzo per rianimarlo è difficile a dirsi. In che cosa siamo rimasti meritevoli, nostro malgrado? Se mi soffermo su Indro cosa posso chiedermi? (…) Cosa può esserci di più distante fra il “severo” giornalista e scrittore e un comico controverso come me? Pensate alla parola “controverso” e avrete una prima traccia: Montanelli si sarebbe fatto uccidere per l’autonomia del suo punto di vista e io lo stesso, ma per una battuta. Un politically scorrect

in doppio petto lui, e io uno scanzonato aggressivo, in un Paese che non sembra mai pronto per nessuno e niente. Il percorso di questi articoli è affascinante, è quello di un cronista storico e storico cronista. Un rimpianto che questo Paese un giorno molto lontano avrà proprio con la Storia, stavolta con la S maiuscola. La fretta con cui ripetono tutti che è impossibile cambiarla è tanto cialtrona quanto gli scanzonati futuri che vendiamo a poco prezzo. Sì, la storia non può essere cambiata, così come il futuro indovinato. Indro ci mostra i tanti possibili “dove e quando” sono stati così vicini da poterli toccare: storia e futuro. Si chiama presente, quello che alla gran parte di noi sfugge, capelli al vento. La visione di uno storico ha bisogno di tanto presente: la prospettiva di questa lettura. Però, ricordi? Il mondo, a volte, lo spiega meglio la storia di uno spazzolino da denti che una dissertazione sull’economia circolare.