Sblocca-cantieri o sblocca corruzione?

Uno studio di Transparency International del 10 dicembre rivela che nel 2018 i giornali hanno riportato 983 casi di corruzione, quasi il doppio del 2017 e, sicuramente, molti episodi corruttivi sono rimasti fuori da questo censimento. L’Autorità anticorruzione ha esaminato 171 ordinanze di arresto relativi a reati contro la P.A.; solo nel trascorso anno, l’ufficio diretto da Cantone ha proposto 19 commissariamenti di appalti pubblici investiti da vicende giudiziarie di corruzione.

Il nuovo governo è sembrato muoversi con decisione sul terreno della lotta alla corruzione, tant’è che nel mese di dicembre è stata approvata, fortemente voluta dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede, la legge “spazzacorrotti” – apprezzata dall’80% degli italiani – la quale: a) prevede il “Daspo” per i corrotti consistente in una interdizione permanente dai pubblici uffici e dallo stipulare contratti con la P.A. per soggetti condannati a pene superiori ai due anni per vari reati (corruzione, peculato, ecc.); b) introduce la figura dell’“agente sotto copertura” anche nelle indagini per i reati contro la P.A.; c) prevede la possibilità di utilizzare nelle inchieste per tali reati anche lo strumento intercettivo “Trojan Horse”, indispensabile nella lotta contro la corruzione. È, però, di alcuni giorni or sono la notizia che la riforma del Codice degli appalti messa a punto dal governo viene trasferita dal disegno di legge-delega (approvato circa 15 giorni orsono) al decreto legge “sblocca-cantieri” che dovrebbe essere approvato domani dal Consiglio dei ministri. La prima e più importante (e pericolosa) novità riguarda l’innalzamento delle soglie per l’affidamento diretto dei lavori: secondo il nuovo regime, fino a 1 milione di euro, l’affidamento sarà diretto e “senza obbligo di motivazione”, mentre tra 1 milione e 5 milioni vi è una procedura negoziata con l’obbligo di invitare 5 imprese. Si tratta di una rimodulazione della procedura attuale devastante sotto il profilo della concorrenza e trasparenza. Inoltre, i piccoli Comuni potranno bandire gare da soli e non saranno più obbligati ad affidarsi a consorzi. La seconda novità, anch’essa rilevante (e pericolosa), è la liberalizzazione dei subappalti: la bozza dello schema di decreto propone di eliminare l’obbligo di non superare l’attuale quota del 30% dell’importo complessivo dei lavori. L’obiettivo dichiarato dal governo è di velocizzare le gare di appalto e, quindi, l’apertura dei cantieri, ma in realtà si apre la strada a una riduzione dei controlli e delle garanzie favorendo la corruzione, da sempre dilagante in questo delicato settore, e le infiltrazioni mafiose. È necessario, quindi, richiamare l’attenzione del vicepremier Di Maio e dei ministri del M5S (che sembrano contrari a modificare almeno il regime del subappalto) chiamati ad approvare il decreto nel prossimo Cdm, su due fondamentali circostanze. 1) Da Sud a Nord non c’è Regione o Provincia che sia immune nella concessione degli appalti da fenomeni di corruzione. Gli episodi corruttivi e le turbate libertà degli incanti si contano a centinaia in pochi anni e forniscono il quadro di una P.A. corrosa dal fenomeno delle tangenti. 2) Numerose inchieste (e le relative sentenze) hanno acclarato come, soprattutto al Sud, le grandi opere abbiano subìto le infiltrazioni della criminalità organizzata. Basti pensare che, per l’autostrada A3 nel tratto calabrese, grandi imprese costruttrici hanno dato (“rectius”: sono state costrette a dare) in subappalto i singoli lotti a ditte mafiose secondo accordi perfettamente pianificati, in appositi “summit”, dalle varie famiglie mafiose che controllavano quei territori (Piromalli, Tripodi, Pesce, Alvaro, ecc.). E l’attenzione dei ministri “grillini” dovrà essere ancora maggiore se è vero che, tra le novità più importanti, vi è anche il tentativo di circoscrivere la responsabilità per danno erariale e per il reato di abuso di ufficio per i funzionari pubblici.

Via della seta (e via da questa Nato)

C’è molta confusione sotto i cieli del governo sulla posizione, economica, strategica, geopolitica, da prendere nella guerra in corso fra Usa e Cina, le due superpotenze attualmente dominanti, una in fase calante, l’altra emergente. Il “sovranista” Salvini, in coerenza con se stesso, sembra preoccupato per la penetrazione economica della Cina in Italia, peraltro già in atto da tempo; dall’altra, in perfetta incoerenza con se stesso, si sottomette ai voleri, o per meglio dire ai diktat americani. I 5Stelle sembrano molto più morbidi, soprattutto per esigenze economiche, nei confronti della Cina e della sua “Via della Seta” e più ostili agli Stati Uniti che dell’Italia hanno fatto colonia dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, come dimostrano anche i forti dubbi che il nostro ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha espresso sull’acquisto degli F-35 in cui l’Italia è impegnata, ma in subordine agli americani. Nessuno comunque, né il premier Conte, né il vicepresidente 5Stelle Di Maio, né il presidente della Repubblica Mattarella, mette in dubbio la fedeltà transatlantica dell’Italia di cui la Nato, sotto il profilo della difesa, è insieme il simbolo e il concreto strumento.

Molto più netta è la posizione della Germania. Berlino una sua “Via della Seta” l’ha già realizzata sia pur in termini ferroviari. Come ha detto Giuseppe Conte al Corriere: “Il terminale ferroviario della Belt and Road è già individuato in Germania, a Duisburg, a riprova di una collaborazione tra Berlino e Pechino ben più avanzata della nostra”. Durissima è stata la reazione tedesca al diktat americano che minaccia pesanti ritorsioni se Berlino, e con essa l’Europa, dovesse favorire una qualche penetrazione cinese nel campo dell’intelligence, vale a dire il 5G, il network superveloce della telefonia mobile. L’ambasciatore americano a Berlino, Richard Grenell, ha scritto al ministro dell’Economia tedesco che “le società controllate da Pechino come Huawei o Zte potrebbero compromettere gli scambi di informazioni segrete e confidenziali tra i Paesi alleati e quindi gli Usa prenderebbero contromisure per limitare la cooperazione con la Germania nel campo della difesa e dell’intelligence, compresa quella nella Nato”.

Curiosa affermazione, visto che non più di un anno fa si è scoperto quello che tutti sapevano: che gli Usa spiano da sempre le informazioni di intelligence fra i Paesi europei loro alleati. Comunque la risposta di Angela Merkel non si è fatta attendere: “Per il governo federale la sicurezza è un bene supremo, anche nella costruzione del 5G. Ecco perché definiamo da soli i nostri standard”. Ancora più esplicita la replica del segretario del gruppo parlamentare Cdu-Csu, Michael Grosse-Broemer: “Non abbiamo bisogno di suggerimenti o minacce da parte dell’ambasciatore americano per decidere passi sensati in tema di sicurezza nazionale”. Del resto, sui reali rapporti con gli Usa, Merkel aveva, come sempre, anticipato tutti. Nel maggio 2017 aveva affermato: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono finiti. Noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani. Naturalmente dobbiamo avere relazioni amichevoli con Stati Uniti, Regno Unito e altri vicini, inclusa la Russia. Dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro”. Una chiara presa di distanza dagli Usa, dal Patto Atlantico e da quella Nato che è stato uno dei principali strumenti con cui gli americani hanno tenuto, e ancora tengono, in stato di minorità l’Europa, dal punto di vista militare, politico, economico, culturale (in quest’ultimo caso anche attraverso la predominante diffusione della lingua anglosassone). Ma questa presa di distanza era cominciata molto tempo prima. La Germania non ha partecipato alle aggressioni all’Iraq e alla Libia ed è assente sul quadrante siriano.

Il nocciolo della questione posto da Merkel è quindi quello di una reale autonomia militare europea e, in prospettiva, di una uscita dalla Nato, questa alleanza sperequata sotto il totale controllo Usa che ha trascinato l’Europa in avventure militari che si sono rivolte regolarmente contro di essa (la Libia è un esempio che dovrebbe essere chiaro a tutti). Senza un’autonomia militare non c’è autonomia nè politica né economica.

L’attuale conflitto economico fra Stati Uniti e Cina potrebbe essere per l’Europa l’occasione favorevole per sciogliere l’alleanza con un Paese, gli Stati Uniti, che sta a 10mila chilometri di distanza da noi ed è un competitor economico sleale, oltre che minaccioso, e per prendere una posizione di equidistanza fra Usa, Russia e Cina. Occidente è oggi un termine che non ha più alcun senso. Noi siamo europei e, se si esclude la Gran Bretagna che fortunatamente si è data, abbiamo una tradizione culturale che affonda le sue radici molto più lontano nel tempo e che con quella americana ha poco o nulla a che vedere. Sta quindi finalmente a noi, come dice Merkel, “prendere in mano il nostro destino”.

Impastato, Borsellino &C.: la lotta alla mafia diventa un fumetto

Coinvolgerele nuove generazioni nella ricerca della verità e della giustizia: questo è l’obiettivo di MilaNOMafia, un’iniziativa nata dall’incontro tra la Fondazione Franco Fossati, WOW Spazio fumetto, l’Associazione Peppino Impastato e Adriana Castelli. Lo scopo sarà infatti quello di raccontare le vite dei personaggi coraggiosi che hanno detto no alla criminalità organizzata, da Peppino Impastato a Carlo Alberto dalla Chiesa, dai magistrati Borsellino e Falcone a Ilaria Alpi. Il tutto usando lo strumento del fumetto per parlare al pubblico più giovane, in un percorso di mostre, laboratori, viste guidate, incontri e proiezioni a ingresso libero. L’appuntamento è dal 21 marzo al 5 maggio, presso lo spazio fumetto Wow di viale Campania 12, a Milano. Ogni settimana sarà dedicata a un personaggio diverso, e per l’ultima data è previsto il lancio del progetto #rompiamoilsilenzio: gli studenti verranno spronati a diventare parte attiva della mostra, scrivendo le storie mancanti o completando quelle esistenti, in vista della creazione di nuovi fumetti che potranno essere selezionati per l’esposizione dell’anno prossimo.

Morandi, l’inchiesta rischia lo stop. Per i nuovi indagati è da rifare

Indagini da ripetere. È il rischio che incombe sull’inchiesta per il crollo del ponte Morandi. Già, perché nelle scorse settimane sul registro della Procura di Genova sono stati iscritti 53 nuovi indagati (portando il numero totale a 74, tra cui due società). Questi però saranno ammessi con i vecchi – già noti da settembre – al primo incidente probatorio in corso da quattro mesi. Ed ecco il problema: gli ultimi arrivati potrebbero chiedere la ripetizione degli atti di inchiesta (alcuni però irripetibili) già compiuti. Almeno questa è la scelta che alcuni difensori avrebbero già sottoposto al giudice delle indagini preliminari. Il rischio è che si possano perdere mesi di lavoro. Un guaio in un’inchiesta che finora è proseguita a marce forzate, pressata dal bisogno di sgomberare il campo per la ricostruzione, ma sul versante opposto dalla complessità degli accertamenti e dal numero impressionante di indagati, avvocati e periti. E adesso? Franco Cozzi, procuratore di Genova, si dice tranquillo: “Valuterà il giudice. Ma noi abbiamo conosciuto gli elementi che hanno portato all’iscrizione solo dopo l’inizio dell’incidente probatorio”. Tutto da rifare? “No – secondo Cozzi -,i nuovi indagati possono partecipare ai nuovi accertamenti. E comunque i periti non hanno ancora depositato la loro relazione e i reperti del ponte sono ancora a disposizione”. C’è, però, chi sostiene che siano stati compiuti accertamenti irripetibili e quindi che l’indagine potrebbe bloccarsi se gli indagati più recenti ne chiedessero la ripetizione. Cozzi smentisce: “Gli accertamenti sulla memoria degli smartphone, che non possono essere effettuati due volte, devono ancora essere compiuti”. Non è l’unico problema: nei prossimi giorni arriveranno in porto le maxi gru per demolire parti del Morandi. Ormai è quasi certo che la pila 8, su cui si sono rilevate tracce d’amianto, non sarà abbattuta con l’esplosivo. Per le pile 10 e 11, però, sembra difficile trovare un’alternativa alla dinamite.

“Non mandare a puttane la vita”. Polemiche sulla campagna anti-prostituzione del sindaco

“Non mandare a puttane la tua famiglia… non mandare a puttane la tua dignità… non mandare a puttane la tua salute… non mandare a puttane la tua vita…”. Parole, quelle scelte da Francesco Maragno, sindaco di Montesilvano alle porte di Pescara per lo spot contro la prostituzione che hanno suscitato non poche polemiche. “È esattamente ciò che volevo: provocare per richiamare l’attenzione a un problema che sta crescendo”, ci dice il sindaco di Forza Italia. “Abbiamo voluto scuotere le coscienze degli uomini a tutela delle donne che sono spesso vittime della tratta”. Ma molti lo definiscono uno spot sessista che semplifica un fenomeno complesso. ”Lo spot è osceno perché etichetta le povere ragazze come puttane”, attacca il regista teatrale Edoardo Oliva. Della stessa opinione seppur con sfumature diverse è Sylvia Rivera di Arcigay Chieti: ”Sono frasi che minano quella stessa dignità che si erano prefissate di preservare. Il Comune di Montesilvano ci fa tornare indietro di 50 anni”. È indubbio che appena scende il sole, tutto l’anno, il lungomare dove sfilano gli hotel, si trasformi in un vai e vieni di clienti a bordo delle auto, provenienti da tutta la regione. ”E noi come sindaci siamo disarmati in assenza di una normativa che definisca la prostituzione reato”, continua Maragno, che rivendica con orgoglio la collaborazione con la Comunità Papa Giovanni XIII finalizzata al recupero delle prostitute: ” Abbiamo istituito un numero dedicato alla ‘salvezza’ delle donne, sensibilizzato gli amministratori dei condomini affinché denuncino gli sfruttatori che affittano le case. Sanzioniamo i clienti con multe fino a 450 euro, e abbiamo istituito i ‘Nap’ (Nucleo anti-prostituzione) della polizia municipale. La prostituzione è un reato che mortifica le donne e la bellezza dei nostri territori mettendone a repentaglio la sicurezza”.

Nella città dell’Ilva si continua a morire: bimba di 5 anni uccisa da tumore al cervello

Non ce l’ha fatta Marzia a vincere la sua lotta contro il cancro. Aveva solo 5 anni, è morta di tumore al cervello. Suo cugino, Alessandro, che urlava alle manifestazioni ”Noi vogliamo aria pulita”, ne aveva 16 quando venne ucciso dalla fibrosi cistica. L’ennesima vittima che si aggiunge alla lunga lista ricordata il 15 marzo scorso a Taranto con una oceanica fiaccolata contro l’inquinamento. Una vera emorragia, come spiega il Primario dell’Ospedale Moscati, l’ematologo-oncologo, Patrizio Mazza: ”I pazienti sono in aumento, fra 5 anni saranno 34.000. Il 30% di tumori in più rispetto al resto d’Italia. E a fronte di 6.000 visite e prestazioni ambulatoriali l’anno a cui si aggiungono 14.000 ricoveri, con un aumento esponenziale delle patologie, possiamo contare su un organico fra infermieri e medici molto al di sotto delle crescenti necessità”. Mentre il ministro Di Maio l’8 settembre 2018 assicurava: “Abbiamo installato tecnologie che riducono del 20% le emissioni nocive”. Il paradosso, però, è che nonostante l’inquinamento sia in realtà in aumento, i dati rientrano nei limiti stabiliti dall’Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale), seppure l’Arpa certifichi che non garantiscano i livelli essenziali di salute. Il riesame dell’Aia spetta al ministero dell’Ambiente su richiesta della Regione, già avanzata dal governatore Michele Emiliano e dal sindaco Melucci, ma quella di quest’ultimo non è ancora pervenuta nonostante abbia dichiarato di essere pronto a chiedere la chiusura degli impianti a caldo dell’Ilva se i dati saranno confermati dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Chi non resterà a guardare è il Procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, che al termine dell’incontro con ArcelorMittal e i Commissari straordinari Ilva, ha dichiarato: ”Abbiamo istituito un nuovo metodo di lavoro. Di fronte alla nuova sconcertante situazione è nostro dovere verificare e dare risposte immediate”. Intanto a Taranto ci si continua ad ammalare e a morire a norma di legge.

Processo Poggiolini, non ci crede più neanche il ministero: rinuncia alla causa

Nemmenoil ministero della Salute crede più alla colpevolezza dell’ex ras della sanità Duilio Poggiolini e degli ex tecnici del gruppo farmaceutico Marcucci, imputati a Napoli nel processo “Sangue infetto” per omicidio colposo plurimo in relazione alla diffusione negli anni 70 e 80 di plasmaderivati contaminati da Hiv ed epatite presenti nel sangue di mercenari esteri. L’avvocatura dello Stato infatti ha rinunziato in extremis alla costituzione di parte civile, uscendo dal dibattimento una settimana prima della sentenza. Un verdetto atteso soprattutto dai familiari di nove persone decedute, costituite parti civili attraverso gli avvocati Stefano Bertone ed Ermanno Zancla. Nove tra le diverse centinaia di emofiliaci infettati dall’uso di sangue di dubbia provenienza e poi morti nel tempo. Gli avvocati incaricati dal ministero, che nella memoria di costituzione aveva chiesto 55 milioni di euro di risarcimento danni, hanno deciso di non venire in aula a svolgere le conclusioni: erano in calendario l’11 febbraio, ma di rinvio in rinvio i legali hanno lasciato cadere la cosa, fino all’ultima udienza possibile, ieri, dedicata alle arringhe di alcuni avvocati, tra cui il difensore di Poggiolini, Gigi Ferrante.

Tecnicamente, il ministero ha proceduto a una rinuncia al risarcimento danni, anche in caso – remoto – di condanna degli imputati. Sì, perché è stata la stessa Procura di Napoli – pm Lucio Giugliano, procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli – ad aver chiesto il 21 gennaio scorso l’assoluzione di Poggiolini &C. “perché il fatto non sussiste”. La richiesta è avvenuta nel corso di una requisitoria durante la quale il pm ha sottolineato l’assenza di certezza di un nesso causale tra l’infusione degli emoderivati ai pazienti emofiliaci e i loro decessi, avvenuti in qualche caso molti anni dopo i presunti contagi, circostanza che ha fatto slittare in avanti i termini della prescrizione. Il processo non è riuscito a dimostrare, secondo l’accusa, che quelle morti dipesero dal contagio da plasma infetto. Sul punto, le indagini preliminari, interamente orientate verso l’ipotesi di epidemia colposa archiviata dal Gip, si sono dimostrate lacunose. E a trent’anni dai fatti, certi accertamenti sono impossibili da fare o ripetere. Di diverso avviso l’avvocato Bertone, che giovedì depositerà all’attenzione del giudice monocratico Antonio Palumbo una memoria con la quale ricostruirà le ragioni secondo le quali gli imputati vanno condannati. Bertone commenta così l’uscita dal processo del ministero della Salute: “Dalle informazioni che ho raccolto mi risulta che l’avvocatura dello Stato ha interloquito con il ministero per la fase conclusiva del processo. Il risultato sono venticinque anni di storia cancellati in un giorno dal ministero di Giulia Grillo”. Contattato dal Fatto, il professore Alfonso Maria Stile, a capo di un pool di legali che difende il gruppo Marcucci, sostiene invece che “la rinuncia del ministero è l’ulteriore dimostrazione che questo processo non doveva nemmeno iniziare. Evidentemente ciò che è emerso da tre anni di udienze ha convinto l’Avvocatura dello Stato dell’inesistenza di prove contro gli imputati”. Lunedì 25 marzo, salvo sorprese, la sentenza.

Nessuna verità e un finto colpevole

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin morirono vittime di un agguato. Il proiettile di un kalashnikov colpì alla tempia Ilaria e una raffica raggiunse Hrovatin. A 25 anni di distanza da quegli omicidi nessun aula di giustizia è riuscita a scrivere una verità su chi fossero mandanti ed esecutori materiali di quella strage.

Fino al 2016, a pagare per quell’eccidio era stato il somalo Hashi Omar Hassan, accusato da un suo connazionale, Ahmed Ali Rage, detto “Jelle”, di essere tra gli autori dell’attentato (sarebbe stato alla guida della Land Rover con cui il commando piombò sui giornalisti). Dopo 16 anni di carcere e alcuni mesi ai servizi sociali, il tribunale di Perugia finì per riconoscere l’abbaglio (anche grazie a “Chi l’ha visto?”, che recuperò Jelle in Gran Bretagna e gli fece ammettere di essersi inventato tutto per poter scappare dal suo paese).

Ilaria Alpi era arrivata in Somalia nel 1992 per seguire l’operazione Restore Hope (gli Americani, su mandato Onu, provarono a fare ordine tra i signori della guerra dopo la destituzione di Siad Barre). Si era poi occupata dei traffici di armi e di rifiuti tossici da e verso il paese africano che avrebbero coinvolto anche esponenti dei servizi segreti italiani. Uno degli informatori della Alpi, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, fu ucciso nel novembre 1993 a Balad (sempre in Somalia). Qualche giorno dopo avrebbe dovuto testimoniare davanti al giudice Felice Casson dei suoi rapporti con Gladio, di cui faceva parte.

“Ho visto morire Ilaria. Volevano che mentissi”

Quella che leggerete in queste righe è una testimonianza inedita. Si tratta di un signore somalo, Mohamed Hussein Alasow. Lo abbiamo raggiunto a Mogadiscio a pochi giorni dall’invio in tipografia di questo libro. È stato testimone oculare dell’agguato a Ilaria e Miran. Faceva l’autista, all’epoca, ed era fermo con la sua macchina (aveva una Land Rover anche lui) davanti all’hotel Amana. (…)

“Mi chiamo Mohamed Hussein Alasow. Sono nato a Mogadiscio, il 31 dicembre 1963. (…) All’epoca dell’omicidio di Ilaria e Miran lavoravo anche per l’hotel. Facevo per loro l’autista ed ero a disposizione per le esigenze dell’albergo. Ora lavoro in proprio. Ho ancora l’officina e quando ne ho l’occasione faccio l’autista di auto e di moto”.

Cominciamo con la sua testimonianza sul luogo dell’agguato.

In quei giorni avevo fatto l’autista per una troupe di Mediaset.

Aveva conosciuto Ilaria Alpi?

No, non l’avevo conosciuta.

Mi può raccontare del giorno in cui Ilaria e Miran sono stati uccisi?

Ilaria Alpi era rientrata da Bosaso. Il suo autista era Sid Ali Abdi, detto Murgani. Io mi trovavo proprio di fronte all’hotel Amana. Mi si vede anche in alcune immagini girate subito dopo l’omicidio. Mi si riconosce perché ho un bastoncino in bocca, di quelli che noi somali usiamo come spazzolino da denti. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono scesi dalla loro macchina davanti all’hotel Amana e sono entrati nell’albergo. Vi sono rimasti solo pochi minuti. Poi sono usciti, Ilaria è salita dietro e Miran davanti, accanto all’autista, e la macchina è ripartita. Avranno percorso una quarantina di metri. Appena la Toyota si è mossa, ho visto arrivare da destra, rispetto a dove ero fermo con la mia macchina, una Land Rover blu che accelerando rapidamente si è avvicinata a quella dei due giornalisti, come se volesse andargli addosso. Dai finestrini sono sbucate le canne dei kalashnikov, almeno tre fucili. Prima che loro facessero fuoco, ha sparato l’unico uomo di scorta di Ilaria e Miran, che si trovava sul cassone, nella parte scoperta della macchina. Quelli della Land Rover hanno subito sparato a loro volta, e nel mio ricordo, hanno continuato a sparare all’impazzata. (…)

Nessuno di loro è sceso dalla Land Rover?

Per quello che ho visto io no. Sparavano dai finestrini e poi dal portellone posteriore

Ha visto tutta la scena o si è nascosto per via della sparatoria?

Mi sono buttato a terra, per paura di essere colpito, ma ho sempre guardato verso il punto dove avveniva lo scontro a fuoco, ovviamente da terra, cercando di stare riparato. Ero a una quarantina di metri. (…)

Quanti erano gli assalitori?

Cinque. L’autista più quattro persone. (…)

L’agguato sembrava mirato alla Toyota?

Certamente sì. Ce l’avevano con i giornalisti. Si sono diretti verso la macchina con l’intenzione di sparare. (…)

E poi, che è successo?

La Land Rover è partita e la gente ha cominciato ad avvicinarsi alla Toyota dei giornalisti.

E lei?

Mi sono avvicinato anch’io.

(…)

Quando le hanno chiesto di venire a testimoniare in Italia?

Nel 1998.

1998? Ne è sicuro?

Sì. Ho ancora il passaporto con il visto.

Chi l’ha contattata per chiederle di testimoniare?

Due somali. Uno che si trova in Italia, che è soprannominato Gargallo. Vive in Italia da molti anni. L’altro, che invece vive in Somalia, a Mogadiscio Sud, si chiama Omar Dini. Gargallo faceva da tramite con gli italiani che volevano che venissi a testimoniare.

Doveva venire da solo?

No, insieme ad altre due persone, una donna e un uomo.

Sa chi erano?

Sì. Abdi Mahamud Omar, detto Jalla. La donna si chiama Ader, ed è venuta in Italia con suo figlio.

E poi?

Siamo arrivati in Italia. La donna col bambino da quel momento non l’ho più vista. Io e Jalla siamo stati accolti da poliziotti e carabinieri, che ci hanno portato al Viminale e poi in una caserma, dove abbiamo dormito. Ci avevano anche dato un somalo, che ci accompagnava e ci faceva da interprete, tale Ali Marduf.

E poi?

Dopo tre o quattro giorni mi hanno portato a fare l’interrogatorio.

Ricorda chi l’ha interrogato?

No, non ricordo il nome. Era una persona abbastanza giovane e piuttosto robusta. Ed era presente l’interprete Ali Marduf.

Che cosa le ha chiesto?

Mi ha detto che volevano che raccontassi quello che avevo visto sul luogo dell’omicidio. E hanno aggiunto che avevano già una persona somala arrestata in Italia. Non capivo bene dove volessero arrivare. Il discorso era un po’ strano… Dovevo, secondo loro, solo confermare quello che mi avrebbero detto.

In che senso?

Il poliziotto robusto continuava a dirmi che dovevo solo confermare quello che mi avrebbero chiesto. Io rispondevo che volevo raccontare quello che avevo visto, non confermare quello che mi dicevano loro. A un certo punto i toni si sono scaldati, e da certe frasi pareva che volessero anche accusarmi di qualcosa. Allora gli ho detto che non avrei fatto nessun verbale. Abbiamo litigato per un po’, tanto che il poliziotto ha preso il verbale che avevano cominciato a scrivere e me l’ha stracciato davanti agli occhi. (…)

Ma che cosa doveva confermargli?

Che Hashi Omar Hassan era fra quelli della Land Rover blu. Dovevo accusare Hashi. Ma Hashi non c’era. Non potevo farlo. Io Hashi, quel giorno, non l’ho visto. (…) Io ho detto che Hashi non lo conoscevo, non l’avevo visto. Non dico cose non vere. (…) Mi hanno promesso che se avessi confermato quello che mi avrebbero detto potevo rimanere in Italia.

Ha firmato qualche verbale?

No. Non ho firmato nulla. Anzi, come ho detto, hanno strappato i fogli.

Salvini, no comment: “Sull’avvelenamento aspetto certezze”

Nessun commento, nessuna vera presa di posizione. Solo poche parole per evitare un argomento sicuramente delicato, forse anche un po’ imbarazzante visto i riferimenti a Silvio Berlusconi e all’epoca neanche troppo lontana del Bunga-Bunga. Matteo Salvini glissa sulla morte di Imane Fadil e sul suo presunto avvelenamento: “C’è un’inchiesta in corso. Non mi permetto di sostituirmi agli inquirenti e ai magistrati e aspetto che mi dicano qualcosa di certo. Non mi accontento di alcune ipotesi giornalistiche. Se ci fosse qualcosa di certo, ovviamente, al Viminale ne trarremo le conseguenze”, ha detto il vicepremier e ministro dell’Interno a margine di un incontro a Palazzo Pirelli a Milano. Ieri anche la Procura ha avvalorato l’ipotesi di tracce di metalli fuori dai valori normali nel corpo della ragazza morta lo scorso 1° marzo nella clinica Humanitas di Rozzano. Imane Fadil era parte civile nel processo Ruby-Ter ancora in fase di svolgimento presso il Tribunale di Milano, dove sono state rinviate a giudizio diverse ex Olgettine, oltre proprio a Berlusconi.