Glaucoma, il nemico invisibile della vista

In Italia ci sono almeno 600mila persone affette da glaucoma senza saperlo. In pratica un malato su due non sa di esserlo. E questo perché non si va abbastanza dall’oculista, ritardando la diagnosi. Magari ci si affida all’ottico, erroneamente. Ma non è un medico, è un tecnico autorizzato alla confezione e alla vendita di occhiali e lenti. “Per diagnosticare il glaucoma è necessaria una visita completa dell’occhio – sottolinea Stefano Miglior, presidente dell’Associazione italiana per lo studio del glaucoma (Aisg) –. Non basta misurare la pressione oculare, anche se alcuni programmi di screening pubblicizzati lo fanno credere. Occorre un esame più approfondito”. Il glaucoma è una malattia del nervo ottico che determina la perdita progressiva e irreversibile del campo visivo fino alla cecità. Colpisce soprattutto gli over 60 ma può insorgere anche prima, a partire dai 40, sebbene i sintomi compaiano solo quando è già in fase avanzata. “È un killer silenzioso”. avverte Miglior. Nel mondo si stima che entro un anno i pazienti saranno oltre 65 milioni. Il problema è innanzitutto culturale: andiamo dall’ottico solo per gli occhiali, non per curarci.

Bce, il fantasma di Sisifo aleggia sul declino economico dei governi

Dopo 10 anni gli erculei sforzi monetari della Bce iniziano ad evocare non più l’eroe greco, bensì una grottesca figura mitologica, metà Sisifo e metà cigno nero. Da Francoforte vengono dispiegate eccezionali misure per contrastare un declino economico su cui la politica monetaria influisce poco, ma che dipende da fattori strutturali quali: demografia in declino, burocrazia in aumento, innovazione in panne, industrie antiquate, mercati dei capitali frammentati, welfare insostenibile, regolamentazioni ossessive, istruzione anacronistica, ricerca carente, infrastrutture fatiscenti. Il tutto miscelato da una confusione istituzionale. Il ritornello di Draghi, dopo l’annuncio che la Bce ricomincerà da settembre a foraggiare abbondantemente le banche, è risuonato per l’ennesima volta. Ma l’abbondante liquidità immessa attraverso il terzo Ltro (long term refinancing operation), i massicci acquisti di debito pubblico e privato, i tassi negativi (prolungati almeno fino al 2020), riusciranno forse a tamponare la situazione (infliggendo danni subdoli, iniqui e permanenti ai risparmiatori) ma, come in precedenza, non imprimeranno slancio a una crescita flebile ed erratica. In parole povere, la Bce non può cavare i marroni dal fuoco a governi imbelli che, abbarbicati a un provinciale, squallido immobilismo di andreottiana memoria, aspettano il Godot del miracolo economico. Tra il 2017 e metà 2018 era sembrato che l’economia europea potesse raggiungere la velocità di fuga dalla mediocrità e stesse sorgendo l’alba della ripresa strutturale. La Bce aveva terminato il Qe (quantitative easing) e annunciato la normalizzazione dei tassi di interesse. Presto i rosei bagliori si sono rivelati come il beffardo riflesso di un fuoco di paglia attizzato dall’ennesima, asfittica ripresina ciclica da finanza allegra.

Persino l’amministrazione Trump ha spedito due siluri verbali all’Ue per bocca del consigliere economico Larry Kudlow: 1) l’Europa deve smettere di andare a rimorchio della locomotiva americana (peraltro sfiatata); 2) i prestiti concessi alle banche a tassi negativi sono un palliativo. Urgono tagli fiscali, uniti a liberalizzazioni del mercato del lavoro, che pochi paesi in Eurolandia hanno varato. L’intemerata riflette la crisi di nervi di cui è preda la Casa Bianca: nonostante un deficit pubblico vicino al 7% del Pil nel 2018, i segnali negativi abbondano: utili in caduta, borsa in fibrillazione, creazione di nuovi posti di lavoro in stallo, deficit commerciale record nonostante il protezionismo. Per scongiurare una recessione prima del 2020, Trump ha presentato un folle piano fiscale che rimanda il pareggio di bilancio al 2034. Difficilmente il Congresso lo approverà perché i Democratici lo giudicano troppo austero. Va in scena un’altra tragicommedia che, dopo il disastro (per l’Uk) della Brexit, imprima una nuova spinta propulsiva al cupio dissolvi anglosassone.

Non paghi la bolletta? Finisci nella lista dei cattivi pagatori

Entra in funzione da oggi, dopo ben 42 mesi di attesa, il nuovo Sistema informativo sulle morosità intenzionali nel settore della telefonia, il cosiddetto Simoitel. Con estrema gioia da parte dei gestori e qualche fondata preoccupazione per tutti i clienti che passano da un operatore all’altro lasciando dietro di sé bollette insolute e, molte volte, tenendosi ben stretto anche il costosissimo ultimo modello di smartphone o tablet legato alla promozione sottoscritta. Ora a tutti loro arriverà una lettera di preavviso da parte della compagnia telefonica per avvisarli che hanno 30 giorni di tempo per saldare il debito oppure si vedranno inseriti in una black list. Un meccanismo, simile a quello della centrale rischi dei cattivi pagatori delle rate di mutui e prestiti che, una volta iscritti nei Sic (Sistemi di informazioni creditizie), restano fino a 5 anni esclusi dal sistema bancario e finanziario.

“Diversamente dalle banche dati creditizie – spiega l’Asstel (l’associazione di rappresentanza della filiera delle Tlc) – il Simoitel è invece uno strumento di contrasto alle morosità intenzionali gravi e non a qualsiasi insoluto. Il provvedimento risponde a un’esigenza delle compagnie di fronteggiare il fenomeno di coloro che si sottraggono intenzionalmente dal pagare quanto dovuto nel passaggio da un operatore all’altro”. Insomma, un enorme problema economico per i big della telefonia che, non riuscendo a star dietro alla mole di operazioni di portabilità innescate dal processo di liberalizzazione del settore (a marzo 2018, secondo l’ultima rilevazione dell’Agcom, le sole operazioni del servizio di mobile number portability hanno superato 120,5 milioni di unità (15,4 milioni in più rispetto al 2017), continuano a perdere quattrini. Così, d’ora in avanti, per contrastare questo fenomeno scatterà la schedatura nel Simoitel che renderà impossibile ottenere la sottoscrizione di un nuovo abbonamento per la nuova linea fissa o mobile.

Tutto sotto la supervisione del Garante della Privacy che già nell’ottobre 2015 ha dato il consenso alla creazione del registro dei morosi, impostando però dei paletti stringenti per gestire la mole delle informazioni e per impedire che nella banca dati possano finire anche i clienti che non pagano le bollette a causa di difficoltà economiche momentanee o per ritardi occasionali.

“Le informazioni sulle morosità – spiega Giuseppe Busia, segretario generale del Garante della Privacy – potranno essere inserite nel sistema solo al contemporaneo verificarsi di tre precise condizioni: il recesso dal contratto da parte di una delle due parti (gestore e cliente, ndr) deve essere esercitato da non meno di tre mesi; l’importo dell’insoluto per ogni singolo operatore deve ammontare a non meno di 150 euro; ci deve essere la presenza di fatture non pagate nei primi sei mesi successivi alla stipula del contratto; deve esserci l’assenza di altri rapporti contrattuali post-pagati, attivi e regolari nei pagamenti con lo stesso operatore. Insomma requisiti che dovrebbero rassicurare clienti e associazioni dei consumatori che non hanno mai nascosto la propria perplessità sull’istituzione di questa black list in un settore afflitto da una miriade di inefficienze e disservizi, che hanno sempre penalizzato gli utenti, come ad esempio il caso della doppia fatturazione che si rischia di ricevere quando si decide di cambiare gestore. Tant’è che anche il Simoitel si è trasformato in una pratica commerciale scorretta. Lo scorso agosto, infatti, l’Antitrust ha sanzionato Wind Tre, Tim e Vodafone per 3,2 milioni di euro in totale per aver minacciato i clienti di iscriverli in questa lista dei cattivi pagatori in caso di mancato pagamento di posizioni debitorie, a volte inesistenti. Ma per convincere gli utenti, i gestori sono arrivati perfino a telefonare al debitore a casa o sul lavoro cercando di sfibrarlo, affinché saldasse subito il debito.

Ora, però, dovrebbe filare tutto liscio. Anche se i clienti finissero nella lista non si ritroveranno in un girone infernale: pagando possono ottenere il via libero per riconquistare lo status di buon pagatore. È Crif, il gestore scelto per amministrare il Simoitel, consentendo agli operatori telefonici di consultarlo per scoprire subito l’affidabilità del potenziale cliente e decidere così se concedergli l’attivazione del contratto o meno. Ma oltre all’avviso che i clienti cattivi riceveranno prima dell’iscrizione, è stato anche stabilito che le informazioni sui pagamenti non regolarizzati resteranno conservate solo per 36 mesi per poi essere cancellate automaticamente. Mentre se si salda il debito, basta inviare una comunicazione al gestore telefonico che comunicherà l’informazione a Crif che, dopo 7 giorni, procederà a cancellare il nominativo.

Per tutti i clienti iscritti alla lista dei cattivi pagatori è sempre possibile richiedere una prepagata.

Tesla fa debuttare il crossover elettrico Model Y: 4 gli allestimenti

È una questione di assonanze: la lettera y in inglese si pronuncia “uai”, esattamente come why, perché in italiano.

E il perché della nuova Tesla Model Y, nuovo crossover 100% elettrico, è presto spiegato: “Venderemo più Model Y che Model 3, S e X messe insieme”, promette Elon Musk, patron del costruttore californiano.

Insomma, sarà l’auto della seconda svolta commerciale di Tesla: la prima è avvenuta con Model 3 – che a breve permetterà alla marca di superare il suo primo milione di unità prodotte – con cui la “Y” condivide la piattaforma costruttiva.

Stilisticamente l’auto si rifà a quanto visto sulla Model 3, da cui eredità gli stilemi della carrozzeria ma anche la configurazione degli interni, dal sapore minimal e provvisti di un sistema infotelematico con touchscreen da 15 pollici. A conferire un aspetto più “avventuroso” alla Y sono le protezioni di plastica usate sui paraurti, di gusto fuoristradistico.

Quattro gli allestimenti: Standard Range, Long Range, Dual Motor AWD e Performance.

I primi due prevedono singolo motore e trazione posteriore, gli altri sono maggiormente votati alle prestazioni e hanno doppio propulsore e quattro ruote motrici.

Impressionanti i numeri della Model Y Performance: l’auto sarà in grado di scattare sullo 0-100 km/h in appena 3,5 secondi e toccare una velocità massima di 240 orari, garantendo al contempo un’autonomia omologata stimata in 450 km. Per la versione base, invece, siamo a 370 km di autonomia, zero-cento in 5,9 secondi e 193 orari di punta.

Optional l’Autopilot, il sistema di guida autonoma con prezzi che oscillano fra 3 e 5 mila dollari a seconda del grado di automazione assicurato.

Capitolo prezzi. Si parte dai 39 mila dollari della Standard Range, quattromila in più rispetto alla Model 3 con medesima meccanica. Per la Long Range il conto sale a 47 mila dollari, 51 mila per la Dual Motor a trazione integrale e 60 mila per la più potente Performance, che è sempre 4×4. Da ufficializzare i prezzi e le disponibilità per il mercato italiano.

Range Rover Evoque. Stesso stile, più ecologica

Range Rover Evoque, capitolo due. Ovvero l’arte di migliorare, con l’imperativo di non sbagliare, l’auto commercialmente più importante di un marchio che negli ultimi tempi cerca di districarsi tra il ridimensionamento dei motori diesel e le incertezze della Brexit, senza che la politica inglese gli fornisca il minimo appiglio.

Dopo l’unveiling londinese dello scorso novembre, si è potuta toccare con mano in Grecia l’erede di un modello che dal 2011 ad oggi ha convinto 800 mila clienti nel mondo. Ma soprattutto ha fatto da spartiacque tra vecchio e nuovo, divenendo il simbolo del nuovo corso dopo che gli indiani di Tata acquisirono il gruppo Jaguar-Land Rover nel 2008 dalla Ford.

Una storia del genere non andava negata né stravolta, soprattutto nel design. Che infatti rimane fedele a se stesso: linea di cintura alta, spalle possenti, passaruota marcati e quella sensazione di dinamismo elegante che conquista.

“Quel che dovevamo fare” – spiega il designer italiano di Land Rover Massimo Frascella – era migliorare le proporzioni (mantenendo la stessa lunghezza di 4,37 metri, ndr) e ripulire le linee dalle cose inutili”. E magari darle anche un tocco di Velar, la sorella maggiore, con le maniglie a scomparsa delle portiere e le forme della fanaleria posteriore.

Sempre dalla Velar, la nuova nata eredita l’approccio tecnologico.

Nell’abitacolo – quello sì cambiato parecchio puntando su spazio, cura dei dettagli e precisione negli assemblaggi – spicca lo stesso interfaccia uomo-macchina: touch screen con comandi capacitivi al posto di quelli tradizionali, per gestire i tanti sistemi dell’auto, dalla sicurezza all’infotainment. E, sulla plancia, via quasi tutti i pulsanti: la medesima pulizia delle linee che si raccontava negli esterni.

La nuova Evoque sarà, nondimeno, più attenta all’ambiente. Oltre a materiali e rivestimenti ecocompatibili, anche il parco motori vira infatti verso l’ecologically correct. I sei propulsori a quattro cilindri, tre a benzina e tre diesel, con potenze comprese tra 150 e 300 cavalli, sono tutti equipaggiati con il mild hybrid da 48 Volt, a cui tra nove mesi farà seguito pure l’ibrido plug-in.

A differenza delle altre Range, si è sempre detto che la Evoque aveva una vocazione urbana: comfort di guida e dimensioni compatte. Verissimo, ma se provate a gettarla nella mischia del fuoristrada, il risultato non delude. Grazie ai diversi programmi off road impostabili e ad ausili come il mantenimento automatico della velocità nelle discese più ripide o le telecamere che aiutano ad affrontare le manovre più critiche (ma anche, ad esempio, la profondità di guado di 60 cm), questa si dimostra una vera Land Rover. Ispirata da sempre dalla filosofia della “copiatura” dell’ostacolo, piuttosto che dal suo semplice superamento.

I prezzi, infine. In Italia sarà disponibile da fine marzo e ne verrà importata solo la versione 4X4, dunque il listino partirà da 44.500 euro. Ma tra le numerose versioni e gli optional si può tranquillamente arrivare a 70 mila euro.

La crisi senza

L’ultima vittoria dell’Italia al Sei Nazioni è datata al 28 febbraio 2015: Scozia-Italia 19-22. Dopo di allora solo sconfitte, l’ultima sabato scorso contro la Francia, nonostante una partita dominata in lungo e in largo e persa proprio nei minuti conclusivi. Fanno 22 sconfitte di fila, la striscia peggiore di tutti i tempi.

Il ct irlandese Conor O’Shea (nella foto), arrivato sulla panchina azzurra a luglio 2016, ha disputato in totale 45 match e ne ha vinti appena 7 (nessuno al Sei Nazioni); spiccano lo storico succcesso contro il Sudafrica a novembre 2016 (unica vera gioia della sua gestione), e quello dello scorso autunno contro la Georgia. Quest’ultimo in particolare è stato un risultato particolarmente simbolico, addirittura vitale per il rugby italiano: i caucasici infatti vorrebbero prendere il nostro posto nel Sei Nazioni, chiedono l’introduzione di un meccanismo di “retrocessione” con la “Serie B” del rugby europeo. Il ciclo quadriennale si concluderà a settembre con i Mondiali in Giappone, dove però l’Italia inserita nel girone di Nuova Zelanda e Sudafrica non sembra avere chance

Sprechi, sconfitte e stadi vuoti. La rugby-mania ormai è finita

Meta e palla ovale, fair play, terzo tempo. C’è stato un momento in cui l’entusiasmo intorno al rugby era contagioso, quasi fastidioso. C’era un Paese che scopriva un nuovo sport, nobile e rude al contempo, con regole curiose, così diverso dal pallone nazionalpopolare. E c’era una squadra che magari non convinceva e neppure vinceva, ma dal campo usciva sempre a testa alta, togliendosi di tanto in tanto qualche soddisfazione. È durato circa un decennio, di stadi pieni, investimenti massicci, grandi speranze. Invece il treno è passato, i campioni simbolo di questa epoca sono invecchiati, e alle sconfitte sono seguite solo sconfitte. Adesso qualcosa si è spezzato: la rugby-mania è finita. L’ovale si è sgonfiato.

L’Italia non vince una partita al Sei Nazioni dal 2015: 1.479 giorni sono lunghi a scriverli, figuriamoci a viverli sul campo. 22 sconfitte di fila in qualsiasi altro sport o Paese avrebbero fatto saltare teste e poltrone. Invece nella FederRugby del presidente Alfredo Gavazzi sono state archiviate con un paio di pacche sulle spalle e frasi di circostanza: “Lavoriamo per vincere”. Il ct Conor O’Shea, allenatore irlandese dall’ottimo pedigree (prima di sbarcare in Italia), continua a ripeterlo da quattro anni. Non è cambiato nulla, o quasi. In Federazione si dicono soddisfatti. “Non abbiamo mai avuto una squadra così forte”. Magari è vero. Di certo gli altri sono molto più forti di noi: Irlanda, Galles, la Scozia con cui fino a qualche anno fa ce la giocavamo alla pari, ci demoliscono, l’Inghilterra è inarrivabile, la Francia in crisi ci resta superiore. Il gap invece di ridursi è aumentato. Ma non è la nazionale a fallire, è il rugby italiano ad essere fallito.

Negli ultimi 5 anni la Federazione ha “buttato” la bellezza di 80 milioni di euro nel progetto che avrebbe dovuto cambiare il movimento. È una cifra impressionante per lo sport italiano, che naviga spesso in ristrettezze. Non il rugby, che con un fatturato di quasi 45 milioni annui, grazie proprio agli introiti di Sei Nazioni e sponsor, è la seconda Federazione più ricca (dopo la Figc). Le risorse sono state concentrate in due direzioni: la partecipazione di due squadre al Pro 14, il campionato celtico, per confrontarsi con i migliori in Europa, e la creazione sul territorio di una serie di “accademie” dove allevare i giovani. Due belle idee, che si sono però scontrate con la realtà.

Le due franchigie sono state insediate a Treviso (capitale storica del rugby italiano) e Parma (scelta più controversa, città d’origine dell’ex presidente Giancarlo Dondi). Per anni hanno collezionato figuracce: ora la Benetton (privata) funziona, le Zebre no e la Fir ha dovuto farsene carico al 100% trasformandola in una squadra “federale”. Anche per questo il Pro 14 è un salasso: oltre 10 milioni l’anno tra tasse d’iscrizione e contributi alle squadre. Benefici pochi.

Con le accademie non è andata meglio. Sono state create prima le strutture, dei tecnici che servivano per farle funzionare. Dopo essere arrivati ad averne 9, il progetto è stato rivisto: non si chiamano più accademie ma centri di formazione permanente, ne restano 4 (Treviso, Milano, Prato, Roma, più l’under 20). Ufficialmente perché “sono sufficienti”, forse sono solo finiti i soldi: nell’ultimo bilancio la spesa è stata tagliata di un milione.

La Federazione ha deciso di puntare tutto sull’ “alto livello”. Il problema è che nell’immaginaria “piramide” del rugby italiano, mentre la Fir continua ad occuparsi della punta, la base rimane troppo stretta. I tesserati sono cresciuti rispetto all’epoca dei pionieri, ma il movimento resta confinato in Veneto, Lombardia e dintorni: nel campionato di Serie A non c’è neanche una squadra meridionale, le accademie si fermano all’altezza della Capitale (tutte al Nord, dove magari già c’erano ottimi settori giovanili). L’altra metà Paese è abbandonata al dilettantismo: per la “promozione sportiva” c’è la miseria di 300 mila euro.

Così la filiera dalla Federazione si inceppa. Dalle accademie negli ultimi anni sono usciti tanti giocatori di “quantità”. I talenti che lasciano sperare per il futuro non vengono da lì: Sebastian Negri, Tommaso Allan, Jake Polledri, Carlo Canna arrivano da fuori. E fuori devono continuare ad andare a giocare i migliori: come Michele Campagnaro, o Mattia Minozzi (unico vero gioiello prodotto in casa), emigrati in Inghilterra perché lì potranno crescere più che in patria. Le nostre franchigie e accademie sono solo un grande serbatoio (qualcuno malignamente dice “ufficio di collocamento”) per giocatori, tecnici e dirigenti federali di buon livello, non eccellente. Troppo poco per giustificare la spesa di 80 milioni di euro (e i quasi 30 di contributi pubblici ricevuti nello stesso periodo dal Coni).

L’impressione è che il rugby italiano abbia sprecato la sua grande occasione. La generazione d’oro dei fratelli Bergamasco e Castrogiovanni si è esaurita, raccogliendo meno del dovuto: è arrivato al capolinea anche il capitano Sergio Parisse, che per almeno un paio d’anni è stato il giocatore più forte del mondo. Chissà se e quando ci ricapiterà di avere il Cristiano Ronaldo del rugby. L’entusiasmo si è spento. Resta una nazionale in pieno ricambio generazionale e astinenza da vittorie. Di cui i tifosi sono stufi: la media di 45.680 spettatori fatta registrare nel 2019 è la più bassa di sempre. Molti di questi sono stranieri, che arrivano in massa a Roma per godersi un weekend nella Capitale, mentre la loro squadra passeggia sul campo: ormai l’Italia del Sei Nazioni sembra diventata una meta turistica per ricchi inglesi, più che una nazionale credibile. Tanto che all’estero si riaccende il dibattito sull’opportunità della nostra partecipazione al torneo. “Tenere in ostaggio l’Italia nel Sei nazioni è crudele”, scrive il The Telegraph. Infatti i tifosi scappano. D’accordo che il rugby è sofferenza, ma c’è un limite a tutto.

Juve: Cr7 va punito. È la regola dell’Uefa

Lucio Barani, ex senatore del gruppo parlamentare ALA, e Cristiano Ronaldo, attaccante della Juventus. “Che ci azzeccano – direbbe Di Pietro – l’uno con l’altro?”. Per dirla con “La Settimana Enigmistica” e con la sua famosa rubrica “Aguzzate la vista”, il politico e il calciatore si differenziano in tutto ma hanno in comune un piccolo particolare. Quale? Seguiteci.

Lucio Barani, classe 1953, nato ad Aulla, cresciuto nel vivaio del Nuovo PSI, passato al PDL prima di diventare senatore di ALA, è il primo capogruppo parlamentare della storia della Repubblica ad essere stato squalificato dall’Ufficio di Presidenza del Senato per 5 giornate (pardon, giorni). Motivo: gesti volgari e sessisti rivolti alla senatrice del M5S Barbara Lezzi. Successe durante la seduta del 2 ottobre 2015 e la notizia della squalifica arrivò 4 giorni dopo comunicata da Pietro Grasso. “La volgarità di alcuni gesti e di alcune espressioni – disse il presidente del Senato – è al di fuori di ogni regola di civiltà. Per tali ragioni sono comminate con effetto immediato le seguenti sanzioni: ai sensi dell’art. 67 del regolamento, nei confronti dei senatori Lucio Barani e Vincenzo D’Anna l’interdizione a partecipare ai lavori del Senato per 5 giorni di seduta”. Seguirono sanzioni minori nei confronti di due senatori del M5S.

E insomma, che cos’aveva fatto di tanto grave il senatore Barani? Lo stesso gesto che Cristiano Ronaldo, al termine della partita Juventus-Atletico 3-0 di martedì scorso, ha platealmente rivolto ai tifosi spagnoli al grido di A chuparla! (“Succhiate!”), subito immortalato da mille telecamere. La Gazzetta dello Sport, che come tutti i media italiani si era scagliata giorni prima contro Diego Simeone, l’allenatore argentino che dopo il match d’andata s’era esibito in un gesto sconveniente indirizzato ai propri tifosi (“Noi abbiamo gli attributi!”, era il senso), sanzionato dall’Uefa con una multa di 20.000 euro, se n’è uscita con la foto del gesto di CR7 a tutta pagina accompagnata dal titolo “Ira d’Iddio”; mentre Ilaria d’Amico ne aveva riferito in diretta su Sky tutta giuliva (“Ovviamente tra giocatori di huevos ci si intende”, aveva ammiccato).

Niente di nuovo sotto il sole; non fosse che l’articolo 15 del Codice Disciplinare dell’Uefa, che definisce la cattiva condotta dei calciatori (misconduct), prevede una squalifica automatica di una giornata in caso di “insulti verso altri giocatori o chiunque sia presente al match” (insulting players or others present at the match) o di “atteggiamenti provocatori nei confronti degli spettatori” (provoking spettatori). La multa è ritenuta una pena accessoria ma non alternativa alla squalifica. Ricapitolando: anche se sembra vietato parlarne, la notizia è che l’Uefa, che due anni or sono dopo un preliminare di Champions squalificò per un turno l’attaccante Leigh Griffiths del Celtic Glasgow per aver legato a un palo della porta una sciarpa del Celtic a mo’ di provocazione verso i tifosi del Linfield che lo avevano fatto bersaglio di insulti e lancio di oggetti, non potrà non squalificare il cinque volte Pallone d’Oro: che non potrà dunque giocare l’andata di Ajax-Juventus. A meno di non voler trasformare il regolamento (e la campagna “Respect”) in un gigantesco rotolone di carta igienica; e perdere il match con la politica 0-1.

Sanders, da Luther King alla scoperta del socialismo

Nel gennaio 1962, mentre le manifestazioni per l’uguaglianza degli afro-americani scuotevano gli Stati Uniti, all’università di Chicago si era tenuto il primo sit-in per i diritti civili. Quel giorno, 33 studenti, soprattutto bianchi, avevano attraversato il campus neogotico ed erano entrati nell’edificio dell’amministrazione. Saliti al quinto piano, avevano cominciato a occupare i corridoi. I dimostranti, tutti membri del Core, il Congresso per l’uguaglianza razziale, chiedevano la fine della politica di segregazione sugli alloggi per studenti praticata dall’università.

Per tutto il sit-in gli studenti del Core avevano seguito le istruzioni del suo presidente, un certo Bernie Sanders (che all’epoca aveva 21 anni). Sanders ha raramente parlato degli anni in cui fu uno dei leader della protesta studentesca e militò per la giustizia sociale. Solo nel 2016, con la pubblicazione di alcune foto e di un video che lo mostra mentre viene arrestato durante una manifestazione contro la discriminazione razziale, questo episodio è diventato argomento di discussione dell’ultima campagna presidenziale.

Eppure il periodo di militanza studentesca a Chicago è stato essenziale per il cammino intellettuale del candidato e ha contribuito a forgiare la sua visione del mondo. L’impegno nel movimento per la giustizia razziale e la frequentazione degli ambienti socialisti contribuirono a definire quelli che oggi sono i fondamenti politici della campagna in vista delle elezioni del 2020.

Dell’esperienza a Chicago, Bernie Sanders disse al Vermont Vanguard, nel 1981: “Fu probabilmente il momento di fermento intellettuale più intenso della mia vita”. Dopo il sit-in del 1962, l’università di Chicago accettò, come spesso e volentieri fanno queste amministrazioni, di creare una commissione per occuparsi della questione. Sarebbe dovuta servire a risolvere quella che all’epoca Sanders chiamava la “situazione intollerabile” in cui “studenti neri e bianchi non hanno il diritto di condividere gli alloggi che appartengono all’università”. La protesta non cessò con la creazione del comitato. Gli studenti continuarono anzi a fare pressione sull’amministrazione con manifestazioni e picchetti davanti alle residenze che l’istituto rifiutava di affittare agli afro-americani.

La battaglia per i diritti civili

Sanders, anticipando uno dei temi che sarebbero diventati ricorrenti nel suo discorso più tardi, pubblicò un articolo nel giornale dell’università, The Maroon, per incitare i compagni a “dibattere sui limiti di un sistema economico che, nonostante la grande ricchezza del paese, non è in grado di fornire case sufficienti a chi ne ha bisogno”. Dopo le numerose manifestazioni dell’estate del 1963, gli sforzi di Sanders e degli altri attivisti furono finalmente ricompensati: l’università di Chicago cedette e mise ufficialmente fine alla segregazione nelle sue residenze universitarie. Questa vittoria avrebbe incoraggiato Sanders a proseguire la sua lotta in favore dei diritti civili. Qualche mese dopo, nell’agosto 1963, il giovane militante fu arrestato mentre protestava contro la segregazione nelle scuole pubbliche di Chicago, a pochi chilometri più a sud, a Englewood. Il quartiere aveva appena conosciuto una vasta trasformazione demografica. Le famiglie nere avevano cominciato a spostarsi in seguito alla costruzione da parte del sindaco Richard Daley di una nuova autostrada Dan-Rya e dell’avvio di altri progetti di sviluppo, a sfondo razzista, in nome di un presunto “rinnovamento urbano”.

Si trasferirono dunque a Englewood, con l’effetto di far fuggire le famiglie bianche in altre zone della città. L’arrivo di studenti neri precipitò la crisi del sovraffollamento nelle scuole. Ma invece di investire nella costruzione di nuovi edifici, il provveditore agli studi, Benjamin Willis, all’epoca uno dei responsabili locali più profumatamente pagati del paese, scelse di installare 25 carri merce adattati ad abitazioni. I genitori, scandalizzati, li chiamarono “i vagoni di Willis”. Per loro quelle vetture erano al tempo stesso inadeguate e discriminanti. Li scioccava anche il fatto che fossero state installate sulla banchina accanto ai binari ferroviari. I genitori, che intanto avevano costituito un’associazione, contattarono dunque il Core, che si impegnò ad aiutarli per contrastare l’allestimento del sito previsto per i “vagoni di Willis”.

L’arresto a Chicago

Fu durante questa manifestazione che Bernie Sanders fu arrestato dalla polizia di Chicago. In una foto, circolata molto durante la campagna del 2016, si vede Sanders afferrato alle braccia da due poliziotti, con il pantalone sporco di fango e i piedi incantenati a quelli di altri manifestanti di origini afro-americane. Sanders ha spesso sminuito l’importanza di questo episodio. “Non è complicato farti arrestare se vuoi”, ha detto nel 2015 al Time. Il mese del suo arresto, Sanders partecipò alla marcia su Washington per il lavoro e la libertà in cui vide Martin Luther King, che sarebbe diventato uno dei suoi idoli, pronunciare il famoso I have a dream. Tempo dopo, tornando sulla sua partecipazione al movimento per i diritti civili, Sanders disse al Burlington Free Press (un quotidiano del Vermont): “Per me era soprattutto una questione di giustizia di base. Non potevo accettare che a un gran numero di afro-americani venisse vietato di votare, di mangiare al ristorante, che i loro figli fossero obbligati a studiare in scuole segregate, che non potesserodormire in albergo e fossero costretti a vivere in alloggi segregati. Era un’ingiustizia troppo grande di cui bisognava occuparsi”.

Queste preoccupazioni continuano a essere presenti oggi nelle politiche difese da Sanders. Il Piano per la giustizia razziale, che ha presentato nel 2015, rappresenta uno dei programmi più vasti e completi contro le diseguaglianze razziali mai presentati negli Stati Uniti da un candidato di primo piano. Un progetto simile sarà di nuovo al centro della sua futura campagna. Degli anni trascorsi a Chicago, Sanders ha detto: “Ho imparato di più fuori dal campus che in classe”. Eppure i suoi studi hanno avuto un ruolo determinante sulla sua formazione intellettuale. Mentre era studente al Brooklyn Collage, a New York, Sanders cominciò a frequentare un gruppo chiamato Eugene Debs Club (Eugene Debs era stata una figura del socialismo americano che ottenne il 6% di voti alle elezioni presidenziali del 1912). In un’intervista al The Atlantic, mai pubblicata, e rivelata dal suo biografo Harry Jaffe, Sanders ricorda la sua reazione dell’epoca: “Debs? Mai sentito nominare. Mi dissero: “Siamo socialisti”. E io risposi “Socialisti!”. Ero sotto choc. Non certo perché ero contrariato. Anzi, ero sorpreso: di fronte a me avevo dei veri socialisti in carne e ossa!”.

Eugene Debs, chi era costui

In breve tempo frequentare dei socialisti per Sanders divenne naturalmente un’abitudine. Quindi acquisì anche dimistichezza con gli scritti sulla rivoluzione russa e il massacro di Haymarket (sette poliziotti e quattro civili rimasero uccisi il 4 maggio 1886 nello scoppio di una bomba a Chicago, al termine di una grande manifestazione sindacale durata otto ore.). Lesse anche “Jefferson, Lincoln, Fromm, Dewey, Debs, Marx, Engels, Lenin, Trotsky, Freud e Reich”, come spiegò nel libro Outsider in the House del 1997. Mentre era studente a Chicago, Sanders raggiunse anche la Young People’s Socialist League, la Lega popolare dei giovani socialisti, l’ala giovane del partito socialista americano. “All’università di Chicago ho cominciato a capire la futilità del liberalismo”, disse nel 1991 a un giornalista del Los Angeles Times.

Nel 2016, durante un grande dibattito politico in diretta su MSNBC, organizzato proprio all’università di Chicago, Sanders è tornato sui motivi che lo all’epoca lo avevano spinto a raggiungere i socialisti: “Si trattava per me di ricomporre il puzzle. Dovevo capire l’impatto che il potere e il denaro hanno sulla società. Perché esistono tante disuguaglianze nei redditi e nelle ricchezze, e oggi è anche peggio di allora”. A Chicago, Sanders militò per qualche tempo anche negli United Packinghouse Workers of America, che lo iniziarono al movimento sindacale. Queste esperienze non solo permisero a Sanders di aprire gli occhi sulle ingiustizie del sistema economico americano. Contribuirono anche a forgiare quella che sarebbe diventata, dal quel momento in poi, la sua identità politica: l’idea che i lavoratori di tutte le etnie e origini si contrappongono a chi controlla il capitale e cerca di conservare lo status quo.

(traduzione Luana De Micco)

Elezioni, primo turno alla Caputova

La vittoria dell’avvocatessa Zuzana Caputova al primo turno delle elezioni presidenziali in Slovacchia riflette il desiderio degli elettori di cambiare il sistema. Lo scriveva ieri la stampa nazionale, secondo cui questo desiderio si è manifestato con forza dopo l’omicidio del giornalista Jan Kuciak che si occupava dei presunti legami tra il partito dell’ex premier Robert Fico – lo Smer – e la criminalità organizzata.

“Caputova ha convinto la gente che sceglie la via della verità e della decenza di poter fare da contrappeso a coloro che imbrogliano e distruggono lo Stato di diritto – ha scritto il quotidiano Sme -. È riuscita a convincere di essere capace di mantenere le pratiche mafiose lontano dal palazzo presidenziale”. Dal primo discorso dei due rivali trasmesso dalla tv pubblica sono emersi i temi chiave della campagna prima del secondo turno: il problema della migrazione e i valori liberali contro quelli cristiani.

La 45enne vicepresidente del partito non governativo Slovacchia progressista è entrata nella politica nel 2017. Bionda, elegante, divorziata e madre di due figli, è stata definita la Erin Brockovich slovacca, in pararallelo con l’attivista statunitense che ha lottato per dimostrare la contaminazione trentennale delle acque di Hinkley, in California (diventata famosa per l’ omonimo film con Julia Roberts). Prima di entrare in politica, infatti, la Caputova si batteva come attivista contro una discarica illegale a Pezinok ed il suo impegno in questo campo le è valso Goldman Environmental Prize, una sorta dei Nobel pe l’ambiente. Caputova è nota anche per essersi impegnata per i diritti degli omosessuali ed è una europeista convinta.

Il suo rivale, il 52enne Maros Sefcovic, invece, promuove la famiglia tradizionale e i valori cristiani, nonostante negli anni Ottanta fu membro del Partito comunista che nell’ex Cecoslovacchia comunista perseguitava le chiese. Nel 2009 ha assunto la carica di Commissario europeo per l’istruzione, la cultura e la gioventù e dal 2014 è vicepresidente della Commissione Ue per l’Unione dell’energia e il clima. Tagliati fuori Stefan Harabin (14,15), giudice della corte suprema e anti-migranti che si è definito l’unico candidato nazionale e contro “il diktat dell’Ue” e Marian Kotleba, esponente dell’estrema destra, contro i rom e le elite ed estimatore di Jozef Tiso, prete che divenne presidente del Consiglio e alleato dei nazisti dopo l’occupazione della Slovacchia da parte delle truppe tedesche. Nel primo turno Caputova ha ottenuto il 40,57% dei voti, mentre Sefcovic è finito secondo con il 18,66%. L’affluenza alle urne è stata di circa il 49%. Il secondo turno, visto che nessuno dei candidati ha raggiunto il 52% dei voti, è previsto per il 30 marzo.