Pd, Forza Italia, Lega. Quel buco nero che ingoia i partiti

C’è chi come Ugo Sposetti, storico tesoriere prima del Pci e poi di Ds, è costretto a vendere o meglio “alienare” il celebre dipinto I Funerali di Togliatti di Renato Guttuso. Il tutto per racimolare un centinaio di migliaia di euro di plusvalenza che serviranno per pagare il Tfr all’unico dipendente rimasto dei Ds. C’è chi, come Silvio Berlusconi, ha dovuto garantire con sue fidejussioni personali il debito da oltre 100 milioni di euro che affligge da anni Forza Italia e che le banche si sono rifiutate di rifinanziare senza garanzie dirette del suo leader. Poi c’è Laura Boldrini: da presidente della Camera ha fatto del taglio dei costi della politica il suo vessillo personale, ma non sa spiegare all’intervistatore cosa ci facciano 385 milioni di euro di avanzo di amministrazione nel bilancio 2017 di Montecitorio. Meglio, spiega che quel tesoretto corposo è un fondo di garanzia che sta lì, non viene speso, “perché dovesse succedere alla Camera di dover far fronte a delle spese aggiuntive c’è quello, la Camera ha una sua amministrazione”. Peccato che quel denaro valga il 40% dell’intero bilancio di Montecitorio la cui spesa sfiora ogni anno il miliardo di euro. E che forse se si vuole dare un segnale forte di moralizzazione della politica quel denaro potrebbe essere restituito in buona parte al traballante bilancio dello Stato che è comunque il finanziatore unico del Parlamento.

Nell’inchiesta di Report c’è questo e molto altro. Il programma esordisce questa sera su Raitre alle 21.20 nella nuova stagione con un’inchiesta sui bilanci dei partiti, nella nuova era dell’agorà virtuale e su come vivono e meglio sopravvivono alla fine del finanziamento pubblico. L’inchiesta condotta da Bernardo Iovene con la collaborazione di Michela Mancini, si muove lungo un pendolo che oscilla tra le miserie e le fortune di chi oggi fa politica dentro il vecchio tessuto connettivo dei partiti organizzati, stretti tra l’arrembante dominio del web e della comunicazione via smartphone e tablet e le ristrettezze dei conti, dopo che dal 2013 è venuto meno il vecchio sistema del finanziamento pubblico. La nuova vita dei partiti ha fatto molta fatica ad adeguarsi al cambio di rotta copernicano. Basta pensare che nell’arco di vent’anni il contributo pubblico ai partiti arriva quasi a 2 miliardi, una media di 100 milioni l’anno che finivano nelle casse della politica. Ad ogni competizione elettorale, che fosse nazionale, europea o locale i partiti sapevano che sarebbe piovuto automaticamente denaro nelle loro casse, sulla base dei voti conseguiti. Più voti, più denaro.

Ora la stampella per pagare stipendi dei dipendenti, affitti delle sedi, bollette e spese per le manifestazioni è affidata al buon cuore dei cittadini attraverso la scelta del 2 per mille nella dichiarazione dei redditi. Scelta non obbligata, del tutto facoltativa e che lascia i partiti (tutti) nell’alea dei desiderata degli italiani. Formula ineccepibile, che sostituisce il gradimento dell’elettorato al sostegno automatico dello Stato, ma che ha mandato a gambe all’aria i conti dei partiti. Basti pensare che le entrate, tolti i tesseramenti, le donazioni dei militanti e i contributi versati dai parlamentari, sono crollate. Il 2 per mille, partito in sordina nel 2014 con poche migliaia di euro, nel 2017 ha visto affluire nelle casse dei partiti solo 14 milioni. Un taglio dell’80 per cento secco delle entrate. Una cura dimagrante davvero dura, che ha aperto voragini nei conti.

Report e i suoi inviati raccontano come il Pd abbia generato perdite, tra il 2013 e il 2017, per 19 milioni, Forza Italia sempre tra il 2013 e il 2017 ha avuto un passivo di 30 milioni e la Lega Nord ha chiuso i bilanci degli ultimi 5 anni con 28 milioni di perdite cumulate. A pagare sono innanzitutto i dipendenti, messi in cassa integrazione e infine licenziati; poi ci sono i tagli per l’attività sul territorio. La troupe di Report, nel suo viaggio-inchiesta, documenta la fine della politica come agorà pubblica. Sempre meno sedi, una presenza sul territorio ormai inesistente, pochi soldi o meglio nulla per spesare iniziative pubbliche. La politica come luogo e spazio d’incontro tra persone in carne e ossa di fatto non c’è più. Sostituita dalla comunicazione diretta e impersonale delle chat, dei social dove ormai solo lì si costruisce il consenso.

Emblematica l’affermazione di un esponente locale di Forza Italia che nell’intera Emilia Romagna non ha neppure una sede: “Se oggi dovessi pensare a qualcosa di più prossimo alla sede, le indicherei il mio cellulare”. O l’immagine della cassaforte aperta e vuota alle spalle del presidente del Gruppo Lega Nord dell’Emilia Romagna, simbolo del nulla pneumatico: “Questo – indicando la cassaforte mestamente vuota e aperta dice l’intervistato – è un rimasuglio di prima, era già qui quando siamo arrivati, questo spazio prima era di Forza Italia”.

Le immagini del servizio fotografano l’unica sede della Lega in provincia di Bologna, a Zola Predosa. Chiusa, abbandonata con i lucchetti arrugginiti. “Gli hanno staccato la luce, non pagano. Sono mesi che non vedo più nessuno”, dice un passante. Chi resiste sul territorio anche se a fatica è il Pd. La sua lunga tradizione di partito organizzato e capillare si vede ancora. Ma sembra un tramonto ineluttabile. Il Pd mantiene i suoi circoli sul territorio, ospitati negli immobili passati dalle insegne dei Ds a quello delle 60 Fondazioni cui è stato conferito, su idea geniale e spregiudicata del tesoriere Sposetti, l’immenso patrimonio immobiliare dell’ex Pci. Il tutto per evitare che le centinaia di edifici e appartamenti del partito fossero pignorati dalle banche per pagare i debiti lasciati sul campo. Ma il servizio documenta il paradosso. Il Pd spesso non paga o è in ritardo sugli affitti e così le Fondazioni passano allo sfratto. Una nemesi storica: quel che resta dell’antico Pci cacciato dalle sue sedi storiche dai nuovi proprietari, quelle stesse Fondazioni riunite sotto il cappello dell’Associazione Enrico Berlinguer presieduta proprio da Sposetti. Quello Sposetti che non solo è costretto a vendere il quadro di Guttuso per fare cassa ma che tuttora firma i bilanci dei Ds scomparsi da 10 anni. Bilanci dove non ci sono più attività da due lustri e dove ci sono solo debiti. Ben 150 milioni che i Ds non hanno mai rimborsato ai creditori. Sposetti mestamente afferma che non può liquidare i Ds finchè ha in carico un dipendente, è in aspettativa dice, appena rientrerà posso pensare di chiudere. La politica, quella ricca, ormai dai partiti è passata ai parlamentari. Il 2 per mille fa affluire pochi milioni di euro nelle casse esangui dei partiti e così il forziere è ora nelle mani dei gruppi parlamentari. Tra Camera e Senato, nelle casse dei gruppi, ogni anno finiscono 51 milioni di euro. La vera forza economica della politica ormai si è trasferita in Parlamento. Sono deputati e senatori i nuovi ricchi della politica. Certo, ogni partito pretende lo storno di parte dello stipendio al partito. I più virtuosi sono i parlamentari di Sinistra italiana. Girano al partito 3.500 euro al mese; poi i leghisti, 3.000 euro al mese; seguono il Pd (1.500 euro) Fratelli d’Italia (mille euro) Forza Italia con 900 euro. Infine i 5Stelle: 300 euro al mese alla piattaforma Rousseau più 2mila euro al fondo per il micro-credito. Ma è un sacrificio sopportabile. Tra indennità e rimborsi, documenta Report, ogni parlamentare si ritrova in tasca 13.400 euro netti al mese cui vanno tolti gli storni al partito. La carrellata delle domande ai parlamentari su quanto guadagnano è surreale: chi dice 9.000, chi 3.250, chi 12mila, chi 7.500-8000 fino all’ex delfino di Matteo Renzi, Luca Lotti che chiede a un collega e poi risponde, non lo so. Ma la vera ricchezza sta anche nel Palazzo.

Una ricchezza nascosta che sta nelle pieghe del bilancio di Montecitorio. Nel 2017 la Camera dei deputati aveva un avanzo di amministrazione di ben 385 milioni. Di fatto il frutto dei risparmi cumulati negli anni e che salgono ogni anno. Nel 2012 infatti il tesoretto contante di Montecitorio era di “soli” 234 milioni. Di fatto è come se l’istituzione Camera si comportasse come un’azienda privata che fa utili e li accantona. Non dovrebbe essere così per un’istituzione pubblica finanziata, ogni anno, da denaro dello Stato per 993 milioni, fino a 5 anni fa; scesi ora a 943 milioni l’anno. Questa è la dotazione garantita dal bilancio dello Stato.

Certo l’ex presidente Laura Boldrini ha fatto della spending review la sua battaglia: e in effetti in questi anni la dotazione è scesa di 50 milioni l’anno e sono stati restituiti almeno altri 200 milioni. Ma quello che è apparso ed è stato veicolato come uno sforzo titanico è stato quasi un buffetto. L’avanzo di cassa non ha fatto che aumentare fino alla cifra record di 385 milioni, il 40% dell’intera dotazione annua. Che se ne fa la Camera di così tanto denaro immobilizzato, dato che la dotazione da quasi un miliardo basta e avanza per finanziare stipendi e attività di parlamentari e dipendenti, più le pensioni di ex parlamentari ed ex dipendenti? Un bel mistero, tanto che lo stesso nuovo presidente, Roberto Fico, intervistato da Iovene è rimasto sorpreso dalla notizia. Soldi certo non spesi, ma che forse se si vuole un dare un segnale forte di dimagrimento dei costi della politica, potrebbero essere restituiti al loro padrone, cioè lo Stato, cioè i contribuenti italiani.

La flat tax costerebbe 59,3 miliardi. Salvini: “Il Tav alla fine si farà”

“Di Maio non la vuole, rispettabile come opinione. Io e migliaia di italiani la vogliamo. L’Italia ha bisogno di lavorare e di progresso”: così, a proposito del Tav, il vicepremier leghista ospite di Barbara D’Urso a “Domenica live”. Il ministro dell’Interno si è detto anche convinto che in Basilicata il prossimo fine settimana “vincerà il centrodestra”, nonostante le contestazioni: “Dieci sfigatelli dei centri sociali, con tutto il rispetto”. Salvini è tornato anche sul congresso delle famiglie prolife in programma a Verona: “Un bambino ha diritto ad avere una mamma e un papà e a essere adottato da una mamma e un papà. Stiamo pensando a una riforma del diritto di famiglia affinchè i bimbi non siano armi di ricatto”. Poi un pensiero sul caso Diciotti, con il voto del Senato atteso per mercoledì: “Servirà la coscienza di qualsiasi senatore. Se dovessi essere processato, lo farei a testa alta”. Intanto è circolata la simulazione dell’8 febbraio fatta al ministero dell’Economia sulla flat tax, rilanciata ieri dalla Lega. La misura a due aliquote sul reddito familiare avrebbe un costo di 59,3 miliardi. Secondo la simulazione effettuata “la tassa piatta” riguarderebbe circa 16,4 milioni di famiglie con un vantaggio medio familiare di circa 3600 euro.

Boschi e Lotti s’aggrappano alla scialuppa di Zingaretti

Camicia azzurrina e occhiali, Nicola Zingaretti viene accolto dall’Assemblea nazionale del Pd con un’ovazione. Nel giorno della sua proclamazione, in prima fila, si distinguono Maurizio Martina, Andrea Orlando, e soprattutto Paola De Micheli, la “donna forte” del neo segretario, rigorosamente in jeans. Look sobrio per lei, come per molte delle delegate. Uno dei contrasti con l’era Renzi. In prima fila, si siede pure Maria Elena Boschi, che non si fa mancare il giro di baci e abbracci. Mentre risuonano le note dell’Inno alla gioia (introdotto “in scaletta” prima di “Fratelli d’Italia”), al tavolo delle presidenza i superstiti del renzismo, Francesco Bonifazi alla sua ultima apparizione come tesoriere prima di lasciare a Luigi Zanda, e Andrea Marcucci, capogruppo in Senato, hanno l’aria più disorientata che cupa. Entrano ed escono dalla sala Luca Lotti e Lorenzo Guerini, impegnati nella loro attività preferita: le trattative, stavolta per la direzione. La mozione Giachetti-Ascani sta in un angolo in fondo alla sala, dove agisce come gruppo di disturbo. Matteo Renzi non c’è: “improrogabili impegni familiari”, fa sapere; ma nessuno ha mai creduto che potesse presenziare a una riunione, nella quale non è il leader indiscusso (e neanche ombra).

“Il passato bisogna conoscerlo per vivere il presente e il futuro”. Nel suo intervento, Zingaretti declina la parola futuro in un modo che per assonanza rimanda al Pd che inizia a guidare: c’è tanto passato e in tante forme, in questo partito che si vuole presentare come nuovo. Un tempo fu la Rottamazione, all’Ergife va in scena la Restaurazione, con qualche spruzzata di Rinnovamento. “È indispensabile rimettere al centro la giustizia sociale”, dice il neo segretario. Parla di “campo largo” del centrosinistra, della necessità di costruire un coordinamento con gli altri gruppi parlamentari di opposizione a sinistra (ma dice chiaramente no al rientro degli scissionisti). Con sottile perfidia, ricorda che è stato Renzi a collocare il Pd tra i Socialisti in Europa (ora che l’ex premier guarda altrove, da Macron in poi). Poi lancia lo slogan “da Tsipras a Macron”: un modo per cercare di tenere tutti dentro, radicali e moderati. Quest’estate l’aveva messa in una maniera più critica: “Non bisogna appiattirsi su En Marche”. Rilancia l’idea del partito del “noi” e non dell’”io”. A un certo punto aveva provato a venderla così pure Renzi, con nessuna credibilità: lui pare sincero per contrasto (e per carattere).

Quando si tratta di votare Gentiloni presidente, dei 1.000 dicono quasi tutti sì, tranne gli 83 della mozione Giachetti, che si astengono), compresa la Boschi (che si smarca dal candidato che aveva sostenuto) e i lottiani. Il via libera l’aveva dato Renzi, ma l’ex Giglio Magico, a cominciare dallo stesso Lotti, che sta strutturando la corrente, si aggrappa al Pd tipo scialuppa di salvataggio. Mentre Martina bacchetta Giachetti (che definisce il partito una “baracca”) e pare già zingarettiano. La Ascani non vota Gentiloni, ma accetta l’offerta di una vice presidenza. L’altra va a Debora Serracchiani, ex promessa. La trattativa per la direzione è estenuante e si gioca soprattutto nella mozione dell’ex Reggente, tra lui e i lottiani.

Alla fine, sono 130 i componenti che fanno riferimento a Zingaretti, 16 quelli di Giachetti e nella ex mozione Martina sono 32 i membri dell’area Lotti-Guerini e 27 i martiniani. Calenda entra in quota Zingaretti. In quota segretario entrano pezzi diversi del vecchio Pd: Francesco Boccia, Monica Cirinnà, Cesare Damiano, Marianna Madia, Marco Minniti, Orlando, Roberta Pinotti, Barbara Pollastrini, Marina Sereni, Sandra Zampa, Goffredo Bettini. Tra gli indicati direttamente dal neo segretario, Elisabetta Gualmini, vice presidente dell’Emilia Romagna, Peppe Provenzano, Michele De Pascale, sindaco di Ravenna. In quota Lotti – Guerini, i volti del renzismo, da Alessia Morani a Alessia Rotta a Dario Parrini. C’è posto pure per Piero De Luca. La Boschi entra in quota Giachetti. Manca qualche nome di peso, come lo stesso Lotti e Antonello Giacomelli. Sono aperte le trattative per la segreteria. Con un posto da vice per una donna (insieme alla De Micheli), magari Simona Malpezzi o Teresa Bellanova, già “figurina” preferita di Renzi. Ma con quelli rimasti (volutamente) fuori, a partire da Lotti, pronto ad entrare.

“Dobbiamo cambiare tutto”, proclamava Zingaretti, mentre annunciava il ritorno dei corpi intermedi, l’apertura alla società e modifiche allo Statuto (a partire dall’articolo che fa coincidere il segretario con il candidato premier). Quanto lo farà davvero, si vedrà. Oggi intanto va a Potenza: domenica si vota in Basilicata.

La Rai non ha futuro e non può cambiare: rassegniamoci

Un’informazione Rai moderna, giovane, plurale, efficiente. Carlo Verdelli, per 362 giorni direttore editoriale del servizio pubblico radiotelevisivo, milanese imbottigliato nel traffico inestricabile e incomprensibile di Roma, attendato in un residence monoblocco e angosciante a mezza sigaretta dagli uffici di Viale Mazzini, ci ha creduto davvero. E ha sbagliato. Verdelli condensa la sua delusione, la sua sincera sofferenza, quella che soltanto i pinguini pareggiano con l’espressione di una desolazione senza rimedio (definizione che ha tratto da Daniele Del Giudice), nel libro “Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai”. Nell’autunno del 2015, nel pieno fatuo germogliare del renzismo, Verdelli ha risposto a una convocazione in “Nazionale”, cioè in “televisiun” Rai, di Antonio Campo Dall’Orto (chiamato Cdo), un ragazzo con zaino in spalla di cinquant’anni, di una stravagante discrezione, di poche parole, vittima di un equivoco che s’è risolto tardi e male: Matteo Renzi ha scelto Cdo perché lo considerava bravo, ma soprattutto “renziano”. “Mai visto un essere umano così felice di essere se stesso”, dice Verdelli di Renzi nel capitolo che ricostruisce un esilarante incontro, il primo. Perché Verdelli e il capo del governo non si conoscevano. Carlo era per Cdo una garanzia di autonomia e indipendenza: robe intollerabili per la politica che sorveglia il servizio pubblico e non intende smettere, perché a ogni varo di vertici aziendali si taglia il nastro della lottizzazione. Ieri come oggi.

La politica non riforma, fa razzie di poltrone, strapuntini, comparsate e poi obbliga l’azionista di maggioranza (i cittadini che pagano il canone, spiega più volte Verdelli) a supportare e sopportare la Rai. Oggi i cittadini, elettori e abbonati non vedono mai Matteo Salvini con la maglia “viva la Rai”, ma assistono, ormai da un anno, a un telegiornale, il Tg2 dell’ex missino Gennaro Sangiuliano, che gli riserva il 20 per cento del tempo dedicato agli interventi dei politici.

Il cronista Verdelli ha annotato ogni particolare, ogni trappola, ogni volto che l’ha accolto e respinto in 362 giorni: dai salamelecchi all’odio malcelato è un attimo, come ha dimostrato l’allora presidente Monica Maggioni. Verdelli ha sbagliato perché ha creduto di donare ordine e valore al gigante stanco, ormai agonizzante, del servizio pubblico, sedato da vincoli, regole, controllori, referenti, padroni, padrini, 27 edizioni di telegiornali, 24 sedi locali per 20 regioni, 13.000 dipendenti. Viale Mazzini ha sputato il “pezzettino” Verdelli, che da un mese guida la Repubblica, non appena s’è accorto che fosse un “estraneo”, non un “esterno” su cui molto s’è concionato. Il libro di Verdelli è il cartello che manca al cavallo morente all’ingresso di Viale Mazzini: lasciate perdere, non entrate.

I nostri connazionali all’estero e l’Italia tutta mafia e corruzione

Gli occhi già grandi si dilatano. Di stupore, di incredulità. Di dolore, di rabbia. Con leggerezza non calcolata, ma proprio come si trattano le notizie che si danno per scontate, mi è capitato di parlare della mafia a Reggio Emilia, e di richiamare qualche particolare. E di commentarlo, fino alle estreme conseguenze. E lei, Maurizia Morini, che a Reggio Emilia è nata da famiglia socialista e comunista, ma vive da tempo in Francia, è stata come trafitta da una rivelazione inaspettata. Ho colto in un secondo quel sentimento di incredulità dolorosa. Che sarebbe diventata rabbia verso il suo interlocutore, se non ne avesse avuto stima professionale. Ho capito d’un tratto che avevo fatto male, che quella studiosa appassionata traslocata dall’Emilia a Lione 13 anni fa, impegnata com’è a promuovere l’immagine della cultura italiana in Francia, avrebbe meritato più delicatezza. Perché gli italiani all’estero non se la passano proprio bene con l’immagine di Paese che hanno alle spalle.

Forse non è stato molto diverso in passato, con le storie di corruzione e mafia che dall’Italia giungevano a getto continuo alla stampa estera. O con il repertorio grottesco-pecoreccio di Berlusconi di cui un giorno un ambasciatore mi raccontò gli effetti perfino sulle domande di iscrizione ai corsi di italiano. Ma certo ci sono stati periodi migliori. E chi ci rappresenta in altre nazioni, anche se tace disciplinatamente, prova disagio, ingoia e poi ricomincia.

Maurizia Morini ha un curriculum di studi di assoluto riguardo. Una laurea in pedagogia a Parma, e poi diplomi di specializzazione in Sociologia e Storia. Anni di lavoro nel sindacato unitario dei chimici a Reggio Emilia e in un centro studi a Bologna, e poi, dal 1980, il passaggio all’impegno nel “femminismo culturale”. Socia fondatrice della cooperativa di ricerca e studi sociali Lenove a Modena, “dove eravamo tutte donne, furono i tempi delle prime pubblicazioni scientifiche”. Da lì il salto all’insegnamento, in istituti superiori di Reggio e nella stessa università cittadina. E, nel 1991, la nascita della figlia Giulia, “il rapporto più difficile e meraviglioso della mia vita”. Nel 2006 l’avventura in Francia. “Come mai? Perché l’esperienza nel mondo della scuola si era fatta difficile, e la realtà di provincia mi andava stretta; passati i tempi delle grandi speranze mi sembrava di vivere in una specie di stagnazione culturale. Non era un problema di motivazioni mie. Io anzi continuo a credere che con l’impegno personale si cambia il mondo, l’entusiasmo non mi è mai venuto meno. Diciamo che fu una questione di orizzonti. Desideravo crescere professionalmente e volevo dare più opportunità a mia figlia”. La Francia la accolse bene. Insegnamento di italiano, letteratura e storia in due università di Lione, organizzazione di molti convegni e in più un ruolo di coordinamento per l’Istituto italiano di cultura, una creatura che scoppia di vitalità ma che paradossalmente in una città dove quasi un terzo degli abitanti ha origini italiane, deve stringere i denti, ospite degli stessi locali dell’omonimo istituto tedesco ma con un settimo del personale. Ancora oggi organizza e tiene conferenze e corsi di storia. Solo che il suo mettersi al servizio del proprio paese diventa a volte una battaglia. Non solo per le notizie che giungono dalla sua città. Ma perché anche i più rinomati prodotti culturali del made in Italy la mandano talora in sofferenza. Ne sono stato testimone diretto nel recente festival cinematografico promosso dall’università di Lione3. Proiezione e discussione della prima puntata della serie Gomorra. Merce di successo, certo, ma con quella deformazione ossessiva della vita di Scampia (o di Casal di Principe, se si vuole), che più che neorealismo è una caricatura feroce e programmata di una società dalle tante facce.

L’ho vista risollevarsi, qui sì, alle mie parole, lei reggiana insieme ai giovani napoletani in sala. Felice di sentire quel che è nato nel frattempo (anche sotto la spinta del libro Gomorra) in quei luoghi. Sentirsi raccontare l’antimafia nel suo paese, avere qualcosa di cui essere orgogliosa di fronte ai colleghi francesi. “Non è patriottismo, dopo 13 anni in Francia non mi sento né italiana né francese, il che è al tempo stesso piacevole e difficile. È che desidero presentare ai tanti francesi che amano il nostro paese gli aspetti dell’altra Italia, positiva, bella, disponibile, aperta; e non solo pizza, Cinque terre, camorra e corruzione.” Come darle torto?

Greta, la ragazzina “diversa” che ci spinge a essere “diversi”

“Il mondo salvato dai ragazzini”. La visione profetica che dà il titolo al celebre libro di Elsa Morante (1968) non è mai stata così vicina ad avverarsi. Quel libro conteneva – scrisse Pasolini – “tutte le ossessioni del mondo moderno: l’ato mica, la morale dei consumi e il profondo desiderio di autodistruzione”. E oggi che quelle ossessioni – e soprattutto la seconda e la terza, tra loro ormai indistinguibili – ci hanno condotto a due passi dall’apocalisse, i ragazzini hanno preso la parola: una parola piena di saggezza e lungimiranza, come nei cantici biblici in cui l’Altissimo confonde i sapienti e gli intelligenti e rivela la verità ai piccoli e agli umili.
Greta Thunberg è piccola, ed è umile. È una ‘diversa’, perché è affetta da una forma di autismo, la sindrome di Asperger: e dunque si trova ad essere discriminata (come si è ben visto in un osceno gocciolìo di bestialità italiane, via Twitter e affini).
Una ragazzina, e per di più diversa e discriminata: sarà un caso che proprio da lei venga, perentorio, l’invito ad essere tutti diversi? A cambiare stile di vita, a pensare e quindi ad agire in modo diverso? Sono gli umili (letteralmente i vicini alla terra: all’humus) che ci insegnano a salvare la Terra.

E noi – che nel migliore dei casi pensiamo, stoltamente, di dover ‘aiutare’ i diversi ad essere normali – noi condannati a morte dalla nostra normalità, potremmo ora essere salvati da quella diversità che non capiamo e non amiamo.

Noi tutti, che ci riteniamo ‘normali’ e siamo felici di crederlo, non avremmo avuto la costanza un po’ folle di andare ogni venerdì di fronte al nostro Parlamento, a scioperare per il clima. E infatti non lo abbiamo fatto: ma Greta sì. E questa umile, rivoluzionaria tenacia ha fatto la differenza: sollevando un’onda potente, in tutta Europa, fino a travolgere felicemente le nostre famiglie.

È a causa di quell’onda che venerdì scorso sono stato portato ad una manifestazione di piazza da mia figlia Maria, che ha tredici anni e fa la terza media. Fino a poche ore prima non avrei mai detto che sarebbe potuto succedere: quando le capita di sentir parlare di politica, si annoia e se ne va (come darle torto, del resto?). Ma quella è la nostra politica: e invece una mattina mi ha detto che sarebbe andata con le sue compagne di classe (Alice, Petra, Elena, Viola, Eva e tante altre…) a fare volantinaggio per le strade di Firenze: per portare tutti in piazza. E alla fine ci ha portato anche me: che distratto da tutte le mie cose senza importanza, me ne stavo perdendo una capitale.

Perché la manifestazione fiorentina è stata indimenticabile. Io non so chi potrà dire ancora, dopo venerdì scorso, che questi ragazzi vivono persi nel loro telefono, nella bolla dei social o presi nella rete. Io li ho visti tutti in piazza, con gli occhi spalancati su quel mondo che si erano tatuati in faccia, in verde e blu. Ho letto i loro slogan, scritti di fretta su pezzi di cartone rimediati alla meno peggio: tutti riassunti da uno che recitava: There is no a Plan(et) B. Un gioco di parole, elegante quanto terribile: non abbiamo un altro pianeta, se distruggiamo questo siamo finiti anche noi. E il secondo significato è un’accusa durissima a noi, agli adulti: non avete un piano b! Non avete costruito una via d’uscita: voi che avreste dovuto darci un futuro, lo state distruggendo. Questa è la politica dei ragazzini: Politica con la P maiuscola, come quella del Pianeta.

Il corteo di Firenze è stato straordinario, perché ha riportato dopo decenni – dopo il Social Forum del 2002 – la politica vera e il futuro nelle strade di questa città di morti che vivono dello sciacallaggio del passato. Tra le pietre bellissime di Firenze è ricomparso un popolo. Era surreale vederlo sfilare in via de’ Neri: la strada composta solo da ristoranti per turisti, quella dove un’ordinanza comunale ha dovuto proibire di mangiare in piedi. Come se uno studio di Cinecittà vedesse una scena di massa vera, al posto di quella che doveva essere recitata dalle comparse. E, poi, le facce stralunate dei turisti quando il corteo è entrato in Piazza della Signoria, costeggiando per interminabili minuti la fila infinita davanti agli Uffizi: un’allegoria in cui due figure antitetiche, il Consumo e la Sostenibilità, si incontravano per un attimo.

Non c’erano bandiere di partito: e come avrebbero potuto, del resto? Lo striscione più politico, in senso tristemente corrente, inalberava l’immagine di tre facce con tre didascalie, e poi un unico slogan: “Siamo ancora in tempo a fermarli”. I volti erano quelli del sindaco Dario Nardella (con sotto scritto: “Aeroporto”), di Matteo Salvini (“Tav”) e di Luigi Di Maio (“Ilva”).

Oggi nessun partito di un qualche peso può onestamente rivendicare una propria sintonia con questi ragazzini che salvano il mondo: non certo il Pd di uno Zingaretti cementificatore del Lazio, che corre a spingere il Tav abbracciato a Salvini.

E non più un Movimento 4 Stelle che ha perso nelle stanze del potere la stella dell’ambiente, tra condoni e furbizie ni-tav.

Né c’è qualcuno che possa davvero credere alla sincerità del presidente Sergio Mattarella, che ha scoperto solo oggi che l’Italia è in pieno disfacimento e il pianeta sull’orlo dell’abisso. Ora: dopo aver votato per una vita da uomo di maggioranza e di governo, e poi firmato da Capo dello Stato, centinaia di leggi e di finanziarie distruggi-ambiente.

Per loro e per nostra fortuna, i ragazzini convocati da Greta non hanno né padri né padrini: c’è solo da sperare che abbiano la forza di svegliarci. Prima che sia davvero troppo tardi.

Altro che canzoni straniere, la vera minaccia è l’inglese

All’indomani della II guerra mondiale, gli Stati Uniti condonarono alla Francia una fetta dei loro crediti di guerra in cambio dell’innalzamento delle quote di film hollywoodiani ammessi nella programmazione dei cinema d’Oltralpe: l’allentamento del protezionismo imposto dal regime di Vichy fece gridare l’intelligentsija di sinistra alla colonizzazione culturale yankee, tanto da stimolare i successivi governi a favorire con sovvenzioni e tutele il cinema nazionale. Sin dal 1986 un analogo sistema di quote vale in Francia per la diffusione della musica.

Proprio il modello francese è stato invocato dai difensori di una recente proposta di legge a prima firma dell’ex direttore di Radio Padania, il deputato leghista Alessandro Morelli: vuole obbligare le radio a trasmettere per almeno un terzo musica che sia “opera di autori e artisti italiani e incisa e prodotta in Italia”. Contro questa norma sono stati sollevati argomenti ideologici di scarso valore, come ha mostrato in un’attenta analisi Luigi Rancilio: un’intenzione simile era stata espressa nel 2017 dall’allora ministro della Cultura Dario Franceschini (PD) e da un appello lanciato nel 2013 da cantanti poco sospetti di simpatie sovraniste come Eugenio Finardi e Piero Pelù. I dati di EarOne, secondo i quali già oggi la musica italiana occuperebbe le radio per oltre il 45%, sono sbilanciati dal conteggio di emittenti speciali come RadioItalia, e non tengono conto dei molti brani il cui monitoraggio non è pagato dalle case discografiche.

I veri problemi della proposta Morelli sono altri, anzitutto il suo spirito e la sua estensione. La dicitura parla di “autori e artisti italiani”, trasferendo sul piano della cittadinanza dei creatori quel discrimine che nel modello d’Oltralpe riposa sulla lingua. Al di là di possibili effetti grotteschi (e le gemelle Kessler? e Heather Parisi? e Ermal Meta?) preoccupa il fatto che la proposta sia stata sbandierata dal suo stesso estensore come un argine all’influsso di “grandi lobby e interessi politici” e di “giurie buoniste” all’indomani della vittoria di Mahmood a Sanremo.

L’improvvisazione della proposta Morelli è evidente se solo si confronti il suo scarno articolato con la sofisticata architettura dell’art. 28 della legge Léotard. Se però la legge Morelli non fosse rivolta contro i ritmi afro, ma fosse intesa come una forma di resistenza al predominio della cultura anglofona, allora sarebbe forse più opportuno appuntare l’attenzione altrove: come argomenta in un battagliero pamphlet antiamericano Régis Debray (Civilisation, Gallimard 2017), la globalizzazione odierna mette dinanzi per la prima volta nella storia moderna alla supremazia di una lingua, l’inglese, che interessa sia l’àmbito “alto” (la ricerca, le accademie, l’arte colta) sia quello “popolare”, dunque Harvard e Hollywood, Philip Glass e Beyoncé.

Un buon modo di “difendere” la nostra cultura potrebbe essere quello di scoraggiare, non necessariamente per legge ma come indirizzo, l’abuso di terminologia inglese nei documenti ufficiali dei nostri enti pubblici, almeno là dove esistono facili equivalenti italiani. Non credo sarebbe un segno di provincialismo se, per esempio, dalle delibere dell’organo universitario in cui siedo scomparissero vision, policy, reputation, ranking, score, call for expression of interest, carbon management, job posting, visiting adjunct, honorary fellow, minor, all-inclusive, stakeholders, fund raising, career day, challenge school, teaching assistants, public engagement, soft skills e mille altri inutili anglismi; per non parlare degli uffici o delle strutture che hanno ormai solo un nome straniero, dei documenti amministrativi interni che i Dipartimenti sono chiamati a redigere solo in inglese e delle pressioni sempre più forti a rinunciare del tutto alla lingua nazionale nei corsi più vari, da quelli scientifici (dove l’italiano perde la capacità di innovarsi e di stare al passo con i tempi) a quelli umanistici (dove l’italiano avrebbe molto da insegnare alla lingua che viene a sostituirlo, e agli studenti che rinunciano ad apprenderlo). E sorvoliamo sugli effetti collaterali sul piano dei mores, come le tristanzuole cerimonie di lancio dei cappellini durante il Giorno della Laurea (anzi Graduation Day).

Tutto per occhieggiare alla cultura “vincente” in forza di un malposto sforzo di apparire à la page, e per confondere le acque celando dietro al prestigio del nuovo latinorum, e alla sua apparente concretezza “aziendalistica”, delle realtà che è meglio non definire con chiarezza.

Orribile l’autarchia, ed esagerata la legge Toubon, quella che dal ’94 impone ai Francesi di dire ordinateur invece di computer, con esiti a volte grotteschi. Ma, all’estremo opposto, la rinuncia generalizzata a saper individuare, esprimere e condividere concetti complessi in una lingua di antiche tradizioni (si pensi a quanto accade, con effetti financo peggiori, nella neolingua dei pedagogisti del ministero tra flipped classroom e learning by doing) potrebbe rivelarsi alla lunga ben più pericolosa della passione dei giovani per l’hip hop o per Lady Gaga (quest’ultima, magari, la contiamo come oriunda?).

Stranieri, infedeli o uomini forti: il prossimo Premio Strega è uno di loro

Sette candidati su dodici sono donne, e questo potrebbe essere un segnale. Due case editrici (Einaudi e La Nave di Teseo) giocano al raddoppio, mentre Mondadori si ferma a uno. Stranieri (non letteralmente), infedeli e uomini forti la fanno da padroni. È stata comunicata ieri la dozzina che concorrerà al Premio Strega, in programma il 4 luglio. Questi i nomi:

Valerio Aiolli, Nero ananas (Voland); Paola Cereda, Quella metà di noi (Perrone); Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo (Mondadori); Mauro Covacich, Di chi è questo cuore (La nave di Teseo); Claudia Durastanti, La straniera (La nave di Teseo); Pier Paolo Giannubilo, Il risolutore (Rizzoli); Marina Mander, L’età straniera (Marsilio); Eleonora Marangoni, Lux (Neri Pozza); Cristina Marconi, Città irreale (Ponte alle Grazie); Marco Missiroli, Fedeltà (Einaudi); Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo (Bompiani); Nadia Terranova, Addio fantasmi (Einaudi).

“Ci chiamò Buttiglione quello vero. E Marenco fu promosso generale”

“Il corpo femminile è tondato e viscido al tatto e all’odorato. E allo sgruffo”. L’anatomia del professor Anemo Carlone, luminare della medicina, era una scienza incomprensibilmente assurda. E proprio per questo divertente. “Una volta lo portai davvero a un raduno di medici, ridevano fino alla lacrime”. Renzo Arbore ha condiviso con Mario Marenco sessant’anni di amicizia e “mai uno scazzo”. E così, quando la notizia della morte dell’architetto lo assale di domenica mattina, nel dolore della perdita trova il modo ironico per raccontarlo. Aveva 85 anni Mario Marenco, da tempo era ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma per alcune complicazioni del suo stato di salute. Insieme con Arbore e Gianni Boncompagni, tra un’invenzione di design e l’altra, aveva dato vita a personaggi radiofonici e televisivi che ancora oggi, riascoltandoli su renzoarborechannel.tv, fanno venire le lacrime agli occhi. Mr. Ramengo, il colonnello Buttiglione, Raimundo Navarro e l’indimenticabile Riccardino di Indietro tutta: ognuno di loro raccontava il genio, l’ironia, la comicità fuori dagli schemi e sempre controcorrente.

Arbore, dove aveva conosciuto Marenco?

Mario era nato anche lui a Foggia e poi si era trasferito a Napoli. In pochi lo sanno, ma nella seconda metà degli anni Sessanta si fidanzò con una giovanissima dea di nome Laura Antonelli. L’amore durò quattro anni, mi pare di ricordare. Io lo conobbi proprio a Napoli mentre – dall’alto di uno scoglio – fingeva di dirigere un traffico di barche e allo stesso tempo lavorava a un ceppo di legno, che chissà cosa doveva diventare nella sua fantasia.

E lì nacque un’amicizia.

Ho lavorato con lui quattordici anni alla radio, fatto due o tre programmi televisivi e anche due film (“Il Pap’occhio” e “FF.SS. – Cioè: “…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?”). Mai uno scazzo, mai una discussione. Era una persona educatissima, ma fuori dall’ordinario.

Era un bastian contrario?

I suoi personaggi erano pieni di incongruenze, surreali, anti convenzionali. Così come lui. Quando gli chiedevo ‘Mario, perché fai questa cosa?’, mi rispondeva ‘per sfregio’. La sua caratteristica era quella di non essere omologabile.

Con Marenco e Boncompagni in Alto gradimento vi divertivate voi, prima del pubblico.

Le dico di più: Gianni, poco prima di morire, scoppiava a ridere quando gli ricordavo le imprese di Mario. All’epoca non ci rendevamo conto delle sue vette di comicità, inedite non soltanto per l’Italia ma per il mondo. Gianni lo considerava il più grande umorista del secolo. Io e Nino Frassica ne siamo ancora convinti. Pensi che Nino, quando veniva ad ascoltare le nostre registrazioni, prendeva appunti. Ci ha fatto divertire fino alle lacrime, senza mai turbarci.

Come per le telefonate del colonnello Buttiglione?

Mario era davvero figlio di un colonnello della Guardia di Finanza, aveva vissuto a lungo in una caserma, conosceva bene il linguaggio cameratesco. Buttiglione però fu promosso generale Damigiani.

Come mai?

Ogni tanto in Rai arrivava una telefonata dal colonnello Buttiglione, i centralinisti buttavano giù pensando a uno scherzo di Mario. In realtà quel militare esisteva davvero, era lo zio dell’onorevole Rocco. Chiamava per lamentarsi, ma non gli credeva nessuno. Alla fine dovette intervenire il ministero della Difesa con una diffida ufficiale. Allora dovemmo inventare il generale Damigiani. E pensammo che, se avessimo incontrato davvero un generale con quel nome, il personaggio si sarebbe trasformato nel capo di Stato maggiore Labotte. Io dico sempre che non ho fatto il servizio militare, ma il tiraggio di Marenco.

E Mr. Ramengo?

Era l’inviato strampalato de L’altra domenica. Che so, per esempio si piazzava al Foro Italico con i genitali delle statue fasciste in primo piano. “Statuo – diceva – perché non mi sembra una statua”. Una volta Fellini mi chiamò perché voleva far fare a “Marietto” – così lo chiamava – un provino, ma non sapeva come farlo lavorare perché lo trovava un po’ “strambo”.

E lei cosa gli rispose?

“Devi dirgli il contrario di quello che vuoi, ha la contraddizione incorporata”. Infatti la reazione di Mario fu: “Ma che vuole ‘sto Fellini da me?”. A volte arrivava e salutava con un “buenos dias”. Noi: “È spagnolo?”. “No, tedesco”. Si era inventato un astronauta spagnolo quando la Spagna era ancora franchista.

E il dottore professore Anemo Carlone?

Andatevi a risentire le sue descrizioni del corpo maschile e di quello femminile. Oppure la sua filosofia sulle operazioni: “Il malato è pur sempre un essere umano…”.

Ma quanto si preparava per i personaggi e le gag?

Faceva tutto all’impronta. Annotava scarabocchi sui bordi bianchi del giornale. Non si capiva niente. E lui stesso, per decifrarli, inventava altre cose. Non aveva nulla di razionale. E non ci dimentichiamo che è stato anche un grande architetto. Ha inventato il primo divano fatto solo di cuscini o quello che con un dito diventa letto. Un designer geniale.

E il Riccardino con il grembiule a quadretti e il grande fiocco?

Ma dove lo trova uno che già grande si mette a fare una cosa simile? Mario si divertiva a secutare (corteggiare, ndr) le ragazze Coccodè. Anzi, aveva accettato la parte per quello…

“Suore stuprate e umiliate, le nuove schiave della Chiesa”

Nell’abisso della propria coscienza la Chiesa ritrova le suore abusate, quelle fatte abortire, afflitte, condotte a una vita di servitù più che di preghiera. È merito di Lucetta Scaraffia, la storica e giornalista che dirige Donne Chiesa Mondo, l’inserto mensile dell’Osservatore Romano, se questo tema, nella sua scabrosità, è divenuto questione pubblica, scandalo pubblico.

“Ne parla il mondo intero. La cosa che più mi colpisce è invece l’incredibile silenzio della stampa italiana, questa assoluta e assai singolare distrazione attorno a un fenomeno così enorme e destabilizzante”.

Le suore serve, in molti casi costrette a soddisfare l’appetito (anche fuori della tavola) dei maschi, sacerdoti o addirittura vescovi.

È la condizione femminile nella Chiesa ad essere drammaticamente il cuore del problema. Per decenni questa prostrazione psicologica e fisica era coperta e negata, avvolta nel silenzio compassionevole delle gerarchie se non dall’omertà.

La Chiesa è come irretita da uno scandalo permanente. Non riesce a trovare una via d’uscita a una situazione che la obbliga a fare i conti con la propria coscienza, il proprio codice, se posso dire, la propria reputazione sociale.

Papa Francesco ha fatto tantissimo. Ricordo il suo ultimo appello al popolo di Dio affinchè sorvegli e corregga, denunci e proponga. Un appello al popolo, ai laici, non solo al ceto dirigente, alla gerarchia, è già esso un fatto rivoluzionario. E infatti l’appello non è stato accolto benissimo da chi vede nei laici una intrusione, da chi patisce indebite interferenze.

La novità, lei l’ha scritto, è che finalmente le suore sono riuscite a far denuncia, a dare scandalo, se così possiamo dire.

Sì, il fatto nuovo è che gli abusi ora hanno la forza di un atto d’accusa, di testimonianze circostanziate che impongono alla Chiesa provvedimenti esemplari e una discussione franca, aperta, sostenibile.

La Chiesa è stata sempre vittima del suo paternalismo, dell’omissione, della copertura

Pensi che questi episodi quando negli anni venivano riferiti erano rubricati alla voce “relazioni romantiche”, o incasellati nella vasta gamma della cosiddetta “trasgressione della castità”.

Invece qualcosa adesso finalmente si muove.

E questo dà fiducia, sapendo che siamo all’inizio

La Chiesa non ha mai sanzionato.

Non c’è giudice del Vaticano che condanni. I nomi dei vescovi e dei sacerdoti finora condannati sono stati i protagonisti di processi penali delle magistrature dei Paesi in cui i reati sono stati commessi. Nessun tribunale ecclesiastico ha dato prova di attenzioni particolari

Prima la pedopornografia, correlata o meno all’abuso sistematico sui minori, le decine di casi in cui uomini di Chiesa si sono abbandonati a comportamenti particolarmente odiosi e che purtroppo formano una catena storica che non sembra interrotta.

È così

Ora l’abisso delle prepotenze dentro i conventi.

Arrivare al punto di condannare pubblicamente l’aborto, definirlo reato, e poi farlo praticare alle proprie sorelle è un comportamento abietto, eticamente improponibile. È dentro questo reticolo di omissioni e ipocrisie gravissime che la Chiesa si dibatte.

Sono voci esili o isolate, come la sua. Sembra, purtroppo, che la Chiesa non riesca a far fronte alle proprie debolezze. Che persino il Papa faccia fatica a ritrovare nel dibattito interno un lume di verità e rigore. Lui chiede, ma ottiene?

Papa Francesco è subito divenuto un mito. E il nostro tempo consuma presto i miti. Resta incontrovertibile la sua enorme capacità di accettare la denuncia, di non nasconderla mai e anzi di farla divenire anche questione pubblica.

Resta intatta anche la resistenza della gerarchia.

Sì, e questo è un dato inconfutabile.

E questa resistenza, ora sorda ora urlata, indebolisce, fiacca lo spirito e anche la capacità espansiva del messaggio di Francesco.

Indubitabile che la sua forza abbia perduto smalto. Ma era nelle cose, c’era da aspettarselo.

Bisogna però dire che lei e il suo gruppo curate in assoluta libertà l’inserto. E che le vostre cronache sono riuscite ad aprire il varco alla denuncia, a inchiodare la Chiesa alle sue responsabilità.

È così. Aggiungo che l’idea dell’inserto, curato da un gruppo di donne credenti e non, fu portata direttamente all’attenzione del Papa. Era Benedetto XVI, un uomo di grande cultura che accettò senza fare una piega e dispose. Non sono così certa che le gerarchie avrebbero mostrato la medesima disponibilità. Anzi….

Anzi? Prosegua.

Ricordo i primi tempi, quando, incontrando i prelati, chiedevamo un’opinione su ciò che si pubblicava o soltanto una valutazione, ci rispondevano: “Sì, certo lo legge la mia cuoca”. Oppure “Ah, l’inserto che casca sempre quando apro il giornale”.