Violentate in convento: suore vittime dei preti

Non c’è solo l’orrore della pedofilia nella chiesa cattolica. Nel 2006, Doris era una giovane novizia di 22 anni quando, arrivata in Vaticano per completare la sua formazione spirituale e prendere i voti, fu abusata da un prete. Ci sono voluti anni perché Doris decidesse di parlare. Nel 2010 ha denunciato tutto alla superiora e rinunciato alla vita religiosa. La sua storia l’ha raccontata di recente a tre giornalisti, davanti alla telecamera a volto scoperto. Il documentario di Elizabeth Drévillon, Marie-Pierre Raimbault e Eric Quintin, Religieuses abusées, l’autre scandale de l’Église, risultato di tre anni di inchiesta, è andato in onda il 5 marzo sul canale televisivo francese Arte, ma è ancora disponibile sul sito internet. Doris era entrata nella Famiglia spirituale “L’Opera” e si occupava della biblioteca. Il prete aguzzino era il responsabile: “Controllava tutto quello che facevo, me lo ritrovavo ovunque, in cucina, nella lavanderia.

Un giorno mi ha passato il braccio intorno alla spalla, ma il contatto fisico tra noi era tabù”. Doris voleva dire al prete di non importunarla più e accettò di riceverlo nella sua camera. “Ci siamo seduti sul divano e ha cominciato a sbottonarmi l’abito. Gli ho detto: ‘Non ha diritto di farlo’. Ma lui ha continuato e ho capito che non avrei potuto impedirlo. Come suora ho promesso obbedienza, sapevo che avrei dovuto sopportare il dolore, ma non era concepibile che qualcuno mi privasse della mia castità. Non ero più vergine. Ero ancora una suora?”. Lo scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica oggi riguarda raccapriccianti storie di pedofilia. Tutti i media parlano di casi come quello del cardinale Barbarin di Lione, condannato per aver coperto gli abusi pedofili di un prete per anni e che oggi è in Vaticano a rimettere le dimissioni al Papa. Non è così per le violenze subite dalle suore. Le inchieste giornalistiche ci sono, ma se ne parla poco: “Non c’è abbastanza copertura mediatica, né opinione pubblica ed è tutto da costruire”, dice Christian Terras, direttore della rivista cattolica Golias. Il bilancio del documentario è agghiacciante. Da decenni religiose di tutto il mondo subiscono abusi sistematici da parte di preti che approfittano del loro potere. Le suore si chiudono nel silenzio, vittime anche della paura di denunciare e della complicità delle gerarchie. Alcune restano incinte e sono obbligate a abortire in segreto, certe volte a gravidanza avanzata, o a “offrire il loro bambino a Dio”, cioè a darlo in affidamento. In più subiscono il disprezzo delle superiore e delle famiglie.

I preti predatori, nella maggior parte dei casi restano impuniti o, se denunciati, vengono giudicati da tribunali interni e al massimo trasferiti. Un’altra ex religiosa francese, Michèle-France, che a 26 anni, negli anni 70, era suora nel convento delle Carmelitane di Boulogne-Billancourt, racconta gli abusi subiti da padre Marie-Dominique. Un prete che aveva la “reputazione di un sant’uomo” e che invece cominciò a approfittare di lei nel silenzio del confessionale: “Diceva di essere il piccolo strumento di Gesù”. Raggiunta la comunità “L’Arche”, a Trosly-Breuil, Michèle-France fu abusata anche da padre Thomas, il responsabile: “Cominciai anche con lui a praticare la fellatio come con Padre Marie-Dominique. Per me era come un esercizio di penitenza”. Questi casi sono noti in Vaticano. Padre Thomas era stato convocato a Roma già negli anni 50 e sanzionato, ma aveva continuato ad abusare delle suore fino alla sua morte, nel 1993. Solo più di dieci anni dopo Michèle-France e le altre vittime hanno avuto il coraggio di denunciare il prete predatore e solo nel 2017 hanno ottenuto una “messa di riparazione”. Padre Marie-Dominique morì nel 2006, ma solo 10 anni dopo la Santa Sede ha riconosciuto gli abusi portati avanti da lui e dai suoi discepoli della comunità spirituale di Saint-Jean, di cui era il fondatore (congregazione poi sciolta). Gli autori del documentario denunciano la “cultura dell’impunità” di cui, in un’intervista al settimanale Telerama, accusano soprattutto il pontificato di Giovanni Paolo II: un periodo i cui “la Chiesa perdeva terreno” e la comunità di Saint-Jean rappresentava “un vivaio di 500 preti”. Al giornale francese, Eric Quintin ha spiegato: “L’inchiesta è nata quando abbiamo scoperto che una risoluzione del Parlamento europeo del 2001, invitava il Vaticano a reagire alla pubblicazione, sul giornale statunitense National Catholic Reporter, di due rapporti sugli abusi sessuali di cui sono vittime le religiose. Si trattava di inchieste molto documentate portate avanti da due suore, Marie McDonald e Maura O’Donohue, negli anni 90, in 23 paesi e trasmesse al Vaticano. Un grido di allarme rimasto senza risposta”. La risoluzione non ha avuto seguito.

Patsy Sörensen, l’eurodeputata che l’aveva difesa davanti all’Ue, ricorda di aver ottenuto solo una risposta “deludente” da parte del Vaticano. L’ex portavoce della Santa Sede, Joaquín Navarro-Valls, morto nel 2017, aveva anche tentato di minimizzare: “Non aveva negato il fenomeno, ma secondo lui era limitato a regioni lontane”. Nel suo rapporto del 1998, Marie McDonald, missionaria in Africa, aveva allertato sul ricorso all’aborto: “Quando una suora resta incinta, il prete responsabile insiste per farla abortire”. Constance, ex missionaria in un paese d’Africa occidentale, che testimonia di spalle, il volto rivolto verso il mare, ha contato intorno a lei almeno una trentina di suore costrette a abortire. Anche lei è stata abusata, dal suo “padre spirituale europeo”: “Diceva che aiutava tante suore, tutte giovani e novizie. Le superiore si mettevano d’accordo con i preti, consegnavano loro le sorelle e in cambio ricevevano dei soldi. Io la chiamo prostituzione”. Ludovic Lado, prete gesuita e professore di scienze sociali in Camerun, denuncia da tempo quelle che definisce le “derive mafiose del clero africano”. “La precarietà economica rende le religiose vulnerabili. Ma mentre la Chiesa cattolica condanna l’aborto – ha detto ad Arte – il fatto che una congregazione costringa una suora ad abortire per me è un’abominazione”.

Papa Francesco ha di recente definito “sicari” quanti lo praticano. Tom Roberts, ex capo redattore di National Catholic Reporter, la rivista cattolica che aveva pubblicato i due rapporti arrivati poi al Parlamento Ue, ha messo in evidenza un altro aspetto: “I preti abusano delle religiose perché sanno che sono donne sane in regioni dove l’Aids è endemico. Personalità del Vaticano ce lo hanno confermato”. Con la parola delle donne che si libera, all’epoca del #MeToo, anche le religiose cominciano a uscire dal silenzio. Ma denunciare è difficile. Lo dice Cecilia, un’altra vittima dell’Arche: “Quando si denuncia un prete, si denuncia anche la Chiesa”. Quanto tempo deve passare ancora prima che scoppi lo scandalo? Ai giornalisti di Arte, padre Hans Zollern, membro della Commissione vaticana contro la pedofilia, ha confermato: “Posso affermare con convinzione che il Papa è a conoscenza del problema”.

Del resto, proprio di recente, rientrando dal viaggio negli Emirati Arabi, Papa Francesco ha ammesso per la prima volta in aereo con i giornalisti che ci sono preti che abusano delle suore, reagendo ad un articolo di Donne Chiesa Mondo, mensile dell’Osservatore Romano: “È da tempo che ci lavoriamo”, ha detto. Nell’aprile 2018, i tre giornalisti, portando a termine la loro inchiesta, hanno trasmesso al Vaticano le informazioni raccolte e chiesto a Papa Francesco la sua disponibilità ad incontrare due ex religiose, Doris e Michèle-France. Non in privato, davanti alle telecamere. L’incontro non ha mai avuto luogo.

La Fadil scriveva: “Non è tutta mignottocrazia”

Una pagina scritta a mano, in stampatello, con grafia regolare e poche correzioni. Imane lo chiamava “il mio memoriale”, e lo aveva scritto (“Il Fatto” al tempo lo pubblicò) il 4 ottobre del 2011, “per spiegare una volta per tutte la mia scelta di parlare coi pm”. “Le motivazioni che mi hanno spinto a rivelare i retroscena da me vissuti in prima persona – aveva scritto – sono numerose e non posso svelarle prima del processo. Ma una questione ci tengo a sottolinearla: certe persone a mio parere danno il cattivo esempio agli adolescenti e alle ragazze che vogliono intraprendere la strada del mondo dello spettacolo, o del giornalismo, o ancora della politica. Lanciano un messaggio denigratorio nei confronti delle donne, soprattutto quelle che hanno dei valori e che vogliono arrivare a fare qualcosa per meritocrazia, e non per mignottocrazia”.

“Io tengo moltissimo a precisare – proseguiva Imane – che la mia dignità viene prima di qualsiasi altra cosa, e francamente non voglio passare per una poco di buono per colpa di soggetti di cui ormai ho perso la stima. (…) E ciò solo per essermi recata in procura a raccontare la pura verità”.

Sarti, ex collaboratore di Bogdan: “Si filmò con una donna”

Ieri seraalle Iene l’ex collaboratore della Social Tv di Andrea Bogdan Tibusche ha raccontato di aver raccolto le confidenze di una donna che avrebbe fatto sesso con Bogdan nella casa di Giulia Sarti. E che sarebbe stata filmata di nascosto dall’ormai famoso impianto di videosorveglianza. “Non mi va che la gente veda cose che ho fatto io con un uomo con cui sono andata a letto, non mi pare normale, soprattutto pensare che poi, ho gente qui vicino a me, che gli farebbero la pelle a ‘sto stronzo” dice la donna in una registrazione trasmessa nel servizio all’ex collaboratore Matteo De Micheli. Le telecamere sarebbero, sempre secondo la ricostruzione delle Iene, quelle pagate con i soldi dello stipendio da parlamentare di Giulia Sarti “soldi che – si legge sul sito de Le Iene – la grillina non aveva restituito al fondo per il microcredito alle piccole imprese (come aveva invece dichiarato e come è previsto dai regolamenti dei Cinque Stelle) ma aveva usato per scopi personali” E su Bogdan De Micheli aggiunge: “A noi ha raccontato diverse palle, si presentava a tutti come una specie di 007 informatico a servizio del Quirinale. Una volta disse che era in missione speciale per destabilizzare un pericolosissimo dittatore”.

Qui viveva la ex modella: nella cascina sospesa nel nulla coi cartoni alle finestre

Le finestre non hanno più infissi, qualcuno ha messo dei cartoni per proteggersi dall’aria, ombre in controluce, quel che un tempo doveva essere un bel giardino adesso è una discarica a cielo aperto, il resto sono erbacce che aggrediscono questa vecchia cascina, ostello di fortuna per chi non ha altro. Ultimo lembo della periferia milanese, territorio senza legge. Oltre il quartiere popolare del Corvetto, a un passo dal famigerato boschetto della droga di Rogoredo, con alle spalle i fumi neri dei roghi del campo nomadi di via Vaiano Valle. Di fronte alla cascina, scheletri di abitazioni, baracche e qualche luccicante Mercedes. In questo girone dantesco ha vissuto Imane Fadil, 34 anni, marocchina, modella e testimone chiave del Rubygate. Qui ha passato gli ultimi giorni, prima del ricovero e della morte nel letto del vicino ospedale Humanitas. Via Sant’Airaldo 90, striscia di asfalto tra i campi, ghiacciati d’inverno, torridi d’estate.

Tutto qui sembra sfuggire, come la strada che corre dal paese dell’abbazia di Chiaravella al cimitero. Eppure Imane da questo luogo dimenticato voleva ripartire. Abitare in questa cascina mezza diroccata le piaceva. Più volte aveva confidato il sogno di rimettere in ordine quelle quattro mura e renderle accoglienti con il suo gusto. Nel cuore aveva il sogno di una vita in campagna, scandita da tempi dilatati, lontana dai clamori dei Bunga bunga. Non solo, lei che negli ultimi anni si era avvicinata alla preghiera e alla religione, amava molto la vicina abbazia cistercense. Qui poteva pregare. Voleva farlo.

Dalle feste eleganti di Arcore, dagli sfarzi esagerati della villa di Silvio Berlusconi alla desolazione di una periferia milanese che non è nemmeno più periferia, ma un luogo indefinito. Eccola la storia di Imane. Misteriosa come la sua morte. Lei che qui ci viveva da qualche mese. Non da sola. Con un uomo. Forse il fratello, più probabile un amico. Ma qui non ci sono più. Qualche persona lavora nel campo vicino. Si ritaglia una fetta di terra, un po’ di orto “buono”. “Sì la vedevamo – raccontano – ma raramente, ormai non stanno più qua”. Tutto in questa zona è vago, inafferrabile. Oltre la cascina di Imane, già si intravede il ponte della tangenziale e gli ansimi del bosco della droga. L’8 gennaio scorso qui un giovane maghrebino di 25 anni si è ritrovato la gola squarciata da un coltello. Storie tra spacciatori. Violenza da 20 righe in cronaca. Sant’Airaldo incrocia poi Vaiano Vallo. Il campo nomadi e il suo mondo a parte. Imane circondata dalla desolazione, ma in fondo quasi rasserenata dal suo sogno di una vita lontana dalle luci acide dei Bunga bunga. Un incubo vissuto prima nella villa di Arcore e poi rivissuto nelle aule dei tribunali. Talmente terrificante da farle accogliere quasi con sollievo queste mura, a ridosso del cemento metallico del Corvetto. Quartiere popolare e difficile, dove le lotte per le case e le battaglie contro gli sgomberi della polizia si alternano a storie di malavita vera. Sul profilo di questa linea di periferia milanese sono passati vecchi boss di Cosa nostra e nuove baby face violente e senza scrupoli. Al Corvetto si è sparato, laggiù verso il Parco delle rose. Storie di immigrazione e di margini al limite. Da piazza Gabrio Rosa, oltre via San Dionigi, ecco Vaiano Valle, e Sant’Airaldo. Ma Imane non ci badava. E voleva provarci. Tra il sogno e la paura di essere seguita, minacciata, addirittura uccisa. Ora è morta. Dopo il ricovero del 29 gennaio, 30 giorni, un mese di agonia, con a fianco la famiglia e qualche raro amico. Ci sarà da indagare e fare chiarezza. Nel frattempo in questa giornata di quasi primavera, qui al confine urbano, il sole ancora non tramonta. La cascina illuminata ora mostra il suo vecchio fascino, mentre un paio di gatti randagi scompaiono tra i rovi, e le ultime persone chiudono i cesti con la verdura appena raccolta. È il sogno di Imane. Ma sono attimi, perché il puzzo della gomma bruciata che rimonta dal campo nomadi e una Mercedes bianca che brucia l’asfalto, ridanno sostanza a questa periferia di Milano. Il suo ultimo suo rifugio.

“Un siriano mi pregò di tornare da B. e ritrattare per soldi”

È il 15 giugno 2012. Palazzo di Giustizia di Milano, aula 5° Penale. Imane Fadil è entrata per la prima volta nel Tribunale di Milano qualche mese prima, nel 2011, per l’udienza preliminare del primo processo Ruby. Da allora la modella di origini marocchine divenuta testimone chiave dell’accusa, partecipa a decine e decine di udienze. Per oltre 8 anni. Pubblichiamo qui stralci del verbale di quella giornata.

Teste Fadil – Mi recai da un legale per avere della consulenza riguardo a […] lo scandalo, riguardo il fatto che io figuravo tra le 33 donne del Presidente. Era il 2011. Questo avvocato mi propose semplicemente di incontrare una persona che conosceva lui, dicendomi che questa persona faceva da tramite ad Arcore, per avere un incontro ad Arcore. Io inizialmente lo guardai un po’ basita… Al che questo avvocato mi dice: “Organizzo l’appuntamento così parlate direttamente”. Dopo un paio di giorni mi presentai in ufficio da questo avvocato e c’era questo signore straniero. Mi fece delle domande, che io adesso non ricordo benissimo, tra cui se pensavo di avere comunque il telefono sotto controllo. Allora lui mi dice: “Noi ci sentiremo per organizzare l’incontro ad Arcore, però comunque tu non devi chiamarmi col tuo numero sul mio telefono”. La seconda volta che lo vidi, lo vidi a Linate: è stata la volta che mi diede il telefono con la tessera. […] Io sono andata dall’avvocato Peronace per chiedere consulenza legale, per chiedere come potevo procedere per iniziare a difendermi: lui divagava, io non sapevo neanche cosa volesse dire “costituzione di parte civile”… ho visto le due ragazze, Chiara e Ambra, in Tribunale… e poi venni a sapere che questo avvocato seguiva le gemelle De Vivo, allora insomma mi si è acceso un lumino. […]

Pm Sangermano – Questo signore come si presenta?

Teste Fadil – Inizialmente m’ha detto Marco (Saed Ghanaymi, ndr).

Pm Sangermano – E poi vi incontrate dove?

Teste Fadil – A Linate. Lui mi disse: “Onde evitare che comunque ci veda qualcuno”… aveva dei comportamenti ambigui, strani… come avesse da nascondere qualcosa, ecco. […] Mi diede una scheda e un apparecchio. […] E mi disse anche che la scheda era di una persona deceduta.

Pm Sangermano – Avete avuto dei contatti su questo cellulare?

Teste Fadil – Sì. Lui mi chiamava… le volte che organizzava l’incontro ad Arcore mi chiamava e mi diceva di prepararmi, di prendere un taxi, di andare. La prima volta me lo disse normalmente, la seconda volta anche, poi… […]

Pm Sangermano – Cioè, la invogliava ad andare ad Arcore? A che cosa serviva questo incontro ad Arcore?

Teste Fadil – Eh, per soldi, dovevo andare all’incontro ad Arcore per dei soldi. […]

Pm Sangermano – A che titolo l’on. Berlusconi le avrebbe dovuto dare dei denari, signora Fadil?

Teste Fadil – Guardi, io ho capito soltanto che l’avvocato non ha voluto darmi consulenza legale, non ha voluto prendermi come sua cliente, anzi mi disse: “Certo, la tua posizione è abbastanza diversa dalle altre”. “Però un consiglio: io, fossi in te, comunque non mi scontrerei con certe persone”. Questo mi disse.

Pm Sangermano – Quindi, io voglio capire, garantisticamente, se questo incontro ad Arcore fosse finalizzato… perchè l’Onorevole Berlusconi intendesse darle una sorta di risarcimento perchè lei aveva avuto un pubblico… una cattiva fama, diciamo, a seguito dello scandalo, o serviva a incidere sulle sue eventuali dichiarazioni da rendere ai Pubblici Ministeri? Che lei non aveva ancora reso, perchè poi renderà (il 9.8.2011, ndr).

Teste Fadil – Guardi, credo tutte e due le cose.

Presidente – “Credo” non va bene.

Teste Fadil – Mi ha detto…

Presidente – Cioè le ha detto “L’incontro ad Arcore…”, le è stato detto “soldi”?

Teste Fadil – Sì, assolutamente, più di una volta. […]

Pm Sangermano – Questi contatti erano volti sempre a provocare questo incontro in Arcore?

Teste Fadil – Certo, sì.

Pm Sangermano – Ma questo signore le disse che agiva a nome di qualcuno?

Teste Fadil – Me lo fece capire. Ma non mi disse mai niente… io non sapevo cosa facesse, chi fosse… niente […] Mi disse che era amico di Silvio Berlusconi. Che andò da lui a cena un po’ di volte […]

Pm Sangermano – Le sono stati promessi soldi da Saed? O ha ricevuto minacce?

Teste Fadil – Tutte e due. Uno che le dice: “Non mi hai mai visto, non mi hai mai sentito, stai zitta, cioè non mi tirar mai, mai e poi mai fuori”, non lo so… […]

Pm Sangermano – Ma lei poi ha accettato questo invito a recarsi ad Arcore per questa chiamiamola trattativa o comunque per questa offerta di denaro, forse più propriamente, o no?

Teste Fadil – No, no… ho preferito difendermi in un altro modo, perchè, anche se fossi andata, avessi percepito quel che potevo percepire, comunque sia il mio nome sarebbe rimasto lì. E questo non mi andava bene.

(1-Continua)

Imane, “blindato” il corpo per evitare contaminazioni

Imane non potrà avere, per ora, neppure l’estremo saluto della mamma e dei suoi fratelli. Il suo corpo martoriato è chiuso a chiave nella palazzina triste dell’obitorio comunale di Milano, dove è stato dato l’ordine: “Non farla vedere a nessuno”. Imane Fadil, 34 anni, è morta il 1 marzo all’ospedale Humanitas di Rozzano, dopo un mese di cure, analisi e ricerche che non sono riuscite a salvarle la vita e non sono neppure servite a capire quale fosse il male che l’aveva attaccata. Aplasia midollare, dicono i medici: cioè una disfunzione del midollo che porta il corpo a non produrre più globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Il sangue non nutre più gli organi, che decadono inesorabilmente, fino alla morte.

Era la testimone chiave dei processi sui festini di Arcore contro Silvio Berlusconi. Era tra le poche ragazze che avevano rifiutato lo “stipendio” mensile di Papi ed era andata a raccontare ai magistrati quello che nel 2010 aveva visto nelle notti del bunga-bunga. Si era sentita male il 29 gennaio ed era stata ricoverata già in gravi condizioni all’Humanitas. Era cominciata una lunga trafila di analisi per capire le cause del suo male. I medici hanno via via escluso il tumore che può provocare l’aplasia midollare. Hanno escluso le malattia autoimmuni come il lupus. Hanno escluso la leptospirosi. I laboratori dell’Humanitas e il centro antiveleni dell’ospedale di Niguarda hanno escluso anche le forme più comuni di avvelenamento e intossicazione. Non c’erano tracce di arsenico, nel corpo di Imane. Allora la squadra che l’aveva in cura ha provato a cercare eventuali metalli pesanti nel sangue, rivolgendosi al centro di analisi antiveleni della clinica Maugeri di Pavia. C’erano: cobalto, cromo, nichel, molibdeno. In quantità non critiche. Così è nata però l’ipotesi che la morte potesse essere stata provocata da radionuclidi, ossia da materiale radioattivo, da metalli contaminati, come il cobalto 60, rarissimo e di difficile reperimento. Ma né l’Humanitas né la Maugeri hanno apparecchiature capaci di rilevarli. Altre analisi dovranno essere fatte. Intanto, però, nel dubbio di una contaminazione, il corpo resta blindato all’obitorio e anche l’autopsia, spiega il procuratore della Repubblica Francesco Greco, potrà essere fatta soltanto in sicurezza, dopo che sarà chiarito se il corpo è contaminato o no. Difficile fare analisi attendibili sul sangue, che è stato “lavato” dalle trasfusioni realizzate negli ultimi giorni di vita della ragazza. Più utile, dicono gli specialisti, sarà analizzare il rene, organo “spugna”. Si aspettano intanto gli esiti definitivi di un test su campioni biologici, per rilevare l’eventuale presenza di elementi radioattivi.

L’autopsia potrà essere fatta prevedibilmente non prima di mercoledì o giovedì. La Procura ha dato disposizioni che intanto il corpo della modella resti chiuso in una delle stanzette dell’obitorio. “Non possiamo dire nulla”, dicono a denti stretti gli addetti, “certo che una cosa così in tutti questi anni non l’abbiamo mai vista”. I pm che seguono il caso Ruby, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il sostituto Luca Gaglio, indagano per omicidio volontario. È soltanto un’ipotesi, finché non sarà chiarita la causa della morte e non si sarà capito se Imane ha ceduto a causa di una malattia rara oppure è stata avvelenata. I sintomi che manifestava sono “compatibili con l’avvelenamento”, dicono all’Humanitas. E lei stessa una decina di giorni prima della morte aveva detto di temere d’essere stata avvelenata. Siciliano e Gaglio interrogheranno oggi e nei prossimi giorni i medici, gli infermieri e il personale dell’Humanitas e poi i parenti e gli amici di Imane e anche alcune delle ragazze che con lei erano state ospiti ad Arcore ed erano poi state citate nei suoi verbali e nelle sue testimonianze.

Ma mi faccia il piacere

Grandi inchieste. “L’auto in doppia fila è reato. A Roma in dieci già a processo. La Procura: interruzione di pubblico servizio” (Corriere della sera, 15.3). Ecco perchè Renzi e De Benedetti non furono indagati per la soffiata del primo sul decreto banche popolari che fruttò al secondo 600mila euro in un minuto in Borsa: perchè hanno l’autista.

Giri. “Dopo una serata ad Arcore le dissi di non finire in giri strani” (Emilio fede sulla morte di Imane Fadil, Corriere della sera, 16.3). Più di quelli di Arcore?

Facce. “Gli imprenditori negli spot a favore della Torino-Lione. E Confindustria ci mette la faccia” (Corriere della sera, 12.3). Avendola già persa da un pezzo, non rischia più nulla.

Madrelingua. “Ho sbagliato con l’italiano, forse” (Antonio Tajani, FI, presidente Parlamento europeo, a proposito delle sue frasi pro Mussolini, Repubblica, 15.3). Prossima volta, prova col sanscrito.

Verde-marron. “La difesa dai cambiamenti climatici spiega la necessità di nuove infrastrutture sul territorio” (Maurizio Molinari, La Stampa, 16.3). Giusto, per difendere la Val di Susa dall’inquinamento, inquiniamola col cantiere del Tav e i suoi 12 milioni di tonnellate di Co2 in 15 anni. Forza Gretav!

Strage, governo killer. “Il silenzio del governo italiano sulla strage in Nuova Zelanda è assordante” (Alessia Morani, deputata Pd, 15.3). Io darei una controllatina all’alibi di Giuseppe Conte.

Ingrato. “I numeri dei sondaggi mi mandano fuori di testa. Italiani, svegliatevi e guardatevi allo specchio e domandatevi: sono un coglione o sono intelligente? La risposta è: sono un coglione!” (Silvio B., presidente FI, in campagna elettorale a Metaponto, 15.3). Non si dà pace del fatto che qualcuno voti ancora per lui.

Sempre lucido. “Aspettiamo le sentenze, quelle dei tribunali. Per adesso ce sono solo due: tutte e due condannano Marco Travaglio” (Matteo Renzi, senatore Pd, parla di cause per diffamazione mentre i suoi genitori passano dagli arresti all’interdizione per bancarotta fraudolenta, 8.3). La famosa giustizia a orologeria ferma.

Gnamm. “Zingaretti incassa il sì di Pisapia: ‘Se è una lista aperta, mi candido’” (Corriere della sera, 15.3). Soprattutto se è aperta a lui.

Slurp. “Senatore Renzi, Lei (sic, ndr) è il politico italiano più amato in libreria: perchè le piace così tanto scrivere?”, “Il primo libro letto da bambino?”, “Il libro più amato della sua vita?”, “Quale eroe di romanzi le sarebbe piaciuto essere?”, “Il momento migliore della giornata per leggere?”, “La posizione preferita per leggere?”, “Come tiene in ordine i libri in casa?”, “Ha regalato un libro per sedurre?”, “Come tiene il segno della lettura?”, “Se passa davanti alla vetrina e vede la copertina del suo libro che sentimento prova?”, “Il fiorentino Machiavelli le ha insegnato qualcosa?”, “Che libro regalerebbe a Salvini e Di Maio?”, “Che libri tiene sul comodino da notte?”, “Qual è il primo libro che sua moglie Agnese le ha regalato?”, “Leggeva ad alta voce ai suoi figli piccioli?” (Bruno Ventavoli “intervista” Matteo Renzi, Tuttolibri-La Stampa, 16.3). Ma soprattutto: grandissimo Renzi, Lei come fa a essere così bravo?

Colta, sul fatto. “Non è una svastica nazista ma la conclusione del ciclo delle Rune del canto di Odino, per la precisione la diciottesima. Ne ho altre dodici da un’altra parte e 24 da un’altra ancora. Sono una cultrice della cultura popolare e quella è una simbologia millenaria” (Marika Poletti, Ex An e Fdi, capo di gabinetto dell’assessore provinciale agli enti locali a Trento, a proposito della svastica tatuata sul suo polpaccio, Repubblica.it, 6.3). Del resto, chi non ha il ciclo delle rune da un’altra parte e da un’altra ancora?

Ritenta, sarai più fortunato. “L’uomo giusto per battere Salvini sono io. Se vinco le primarie mi faccio i capelli giallorossi con lo spray temporaneo, lo faccio, aggiudicato. Mi faccio una foto e la twitto” (Roberto Giachetti, già candidato alle primarie Pd, Un Giorno da Pecora, Radio1, 27.2). Robbe’, magna tranquillo.

Il titolo della settimana/1. “I 5Stelle svendono l’Italia ai comunisti” (Libero, 10.3). Uahahahahah.

Il titolo della settimana/2. “Sull’olgettina morta finora soltanto balle” (Libero, 17.3). Infatti Imane Fadil non era un’olgettina.

Il titolo della settimana/3. “Rai, tg militarizzati. Se lo avesse fatto Renzi…” (Il Dubbio, 8.3). Se?

Il titolo della settimana/4. “Caso Sarti, si muove il Parlamento” (Corriere della sera, 15.3). Càpita, quando sbirciano video porno.

Da Enrico IV fino a Boris e Cagliostro: gl’impostori non sono così pericolosi

Il caso, ormai comunissimo, del pirata informatico introdottosi nella posta elettronica di Marco Travaglio e mia mi ha suggerito un articolo sulla truffa come arte, e uno sulla falsa identità. Il tema della simulata identità nell’arte potrebbe essere l’occasione di un magnifico libro da parte di uno storico della cultura: uno scrittore dall’ampio arco. E naturalmente, dopo la Commedia antica, da Aristofane a Plauto, dovrebbe incominciare con un filosofo greco dell’epoca contemporanea, Pirandello. Pensiamo a Il fu Mattia Pascal; pensiamo, soprattutto, all’Enrico IV. Lo sventurato che si finge l’Imperatore tedesco vive in una messinscena medioevale. Tutti lo assecondano siccome folle. Ma egli folle non è più; e continua la recita come scoglio al quale aggrapparsi di fronte alla tragedia del vivere. Pirandello esprime l’ebrezza di poter essere un altro, di poter diventare un altro. Ma soprattutto per lui l’identità è un concetto labile e dubbio; uno dei sensi della sua opera è che l’unità della psiche non esiste, tutti siamo scissi e molteplici.

E il più diretto erede dell’Agrigentino, il Maestro di Racalmuto, Sciascia, ha dedicato un dittico di sottigliezza solo sua a due eventi di impostori capaci di convincere un mondo, Il teatro della memoria e La sentenza memorabile. La prima anta riguarda il celebre caso Bruneri-Canella, più noto come “lo smemorato di Collegno”: un tipografo spacciatosi per un illustre filosofo che avrebbe perduto la memoria nella Grande Guerra e che, paradossalmente, si giovò dell’appassionata testimonianza della moglie di questo, la quale voleva credere il marito fosse lui.

Nel teatro musicale moderno l’assumere una finta identità è uno degli espedienti comici che producono grande arte. Da Mozart a Rossini a due Opere di Verdi collocate all’inizio e alla fine della sua creazione, Un giorno di regno e il Falstaff al Gianni Schicchi di Puccini. Ma questo produce anche teatro tragico, come La forza del destino. Nella storia sono frequentissimi i casi di simulatori di scomparsi sovrani: il celebre falso Dimitrij, presunto figlio di Ivan il Terribile, manovrato dai Gesuiti contro Boris Godunov affinché introducesse il cattolicesimo in Russia. Lo ritroviamo nel capolavoro di Musorgskij dedicato, appunto, a Boris. Nel mondo antico un caso di spicco è quello di Nerone, despota in realtà rimpianto dal popolo: ed è l’oggetto di un bel romanzo di Lion Feuchtwanger del 1936, Il falso Nerone. Alessandro Dumas si dedica con passione a uno dei più grandi impostori della storia, Cagliostro, tentando di far credere che fosse un giusto immortale e onnisciente e avesse provocato con le sue arti la Rivoluzione del 1789.

Assai più riuscito è un immortale nell’arte: Joseph Collin, alias Vautrin, alias padre Herrera, che in alcuni romanzi di Balzac giganteggia quale facitore di destini altrui e, due volte evaso, finisce capo della polizia. Nel bellissimo film Il faraone, di Jerczy Kawalerowicz, una sorta di Akenaton viene fatto uccidere dai sacerdoti di Ammon che gli hanno suscitato dei sosia pronti a prenderne il posto. Quanto ai falsi Messia, nella storia non si contano. Ma gl’impostori sono molto meno pericolosi di quelli che di essere il Messia sono convinti davvero.

Artemisia Gentileschi e “l’effetto Lazzaro” su “Santa Caterina”

Alex Connor è autrice di thriller e romanzi storici ambientati nel mondo dell’arte, e pubblicati da Newton Compton. Per il Fatto ha scritto un articolo su Artemisia Gentileschi, protagonista del suo ultimo lavoro “Eredità Caravaggio”.

Qualche anno fa ho scritto di un fenomeno che ho chiamato “effetto Lazzaro”. Avendo fatto un gran numero di ricerche, ho scoperto molti esempi di quadri che sono stati usati come base per altri dipinti e che hanno rivelato solo centinaia di anni dopo l’impietosa e prematura tumulazione. Rembrandt, Goya, Tiziano, Caravaggio e Artemisia Gentileschi: tutti hanno ridipinto qualche pezzetto dei loro stessi quadri. C’è persino un termine tecnico per indicare quest’abitudine, “pentimento”. Il tempo ha fatto il resto, assottigliando la superficie del quadro e rendendo di nuovo visibile l’immagine sottostante.

Gli ammiratori di Artemisia Gentileschi sono elettrizzati. La scoperta di un’immagine nascosta che fa capolino sotto Santa Caterina d’Alessandria, il dipinto custodito agli Uffizi, è stupefacente. Complimenti ai restauratori, Maria Luisa Reginella e Roberto Bellucci, che hanno lavorato sotto la supervisione di Cecilia Frosinini, utilizzando una tecnica di analisi ai raggi infrarossi, ultravioletti e X non invasiva e rivelato così il disegno sottostante. Grazie a loro, abbiamo la possibilità di ammirare non una ma ben tre creazioni di Artemisia. Da sotto il dipinto degli Uffizi è stata esumata una precedente versione della santa, che indossa un turbante e ha lo sguardo rivolto verso lo spettatore. Per una serie di ragioni, a quanto pare, Artemisia cambiò idea – così come l’inclinazione del capo di santa Caterina – e così nella versione definitiva la donna guarda pensierosa verso il cielo e indossa una corona, che forse fu aggiunta in onore della famiglia Medici, poiché la figlia di Ferdinando, Caterina, in quegli anni era stata offerta, senza successo, in moglie al principe di Galles.

La galleria degli Uffizi adesso possiede quindi due versioni di santa Caterina e anche qualcosa di ancor più curioso: un’immagine del tutto inattesa che è emersa alla sinistra del volto della santa.

Una cosa è evidente: Artemisia ha cambiato idea, ma non tela. La ragione è semplice: le tele costavano molto e quindi spesso venivano riutilizzate o ridipinte. A volte un pittore era persino costretto a lavorare su una tela che era già stata usata, e scartata, da un altro artista. La competizione era incredibile: nel sedicesimo secolo a Roma vivevano 100.000 persone, di cui 10.000 erano artisti. Ottenere una commissione era arduo e aristocrazia e nobiltà dettavano le mode. La sopravvivenza stessa del pittore dipendeva dalla sua abilità ad assecondarle.

Quindi potrebbe essere successo che colui che commissionò ad Artemisia la Santa Caterina d’Alessandria abbia richiesto delle modifiche. Di certo i tratti della Caterina originaria assomigliavano molto a quelli della stessa Artemisia. Come sappiamo, la pittrice usava spesso il suo volto come modello, ma è possibile che in questo caso il committente abbia richiesto dei lineamenti diversi. Forse quelli di Caterina de’ Medici? Poco ma sicuro, Artemisia non avrebbe usato un’altra tela per fare quelle modifiche. Ne consegue un’altra riflessione: la versione custodita alla National Gallery fu dipinta all’incirca tra il 1615 e il 1617, quindi forse Artemisia ne aveva fatta una copia – i pittori si copiavano spesso da soli – e nel 1619 la adattò per venire incontro ai gusti del nuovo committente.

Io ho un’altra teoria. Artemisia Gentileschi, astuta donna d’affari, era diventata famosa perché raffigurava personaggi femminili dal carattere forte, approfittando del proprio scandaloso passato per distinguersi dai rivali maschi. Tenere nascosta l’ignominia dello stupro era inutile, quindi lei decise di trarne vantaggio. Consapevole della sensualità della sua opera e della sua immagine, Artemisia stuzzicava i committenti, dipingendo femmine dominatrici. Pensate a Giuditta e Oloferne, alle braccia possenti dell’eroina, al suo collo taurino, alla forza bruta che trasmette. Le sue donne sono coraggiose, decise, travolgenti.

Possibile che la santa Caterina originaria fosse troppo aggressiva per essere una santa? Il suo seno è pieno, formoso, sensuale, il suo sguardo sfida lo spettatore, lo provoca, e quindi forse – considerando che si tratta di una figura religiosa – la sua immagine, troppo provocante, venne rifiutata.

Stessa cosa vale per il volto fantasma alla sinistra della santa. È troppo piccolo per essere considerato parte del ritratto, probabilmente si tratta di un progetto scartato, la cui tela è stata riutilizzata. Un altro esempio di “effetto Lazzaro”. Forse un giorno avremo le risorse scientifiche necessarie a indagare tutti i “danni collaterali” che si celano sotto ogni quadro. Possiamo solo chiederci cosa mai scopriremmo.

L’ultima riflessione, ovviamente, va fatta su Artemisia. Osservate il monumentale dipinto Ester e Assuero, lo spazio “drammatico” che c’è tra i due personaggi, e ricordatevi la storia di Santa Caterina. Quello spazio non è sempre stato vuoto. Sotto il dipinto c’è un ragazzo e un cane fantasma, che aspettano solo di essere riportati alla luce…