“Le scrittrici sono troppo impostate, pensano solo a frequentare i salotti”

Secondo uno studio dello psicologo americano Frank J. Sulloway, l’ordine di nascita è fondamentale. Il primogenito è leader, il più piccolo è creativo e ribelle, chi sta in mezzo è portato al compromesso e se non viene stritolato dagli altri, alla fine, può stupire più di tutti.

Sembra la famiglia Fiorello.

Catena è terzogenita, cinquantadue anni, quando parla ogni tanto coccola la sua inflessione siciliana, accoglie in casa con un vassoio dedicato alla merenda o all’aperitivo, dipende dai punti di vista; rifiutare non è previsto, si rischia l’offesa personale: “Almeno una mandorla!”.

Per anni ha seguito la carriera del fratello Rosario (“dalla stipula dei contratti all’arredamento dell’ufficio”), poi all’improvviso ha letto dentro se stessa e scoperto il desiderio di scrivere. Oggi è una penna da classifica e il suo ultimo romanzo, Tutte le volte che ho pianto, è in grado di strappare applausi e lacrime.

Il suo esordio letterario.

È del 2003 e già allora seguivo Rosario, ero perennemente con lui, dedicata a lui.

Sbrigava anche le rogne.

Sono stata io a trovare il coraggio per dire ‘no’ a Mike Bongiorno.

Impegno gravoso.

Di più. Mike era fissato, pensava a un programma negli Stati Uniti con mio fratello, solo che Rosario rifiutava l’ipotesi di salire su un aereo; Mike non desiste, lo convince, andiamo avanti nei progetti, fino a quando, alla vigilia, vince la paura.

E…

Chiamo Mike: ‘Mi dispiace ma Rosario non vuole’.

Lui contento.

Incazzato come pochi. Ma allora ero il parafulmini; simile la situazione con Raffaella Carrà, altro progetto saltato all’ultimo.

Non aveva una sua vita.

Zero, per questo ho lasciato il mio fidanzato: la mia è stata una forma di clausura lunga circa vent’anni; ma una bella vita, mi sono divertita, viaggiavo, conoscevo persone.

Torniamo all’esordio da scrittrice.

Nel 2003 invio un’email un po’ surreale a Cristina Lupoli Dalai, di Dalai editore: ‘Mi scusi, vorrei scrivere un libro, ma non so dove e da chi andare’.

Risposto?

Non subito, perché la segretaria le disse: ‘Signora, è arrivata un’email da una Catena’, solo che lei capì ‘catena’ nel senso di Sant’Antonio, virale, e rispose ‘per carità!’, Solo dopo ha compreso.

Che libro pensava di scrivere?

Una serie d’interviste dedicate a personaggi arrivati dal nulla e in grado di costruire una carriera.

Un po’ come i Fiorello…

In qualche modo, sì (Mentre risponde, in televisione si materializza Beppe Fiorello, protagonista di uno spot: ‘Toh, guarda il caso’).

Dopo quel libro…

Sempre la Dalai: ‘Sei brava, scrivi un romanzo’. Solo che il mondo dell’editoria mi era sconosciuto e anche oggi non lo capisco molto.

In particolare?

Non sono legata morbosamente a questo lavoro, non ho l’ossessione, mi piace, se l’editore investe su di me, allora lo ricambio con il sangue, ma non ho le fisime degli altri scrittori.

Quali fisime?

Per una recensione si farebbero ammazzare, pensano solo a frequentare i salotti giusti, quelli ambiti per incontrare persone giuste.

Non è da lei…

Nun ce la fazzo, eppure in questi anni insieme a mio fratello ho costruito delle relazioni considerate utili, però non riesco.

Il suo primo romanzo “Picciridda” è diventato un film.

Appena pubblicato Rosario mi disse: ‘Lo vuoi un consiglio da fratello? Non firmare con il tuo nome’. E perché? ‘Fidati, non sai le cattiverie che ti diranno, lo so’. Non gli ha dato retta.

E le cattiverie sono giunte?

Molto meno del previsto, poi però mi sono comunque fermata: Rosario aveva troppo bisogno di me, e non potevo continuare a trascurarlo.

Da brava sorella di mezzo.

Ci penso da sempre.

Qual è la sintesi?

Sono stata schiacciata da Rosario, primo figlio maschio, poi è arrivata Anna, la prima femmina e Giuseppe il piccolo.

Il suo ruolo.

Non servivo a un cazzo. Ero senza ruolo, ho lottato tutta la vita per attirare l’attenzione.

Sopravvivenza…

Costanzo diceva a Rosario: ‘Nella vostra famiglia quella veramente giusta è Catena’.

Bel complimento.

Comunque è vero: nella mia testa non servivo a nulla, ogni giorno lottavo, soprattutto per avere mio padre solo per me, mentre c’era sempre qualcuno in mezzo che rompeva le scatole.

Quando ha capito di non essere inutile?

L’altro giorno a un’amica psicoterapeuta ho rivelato: ‘Il vero problema è che mi sento sempre uno straccio vecchio’. Resto stupita quando vedo le persone venire alle presentazioni dei miei libri.

Dubita.

Sempre, anche quando finisco un nuovo libro.

A scuola come andava?

Molto bene, dovevo dimostrare, sono riuscita a conquistare la professoressa d’italiano, greco e latino, il terrore della scuola, donna severissiva vicina al sadismo. Il problema è che in classe mi distraevo sempre, non stavo mai zitta.

Gruppetto di amiche.

Sono una battitrice solitaria. Con le donne mi trovo male.

Il suo ultimo libro è molto femminile.

Sono femministissima.

E allora?

Sono una protettrice esterna, non riesco a vivere il gruppo: spesso le donne entrano in competizione, e non amo quelle situazioni, mi annoiano.

Non c’è solidarietà.

Macché! Soprattutto nell’ambito lavorativo, non ci aiutiamo tra di noi, e questi atteggiamenti li denuncerò sempre anche a costo di crearmi delle nemiche: a parte pochissimi casi, nella vita di tutti i giorni, non ho mai trovato solidarietà, e me ne sono accorta pure dentro i salotti televisivi.

Cosa accade?

Scatta una lotta, una gara per emergere a ogni costo. È patetico.

Nello specifico?

Questo mondo lo conosco da anni, oramai decenni, e da varie latitudini: so leggere l’esplicito e l’implicito, il detto e il non detto; il linguaggio del corpo; quindi capisco quando uno sguardo è una moina, e ogni volta penso: ‘Cosa faccio qua?’.

Però?

È utile per il libro.

Non si sottrae.

Una volta vado in una trasmissione, tutto fila alla grande, alla fine gli autori vengono da me: ‘Bravissima, per favore resta anche per la seconda parte’. Accetto. Poco dopo torna il responsabile, e imbarazzato corregge la direzione: ‘Niente da fare’. Come mai? ‘Sei troppo parlante’.

Che vuol dire?

La conduttrice si era lamentata della mia eccessiva verve, si sentiva oscurata. E non era neanche la prima volta che capitava.

Non è competitiva.

Ho 52 anni e se vedo una ragazza giovane e bella, come posso gareggiare su quei parametri? Sarei ridicola.

La protagonista del libro è una donna molto sola.

Spesso leggo libri di autrici importanti, per carità scritti bene, ma li sento troppo impostati, corretti, mentre la realtà è quella di Alda Merini, povera disgraziata abbandonata, l’hanno lasciata morire avvelenata. Ora sono tutti seguaci e votati alla sua opera.

Ama la Merini?

Era una battitrice libera, mi piacciono le donne così, non le scrittrici di oggi, brave a riunirsi in gruppetti.

Cos’altro non tollera?

L’idea che l’intellettuale deve essere necessariamente emaciato, sofferente, lontano dai social, e che quando presenta il proprio libro è obbligato a snocciolare una serie infinita di citazioni dotte.

Capita spesso?

Sempre! Ed è una patologia degli autori italiani.

“I ‘ma’ intossicano la vita”, scrive lei.

Li detesto, mio padre non ne ha mai pronunciato uno.

Deciso.

Ricordo un episodio di metà anni Ottanta, quando Rosario sparì ad Abidjan in Costa d’Avorio, insieme a un gruppo di ragazzi della Valtour. Tragedia in casa.

Birbante.

Era partito per la stagione, una volta atterrati non hanno più dato notizie e per giorni; mamma a pezzi, mio padre, innamoratissimo della moglie, esce di casa con la frase: ‘Non ti preoccupare Sarina, ci penso io’. Non so come, ma poche ore dopo lo ha rintracciato al telefono, quando hanno avvertito Rosario della chiamata, lui stesso non credeva fosse possibile: ‘Papà, come mi ritrovasti?’. ‘Figlio mio, solo da morto non ti potrò scovare. Prima di allora ti troverò sempre ovunque nel mondo’.

Il suo compagno com’è?

L’opposto di papà, lui è pieno di ‘ma’, gli devo ricordare tutto, anche della festa delle donna: ‘Devi mandarmi i fiori’. Però ha altre qualità.

Non è sposata.

Non ci penso proprio, sono già fuggita in ben tre occasioni, con tanto di vestiti scelti e comprati, partecipazioni fatte. Voglio morire signorina…

Alle nozze non crederà più nessuno.

Mia madre, al terzo abbandono, è stata l’unica a non scomporsi, non si era mossa di un millimetro, non aveva neanche scelto il vestito per sè: ‘Sapevo come sarebbe andata a finire’.

Suo padre?

È morto prima (Quando parla del papà cambia sempre tono e sguardo) Sul lavoro era un finanziere rigido e attento, serviva lo Stato, mentre nella vita privata era il vero Fiorello di casa: lui doveva diventare il grande artista.

Showman.

Una volta lo voleva ingaggiare il circo equestre e dopo aver assistito a una sua esibizione. Cantava benissimo, poi era bello. Fu mia nonna Catena D’Amore a impedirlo: gli si attaccò alle caviglie.

Catena D’Amore?

Sì, il suo nome; donna rara, negli anni Trenta portava la bandana e fumava il sigaro, mise al mondo mio padre senza un uomo al suo fianco: rimasta incinta del vicino, già sposato e con prole. Rifiutò l’aborto.

Coraggiosa.

Davvero, donna incredibile: non parlò mai male di quell’uomo; poi quando papà partì militare per Gorizia, all’improvviso gli disse: ‘Una volta arrivato mandaci una cartolina a tuo padre’. E gli rivelò il nome.

La cartolina?

Ritrovata due anni fa grazie alla nipote di quest’uomo; ho riconosciuto la sua grafia: ‘Caro padre le mando un saluto da Gorizia’. Mi sono commossa. Comunque nonna era analfabeta, ma amava le poesie, quindi aspettava il passaggio di qualcuno ed esordiva: ‘Compare Filippo, sapiste leggere?’. Poi si assettava sulla terrazza e ascoltava felice.

“Complicato saper godere dei momenti felici”, parole sue.

Sono impossibilitata a godere del presente.

Esempio.

L’altro giorno mi hanno chiamato per complimentarsi della classifica e delle vendite; dentro di me già pensavo: ‘Tanto prima o poi esco’.

Perfetto.

È così: un paio di anni fa, mi hanno operato di tumore al seno ed è andata molto bene, neanche la chemio o la radioterapia, il professore contentissimo, nonostante questo la prime parole sono state: ‘Magari torna dall’altra parte’.

Pessimista.

No, realista. E detesto la positività a oltranza di questi anni, è da superficiali, e i superficiali sono pericolosi; questa è una società che non vuole affrontare il dolore, fugge a ripetizione.

La felicità esiste?

No, per questo ai miei personaggi do sempre una chance, almeno la possono trasferire a me.

Twitter: @A_Ferrucci

Nuova Zelanda, alla fiera delle armi facili

Espressione spavalda sul volto, sorriso cinico, il segno dell’ok rovesciato fatto con la mano destra (simbolo di sovranisti e razzisti di tutto il mondo), Brenton Harrison Tarrant è apparso così davanti al Tribunale distrettuale di Cristchurch, Nuova Zelanda. Ammanettato, vestito di bianco e a piedi nudi, l’uomo accusato della più terribile strage mai avvenuta nel Paese dei kiwi, 49 morti, donne, bambini, uomini giovani e anziani inermi che stavano celebrando il loro venerdì di preghiera, non ha mai mostrato segni di pentimento. Il suo avvocato d’ufficio, Richard Perris, ha annunciato che non presenterà nessuna richiesta di cauzione. La Nuova Zelanda è sconvolta, attonita, solidale con le famiglie delle vittime (sono stati raccolti già 3,5 milioni di dollari), e per la prima volta nella sua giovane storia si sente insicura. Tarrant, il “normale uomo bianco”, ha potuto concepire, preparare e attuare la sua strage con tranquillità. Nessuna autorità di sicurezza lo ha mai disturbato. Viveva a Dunedin dal 2017 e poteva tranquillamente spostarsi in Nuova Zelanda e fare viaggi all’estero. Gli ultimi in Turchia, e soprattutto nell’Europa dell’Est. Tra il 9 e il 15 novembre 2018 è stato in Bulgaria, da qui si è spostato a Bucarest, Romania, dove ha noleggiato un’auto per recarsi in Ungheria. I servizi di sicurezza dei Paesi toccati da Tarrant sono all’opera per capire quali contatti avesse. Trentasei minuti, tanto è durata la strage nelle due moschee (41 morti in quella al centro della città, vicino ad Hagley Park, 7 in quella del sobborgo di Linkwood), prima che gli agenti riuscissero a bloccare Tarrant. La strage era annunciata, così aveva voluto il fascista venuto dall’Australia. In queste ore fa discutere il fatto che 10 minuti prima della sparatoria, il manifesto di Tarrant fosse stato inviato alla mail del primo ministro Jacinda Arden e a quelle di altre 70 persone (politici, giornalisti e siti web).

“Non c’è stata alcuna possibilità di fermarlo”, dicono ora i responsabili della sicurezza, il documento era stato inviato alla mail generale del primo ministro, e il suo senso era quello di descrivere il fatto “come già avvenuto”. Un altro elemento che fa discutere fa riferimento al web e ai social network. Il massacro, prima di essere trasmesso “in diretta” su Facebook, è stato annunciato 23 minuti prima su 8chan, postato su youtube e commentato successivamente su varie piattaforme. L’intervento di polizia e servizi di sicurezza è avvenuto solo dopo la strage e quando le immagini dell’assalto erano già rimbalzate in tutto il mondo.

Terrant aveva un regolare porto d’armi acquisito in Australia e confermato in Nuova Zelanda, era iscritto ad un club di tiro a Milton, un villaggio di 2mila abitanti. Possedeva una licenza di tipo A, circostanza che riapre il dibattito sui porti d’arma in tutto il Paese. La Nuova Zelanda ha una legislazione altamente permissiva in materia di acquisto e possesso di armi: basta avere 16 anni compiuti e ottenere la licenza, un permesso che consente di acquistare un numero illimitato di armi da fuoco (pistole, fucili da caccia e semiautomatici) senza l’obbligo della registrazione. La conseguenza è che in Nuova Zelanda su 4,7 milioni di abitanti ci sono 1,2 milioni di armi. Dopo la strage Jacinda Arden, ha annunciato che la legge sulle armi cambierà, ma una riforma (stabilire il registro delle armi e vietare i fucili semiautomatici) è difficile e deve fare i conti con le lobby dell’industria delle armi agguerritissime in Parlamento.

La Nuova Zelanda si scopre insicura, fragile, esposta, e teme per la sua economia. Nel 2021 qui si svolgerà la Coppa America, un evento sportivo mondiale sul quale il Paese punta tutte le sue carte. Auckland e Wellington, le due città che ospiteranno i team internazionali, sono un enorme cantiere, soprattutto nella zona portuale, mentre in città ferve l’attività edilizia e la costruzione di nuovi alberghi. Il timore è che un Paese percepito come insicuro possa attrarre meno turisti e investitori. Per questo, dicono molti osservatori, non basta più gridare Kia Kaha (siate forti in maori), ma bisogna muoversi.

Sfascisti gialli, Parigi arde e adesso Macron se la ride

La Parigi sono tornati i black bloc e con loro è tornata la tensione in città a poco più di due mesi dalle Europee del 26 maggio. Per il 18º sabato di protesta dei Gilet gialli gli Champs-Elysées sono stati saccheggiati da individui incappucciati come non accadeva da dicembre.

La protesta contro il caro vita e per la giustizia sociale è iniziata quattro mesi fa esatti e si è anche appena chiuso il Grande dibattito voluto da Emmanuel Macron per trovare soluzioni concrete alla crisi: per la giornata “simbolica” di ieri era stata annunciata una grande mobilitazione.

Ma se il 17 novembre scorso il governo aveva contato 282.000 Gilet in Francia, il numero dei manifestanti non ha fatto che diminuire e il 9 marzo erano solo 28.000. Ieri erano pochi di più, 32.000, dei quali 10.000 a Parigi. Di questi, però, secondo il governo, almeno 1500 erano “ultraviolenti” e l’avenue parigina è tornata teatro di guerriglia urbana con auto della polizia date alle fiamme e negozi saccheggiati.

I black bloc sono anche riusciti a entrare nel ristorante di lusso Fouquet’s, diventato simbolo di potere da quando Nicolas Sarkozy vi ha festeggiato la vittoria elettorale nel 2007. Si è sfiorato il dramma con una banca andata a fuoco sull’avenue Roosevelt.

L’intervento dei pompieri ha permesso di salvare una mamma e il figlio di 9 mesi che erano rimasti incastrati al secondo piano. “Gli individui che hanno commesso questo atto sono assassini”, ha commentato il ministro dell’Interno, Christophe Castaner.

Quanto il ritorno della violenza giocherà sulle Europee di maggio? Una scadenza a cui i Gilet gialli più moderati, che dovevano rappresentare la fascia dei “dimenticati” della popolazione, sembrano in gran parte aver rinunciato.

Nei mesi il movimento si è sempre più frantumato. L’infermiera Ingrid Levavasseur, uno dei volti più noti della protesta, e Hayk Shahinyan, che è stato il suo direttore di campagna, hanno gettato la spugna. Ora Levavasseur punta alle municipali del 2020.

Ha invece creato la sua lista, col nome Évolution citoyenne, Christophe Chalençon, uno dei gilet gialli più controversi, per molti un estremista. È lui che a febbraio, aveva incontrato Di Maio e di Battista presso Parigi: “In quattro mesi il governo non ha saputo rimettersi in discussione. La protesta continuerà”, ha detto ieri.

Un recente sondaggio Ifop ha indicato che una lista “gialla” per maggio raccoglierebbe solo il 3,5% dei voti (a gennaio, lo stesso istituto li dava al 7,5%). Sullo scrutinio sta puntando invece molto Macron, che ha i sondaggi favorevoli. I più recenti danno il suo partito, LaREM, in testa col 24% davanti al RN di Marine Le Pen col 22%. Anche la popolarità del presidente risale, anche grazie ai dibattiti fiume a cui ha preso parte e che sono stati trasmessi in diretta tv.

Ma ieri Macron era in montagna a sciare con la moglie sui Pirenei e la sua foto sulla neve, mentre Parigi andava a fuoco, ha fatto fioccare le critiche.

Nel tardo nel pomeriggio, l’Eliseo ha poi annunciato che Macron avrebbe accorciato la vacanza e sarebbe rientrato a Parigi sin dalla sera.

La fiaba dell’imperatore. Guida assoluta stile Mao per il dominio della Cina

È difficile dire cosa ci sia vero e cosa di esagerato nella biografia del presidente della Repubblica popolare cinese. La realtà si mischia con l’agiografia, quando si ripercorre la vita di un uomo che, pur venendo da una famiglia di fedelissimi di Mao – o forse proprio per questo – ha dovuto subire i rovesci della fortuna. Per questo ne è uscito il leader che è. Certamente con più carisma e più visione del suoi opachi predecessori, ultimo dei quali Hu Jintao, di cui ha raccolto il testimone alla guida del Partito Comunista e dunque anche della presidenza tra il 2012 e il 2013.

Xi ha però anche quella concentrazione di potere, in un regime autocratico come quello dell’ex Celeste Impero, che rischia di spaventare l’Occidente.

Il piccolo principe e la maschera ufficiale

Nato a Pechino nel 1953, anno del Serpente nello zodiaco cinese, Xi viene considerato un “principe rosso”, in quanto figlio di un generale comunista che ha preso parte alla Lunga Marcia con Mao. La gioventù dorata del principino s’interrompe quanto, ancor prima della Rivoluzione Culturale, il Grande Timoniere decide di punire il padre di Xi con l’arresto. Il principino si ritrova in un campo di rieducazione nella remota provincia di Linjanhe. Sette lunghi anni d’immersione nel mondo contadino gli insegneranno a “non guardare più il popolo dall’alto in basso”. O almeno, così la descriverà lui più tardi, volgendo quell’esperienza forzata a suo vantaggio.

Ai capricci della fortuna, il futuro presidente sembra rispondere con sorprendente tenacia. Innumerevoli volte chiede di entrare nel Partito comunista che lo ha punito con l’esilio, e altrettante la domanda viene respinta a causa del padre caduto in disgrazia. “Diversamente dai predecessori, Xi cerca una fonte di legittimazione attraverso la narrazione della sua storia personale”, osserva Kerry Brown, professore al King’s College di Londra, nella biografia “L’amministratore del popolo”.

Alla fine, in ogni caso, è la determinazione a vincere e nel 1974 si aprono per lui le porte della politica. Un’ascesa lenta ma costante, che lo porta da dirigente locale fino alla guida del partito di Shanghai, seconda città nonché capitale finanziaria della Cina, nel 2007.

Un altro elemento che contribuisce a creare l’immagine del leader vicino alla gente, anziché di un burocrate di partito, riguarda il lato pop del suo profilo pubblico. Nel 1987 Xi sposa in seconde nozze Peng Liyuan, cantante folk di inni patriottici e rivoluzionari. Lei stessa funzionaria del Partito, è così famosa in Cina da mettere perfino in ombra il futuro presidente, tanto che molti all’inizio della sua ascesa lo definiranno “il marito di Peng”.

Presidente dal 2013, rieletto con mandato senza scadenza nel 2018, Xi viene spesso accostato a Mao Zedong per la forte leadership e l’accentramento dei poteri. “Lui stesso tende a presentare la storia cinese divisa in tre fasi: il trentennio di Mao, quello di Deng e infine il suo, cancellando così le fasi intermedie”, spiega Francesco Sisci, sinologo e professore dell’Università di Pechino.

Il nuovo Mao e i diritti umani

“Il suo potere è sì stabile, ma non certissimo”, continua Sisci. “La campagna contro i funzionari corrotti, condotta durante la sua presidenza, ha portato benefici ai cittadini comuni, rendendo Xi molto popolare, ma ha prodotto anche un accentramento eccessivo. Se questo potere non verrà a un certo punto redistribuito ai corpi intermedi dello Stato, la situazione potrebbe esplodere”.

Oltre ai problemi interni, l’uomo forte di Pechino deve anche fronteggiare le critiche, provenienti soprattutto dai Paesi occidentali, nei confronti di un regime che sul fronte dei diritti umani non vuole sentire ragioni. Secondo l’ultimo rapporto stilato da Amnesty International si va dalle incarcerazioni immotivate di numerosi difensori dei diritti umani – e bisogna ricordare la morte in custodia nel luglio 2017 del premio Nobel per la Pace Lu Xiaobo – a un’ulteriore stretta sulla libertà del web. Oltre alla repressione del Tibet e quella degli attivisti pro-democrazia nella città di Hong Kong, nei mesi scorsi si è intensificata la persecuzione nei confronti degli Uiguri, minoranza di musulmana della provincia dello Xinjiang. Situazione critica, dunque, che secondo Amnesty non è affatto cambiata negli anni dell’imperatore Xi.

Marco Polo e la conquista dei mercati

Ciò che è diverso, invece, con il nuovo corso, sono gli investimenti di Pechino fuori dalla Cina. In crescita sensibile già dal 2005, esplodono proprio a partire dal 2013, primo anno dell’era Xi, anche perché seguono due nuove direttrici. La prima è quella dell’Africa, per cui Pechino ha stanziato lo scorso anno 60 miliardi in aiuti finanziari (e dove l’interscambio supera i 170 miliardi complessivi). La seconda è quella definita “One Belt one Road”, (o Nuova via della Seta).

“La grande novità del progetto geopolitico di Xi JInping”, spiega ancora Sisci, “non è nell’aver proiettato la Cina verso l’esterno, ma nel guardare per la prima volta verso centro-Asia e Mediterraneo, con un andamento contrario a quello della Via della Seta di Marco Polo”. Chi poteva farlo, se non Xi, che ha fuso nella sua figura la tradizione confuciana e quella leninista.

Come possono convivere Eni e ambientalismo? Ve lo spieghiamo

Per capire quale sceneggiata sia in corso in questi giorni sui (sacrosanti) temi ambientali basterebbe leggere i giornali dall’inizio alla fine. Useremo, per questo piccolo esercizio, Repubblica, il quotidiano che più spazio e convinta adesione ha dato ai friday for future. Ieri all’inizio c’era ovviamente il racconto dei cortei che dimostrano l’attenzione dei giovani ai rischi dei mutamenti climatici (“Siamo un milione”). Molte pagine dopo c’è invece l’Eni, che vale assai più di un milione: il nuovo piano industriale prevede un aumento del 3,5% l’anno dell’estrazione di combustibili fossili, però – siccome che sono buoni –almeno lo faranno in impianti a emissioni zero entro il 2030 (un po’ abbattendo le emissioni e un po’ piantando in Africa una foresta grossa come la Pianura padana “in modo che le emissioni vengano pareggiate col contributo delle piante”). Infine, il capolavoro: “In tema di transizione verso un’energia più pulita, non vanno trascurati gli investimenti nel gas”. Certo, il gas… Chiarito che preoccupazioni per il clima e industria del fossile possono convivere almeno sui giornali, si passa alle rubriche, la classica sintesi hegeliana. Ci dice Michele Serra che l’ambientalismo è una preoccupazione delle élite, mentre “il consumismo di massa, la legittima corsa al benessere dei popoli poveri e la sovrappopolazione sono il vero motore dell’inquinamento”. Doveva seguire poi la critica al modello di sviluppo scelto e perpetuato – ma è un’ipotesi – dalle élite “ambientaliste” che ci fanno sopra bei soldini, però purtroppo erano finite le pagine.

Diffidate sempre del presidente che si fa popolo

Prima di Donald Trump, i cittadini americani non avevano mai eletto un demagogo presidente della Repubblica. Lo sostiene Jeffrey Tulis in The Rhetorical Presidency che Princeton University Press ha di recente ripubblicato nella collana dedicata ai libri che hanno segnato una svolta negli studi e sono particolarmente importanti nel dibattito pubblico.

L’unico demagogo che è riuscito a diventare presidente degli Stati Uniti d’America è stato Andrew Johnson, che però non fu eletto ed entrò alla Casa Bianca perché era vicepresidente di Abraham Lincoln, assassinato il 15 aprile 1865. Durante la sua presidenza, Andrew Johnson dovette affrontare la tenace opposizione del Congresso, fu sottoposto al procedimento di messa in stato d’accusa (impeachment) e lasciò la carica in disgrazia. Trump ha vinto le elezioni con un largo margine di voti elettorali (non di voti popolari), ha iniziato il suo mandato con una solida maggioranza nella Camera dei Rappresentanti e nel Senato e ha potuto nominare un suo candidato alla Corte Suprema.

Un presidente demagogo eletto rappresenta una rottura radicale rispetto ai principi fondamentali della democrazia americana. I Padri fondatori della Costituzione degli Stati Uniti avevano spiegato che il demagogo è il pericolo più grave per la libertà repubblicana. Dai classici del pensiero politico antico e moderno, e dalla storia, avevano imparato che il demagogo parla direttamente al popolo senza la mediazione dei partiti o del Congresso e, grazie all’uso sapiente dell’adulazione, sa persuadere il popolo toccando le sue passioni: la paura, la speranza, l’odio, il desiderio di sentirsi superiori ad altri popoli e di essere onnipotenti. Una volta conquistato il favore della parte più incolta e spesso più povera del popolo, che quasi ovunque è maggioranza, concentrano nelle loro mani un potere enorme che non sopporta limiti e condizionamenti. Coloro che hanno sedotto il popolo con l’adulazione, leggiamo nei Federalist Papers (1788), vero e proprio commentario alla Costituzione degli Stati Uniti, hanno cominciato come demagoghi e sono diventati tiranni (commencing demagogues and ending tyrants).

Altri presidenti americani, a partire da Theodore Roosevelt (1901-1909) si sono rivolti direttamente al popolo, passando sopra il Congresso e sopra il proprio partito, per fare passare particolari provvedimenti legislativi. Tulis definisce questo modo di usare il potere della presidenza “presidenza retorica” e sottolinea la differenza rispetto allo stile dei presidenti che esercitarono il loro mandato nell’Ottocento. Abraham Lincoln, per citare un esempio significativo, ricusò di parlare dell’imminente guerra civile alla folla che lo aveva accolto a Pittsburgh, era il 15 febbraio 1861, e spiegò la sua decisione con l’argomento che il tema richiedeva una lunga e approfondita discussione e riteneva prematura una sua netta presa di posizione. I cittadini convenuti salutarono le sue parole con un immenso applauso e espressioni di entusiastica approvazione. Ai nostri giorni un comportamento analogo da parte del presidente degli Stati Uniti sarebbe accolto con viva disapprovazione.

Trump rappresenta un cambiamento profondo anche rispetto alla tradizione della “presidenza retorica”. La sua tecnica preferita è non ammettere mai gli errori commessi o le contraddizioni nelle quali cade anche quando i suoi critici hanno prove inoppugnabili. Se i giornalisti gli rinfacciano di aver mentito, risponde con menzogne ancora più grandi, con la conseguenza che diventa difficile per l’opinione pubblica capire dove sta la verità e dove sta la menzogna. Se lo accusano di gravi illegalità, come ad esempio la famosa storia dei contatti con i russi per vincere le elezioni presidenziali contro Hillary Clinton, risponde che Obama ha fatto peggio. I presidenti del Novecento, e con loro George W. Bush e Barack Obama, avevano oscillato fra la presidenza retorica e la presidenza tradizionale che interagisce di norma con il Congresso e parla direttamente al popolo soltanto in circostanze eccezionali o in cerimonie solenni. Trump ha esasperato la presidenza retorica fin al punto di annullare la differenza fra governo e campagna elettorale. “Life is a campaign” – ha detto Trump, un mese dopo il giuramento, ai giornalisti che lo accompagnavano a una manifestazione in Florida – e ha aggiunto che anche la presidenza è per lui una campagna elettorale (“is a campaign”).

Prova dello stile demagogico di Trump è il suo discorso inaugurale (20 gennaio 2017). Nella storia degli Stati Uniti, il discorso inaugurale del presidente eletto segna la transizione dalla campagna elettorale all’impegno di governo nel rispetto della Costituzione. Trump ha invece disonorato il rito del discorso inaugurale trasformandolo in un messaggio elettorale. Ha dichiarato di aver scritto il discorso e si è fatto fotografare al tavolo mentre ripuliva il testo. In realtà gli autori del discorso inaugurale erano Stephen Bannon e Stephen Miller. Il presunto testo che Trump stava limando era in realtà un block notes bianco.

Altrettanto indicativa è la struttura del discorso. Relativamente breve (1400 parole), è diviso in 75 paragrafi di circa 140 caratteri l’uno: una sequenza di tweet, proprio come in campagna elettorale. Nessun ragionamento, nessuna argomentazione, nessuna analisi seria. Soltanto proclami e slogan. Con Twitter, Trump passa sopra il Congresso e sopra i mezzi di comunicazione di massa tradizionali per inviare direttamente al popolo, senza alcun controllo o alcuna verifica, i suoi messaggi. Libero, grazie a Twitter, da limiti e costrizioni da parte di altre istituzioni dello Stato, Trump rafforza il suo potere come demagogo e impoverisce il livello intellettuale del discorso pubblico.

La prova più evidente, e preoccupante, della demagogia di Trump è il silenzio assordante, sempre nel discorso inaugurale, sulla Costituzione, vero e proprio fondamento della religione civile americana. Ha citato invece, più volte, il popolo. Ma si vede bene che per popolo intende i suoi sostenitori, vale a dire una parte del popolo americano. Come aveva annunciato nel maggio del 2016, suo intento è unire il SUO popolo, il popolo che condivide le sue parole d’ordine, le sue convinzioni, i suoi obiettivi. Gli altri non contano (“the other people do not mean anything”). Come, e meglio dei grandi demagoghi, Trump non soltanto blandisce il popolo, lo costruisce. Si è dunque realizzata, negli Stati Uniti, la transizione dalla presidenza retorica alla presidenza demagogica.

Esiste una via d’uscita dal dominio della demagogia? Tulis si chiede. In mancanza di una nuova e robusta educazione civica, soltanto il buon senso dei cittadini americani, e quel che resta della memoria storica, possono contrastare il degrado della vita democratica negli Stati Uniti. E noi, in Italia, su quali risorse politiche e morali possiamo sperare per sconfiggere i demagoghi nostrani che considerano Trump il loro maestro?

La “F” di F-35 vuol dire fiasco, eppure non ci rinunciamo

Il buon Salvini, ministro dell’Interno – non degli Esteri o della Difesa – continua a difendere la spesa di oltre 15 miliardi, nei prossimi anni, per l’acquisto di 90 aerei statunitensi, denominati F-35. I 12 aerei già acquistati vengono pagati. L’acquisto degli altri aerei – compresi i 16 che il presidente del Consiglio, pur perplesso sull’entità complessiva dell’operazione, ha dato per scontati – sono soggetti a una decisione politica che il governo in carica deve ancora prendere. Non sono previste penali contrattuali al di là dei soldi già investiti nella ricerca e nei primi acquisti. Le ragioni tecniche, oltreché politiche, per cui si tratterebbe di una spesa quantomeno dissennata, in estrema sintesi, sono le seguenti: sin dalle prime verifiche, gli F-35 hanno suscitato dure critiche da parte delle autorità di controllo della spesa del Congresso e dallo stesso Pentagono. Le verifiche di collaudo sono state ricche di incidenti e di esiti contraddittori che hanno dato luogo a continui rinvii, al punto che anche sostenitori abituali dell’intoccabile complesso militare-industriale, li hanno ridenominati F(iasco) 35.

L’Italia è esplicitamente esclusa dall’accesso a conoscenze e benefici riservati secondo gli accordi di volta in volta conclusi. Non a caso, allo stabilimento di Cameri sono riservati compiti in gergo denominati di carpenteria e di manutenzione, tali da garantire pochi posti di lavoro, oltre quelli trasferiti da Torino.

Soltanto gli alleati più ligi al comando di Washington e della Nato, di riflesso meno inclini a una priorità europea, vi hanno aderito, a cominciare dal Regno Unito, Danimarca, Norvegia, Olanda, oltre alla stessa Italia. Il governo canadese si è ritirato dal progetto. Al ministro dell’Interno è sfuggito il fatto che Francia e Germania non hanno mai preso in considerazione alcun acquisto, preferendo rispettare il principio di priorità strategica europea, a favore di produzioni proprie o altre, quali della Saab svedese. Da parte tedesca, i critici del debito italiano hanno usato polemicamente questa decisione (perché il professor Cottarelli e altri revisori della spesa non se ne sono mai accorti?).

La pur meritoria resistenza di Giuseppe Conte a un via libera indiscriminato è quanto di minimo ci si possa attendere da chi vorrebbe rompere la continuità col passato. Il suo governo è privo di una politica estera che dovrebbe guidare scelte conseguenti di difesa. Come ovvio, nessuno (salvo qualche voce isolata, di sinistra) si è posto il problema di che tipo di difesa richieda l’Italia e l’Europa. Da che genere di minaccia essa debba difendersi? Quali siano i rischi inerenti alla collocazione incontrollata di armi nucleari sul nostro territorio? In diverse circostanze – in particolare in occasione del G8 che ha avuto luogo in Sicilia – lo stesso Conte e altri esponenti del suo governo non hanno mancato occasione per proclamare gli Stati Uniti (gli Stati Uniti di Donald Trump, per intenderci) nostro principale alleato. La ministra della Difesa, Trenta, oggi diversamente incline, in passato si è dichiarata favorevole al continuato acquisto del F-35 e alla nostra collaudata fedeltà atlantica. È vero che i precedenti sono molteplici, anche in riferimento agli F-35. Persino odg della Camera in controtendenza – grazie all’impegno di Gian Piero Scanu e di altri eroi – sono stati disattesi grazie alla pressione esercitata con successo dall’allora presidente della Repubblica, Napolitano, sulla ministra Pinotti. Tuttavia, la conclamata discontinuità deve ancora essere realizzata.

 

La Quaresima non è solo penitenza: il cammino fiducioso verso la Pasqua

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (Luca 9,28b-36).

Mentre Gesù pregava, il suo volto cambiò d’aspetto. L’avvenimento di Gesù che davanti ai tre discepoli prescelti, Pietro, Giovanni e Giacomo, cambia aspetto mentre la sua veste diventa candida e sfolgorante, illumina l’itinerario quaresimale che non è caratterizzato solo da austerità, rinuncia e penitenza, ma è prima di tutto cammino fiducioso verso la Pasqua, insieme a Colui che, nel mistero del dono della sua vita diventa salvezza e nostra luce. La trasfigurazione è inserita in una narrazione molto significativa; è preceduta dal primo annuncio della passione e dalle condizioni per seguire Gesù. Dunque, è raccontata in un contesto di preghiera dominato dal tema della sofferenza, della croce. Di fatto, vuole essere rivelazione rivolta ai discepoli perché conoscano il mistero della persona di Gesù e del suo morire. Gesù stesso comprenderà che la sua sofferenza non sarà vana, ma ha un suo senso nell’agire di Dio che salva.

Mosè ed Elia, che rappresentano l’Antico Testamento, parlavano del suo esodo (èxodos – dipartita), che stava per compiersi a Gerusalemme e la ripetizione del riferimento al battesimo – Questi è il Figlio mio, l’eletto – ci dicono che in Gesù si realizza la promessa del Dio fedele. La via della vita che Egli percorre, quella della Croce, è la vera Pasqua di liberazione dal peccato, del dono della salvezza eterna. La trasfigurazione, quindi, non è soltanto un’anticipata manifestazione della morte, risurrezione e ascensione di Gesù, ma è uno svelamento di ciò che Egli è: il Figlio di Dio.

Questo racconto illumina e dà unità a vari momenti della storia della salvezza dell’Antico e del Nuovo Testamento. Mosè (la Legge), Elia (la profezia), il battesimo, la morte e risurrezione, il ritorno finale e glorioso di Gesù costituiscono scansioni temporali diverse dell’unico disegno redentore di Dio nei riguardi dell’uomo. Dalla nube che avvolge i tre apostoli riecheggia la testimonianza del giorno del battesimo-missione di Gesù, ora con una raccomandazione ai discepoli increduli e recalcitranti di continuare a seguire il Maestro ma soprattutto: l’eletto, ascoltatelo. Mentre la voce risuona, Gesù resta solo e i discepoli non vedono più la gloria del Signore Gesù. Ora sappiamo, però, che ascoltando Lui ascoltiamo il Padre e vedendo Lui vediamo il Padre (Gv14,9).

L’imperativo dell’ascolto coincide con il comando della sequela! Questa è indicata novanta volte dal verbo seguire (akoluthèin), mentre non è mai usato il verbo imitare (mimèomai). Pertanto, prestando l’attento ascolto dell’orecchio e del cuore alle parole di Gesù veniamo messi sulla sua stessa strada. Con lui dobbiamo salire sul monte per vedere il Volto e udire la Voce di Dio. Alla fine ci viene detto che tutto il mistero di Dio è in Gesù: ascoltatelo! Maestro, che bello per noi stare qui! Ecco lo stupore della fede, la bellezza del credere, la certezza di stare al posto giusto, bello e condiviso quando siamo con Gesù.

 

Il convegno a Verona è delirio sovranista

“Vengano vengano, signore e signori, al gran circo della famiglia, gran parata di donne fertili (meglio se hanno partorito molto), e di “papà naturali” che garantiscono di non avere adottato figli di nessuno o fatto uso della delittuosa procreazione assistita, dove nascono, sì, dei bambini ma, a volte con due padri o due madri, una sfida che offende il loro Dio. Vengano, signori a vedere come ogni uomo, protettore della famiglia, tiene la donna al suo posto, e la donna sa che trascorrerà la sua vita fra il reparto ginecologia e tirar su i bambini, visto che non ci sono asili e non ci sono progetti o promesse di asili.

Vengano tutti a vedere questi bambini bianchi, ariani e cattolici che un giorno difenderanno i nostri sacri confini, e avranno scuola e lavoro, perché non ci saranno più gli africani e tanti altri gruppi di razze varie (trasmigrate con la scusa di guerre e fame), perché non ci sono più certe organizzazioni, dette Ong, messe finalmente fuori legge, che, fino a poco tempo fa li salvavano dall’annegare in mare.

Vengano signore e signori, dell’antica famiglia del pregiudizio, del sospetto, della superstizione, a vedere che esiste davvero una comunità di famiglie che non tollera altre famiglie, se sono diverse, e negano che esista l’amore per altri, non consanguinei. E hanno un nemico giurato, il gender.

Nel normale mondo contemporaneo è la libera scelta del sesso (ti senti maschio o femmina?) quando vuoi e quando puoi. È chiaro che si tratta di una pretesa che va stroncata e che i convegnisti di Verona condanneranno come diabolica con la dovuta inflessibilità.

Decidere il tuo genere? Chi credi di essere? Non lo permette Dio (un loro Dio molto vicino a Salvini), dunque non deve permetterlo il sistema sanitario italiano. È un evento strano, fatto da residui religiosi più il passato remoto più la vendetta contro chi è diverso, più la decisione di usare i figli partoriti come gara di trionfo, più l’occasione di dire ai gay quel che gli spetta, anche se forse saranno cauti nel linguaggio per non spaccare utili aggregazioni di voti. Questo appello per la “festa” di Verona circola attraverso i migliori percorsi di comunicazione politica.

Fatalmente mi è venuta in mente la campagna di tanti anni fa per ottenere “il circo senza animali”.

Quella campagna intendeva dire che non c’è bisogno di stremare gli animali per intrattenere il pubblico. Bravi performer (vedi i Momix o il Cirque du Soleil) sono capaci di farlo senza che la bestia debba attraversare il cerchio di fuoco o pattinare sul ghiaccio.

Ecco ciò che dovremmo chiedere (a cominciare dal governo Conte, che stava per dare allo spettacolo di Verona il suo patrocinio se non ci fosse stato il “no”, per una volta non succube, dei Cinque Stelle). Fate tutte le feste che volete, fate i vostri discorsi trascritti dai peggiori momenti dei secoli del passato, ma non spingete in piazza le donne per esibire il parto e bambini per mostrare la figliolanza come esempio di rigore cristiano.

È evidente che alle donne si chiede la prova del parto (tanti, se possibile), perché ogni bambino bianco nasce al posto di un nero, e perché dimostra che un bambino sano e normale deve avere una mamma e un papà non solo fisico ma anche anagrafico, oppure quel bambino non ci deve essere, perché disturba Dio.

E ai bambini in piazza spetta di mostrare che i veri cristiani possono farne tanti. E coloro che non ne hanno, non stiano miseramente a sfogare la loro frustrazione aggrappandosi alla legge sulla fecondazione assistita o al delitto della maternità surrogata, tutte nuove vite di cui Dio non sa che fare. Si rassegnino e si tolgano di mezzo. Il fatto è che un convegno di esaltazione della “famiglia” come quello di Verona è una festa per soli uomini, come i raduni degli alpini. Però non con il proposito di ricordare e di fare festa da ex commilitoni. Ma con l’evidente cattiva soddisfazione di presentarsi come gli unici legittimi produttori di figli di Dio, mostrando il loro antagonismo per gli altri, a cui si dedica disprezzo e condanna.

Questi uomini di Verona vogliono essere liberati dalle loro paure, confessate e inconfessate, la paura dei neri, la paura dei gay (ben nota alla psichiatria e alla psicanalisi come paura di essere gay), e vogliono essere confermati nel loro presunto dominio: scienza e politica (nel senso civile e rispettoso della parola) vadano al diavolo. Conta la sovranità familiare, da cui nasce il delirio sovranista.

Mail box

 

L’ipocrisia dei giornali sulla lotta per l’ambiente

Cara Greta Thunberg, in questi giorni i giornali sono stati tutti per te e, improvvisamente, anche loro sembrano occuparsi dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica che ne è all’origine. Hanno compreso – per lo più casse di risonanza dei poteri che in questa situazione ci hanno condotti – che serve una “conversione ecologica” radicale? Nutro qualche dubbio, non solo perché sono gli stessi che sostengono il tunnel di base del Tav, ma perché, qualche pagina più avanti, trovo il sostegno a chi vuole le trivelle nel Mediterraneo, segnale di preoccupante reiterato ricorso alle fonti fossili, responsabili prime dei cambiamenti climatici. Forse allora titoli come “I ragazzi verdi fermano il mondo” vanno letti come preoccupato allarme di chi immagina le magnifiche sorti e progressive e sino a ieri si scagliava contro la decrescita felice, dimostrando di non aver compreso nulla di ciò che l’emergenza clima ci segnala. Se è così il loro rischia di essere un “Effetto terra” terra…

D’altra parte accusano la politica di ritardo, ma non si interrogano sui loro, di ritardi. Di quando l’informazione – verificare negli archivi ora consultabili on line – accusava gli ambientalisti di luddismo (questo ancora oggi…), di nemici del progresso, di Cassandre del XX secolo, persino di ecoterrorismo. Cara Greta, non fatevi ingannare dall’apparente consenso di questi giorni. Siate vigili e diffidenti. Per la conversione ecologica occorre cambiare il sistema, che farà di tutto per adularvi e alla fine inglobarvi. Come ha già fatto in passato. E la storia di questo Paese lo insegna.

Melquiades

 

Di che straparlava Renzi a “Otto e mezzo”

Caro direttore, stavo guardando il telefilm Vita da strega su Paramount Channel e durante la pubblicità ho avuto la malaugurata idea di dare un’occhiata a Otto e mezzo. Lilli Gruber chiede a Matteo R: “So che Travaglio le deve dei soldi”. Renzi risponde: “Ieri me ne ha data la metà, mi deve dare l’altra metà”. In quel momento avrei voluto essere Samantha Stephens, la strega del telefilm, per trasformare quel…

Paola Mazzarini

 

Cara Paola, tronco qui la sua lettera per risparmiarle spiacevoli conseguenze, vista la querelomania che affligge i Renzis.
Ho deciso di non rispondere più a questo relitto politico ormai ridotto a una specie di stalker. Comunque si tranquillizzi: io non ho perso alcuna causa con il tizio in questione, dunque non gli devo un euro.
Quello di cui straparlava l’altra sera sono due cause civili intentate da suo padre Tiziano, che in primo grado si sono concluse con la soccombenza del Fatto in una e del sottoscritto in un’altra: la prima riguarda un titolo veritiero del nostro sito e una parola veritiera di un mio articolo; la seconda una mia frase veritiera in tv.
In attesa dell’appello, paghiamo il dovuto, poi quando vinceremo in secondo grado il genitore del Tizio dovrà restituirci tutto con gli interessi. Ma in tutto questo riguarda Tiziano Renzi, non Matteo che però non lo sa o finge di non saperlo. E il fatto che paragoni titoli e articoli di giornale con le bancarotte fraudolente e le false fatture per cui sono stati arrestati i suoi genitori qualifica il personaggio. Lasciamolo dunque sparare le sue balle in tv, finché qualcuno glielo permette. Fra qualche mese, quando nessuno si ricorderà più di lui, sarà costretto a scriverle sui muri di Pontassieve, di notte.

Marco Travaglio

 

L’Argentina è ancora un luogo ostile per le donne

È una storia disperata quella consumatasi a Tucuman, in Argentina: una bambina di 11 anni, per evitare di essere violentata (come le sorelle) dal compagno della madre, viene affidata alle cure della nonna. Ma è proprio il compagno di quest’ultima ad abusare di lei, mettendola incinta. All’ospedale non vogliono farla abortire, complice, credo, un convincimento religioso che non tiene conto di abusi e disperazione. Oltre al fatto che a chiederlo è una bambina, prima ancora che una futura mamma. Finché una dottoressa comprensiva le applica un cesareo. Una storia di abusi e imposizioni culturali che dovrebbe farci riflettere su come ogni caso vada analizzato in modo singolo. Senza perdere di vista chi realmente è vittima. Non deve esistere pietà per chi abusa di minori. In questo caso di una bambina.

Cristian Carbognani

 

L’ostruzionismo dei partiti dovrebbe lusingare il M5S

Marco Travaglio ha ragione: la martellante e bieca ostruzione che contesta il lavoro del governo, qualunque cosa esso faccia, contrasta con la (s)leale opposizione che si faceva una volta, quando si consociava senza vergogna anche con Berlusconi, per dividersi quella torta che spettava al Paese, e che ora con rabbia vedono sparire senza toccarne una fetta.

Finora i governi precedenti hanno sempre preso le colpe del loro governare, questa è la prima volta che il cacciato a furor di popolo per incapacità contesta il governo eletto. Siamo sulla strada giusta, il loro rabbioso chiacchiericcio va smorzato con i fatti, il governo attuale deve rispondere delle sue azioni ai cittadini, non ai governi né ai partiti, e tantomeno al vecchio sottobosco politico.

Omero Muzzu