“Finora Zingaretti come Renzi. Ma la legge sulla fine vita serve”

Il dialogo con il Pd sul salario minimo non c’è, anche perché “la discontinuità tra Zingaretti e Renzi a oggi non si vede”. Però Stefano Patuanelli, capogruppo in Senato dei 5Stelle, assicura che il M5S è pronto a sedersi al tavolo con i dem e con tutti gli altri, per scrivere una nuova legge sulla “fine vita”.

A che punto siete sul salario minimo?

Il disegno di legge è calendarizzato in Aula in Senato già per la prossima settimana, ma la commissione Lavoro non ha ancora completato l’iter. Penso che attorno a Pasqua, ossia per fine aprile, il provvedimento verrà approvato in prima lettura.

E lo voterà anche la Lega? Le imprese rumoreggiano, e il Carroccio è sensibile…

Il salario minimo è previsto dal contratto di governo, quindi la Lega è favorevole. E per le imprese stiamo facendo tanto: abbiamo tagliato il cuneo fiscale, e nel reddito di cittadinanza ci saranno agevolazioni per chi assume.

Il 4 marzo Luigi Di Maio aveva auspicato che il Pd del neo eletto segretario Zingaretti convergesse sulla proposta del M5S sul salario minimo (9 euro lordi all’ora per ogni lavoratore, ndr). Ma in questi giorni non si è fatto un solo passo in questa direzione: non riuscite proprio a parlarvi?

In Senato abbiamo rapporti assolutamente civili con il Pd. Dopodiché in Aula i democratici si sono già mostrati incoerenti, criticando una riforma come il reddito di cittadinanza, che un partito che si definisce di sinistra dovrebbe sostenere. Per questo Di Maio ha lanciato quel messaggio al Pd sul salario, ossia per verificare se con la nuova segreteria potesse cambiare qualcosa sulla lotta alla povertà e i diritti sociali. Ma la risposta è stata in totale continuità con le precedenti gestioni. Tutto, pur di non votare con la maggioranza.

Zingaretti ha risposto che “i processi politici non si costruiscono con le furbizie”. Tanto più che a maggio ci sono le Europee, quindi perché farvi un favore?

Mi rifiuto di pensare che la politica si basi sulla ricerca del consenso. Il salario minimo orario è un’esigenza, visto che il 22 per cento dei lavoratori prende meno di 9 euro all’ora.

Con i dem però avete affinità, per esempio sui diritti civili. Mentre la Lega ha organizzato un convegno della famiglia a Verona contro cui voi 5Stelle vi siete scagliati in massa. Forse sarebbe il caso di aprire un dialogo sull’eutanasia, come auspicato anche oggi su Repubblica da Roberto Fico.

Questi sono temi delicati, su cui esistono sensibilità diverse all’interno di ogni partito, e difficilmente questa sarà una legislatura riformatrice in questo ambito. Ma una questione come la fine vita andrà affrontata, anche perché ce lo chiede la Consulta. Dovremo aprire un tavolo con la Lega e gli altri partiti.

Con il Carroccio siete lontanissimi su questi temi, tanto che i diritti civili non sono nel contratto.

Le posizioni sono molto distanti, è vero. E il caso di Verona lo conferma.

Ma a questo punto non dovreste rilanciare su queste tematiche per riaffermare la vostra identità? In questi mesi vi siete spesso schiacciati sulla Lega.

La legge sulla fine vita è una necessità per il Paese, e va fatta a prescindere. Ma noi non siamo affatto schiacciati sulla Lega, tanto che abbiamo fatto approvare molti dei nostri provvedimenti, dal decreto Dignità all’Anticorruzione. Certo, c’è una narrazione che dice il contrario, e la possiamo invertire parlando di più con la base.

Il Pd vorrebbe ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti, e voi vi siete opposti. Ma non è meglio far distribuire i fondi dallo Stato piuttosto che una politica legata ai soldi delle lobby?

Io ricordo che c’è stato un referendum, con cui gli italiani hanno detto chiaramente no al finanziamento pubblico.

Il Carroccio la pensa come voi? Finora non ha fiatato sulla proposta dei dem.

Chiedetelo alla Lega.

Di certo Matteo Salvini è ostile al memorandum con la Cina.

Questo accordo vuole solo governare un processo inevitabile legandolo alle normative italiane ed europee, ossia ponendogli dei paletti. Io sono di Trieste, e faccio notare che se il porto della mia città rinunciasse ai progetti di sviluppo a compartecipazione cinese, la Cina dovrebbe solo spostarsi di poco più di dieci chilometri e destinare quelle risorse al porto sloveno di Capodistria, dove li aspettano a braccia aperte.

Salvini è così contrario perché ora vuole mostrarsi filo-statunitense?

Non ho capito la sua posizione. E forse quella della Lega è più che altro la posizione di Giancarlo Giorgetti.

L’Epurazione dello spirito santo

Chi ha cacciato, dunque, Giletti, Giannini e persino Porro (amico di Bisignani e Berlusconi) dalla Rai durante la fulgida era renziana? Giovedì sera, da Formigli a Piazzapulita, Carlo Verdelli ha negato decisamente l’ipotesi dell’epurazione dei tre giornalisti non graditi dall’allora potentissimo Giglio Magico di Matteo Renzi premier. Verdelli, in quella fase, doveva essere uno degli uomini nuovi del servizio pubblico. Poi è finita male per lui, al punto che ha pure scritto un libro su quell’esperienza, in particolare sull’irriformabilità della Rai, l’azienda più malata di romanità che c’è al mondo.
C’è un dettaglio però che incuriosisce non poco. Oggi Verdelli è il nuovo direttore di Repubblica e tra le sue firme più note vanta anche quel Giannini che pagò con l’esclusione dal video la sua ritrosia a farsi renziano (a differenza del suo direttore di allora, Mario Calabresi). Chissà, quindi, se Verdelli avrà spiegato al buon Giannini che la sua non fu epurazione ma semplice sostituzione per altri motivi (quali?). In ogni caso non è la prima volta in tempi recenti che a Repubblica si registrano opinioni differenti se non opposte. Da poco è capitato a Concita De Gregorio attaccare, non citandolo, il suo collega di rubrica Corrado Augias, colpevole di guadagnare più di lei. Dove? Alla Rai, of course.

Pd: l’armata degli Zingarenziani che oggi elegge il suo segretario

Nicola Zingaretti, più che sull’assemblea che oggi all’Ergife di Roma lo proclamerà segretario del Pd, è concentrato sul suo primo atto ufficiale: alle 15.30 andrà a deporre una corona a Porta San Paolo, da dove ebbe inizio la Resistenza. Simboli e diversioni. Complementari a quella di Matteo Renzi, che non si presenterà. “Motivi familiari”, fa dire. Ma in realtà, lavora ai Comitati civivi e cerca – al solito – di distinguersi.

Oggi, il governatore dà inizio all’era post-renziana con una certa flemma. Il renzismo ha perso molti pezzi in suo favore (qui accanto, i casi più eclatanti) e molti ne perderà ancora. Quindi, tanto vale aspettare. Tanto più che la lite è tutta dentro le minoranze. Si limiterà all’elezione della direzione, della presidenza e del tesoriere (Luigi Zanda). Su Paolo Gentiloni, si asterrà la mozione Giachetti, mentre quella Martina potrebbe votare a favore. Le due vice presidenze vanno ai post-renziani. Una sarà Anna Ascani. L’altra una rappresentante della mozione Martina: si era parlato di Simona Malpezzi, ma non è detto. C’è una lite continua tra i lottiani e i richettiani, sui posti in direzione. Per le briciole: in tutto a loro toccano 28 posti su 200 (10 a Giachetti, gli altri a Zingaretti). I lottiani ne vogliono il 70%, gli altri ne rivendicano il 50%. Potrebbe finire che ognuno si vota i suoi. Il segretario – che può contare su 660 dei 1000 i delegati (220 sono di Martina, 120 di Giachetti) – farà un discorso piano, ma a tutto tondo. Cardine: l’idea che c’è di nuovo un bipolarismo con la Lega, l’avversario da battere e M5S polverizzato.

 

 

 

 

 

 

Europee, Gandolfini: “Noi del Family day sosterremo Meloni”

“Alle prossimeelezioni europee sosterremo i candidati di Fratelli d’Italia”. Così si schiera il presidente del Family day, Massimo Gandolfini, a margine dell’evento “Più famiglia, più Italia” organizzato a Firenze da Fd. Parole con cui esprime il legame con il partito di Giorgia Meloni, che ha sempre “graniticamente sostenuto le istanze del Family day”. Le manifestazioni organizzate da Gandolfini hanno sempre propagandato il no alle unioni omosessuali e alla pratica dell’utero in affitto. Nel 2015 il medico (è neurochirurgo e psichiatra) affermava che “l’omosessualità è una malattia”. Ieri invece ha detto che “Fratelli d’Italia sta portando avanti una politica a vantaggio della famiglia, per la difesa della vita, dal concepimento alla morte naturale e per la libertà educativa dei genitori, assolutamente coerente rispetto alle nostre iniziative”. E Meloni, la presidente del partito, lo ha ringraziato su Facebook: “Grazie a Gandolfini per le importanti parole che ha pronunciato e per il sostegno a Fdi. Difesa della vita, centralità della famiglia naturale, libertà educativa e lotta all’ideologia gender: sono queste le istanze che condividiamo e che vogliamo portare anche in Europa”.

3 domande a Nicholas Anesa

Ha 32 annie viene dalla Val Seriana. Eppure Nicholas Anesa, di vite ne ha già vissute parecchie prima di diventare il candidato sindaco dei 5 Stelle a Bergamo.

Cinque anni fa è finito in una brutta storia, dopo aver denunciato un’estorsione da parte dei suoi ex datori di lavoro, che gli è costata minacce e “anni terrificanti”. Ora ha aperto una pasticceria vegana insieme al suo compagno, con cui convive da quando ha 18 anni. Due anni fa hanno deciso di metter su famiglia, sono ricorsi alla gestazione per altri, il loro è il primo caso a Bergamo.

Come ha vissuto questa scelta?

Tanti pensano che sia una forma di sfruttamento della donna. A me piacerebbe far conoscere le mamme di Yv. Lei ha le loro foto in camera, ci sentiamo regolarmente via Skype. Quest’estate andremo a trovarle. Saprà sempre chi è che le ha permesso di venire al mondo. Si fanno assurde fantasie sulle nostre famiglie: pensano che teniamo i figli in gabbia mentre ci sodomizziamo. Mi spiace per loro, ma se mettessero le telecamere a casa nostra, sarebbe il reality più noioso del mondo.

Perché ha deciso di candidarsi?

Mi sono fatto avanti, giusto per vedere che effetto faceva. Non pensavo che mi scegliessero, invece il gruppo mi ha seguito, anche loro volevano una candidatura di rumore. Sappiamo che la battaglia sarà difficile, ma sarebbe bello riuscire almeno a dare una scossa a una città che su questi temi è ancora un po’ addormentata.

Non le pesa l’alleanza di governo con la Lega?

Li vedo come un piedino della vecchia politica che è ancora lì, prima poi riusciremo a metterlo fuori. Ma io domando: questo governo cambierebbe di più se sparisse la Lega o se sparissero i Cinque Stelle? Se sparisse la Lega il governo del cambiamento, resterebbe lo stesso; se sparissero i Cinque Stelle no.

Le piacerebbe che il Movimento avesse posizioni più nette sui temi civili?

Sì, sul voto sulle unioni civili sicuramente abbiamo peccato di inesperienza ed è passato un messaggio sbagliato. Detto questo, quella è una legge che ci classifica come cittadini di serie B e io non voglio questo marchio. Aspetto il matrimonio egualitario, prima o poi tanto arriverà.

Strisce blu e poche altre paure: qui vince chi trova parcheggio

Considerata la difficoltà a trovare qualcuno che ne parli male, Giorgio Gori per il momento può anche aspettare a riempire gli scatoloni. Alle elezioni comunali di Bergamo, tra due mesi, il favorito è ancora lui, il manager della tv che cinque anni fa piombò come un alieno a governare la città alta e bassa.

Certo, dovrà fare i conti con la proverbiale diffidenza dei bergamaschi, che difficilmente lasciano dormire sugli allori chi li amministra: da quando esiste l’elezione diretta del primo cittadino hanno regolarmente cambiato casacca. Un mandato a destra e uno a sinistra, una rigorosa alternanza che ha concesso poche distinzioni, in onore alla cinquantennale fede che la città aveva riposto nella Dc dal dopoguerra al 1995.

Ricorda Mauro Ferrari, il creativo che curò la campagna di Gori nel 2014: “Le parole ‘innovazione’ e ‘cambiamento’ facevano venire l’orticaria ai bergamaschi. In più, essere bello, ricco e famoso, vivere in una ‘reggia’ a Bergamo Alta e avere come moglie una star della tv (Cristina Parodi, ndr) ovviamente non ti aiuta in queste occasioni”. In effetti, quand’è scivolato, Gori lo ha fatto proprio sul suo status: una veranda abusiva della sua villa, poi abbattuta, e una serie di parcheggi selvaggi con il suo Suv.

A Bergamo, va detto, il parcheggio è un’ossessione. Celebrata, raccontano, alla fine degli anni 90 dal sindaco Veneziani al motto di “Ci danno l’auto e non ci permettono di usarla”. Non è un caso che ieri – al suo esordio da candidato – il leghista Giacomo Stucchi abbia lanciato dal Corriere della Sera il suo “guanto di sfida sui posteggi”. In ballo ci sono le strisce blu del centro, a pagamento anche la domenica. Ma anche il contestatissimo autosilo che stanno scavando nell’ex parco della Fara, a ridosso delle mura della città alta, patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Un progetto del 2004, che anche Gori aveva messo in dubbio e su cui poi ha deciso di andare avanti, mettendosi contro il comitato NoParkingFara, praticamente l’unica opposizione che gli abbia dato fastidio.

Non sono stati i Cinque Stelle, che anche adesso danno la partita per persa e fanno una battaglia di testimonianza con Nicholas Anesa, vittima di estorsione, omosessuale, una figlia nata con la maternità surrogata (“Ce le ho tutte – scherza nell’intervista qui a fianco – Sono anche vegano”).

Ma anche i rapporti con il centrodestra, per Gori, non sono andati male. Il tenore medio della critica ruota attorno alla sua inclinazione salottiera, al suo scarso interesse per le periferie, alla frequentazione con i poteri forti della città, che poi sono la Curia, quel che resta di banche e industriali, la lobby dell’aeroporto di Orio al Serio, gli store e l’Atalanta di Antonio Percassi. Un leit motiv che ora sarà difficile portare avanti da Stucchi, anche lui figlio della Città alta, parlamentare per 22 anni, ex presidente del Copasir e a cui lo stesso Corriere fatica “a far dire qualcosa di negativo sul suo avversario”. Non è un caso che prima di sceglierlo, la Lega ci abbia messo dei mesi. Stucchi, per usare un eufemismo, non è esattamente un amico di Matteo Salvini. Da maroniano provò a sfidarlo al congresso del 2013 e due anni fa era tra i sostenitori di Gianni Fava, candidato assai ostile al leader. Alla fine la partita è stata decisa più che altro dalla ritrosia di Alberto Ribolla – il giovane salviniano, arrivato in Parlamento solo un anno fa, non ha voglia di tornare a casa – e dagli equilibri interni al centrodestra: nella spartizione delle città lombarde al voto (oltre a Bergamo, Lodi, Cremona e Pavia), la Lega ha voluto quella più pesante. Ancora ieri, Forza Italia ha ricordato che il “suo” Gianfranco Ceci resta in campo, ma domani alle 11 la Lega ha già in agenda il lancio della campagna di Stucchi.

A sinistra del Pd dicono che, comunque vada, cambierà poco. E che a salvare Gori alla fine sarà la paura dell’uomo nero, inteso come Salvini, vista la tradizionale moderazione dei bergamaschi. Certo il voto di astensione di Gori – tre giorni fa – sulla revoca della cittadinanza a Benito Mussolini, non ha aiutato a far cambiare idea ai suoi avversari. Che ancora ricordano con un certo sdegno l’approvazione del regolamento cittadino sulla sicurezza, che ha introdotto il mini-Daspo anche per i senzatetto. In tema di paragoni calcistici, c’è un’altra grana che a Bergamo non spiana la strada a Salvini: il 27 febbraio due pullman di tifosi dell’Atalanta di ritorno da Firenze raccontano di essere stati assaliti dalla polizia. I video smentiscono la versione degli agenti e anche il ministro dell’Interno, per una volta, abbandona la sicumera e “attende l’esito dell’inchiesta”. Giusto per intenderci, il candidato più votato in Italia alle ultime Politiche è Daniele Belotti, 105 mila voti: prima ultrà della Dea, solo dopo leghista.

Cina, parla Moavero: “La sicurezza viene prima dei guadagni”

Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi afferma che “la sicurezza prevale sulle opportunità economiche”, con un chiaro riferimento al memorandum tra Italia e Cina. E Matteo Salvini gradisce, i 5Stelle molto meno. Tutto inizia ieri pomeriggio, quando Moavero interviene a L’intervista su SkyTg24: “Le preoccupazioni legate ad aspetti e profili di sicurezza sono le preoccupazioni degli alleati e in primis anche le nostre. E hanno una precedenza sulle opportunità economiche”. Ma il titolare della Farnesina parla anche di F-35: “Gli impegni presi vanno mantenuti, ma vi possono essere delle flessibilità di rinegoziazione o di parziale rivisitazione”. Note liete per il M5S, che tramite fonti governative commenta: “Felici che anche il ministro Moavero concordi sull’aprire una riflessione sul programma di acquisti”. Ma sulla Cina le idee sono diverse, e i 5Stelle seminano sillabe acide: “Moavero ha ragione, di fronte alla sicurezza non possono esserci compromessi di alcun genere. Fortunatamente non è il caso del memorandum, negoziato dalla Farnesina, il suo ministero”. Invece Salvini, critico sull’intesa con Pechino, sta con Moavero: “La questione economica è importante, la sicurezza nazionale è decisiva”.

In Basilicata Salvini candida gli ex uomini del dem Pittella

L’onda lunga salviniana rischia di spodestare il lungo regno degli ex dc accasati nel centrosinistra in Basilicata, la regione del petrolio. Domenica prossima si vota e l’ex generale della Guardia di Finanza, Vito Bardi, scelto da Forza Italia, potrebbe diventare il prossimo governatore. Se succederà dovrà ringraziare molto Matteo Salvini, la cui forza di attrazione è potente persino al Sud, tanto che ha finito per portare o riportare nel centrodestra un pezzo del potere “pittelliano”, nel senso di Marcello Pittella, l’ex governatore dem finito in un’inchiesta sulla sanità, e suo fratello Gianni, senatore e già capogruppo del Pse a Strasburgo. L’ex assessore ai Trasporti di Pittella, Nicola Benedetto, ha dato vita a una lista di sostegno a Bardi; l’ex presidente di Coldiretti Piergiorgio Quarto doveva correre per il centrosinistra, ma ha scelto gli avversari di centrodestra, dove ha fatto ritorno la filiera di Guido Viceconte, già sottosegretario con Berlusconi passato col centrosinistra in Regione durante la perigliosa avventura alfaniana e candidato dalla coalizione del Pd solo a marzo scorso. Altri tempi, ora la stella polare è Salvini.

Il Carroccio alla fame e quei soldi “spariti”

Perchè mai in Lombardia si fa passare un milione di euro di finanziamenti pubblici dalla lista civica “Maroni presidente” a un’associazione di matrice leghista? La tempistica è indicativa. Il passaggio avviene tra fine 2017 e la vigilia delle elezioni in Lombardia di marzo 2018, poi stravinte dal leghista Attilio Fontana. Le casse del partito sono esangui, i conti bloccati dal sequestro effettuato dalla Procura di Genova che cerca i 49 milioni di rimborsi svaniti nel nulla. Per sostenere il candidato leghista servono soldi.

È solo l’ultima trovata per dare respiro alle casse del partito. A fine 2017 Matteo Salvini aveva già provveduto a “sdoppiare” il Carroccio. La Lega Nord per l’Indipendenza della Padania viene affiancata dalla Lega Salvini Premier nella difficile speranza di creare una bad company sgravata dai sigilli dei magistrati. Un canale per avere finanziamenti senza farli passare dai conti della Lega potrebbe essere stata anche l’Associazione Più Voci, fondata nel 2015 a Bergamo da tre uomini del partito, compreso il tesoriere Giulio Centemero, indagato a Roma per finanziamento illecito per i 250 mila euro versati nel 2015 alla Onlus da una società riconducibile al costruttore Luca Parnasi.

Le difficoltà nascono dalle inchieste sulla sparizione dei 49 milioni, chiesti nel 2008-2010, durante la gestione di Umberto Bossi e del tesoriere Francesco Belsito, come rimborsi elettorali a Camera e Senato con rendicontazioni irregolari. Un “tesoretto” attenzionato da tre indagini di due procure diverse. A gennaio, a Milano, Belsito è stato condannato in secondo grado per appropriazione indebita per aver usato parte dei soldi a fini personali; Umberto e il figlio Renzo Bossi sono usciti dal processo grazia alle scelta di Salvini di non querelarli.

A novembre scorso, Bossi e Belsito sono stati invece condannati in appello a Genova per truffa aggravata ai danni dello Stato. La Lega deve restituire quei soldi, che però sono spariti. L’accordo con la Procura è di rimborsarli in rate annuali da 600 mila euro ogni dodici mesi per 76 anni. Dovrebbe estinguere il debito entro il 2094.

A fine 2013 il partito aveva disponibilità per 40 milioni, di cui 22 su depositi bancari e postali, oggi quasi nulla. Sostiene che i soldi sono stati spesi per attività politiche e per pagare i dipendenti. Ma i pm continuano a cercarli. Una pista riguarda i 19,8 milioni passati per Unicredit e Banca Aletti, poi trasferiti nel 2013 su due nuovi conti aperti presso la bolzanina Sparkasse e da lì usciti a loro volta l’anno dopo. La procura di Genova ha aperto un secondo fascicolo per riciclaggio (al momento senza indagati) e cerca di ricostruire un giro di soldi che potrebbe essere arrivato fino in Lussemburgo. I pm hanno anche perquisito una serie di società con sede a Bergamo, allo stesso indirizzo della Più Voci.

Resta il punto che quei soldi oggi non sono più nelle casse della Lega. Tra il 2013 e il 2017 ha chiuso i bilanci con 28 milioni di perdite cumulate; la cassa è passata da 23 milioni a 41 mila euro. L’ultimo bilancio si è chiuso in rosso per 1,1 milioni e debiti per quasi due. Senza il finanziamento pubblico, per far fronte all’emergenza Centemero ha imposto una cura da cavallo: i costi sono passati da 16 a 4 milioni; i dipendenti da 71 del 2013 a 4.

Con questi numeri un partito non sopravvive, ma la Lega può contare sugli effetti dell’exploit elettorale. I parlamentari quasi quadruplicati permetteranno di incassare oltre 12 milioni l’anno (tra fondi ai gruppi e contributi degli onorevoli) che prima non c’erano. Soldi che però potrebbero non bastare, anche perchè la nuova legge anticorruzione impone più trasparenza a fondazioni e associazioni legate ai partiti. Forse non è un caso, dunque, se Centemero da giorni non risponde alla richiesta del Fatto di chiarire la posizione della Lega sulla proposta del neo tesoriere dem, Luigi Zanda di ripristinare i contributi pubblici ai partiti destinando alla bisogna 90 milioni a legislatura.

Sotto inchiesta i voli blu di Alfano e Gentiloni

La Corte dei conti del Lazio indaga sui voli di Stato con cui l’allora premier Paolo Gentiloni e il ministro degli Esteri Angelino Alfano raggiunsero Bruxelles per prendere parte al loro primo Consiglio europeo. Sulla vicenda, già nota, i magistrati contabili hanno da tempo aperto un fascicolo per appurare se le modalità di viaggio abbiano costituito un danno da 70 mila euro per le casse dello Stato.

I due, infatti, partirono dal medesimo luogo, a un orario praticamente identico, per poi atterrare entrambi nella stessa città. Nulla di strano se non fosse per la scelta di utilizzare due diversi “aerei blu”. La vicenda non era sfuggita alla stampa. E neanche all’associazione Codacons, dal cui più generale esposto sui voli di Stato sono nate le indagini guidate dal Procuratore regionale Andrea Lupi e dal consigliere Massimiliano Minerva.

Questa storia inizia il 15 dicembre 2016. Quel giovedì, dall’aeroporto di Ciampino, a Roma, due diversi aerei di Stato partirono a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro. A bordo del primo, un “Airbus 319” da 40 posti, c’era l’allora neo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano invece viaggiò su un “Falcon 50” da nove posti. Entrambi erano diretti nella Capitale belga. L’idea di utilizzare dei comuni voli di linea evidentemente non fu presa in considerazione. I magistrati contabili però cercano di capire come mai i due politici non abbiano utilizzato almeno lo stesso mezzo. Si parla infatti di voli particolarmente costosi.

Il primo velivolo, con a bordo l’ex premier, avrebbe comportato una spesa di 50 mila euro. Il viaggio di Alfano invece costò alle casse dello Stato 20 mila euro. Dunque un volo per due persone, andata e ritorno da Bruxelles, costò in totale 70 mila euro. Eppure entrambi dovevano presenziare alla stessa riunione, la prima seduta del Consiglio europeo dall’insediamento del nuovo governo (Matteo Renzi si era dimesso subito dopo il tonfo referendario).

Quel 15 dicembre, l’unica differenza tra i programmi di Gentiloni e Alfano è nell’orario di ritorno a Roma. Il premier fece rientro intorno a mezzanotte, mentre il ministro era nella Capitale già alle 15.30. Chissà se questa circostanza, o magari ragioni legate alla sicurezza, non permettano ai due di giustificare l’esosa modalità di viaggio ai magistrati contabili. Al momento c’è una sola certezza, ed è l’indagine della Corte dei conti, il cui oggetto appare chiaro: “Sperpero di denaro, euro 70 mila, per due voli di Stato, trasferte ministri Gentiloni e Alfano il 15 dicembre 2016 con destinazione Bruxelles”.

Non è la prima volta che i magistrati contabili indagano sui “voli di Stato”. A seguito di un esposto del Codancons alla Corte dei conti e all’Autorità anticorruzione, nato a sua volta da un articolo del Fatto Quotidiano, è stato aperto un fascicolo sul contratto da 120 mila euro, firmato dal governo il 24 dicembre scorso, per il servizio di catering sugli aerei di Stato. Poi c’è il caso dell’ Airbus A-340, meglio noto come “Air Force Renzi”. Nel luglio scorso infatti il governo ha disdetto il contratto con Etihad dietro al quale aleggia il sospetto di un aiuto di Stato ad Alitalia. La compagnia italiana infatti avrebbe fatto da tramite tra l’azienda degli Emirati e il segretariato generale della Difesa.

Tra leasing, manutenzione, hangar a Fiumicino, addestramento dei piloti e optional vari si trattava di un contratto dal valore complessivo di 144 milioni di euro suddivisi in 5 lotti. Una spesa importante per un velivolo la cui produzione è stata interrotta nel 2010, dopo la vendita di soli 40 modelli. “Non l’ho mai usato, non era per me – aveva spiegato Matteo Renzi – era un mezzo a servizio delle politiche di rilancio dell’export, serviva per portare gli industriali nei viaggi col ministero dello Sviluppo. Si sarebbe ripagato dei costi perché si sarebbe fatto un business plan con un contributo da chiedere agli imprenditori, facendogli occupare due terzi dei posti disponibili”. Anche su questo caso la Corte dei conti del Lazio intende fare chiarezza.