Spelacchio, ci manchi. Passerà un altro Natale senza l’albero-star di Roma, quello malaticcio ed efebico che valse all’ex sindaca Virginia Raggi le ennesime ironie, ma finì per conquistare il cuore dei suoi prostratissimi cittadini. Oggi, se non altro, ci si può consolare con una versione sabauda dell’albero iellato: a Torino, come da tradizione, in piazza Vittorio è stato montato un enorme allestimento a forma di abete natalizio, alto 22 metri e largo 8, ricoperto da un sofisticato tappeto di “prato artificiale” ignifugo e da 35mila luci. A vederlo di giorno è davvero bruttissimo, ma pure di notte non è che abbia scaldato i cuori dei torinesi: proprio come Spelacchio è stato subito preso di mira dalla critica cittadina. Gli sono stati affibbiati i nomi più disparati: “Broccolo”, “Cono gelato”, ma quello che sembra avere attecchito meglio è “Zerbino”. Lo spelacchio hi-tech torinese (eredità della giunta Appendino) è costato una discreta cifra, 90mila euro, e non piace praticamente a nessuno: secondo un sondaggio della Stampa, il 74% degli interpellati ha dato parere negativo, il 7% non ha voluto rispondere e solo il 19% ha detto di apprezzare “Zerbino”. Magari ci sarà tempo per abituarsi e per cambiare opinione, e alla fine sarà persino rimpianto come il suo omologo romano. Ma Spelacchio, per quanto brutto, almeno era simpatico.
Lotito può ancora sperare, Cario intanto perde il seggio
La Giunta per le autorizzazioni del Senato ha deciso, grazie ai voti decisivi del centrodestra, che va attribuito a Claudio Lotito il seggio contestato a Vincenzo Carbone di Italia Viva: M5S, Pd, LeU e Iv avevano sostenuto il contrario, come stabilito dall’aula il 2 dicembre. La stessa Giunta ha deciso che sarà Fabio Porta del Pd a subentrare nel seggio fin qui occupato da Adriano Cario, la cui elezione non è stata convalidata dopo la verifica sulla regolarità delle schede votate nella circoscrizione Sudamerica. Su entrambe le decisioni l’ultima parola spetta all’aula.
Salvini riprende Morisi: sarà nominato capo comunicazione
“Se vuole Luca Morisi può tornare a lavorare con me anche da subito. La mia porta è spalancata”. Il segnale, Matteo Salvini, lo ha lanciato mercoledì sera, in prima serata, intervistato da Massimo Giletti a Non è l’Arena su La7. Ed è solo l’anticipazione di un annuncio che il leader della Lega farà a inizio anno: come rivelato dal Fatto il 7 novembre, se il gip di Verona accoglierà la richiesta della Procura di archiviare l’ex guru della “Bestia” leghista accusato di cessione e detenzione di sostanze stupefacenti, Morisi tornerà a tutti gli effetti nella Lega. Lo farà, secondo fonti vicine a Salvini, in una veste diversa: non più come capo della “Bestia” social del Carroccio, ma per lui potrebbe arrivare una nomina ad hoc come consigliere della comunicazione del segretario.
Un modo per risarcirlo dopo le polemiche – e le dimissioni dalla segreteria – dei mesi scorsi e allo stesso tempo tenerselo vicino per gestire la comunicazione del partito a 360 gradi. Il leader leghista vuole evitare le molte fughe di notizie e le rotture interne al partito che nelle ultime settimane sono uscite su tutti i giornali. Il ritorno ufficiale di Morisi, spiegano da via Bellerio, probabilmente si concretizzerà a fine gennaio quando il gip avrà deciso. Una nomina che non piacerà all’ala governista del partito, che a settembre aveva scaricato Morisi portandolo alle dimissioni. Il ritorno dell’ex guru della “Bestia” servirà a Salvini anche in vista della campagna referendaria sulla giustizia della prossima primavera: il leader del Carroccio vuole prendere il suo caso come esempio della “malagiustizia” italiana.
Da Lusi a Galan: la seconda vita delle ville degli ex
Rischia di diventare un agriturismo, e sarebbe l’onta suprema ché, ai tempi d’oro, era la dimora del Doge Giancarlo Galan. Finito nelle patrie galere per via delle mazzette del Mose e con i beni più cari confiscati, tra tutti proprio Villa Rodella di Cinto Euganeo: di lì il Colosso di Godi, com’era anche detto il gaudente presidente del Veneto, era stato tradotto direttamente nel carcere di Opera salvo tornarvi ma solo per scardinare lo scardinabile: tazze da bagno, bidet, rubinetteria, termosifoni e caminetti, pur d’evitare che la magione padovana potesse essere valutata dallo Stato che poi l’ha incamerata e ora messa all’asta: prezzo base 2,7 milioni per accaparrarsi 13.600 metri quadri in tutto, sui quali insistono la villa cinquecentesca con terrazze alla veneziana di cui il ministero dei Beni culturali ha autorizzato la vendita, una chiesetta con altare tabernacolo e statue e pure un fabbricato di servizio, una barchessa particolarmente adatta a essere riconvertita all’ospitalità agrituristica, come recita l’annuncio dell’Agenzia del Demanio che ora aspetta le offerte.
Mentre ancora non è chiaro il destino degli immobili confiscati all’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, condannato in via definitiva per appropriazione indebita dei fondi del partito: da settembre 2019 è stato affidato ai servizi sociali e si è aggiudicato un contratto a tempo indeterminato alla Caritas di Roma, ma non rientrerà in possesso dei suoi beni, almeno quelli che son riusciti a confiscargli a ristoro degli oltre 20 milioni che aveva fatto sparire con una destrezza degna di un mago. Il Demanio ha preso in consegna le sue proprietà nella natìa Capistrello in provincia dell’Aquila e a Roma e provincia e sta valutando “per ognuno di essi le possibilità di valorizzazione e messa a reddito”. La villa da mille e una notte di Genzano ai Castelli Romani dove nel 2012 la Finanza l’aveva arrestato per portarlo in carcere potrebbe diventare presto un polo museale: 1.600 metri quadri su quattro piani con ascensore interno più un immenso giardino, campo di calcetto e chi più ne ha più ne metta che un tempo era l’eden della famiglia Lusi, tra marmi, saune e ogni comfort extralusso.
La casa, più delizia che croce per gli inquilini della Prima, Seconda e pure Terza Repubblica. Finiti nella bufera chi per via di un affitto a canone di strafavore e più spesso per compravendite straordinariamente vantaggiose. Come quella del favoloso attico di via in Arcione, 600 metri giusto sotto al Quirinale, regno di Ciriaco De Mita. Che era stato affittuario dell’immobile dell’Inpdai per anni a un canone modesto, fin quando non aveva deciso di comprarselo per 3 milioni: nel 2016 l’ha messo in vendita a 11.
E che dire della casa di Montecarlo che a Gianfranco Fini è costata la carriera e un processo con l’accusa di riciclaggio? Lasciato in eredità ad Alleanza nazionale l’immobile sarebbe finito (grazie ai soldi del re delle slot Francesco Corallo e a certi magheggi off-shore) nella mani del fratello della sua compagna Elisabetta Tulliani: acquistato per appena 300 mila euro e poi rivenduto a 1,3 milioni.
Claudio Scajola, già potente ministro berlusconiano, è invece diventato addirittura leggenda per via del mezzanino di via Fagutale, vista Fori imperiali. Che nel 2014 ha ceduto a 1,63 milioni e che nel 2004 aveva pagato 610 mila euro. Con l’aiutino “a sua insaputa” dell’imprenditore Diego Anemone che aveva colmato la differenza per l’acquisto da 1,7 milioni.
Son tornati: Il colle ( e non solo) li fa belli
Sono tornati. Nonostante i problemi giudiziari e gli anni in “sonno” dalla politica, almeno quella di prima fila. D’altronde sta per cominciare la più impegnativa delle partite – l’elezione del nuovo Capo dello Stato – ed è richiesto il massimo sforzo da parte di tutti, a cominciare da quelli che hanno frequentato per anni i corridoi dei palazzi romani. Così, si riaffacciano ai convegni, ricuciono rapporti, procacciano alleanze.
Verdini e Dell’Utri Braccia armate per berlusconi
Alcuni li ha richiamati in trincea direttamente Silvio Berlusconi. Vecchie glorie come Marcello Dell’Utri e Denis Verdini. Il primo, che ha scontato una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è tornato a frequentare Arcore a settembre dopo l’assoluzione in Appello al processo sulla Trattativa Stato-mafia. Dopo aver apparecchiato la tavola fiorentina tra Matteo Renzi e Gianfranco Miccichè di metà ottobre, a inizio novembre – come rivelato dal Fatto – Dell’Utri ha raccontato durante una riunione ad Arcore la telefonata con il leader di Iv: “Renzi mi ha detto che ci potrà aiutare per il Quirinale”. Anche Verdini, che sta scontando ai domiciliari una condanna a 6 anni e 6 mesi per il crac del Credito cooperativo fiorentino, nell’ultimo mese ha contattato parlamentari e rassicurato Berlusconi sul fatto che “30 voti verrebbero fuori” ma allo stesso tempo lavora con il suo genero Matteo Salvini al piano B (Marcello Pera), se la candidatura di Silvio dovesse venir meno.
Totò vasa vasa L’attivismodell’ex presidente siciliano
I bagni di folla e i teatri pieni oggi sono solo un ricordo, ma il protagonismo politico di Salvatore Cuffaro – scontata la condanna a 7 anni per favoreggiamento alla mafia – è ormai un dato di fatto: fa incontri, partecipa a conferenze, inaugura sezioni della sua nuova Dc. “È una vergogna che ancora oggi la politica in questi territori non riesca a restare lontana da tutto ciò che ha il sapore di mafia”, dice il procuratore Alfredo Morvillo, da 30 anni impegnato in indagini antimafia, cognato di Falcone, oggi in pensione. “È un esempio di quella cattiva politica che in nome della sua onnipotenza pensa di potere cancellare reati e condanne, rendendo invisibile il confine tra legalità e illegalità”, gli fa eco l’onorevole Adriana Laudani, che lavorò a fianco di Pio La Torre, e oggi è presidente dell’associazione Memoria e Futuro. Un’indignazione che invece non trova sponda nel presidente dell’Antimafia regionale Claudio Fava: “Premesso che la mia storia politica è lontana anni luce da quella di Cuffaro e che la condanna, interamente scontata, gli impedisce di candidarsi credo abbia tutto il diritto di coltivare la sua passione politica. Questo facile accanimento nei suoi confronti è una forma suprema di ipocrisia di chi preferisce non vedere personaggi politici tuttora in splendida attività con storie molto più compromesse’’.
L’impegno dell’ex presidente siciliano procede a tutto campo. Il 18 novembre ad Altofonte ha inaugurato la sede della Nuova Dc, cinque giorni dopo era a Villa Zito, a Palermo, a presentare insieme al renziano Davide Faraone il libro La variante Dc scritto da Gianfranco Rotondi, il 3 dicembre è andato a Camporeale a parlare di agricoltura. Adesso Vasa Vasa è pronto pure a uscire dalla Sicilia. Nei prossimi giorni è atteso a Milano, dove ha in agenda un paio di appuntamenti. Il primo è il congresso dell’associazione Nessuno tocchi Caino, costola del Partito Radicale, che si radunerà nel carcere di Opera oggi e domani. Sempre domani sarà all’Hotel dei Cavalieri per un convegno in favore “di una legge elettorale proporzionale”. Un attivismo frenetico, ma solo fino alle Regionali del 2022: “Saranno il mio ultimo atto – ha detto Cuffaro in un’intervista – poi tornerò a fare il volontario in Burundi”. E se a oggi un posto al tavolo ufficiale del centrodestra gli viene per ora negato, come è accaduto per la scelta del candidato sindaco di Palermo, Cuffaro può ancora sperare: i deputati regionali della Lega hanno definito “un disguido” la sua esclusione: “Siamo certi che si porrà rimedio”.
Scajola Bispronto per la provincia
Non ha bisogno di sperare, invece, un altro protagonista della politica dei primi anni Duemila, Claudio Scajola: tre volte sindaco, quattro volte ministro, altrettante deputato, a meno di sorprese, sabato diventerà presidente della Provincia di Imperia. Una carica che sommerà a quella di sindaco della città capoluogo, dove è stato rieletto nel 2018 e dove ha già annunciato di voler correre per il quarto mandato tra due anni. Scajola, insomma, non abdica. E la guida della Provincia è in arrivo nonostante il sindaco non abbia ancora risolto i suoi problemi processuali: in attesa dell’Appello, Scajola è condannato a 2 anni di reclusione per aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena, l’ex deputato forzista scappato a Dubai dopo una condanna a 3 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Grazie alla riforma Delrio, che nel 2014 ha svuotato le Province pur senza eliminarle, Scajola non dovrà neanche passare dal voto popolare. Così come in altri 30 capoluoghi, sabato saranno soltanto i sindaci e i consiglieri comunali della zona a decidere il proprio presidente. Un meccanismo che riduce al minimo l’imprevedibilità ed è condizione perfetta per gli accordi tra i partiti, tanto è vero che a Imperia Scajola sarà l’unico candidato presidente, sostenuto da tutto il centrodestra e accompagnato verso la poltrona pure dal centrosinistra, che all’ultimo minuto non ha trovato l’intesa sul nome di Alberto Biancheri, sindaco di Sanremo. Con l’unica obiezione pubblica di Ferruccio Sansa, il giornalista del Fatto scelto nel 2020 come candidato giallorosa alle Regionali in Liguria: “È opportuno nominare ai vertici della Provincia una persona condannata in primo grado a due anni di carcere per aver favorito la latitanza di Matacena? Certo, Scajola non è condannato in via definitiva. E con una condanna a due anni non si applica la legge Severino che impedirebbe al sindaco di Imperia di ricoprire l’incarico. Ma non esistono soltanto le questioni giudiziarie, ci sono anche quelle politiche”. Scajola però è intoccabile anche grazie al rinsaldato asse con Giovanni Toti, con cui c’erano stati problemi in passato. Ma adesso è il momento di tornare tutti amici.
La bandana copre trapianto, auto-condoni e prescrizione
2004, 13 gennaio. La Corte costituzionale dichiara illegittima la legge Maccanico-Schifani perché viola il principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) e il diritto alla difesa (art. 24). Dunque i processi a Berlusconi riprendono. Ma il “lodo” ha già fatto danni irreparabili, consentendo al premier di liberarsi del collegio presieduto da Luisa Ponti che, avendo condannato gli imputati del processo principale Sme-Ariosto, è divenuto incompatibile a giudicare anche lui nel processo-stralcio. Il nuovo collegio è presieduto da Francesco Castellano, che in varie interviste ha esternato la sua antipatia per i pm di Milano e la sua simpatia per il Cavaliere (elogiando financo la controriforma del falso in bilancio), oltre ad aver concesso generosamente le attenuanti generiche a lui e al fratello Paolo mandando in prescrizione altri due processi. Il processo-stralcio Sme-Ariosto si trascinerà per tutto il 2004, fra un ostacolo e l’altro inventato dai difensori del premier. Che ne approfitta per sistemare definitivamente i suoi interessi finanziari e televisivi con altre leggi ad personam e ad aziendam.
Febbraio. Arrestati a distanza di pochi giorni, a Roma e a Milano, Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, insieme ai loro complici. Sono accusati di bancarotta fraudolenta e altri reati finanziari per i due crac più spaventosi dai tempi dell’Ambrosiano, che seguono a stretto giro la catastrofe dei bond argentini: quelli dei gruppi alimentari Cirio (5 miliardi di euro di buco, 35mila risparmiatori rimasti con un pugno di mosche) e Parmalat (15 miliardi di buco, 80mila risparmiatori truffati), aggravati dai mancati controlli di Consob e Bankitalia e dal ruolo perverso di alcune banche. Soprattutto una: Capitalia di Cesare Geronzi. Cose che càpitano nel Paese che ha appena depenalizzato il falso in bilancio, mentre negli Usa, dopo i crac Enron e Worldcom, George W. Bush ha triplicato le pene per i reati finanziari e varato norme draconiane a tutela dei risparmiatori.
29 aprile. Il centrodestra approva la legge Gasparri-2, quasi una fotocopia della prima versione bocciata da Ciampi, che perpetua la permanenza sul “terrestre” di Rete 4 dieci anni dopo la sentenza della Consulta che ne raccomandava lo spegnimento o il trasloco su satellite. Così la rete Mediaset “abusiva”, pur non avendo la concessione dello Stato per trasmettere, continua a farlo sulle frequenze che spetterebbero a Europa7, che invece la concessione l’ha avuta nel 1999, ma non ha mai ricevuto dallo Stato i ponti radio per iniziare i suoi programmi.
13 luglio. Approvata la legge Frattini sui conflitti d’interessi, priva di sanzioni e obblighi cogenti. Anziché proibire e sanzionare i conflitti d’interessi del premier (che l’ha voluta così, in pieno conflitto d’interessi), lo legalizza e lo santifica. Tra le varie amenità, recita che chi va al governo possedendo aziende, ma ne è soltanto (si fa per dire) il “mero proprietario”, non è in conflitto d’interessi e non deve cederle. L’unico sacrificio per il mero proprietario Silvio Berlusconi saranno le dimissioni da presidente del Milan.
16 agosto. In vacanza a villa Certosa, in Costa Smeralda, Berlusconi riceve il premier inglese Tony Blair con la moglie Cherie e si fa immortalare accanto a loro col capo fasciato da una curiosa bandana. Gli serve per nascondere i bulbi piliferi appena innestati sulla sua pelata dal tricologo Piero Rosati, già autore della nuova chioma del calciatore Antonio Conte. “Quando siamo arrivati – racconterà anni dopo Cherie Blair – siamo stati un po’ sorpresi nel vedere Silvio con questa ‘sciarpona’, quella bandana famosa. Sarebbe dovuta essere una visita privata. Ma eravamo in barca e lui ci ha detto: ‘Ora, prima di andare tra la gente, mi cambio’. Mio marito sperava che si togliesse la bandana. Invece se n’è messa un’altra più intonata al colore della camicia. Allora Tony mi ha detto: ‘Qualsiasi cosa succeda, stai tu nel mezzo, così non mi fotografano vicino a Silvio con la bandana. Sennò la stampa britannica ci uccide’”.
29 settembre. Quando compie 68 anni, dopo vent’anni di persecutoria calvizie, Berlusconi ha di nuovo i capelli.
13 ottobre. Il governo Berlusconi chiede e ottiene la fiducia al Senato sulla “delega ambientale” che estende il condono edilizio del 2003 alle zone protette. Come quella della Costa Smeralda su cui sorge villa La Certosa, residenza estiva del premier, al quale la Procura di Tempio Pausania contesta una serie impressionante di abusi edilizi e ambientali. Subito la società Idra Immobiliare, proprietaria delle ville del premier, presenta dieci diverse richieste di sanatoria e riesce a regolarizzare ex post tutti gli abusi per la modica cifra di 300 mila euro.
1° dicembre. Il Parlamento approva la controriforma dell’Ordinamento giudiziario firmata dal ministro Castelli per mettere il guinzaglio alla magistratura.
6 dicembre. Il presidente Ciampi rifiuta di promulgarla e la rimanda alle Camere con un messaggio di accompagnamento che spiega perché è “palesemente incostituzionale” in almeno quattro punti. È la terza volta in pochi mesi che l’ingegner ministro si vede respingere una legge dal Quirinale (era già capitato con quella su Eurojust, che istituiva un controllo del governo sulle nomine dei magistrati italiani nella Superprocura europea, bocciata dal capo dello Stato; e con quella sui Tribunali minorili, respinta addirittura dal Parlamento per i “no” di molti eletti dell’Udc).
10 dicembre. Il collegio giudicante presieduto da Castellano emette finalmente la sentenza di primo grado nel processo-stralcio Sme-Ariosto. Berlusconi è assolto con formula ampia per le presunte tangenti sull’affare Sme al giudice Filippo Verde e per due mazzette brevi manu di Previti a Squillante testimoniati da Stefania Ariosto. Altra assoluzione, ma per insufficienza di prove, per il bonifico Barilla-Pacifico-Squillante di 100 milioni di lire. Invece i giudici, come i colleghi del processo principale, ritengono provato il bonifico diretto di 434.404 dollari che nel marzo del 1991 partì da un conto Fininvest-All Iberian (alimentato con fondi del Cavaliere) e approdò sul conto Mercier di Previti, che subito lo girò sul conto Rowena di Squillante. Ma concedono al premier (per la sesta volta in pochi anni) le attenuanti generiche (negate agli altri imputati nell’altro processo), così da far scattare la prescrizione del reato. Prescrizione che, in appello, diventerà assoluzione.
11 dicembre. Il Tribunale di Palermo condanna Marcello Dell’Utri a 9 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa (condanna che sarà poi confermata in Cassazione con uno sconto di 2 anni).
29 dicembre. Approvata la legge finanziaria che, fra l’altro, abbassa le aliquote fiscali per i redditi dei più abbienti: secondo i calcoli dell’Espresso, farà risparmiare al contribuente Silvio Berlusconi 764.154 euro di imposte all’anno.
(15 – Continua)
Silvio ora cerca Renzi per un Nazareno bis: Letta fa il mediatore
Il problema di Silvio Berlusconi ora è il tempo. Non tanto in vista del fischio d’inizio del primo scrutinio per eleggere il prossimo presidente della Repubblica (data da cerchiare, il 24 gennaio). No, Berlusconi teme l’arrivo del Capodanno. Perché sarà entro allora che Matteo Salvini e Giorgia Meloni, in un vertice ristretto del centrodestra, gli chiederanno di tirare fuori i numeri. Un ultimatum: “O tiri fuori i voti o cambiamo strategia” sarà il senso del monito dei leader di Lega e Fratelli d’Italia. E allora Berlusconi, per mantenere il sostegno dei due alleati, ha bisogno di trovare più voti possibili subito. Quelli del Misto ed ex M5S non bastano più. Quindi è per questo che nelle ultime ore ha dato ordine alla sua eminenza grigia, Gianni Letta, di organizzare un incontro il prima possibile con Matteo Renzi. Come ai tempi del patto del Nazareno, poi rotto proprio sull’elezione di Sergio Mattarella al Colle nel 2015.
Berlusconi adesso vuole capire che intenzioni ha il leader di Italia Viva e fare un tentativo per convincerlo a sostenerlo. Impresa difficile ma da provare, sostiene il capo di Forza Italia, perché Renzi tra Camera e Senato può contare su un pacchetto di 43 voti. Anche se ne arrivassero la metà, sarebbe un bel passo avanti per l’elezione di Berlusconi al Colle a cui, a oggi, ne mancano una cinquantina sulla carta. Così Letta si è già attivato e ha sentito Renzi al telefono. Cosa si siano detti non è chiaro, ma da Arcore non si esclude che nei prossimi giorni, quando Berlusconi arriverà a Roma, potrebbe accogliere il senatore di Scandicci a villa Grande per un faccia a faccia.
Nel frattempo, Renzi si muove a tutto campo. Oggi ci sarà un’assemblea di Italia Viva, nella quale si parlerà del progetto del gruppo centrista con Coraggio Italia. Poi domani o massimo domenica incontrerà Giovanni Toti, per dare il via all’operazione. A quel punto i voti a disposizione diventerebbero una settantina. Anche se tra i parlamentari di Iv non tutti sono d’accordo con il progetto di federazione, a partire da Gennaro Migliore e Teresa Bellanova.
L’ex premier è però ben determinato a far pesare il più possibile il suo ruolo nell’elezione del presidente della Repubblica. I veri margini di manovra, però, esistono solo se la candidatura di Mario Draghi non dovesse andare in porto. A quel punto, Renzi potrebbe aspirare a fare da kingmaker di un presidente uscito da un piano B. Difficile sia davvero Berlusconi, nonostante le pressioni di Silvio. Più facile Pier Ferdinando Casini o Marcello Pera. O qualche nome dell’ultima ora. Allo stato però – nonostante i malumori dei leader di partito che si sentono espropriati della loro funzione – resta fortissima l’opzione Draghi. Alla quale Renzi sa di non potersi opporre. Non a caso mercoledì, durante il suo intervento al Senato, ha scandito: “Noi i patrioti non li evochiamo, li votiamo: patriota è stato Carlo Azeglio Ciampi, patriota è stato Giorgio Napolitano e patriota è stato Sergio Mattarella”.
Il modello Ciampi è quello più mostrato ad esempio per l’eventuale elezione di Draghi. Mentre Napolitano fu incoronato da un Parlamento del tutto incapace di scegliere dopo che i 101 avevano bruciato Romano Prodi. Segnali. Ai quali se n’è aggiunto un altro. “Mi auguro che il governo e il Parlamento nel 2022 lottino per un Segretario generale della Nato italiano”, ha detto lo stesso Renzi sempre a Palazzo Madama. È un’aspirazione che il leader di Iv non ha mai abbandonato. Anche se è piuttosto difficile – per non dire impossibile – che venga accontentato. Ma esibirla in maniera così esplicita è un modo per alzare il proprio prezzo, spiegano i fedelissimi. Quello di cui Renzi ha bisogno è un ruolo che lo tenga al riparo dalle inchieste. O almeno un seggio in Parlamento: obiettivo per ora non proprio alla sua portata. La soglia di sbarramento del Rosatellum nella quota proporzionale è al 3%. Mercoledì sera, Draghi, nella replica al Senato, lo ha citato più volte. Anche questo un modo, comunque, per legittimarlo.
Sisto già ci prova: se B. va al Colle, stop ai processi
“Se Berlusconi dovesse essere eletto al Quirinale i processi a suo carico si fermerebbero per riprendere, eventualmente, alla fine del mandato”. A sparare la bomba è Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia, per molti anni avvocato proprio dell’ex Cavaliere. Parole che pesano perché Sisto ora è sottosegretario alla Giustizia nel governo Draghi. L’ha detto a Un giorno da pecora, dove poi ha aggiunto che il leader di FI “ha tutti i titoli per aspirare alla carica di capo dello Stato” e che “i processi in corso non sono un ostacolo per la sua corsa al Colle”. Vero, poiché l’ex premier, scontati gli effetti della Severino che ha causato la sua decadenza da senatore nel novembre 2013, dal maggio 2018 è tornato eleggibile.
Ciò che sfugge, delle parole di Sisto, è però come sia possibile che i processi che Berlusconi ha in corso (quattro) si fermino se dovesse salire al Colle. L’unica norma sul tema è l’articolo 90 della Costituzione, secondo cui il Capo dello Stato “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Sisto invece parla come se esistesse il lodo Alfano. Il 23 luglio 2008 l’allora ministro della Giustizia del Berlusconi-3, Angelino Alfano, presentò una legge secondo cui i processi penali nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato venivano sospesi per la durata del mandato, anche quelli per fatti precedenti. La norma, però, dopo le polemiche, nel 2009 fu bocciata dalla Consulta. Ma le parole di Sisto non sono peregrine. “La Costituzione dà dei principi generali la cui applicazione può essere però oggetto di dibattito, come lo è il fatto di preservare in qualche modo l’operato e l’autonomia del capo dello Stato”, spiega Tommaso Giupponi, costituzionalista dell’Università di Bologna.
Che ricorda due precedenti: l’archiviazione della Procura di Roma per il presidente Oscar Luigi Scalfaro per l’inchiesta sui fondi neri del Sisde e la volontà di preservare la figura di Giorgio Napolitano sulle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino sulla trattativa Stato-mafia. Insomma, un cuscinetto tra B. e i suoi processi, secondo i costituzionalisti, è possibile. O comunque sarebbe oggetto di dibattito. La candidatura di B. continua a tenere banco. “Un presidente patriota (come chiede Meloni, ndr)? In Italia ce ne sono 60 milioni…”, dice Matteo Salvini. “Un patriota lo conosco e si chiama Berlusconi”, risponde Antonio Tajani. Meloni svicola: “Berlusconi in campo? Sì, ma ne parliamo a gennaio…”.
Tax ruling, corte Ue chiede di annullare decisione su Fca
Annullare la decisione con cui la Commissione Ue nel 2015 chiese al Lussemburgo di recuperare da Fiat Chrysler Finance Europe l’aiuto ritenuto illegittimo e incompatibile con il mercato unico ottenuto attraverso il meccanismo di tax ruling: questa la richiesta – non vincolante – avanzata dall’avvocato generale della Corte di giustizia Ue Pritt Pikamae sul ricorso presentato a questo proposito dall’Irlanda. L’avvocato ha anche chiesto l’annullamento della sentenza con cui nel 2019 il Tribunale Ue respinse analoga richiesta presentata dal Lussemburgo e dalla stessa Fiat. Secondo l’avvocato generale, la sentenza del Tribunale oggetto dell’impugnazione viola le disposizioni del Trattato. Nel 2015 la Commissione Ue stabilì che gli accordi fiscali del Lussemburgo con Fiat Finance and Trade e dell’Olanda con Starbucks erano da considerare “illegali”. Entrambe le società, secondo la commissaria alla Concorrenza, Marghrete Vestager, avevano usufruito di “vantaggi fiscale indebiti almeno 20-30 milioni” e considerati aiuti in contrasto con le norme sul mercato.
Sulla stampa scompaiono, c’è solo la velina del Tesoro
Chi si informa sulla grande stampa, passando ieri mattina da piazza del Popolo a Roma, sarà rimasto incredulo nel vederla invasa da bandiere rosse e blu di Cgil e Uil. Nessuno dei principali quotidiani ha dedicato più di un timido trafiletto – senza richiami in prima pagina – allo sciopero generale. Sulla protesta di Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, per giorni delegittimata e definita “irresponsabile”, è definitivamente caduto il silenzio. Repubblica, per dire, ha ritenuto più accattivante raccontare nella cronaca di Roma l’apertura della pizzeria di Flavio Briatore; Corriere e Messaggero si sono dedicati all’uscita del film su Sergio Marchionne. Ma quasi tutti i giornali si sono prodigati nel dare gran risalto a una serie di tabelline ricevute prêt-à-porter dal ministero dell’Economia: un elenco di simulazioni che dimostrerebbero – secondo chi le ha diffuse e chi le ha riportate – che la riforma Irpef avvantaggerebbe i ceti più poveri. Basta guardarle per notare l’esatto contrario: i benefici fiscali maggiori andranno ai più benestanti, anche considerando il minestrone di misure eterogenee che i tecnici del Tesoro hanno volutamente considerato.
Andiamo con ordine. La revisione dell’Irpef, da 5 a 4 aliquote, porta ai contribuenti sopra i 35 mila euro di reddito un risparmio di meno del 15% del totale. Chi guadagna poco, pagando già un’Irpef scarsa, otterrà molto meno. Il primo sforzo dei grafici ministeriali consiste nell’aggiungere, agli irrisori vantaggi dovuti al taglio Irpef, gli sgravi contributivi e persino gli effetti del nuovo assegno per le famiglie con figli. Un arbitrio che crea confusione: mentre la riduzione Irpef sarà permanente, la decontribuzione varrà solo per il 2022. Quella voce andrebbe tolta per offrire il quadro strutturale. Sull’assegno unico, inoltre, non è chiaro come si possa stimare la sua entità con il reddito se questa – a differenza di imposte e contributi – dipende dall’Isee. Nonostante il mix poco credibile, resta ancora evidente il favore ai più ricchi: una famiglia con due figli e 60 mila euro di guadagni lordi intascherebbe 2.401 euro, il 4% del suo reddito; una che dichiara 20 mila euro invece si fermerebbe a 450 euro (il 2,3%). E pur cumulando gli effetti degli 80 euro di Matteo Renzi, diventati 100 con il governo Conte 2, in totale i benefici per un lavoratore con reddito vicino alla soglia di povertà supera di poche decine di euro al mese quello di chi dichiara 50 mila euro l’anno. Un’infima differenza dovuta alla sproporzione creata dall’attuale manovra, tutta a favore dei redditi medio-alti.