Libération: “Laura Pignataro si suicidò per il Selmayrgate”

A riaprire il caso di Laura Pignataro, la funzionaria italiana della Commissione europea suicidatasi a dicembre scorso a Bruxelles, è stato ieri un articolo del quotidiano francese Libération dal titolo: “Selmayrgate: conflitto d’interessi, bugie… e suicidio”. Il corrispondente in Belgio, Jean Quatremer scrive che l’alta funzionaria della Commissione “si trovò costretta a difendere la nomina macchiata di irregolarità di Martin Selmayr, l’ex capo di gabinetto di Jean-Claude Juncker, come segretario generale dell’istituzione”. E subito dopo nell’articolo si domanda: “Quali sono i motivi per cui questa italiana di 50 anni si è tolta la vita? Nessuno lo saprà mai con certezza, visto che non ha lasciato nessun messaggio. Fine della storia? Non del tutto, perché Laura Pignataro, secondo Quatremer era qualcuno che contava nella ‘bolla’ di Bruxelles”. “Accuse inaccettabili che non hanno niente a che vedere con la triste storia della nostra brillante collega” la cui morte è stata “uno shock per tutti noi”, ha risposto la portavoce della Commissione Ue, Margaritis Schinas. “La polizia belga ha chiuso rapidamente le indagini concludendo che si è trattato di un suicidio in un contesto privato”, ha spiegato il portavoce.

“Signori di Kiev, non rompete le palle. Lasciatemi cantare”

Si è svegliato alle quattro del pomeriggio, dopo una notte insonne a caccia di ispirazione. Intanto tutto il mondo lo stava cercando, perché era finito dentro una trama niente male. Toto, dalla Russia con amore.

Confessi, Cutugno. È una spia al soldo di Putin?

Che notizia di merda!

Alcuni deputati ucraini hanno chiesto al capo dei servizi di sicurezza di Kiev, Gritsak, di inserirla nella lista nera degli agenti segreti di Mosca, nientemeno.

Hanno fatto due più due. Prima hanno tirato il siluro ad Al Bano, adesso a me. Sono sorpreso. E incazzato. Siamo tra i pochi artisti italiani ad avere successo nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, ed ecco la trovata. Adesso mi devo anche preoccupare che qualche pazzo abbia un atteggiamento ostile nei miei confronti: non sono uno che ha paura. Ma con me viaggiano 14 persone che hanno famiglia.

A questo punto dovranno tremare anche i Ricchi e Poveri e Pupo.

Siamo caduti nel ridicolo. Sabato 23 marzo devo essere in concerto a Kiev, in un teatro da quattromila posti tutto esaurito da un mese. Con un’orchestra sinfonica da 60 elementi. E se poi sono nella lista nera cosa succede? Non mi fanno entrare? Il mio manager Danilo Mancuso è attaccato al telefono con il nostro ambasciatore laggiù.

Ci sono alcuni giorni per ricomporre. Magari la convocherà l’ambasciatore ucraino a Roma, Perelygin, che ha già manifestato la volontà di incontrare Al Bano.

E ci andrei, per comunicargli la mia delusione. Non c’è nulla da chiarire, no? Gli farei notare che amo il suo Paese in modo incondizionato. La ragazza che lavora in casa con me, Olena, è ucraina.

Sì, ma…

E ricorderei all’ambasciatore Perelygin che sei anni fa, proprio a Kiev, sono stato nominato ‘Italiano dell’anno’. Per meriti artistici, non certo per le mie immaginarie attività a favore del Kgb.

Cosa può avere indotto gli ucraini a sospettare di lei? Forse quel video in cui faceva gli auguri a Putin per il sessantacinquesimo compleanno? Lo stesso video in cui Pupo si rivolge a Vladimir in russo e Al Bano gli canta happy birthday?

Gli auguri li faccio ogni anno a tutti i presidenti dei Paesi dell’ex Unione Sovietica, in segno di cortesia. Sono uomini, prima che politici. C’è quello del Kazakistan, Nazarbaev, che è nato il mio stesso giorno, o il giorno prima.

Dunque Cutugno non è amico di Putin.

Il signor Putin l’ho visto una volta sola in vita mia, al termine di un concerto al Cremlino. Venne a stringere la mano a noi artisti.

Forse gli ucraini si saranno indispettiti per quella sua esibizione a Sanremo 2013? Cutugno circondato dal coro dell’Armata Rossa?

Figuriamoci! Quella fu una serata che restò nella storia del Festival. E purtroppo molti di quei soldati morirono nell’incidente aereo sul Mar Nero di Natale 2016. Pensi che dovevo esserci anch’io, insieme a loro. Avevo cambiato i piani di viaggio, altrimenti addio Toto.

Non ha mai rilasciato dichiarazioni tipo quelle encomiastiche di Al Bano: Putin è un grande, ha salvato la Russia?

Sono apolitico, mi sono sempre guardato bene dall’esprimere pubblicamente le mie opinioni. Sottolineo però che per fare show in Ucraina ho rinunciato a molte serate in Crimea, dopo l’annessione da Mosca. Voglio anche ricordare che, oltre a Gigliola Cinquetti, sono stato l’unico italiano a vincere l’Eurofestival, prima ancora della caduta del Muro, con una canzone di pace e di unione come Insieme 1992. Io amo l’Europa, mi rattristano le sue divisioni. Se remassimo tutti nella stessa direzione daremmo filo da torcere agli americani e ai cinesi.

A proposito: lei si è messo a cantare pure in cinese, ora non indispettisca Pechino.

Con tutta la fatica che ho fatto a esprimermi in quella lingua….

Quante copie ha venduto ‘L’Italiano’ nel mondo?

Cento milioni o giù di lì.

L’avranno messa sotto osservazione per quel verso su Pertini? Un partigiano come presidente?

Ahahah. In questo intrigo internazionale posso aspettarmi di tutto, ormai. Spero che la smettano di rompere le palle. Lasciatemi cantare, signori di Kiev.

Valle de los caidos, il 10 giugno i socialisti esumano il dittatore

Le spoglie del dittatore spagnolo Francisco Franco (in foto) saranno esumate dalla “tomba di Stato” della Valle de los caidos alla periferia di Madrid, il 10 giugno e verranno sepolte accanto a quelle di sua moglie nella residenza di El Pardo. Sarà forse l’ultimo atto del governo socialista di Pedro Sánchez, che allora sarà ancora in carica per gli affari correnti, dopo le elezioni politiche del 28 aprile. Ultima dal punto di vista temporale, prima dal punto di vista politico, l’esumazione di Franco dal luogo costruito dai prigionieri politici della Guerra civile è stata una delle più importanti promesse del Partito socialista operaio spagnolo non appena arrivato al palazzo della Mancloa dopo la sfiducia all’esecutivo dei popolari di Mariano Rajoy il 2 giugno 2018. Atto contro il quale si è schierata fin da subito la famiglia Franco, che però legalmente non ha titolo per fermare l’esumazione del dittatore morto nel 1975. Niente hanno potuto neanche l’opposizione di due giudici e quella del priore della chiesa della Valle los caidos. L’unico avvenimento che potrebbe fermare l’esumazione sarebbe la vittoria di un governo di destra alle prossime elezioni, ma solo se si insediasse in tempi record.

“Sì, è emergenza nazionale”: Trump pone il suo primo veto

Donald Trump ha posto, per la prima volta dall’inizio della sua presidenza, il veto al provvedimento con cui il Congresso ha bocciato la dichiarazione d’emergenza nazionale per la crisi al confine meridionale. Una mossa che ha definito “pericolosa e sconsiderata”. Il Senato ha approvato una mozione già passata alla Camera per bloccare la dichiarazione di emergenza con cui il presidente intende stanziare 5,7 miliardi per costruire il muro al confine con il Messico. Sono stati 59 i senatori favorevoli alla mozione, 41 i contrari. Questo significa che 12 repubblicani hanno votato con i democratici.

Per annullare il nuovo atto presidenziale alla Camera e al Senato servirebbe una maggioranza qualificata di due terzi, ma una tale quota al momento non appare raggiungibile. “Oggi sto mettendo il veto a questa risoluzione”, ha detto Trump alla Casa Bianca. “Il Congresso ha la libertà di approvare questa risoluzione e ho il dovere di vietarlo”, ha aggiunto il presidente, osservando che i membri repubblicani della Camera hanno votato “in modo schiacciante” contro la risoluzione sponsorizzata dai democratici.

“Nasrin libera”: Iran, l’Ue contro la detenzione dell’avvocata

Sono già molte le personalità femminili che hanno aderito all’appello lanciato da Nessuno tocchi Caino e dalla sua presidente Elisabetta Zamparutti per chiedere a governi e parlamenti dei paesi membri dell’Unione europea di fare pressioni sulle autorità iraniane affinché liberino l’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate. All’iniziativa hanno risposto numerose parlamentari e senatrici italiane di vari schieramenti, da Rita Bernardini, Cinzia Bonfrisco, Deborah Serracchiani e Deborah Bergamini, oltre a noti nomi del giornalismo e della cultura come Bianca Berlinguer e la regista Liliana Cavani. Più persone aderiranno, più sarà possibile che l’esecutivo e l’aula decidano di intraprendere azioni presso le autorità iraniane contro questa sentenza definita “vergognosa e ingiusta” dalle organizzazioni umanitarie. Nell’appello si legge: “Riteniamo inaccettabile la condanna per fatti essenzialmente legati alla sua attività di avvocato di detenuti politici e difensore dei diritti umani, per le quali nel 2012 il Parlamento europeo l’ha insignita del Premio Sakharov per la libertà di pensiero”. L’avvocata, in carcere dallo scorso giugno, aveva già scontato tre anni di prigione dal 2011 al 2014. Il regime misogino degli ayatollah questa volta ha attinto a tutto il proprio arsenale di accuse prefabbricate per terrorizzare le iraniane con la condanna di Sotoudeh per cospirazione contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo Stato, istigazione alla corruzione ed essere apparsa in pubblico senza chador. “Il regime è in estrema difficoltà dal 2017 sono cominciate le manifestazioni di piazza per i problemi economici conseguenti alla politica corrotta degli ayatollah. Con la condanna gli ayatollah vogliono terrorizzare le donne iraniane e tenerle nell’oppressione”, ha commentato il rappresentante in Italia del Consiglio della Resistenza iraniana, Esmail Mihades.

I simboli: crociata per la cristianità

 

Kosovo Polje
Il Campo dei Merli dove, nel 1389, i serbi vengono sconfitti dall’esercito ottomano che estendono il loro impero a tutti i Balcani che durerà fino all’800. Per i serbi quella battaglia perduta è il fondamento della nazione, e per questo si oppongono all’indipendenza
del Kosovo

 

Lepanto
La battaglia navale nell’arcipelago delel Cicladi, nello Ionio, avvenuta nel 1571 tra l’ampia e variegata coalizione dei cristiani e la flotta di Costantinopoli per la supremazia del mare. Terminò con la sconfitta degli ottomani che però, poco più di un secolo dopo, 1683, arrivarono fino alle porte di Vienna, mettendola sotto assedio fino a venir respinti

 

Ebba Akerlund
Travolte e uccisa a 12 anni il 7 aprile 2017 a Stoccolma mentre tornava a casa da scuola, dal camion guidato dal 39enne uzbeco Rakhmat Akilov, la cui domanda di asilo politico era stata da poco rifiutata: voleva vendicare i bombardamenti alleati contro l’Isis. L’attacco con il tir-killer nel centro-città uccise 5 persone e ne ferì oltre 15. L’attentatore è stato condannato all’ergastolo. Il padre Stefan ha denunciato che la tomba della figlia è stata vandalizzata più di 30 volte in 6 mesi da un immigrato illegale, che è stato sempre rilasciato dalle forze dell’ordine svedese

La sindrome di Brenton. Manifesto anti-stranieri e la “sostituzione finale”

Il manifesto ideologico di Brenton Tarrant, postato online dal terrorista poco prima di compiere la strage e composto in due anni di lavorio, contiene una fitta serie di rimandi e riferimenti cari all’estrema destra, al suprematismo bianco e del neonazismo

 

La tesi del “genocidio bianco”

Già il titolo The Great replacement si riferisce alla teoria complottista a cavallo tra il XX e il XXI secolo riguardo alla sostituzione delle popolazioni occidentali, bianche e di tradizione cristiana con etnie diverse, africane o asiatiche. Il testo si apre con una citazione del poeta gallese Dylan Thomas (“non essere tenero in questa notte / infuria la rabbia contro il morire della luce”) e descrive una situazione in cui i Paesi occidentali, inclusi Nuova Zelanda e Australia, s’indeboliscono a causa delle poche nascite. Il “genocidio” dei bianchi sarebbe provocato da politiche che promuovono da un lato l’immigrazione di massa verso l’Occidente e la loro integrazione, dall’altro la denatalità della stessa etnia “caucasica” (attraverso contraccezione e aborto) con lo scopo di causarne l’estinzione.

A queste idee – espresse per la prima volta in un opuscolo nazista del 1934, riprese esplicitamente a partire dagli anni ’90 in ambienti neonazisti americani e diffuse anche attraverso il web da settori dell’alt-right Usa in era Trump – si richiamava anche Anders Breivik, autore nel 2011 della strage di Utoya in Norvegia, in cui sono ha ucciso 77 persone. non a caso è lui una delle figure di riferimento per Tarrant.

 

Eroi e pietre miliari

Sul frontespizio del manifesto figura il Sole Nero, immagine runica (ovvero germanica antica) riportato alla luce in epoca nazista. La Sonnenrad, usata come simbolo del Battaglione Azov ucraino e diffuso tra i gruppi di estrema destra australiani e neozelandesi, figurava anche nel raduno suprematista di Charlottesville, in Virginia, del 2017.

Inciso sulle armi un altro rimando neonazi. Si tratta del numero 14, riferito allo slogan di 14 parole “dobbiamo assicurare l’esistenza della nostra gente e un futuro per i bambini bianchi”.

Tra le icone della “rinascita bianca” si parte da Carlo Martello – che fermò l’espansione islamica a Poitiers nel 732, il doge veneziano Sebastiano Venier, che nel 1571 ha guidato la Serenissima nella vittoria di Lepanto contro i turchi. Altro episodio storico ricordato è quello della Battaglia della Piana dei Merli (o Kosovo Polje), che vide scontrarsi l’esercito serbo e quello ottomano nel 1389.

Tra i contemporanei, si va da Alexandre Bisonnette, responsabile dell’uccisione di sei uomini in una moschea di Quebec City nel 2017, a Dylan Roof, suprematista bianco autore nel 2015 della strage di fedeli a Charleston (Carolina del Sud), fino a Luca Traini, che nel febbraio 2018 sparò dalla sua auto ferendo 6 immigrati.

Nei tweet si fa anche riferimento al Global Compact sull’immigrazione e ai casi di pedofilia a Rotheram, cittadina inglese in cui molti reati sono stati perpetrati da persone di origine pachistana. È nelle pagine del manifesto, invece, che il killer motiva come la strage sarebbe una vendetta per Ebba Akerlund, la bambina di 12 anni uccisa a Stoccolma nel 2017 per un attentato di matrice islamista.

 

Dai Balcani senza amore

Alcuni dei nomi incisi sulle armi sono in caratteri cirillici: il bosniaco Bajo Pivljanin e montenegrino Marko Miljanov Popovic condottieri contro gli ottomani rispettivamente a metà ‘600 e a fine ‘800. Novak Vujosevic, che ha combattuto nella battaglia di Fundina del 1876 in Montenegro, sempre contro l’impero ottomano. Josif Vladimirovic Gurko, generale russo che ottenne la vittoria finale della guerra tra Russia e Turchia sul passo di Shipka, nei Balcani, nel 1878. Feliks Kazimierz Potocki fu un nobile polacco che partecipò alla battaglia di Vienna del 1683 – in cui venne respinto l’assedio turco.

E poi ancora Giovanni I, re d’Ungheria nel XVI secolo; Costantino II, imperatore di Bulgaria nel XV; Sigismondo di Lussemburgo, imperatore del Sacro Romano Impero nel XV secolo; il nobile francese Gastone IV di Bearn, condottiero nella prima crociata; la città di Acri, in Galilea, riconquistata dai cristiani durante la terza crociata, nel 1189.

L’inno serbo e la marcetta britannica

L’iscrizione “Remove Kebab”, anch’essa visibile dalle foto su Twitter, è la ripresa di un meme di internet che cita una canzone nazionalista serba anti-musulmana risalente alla guerra di Bosnia. Nel video Tarrant ascolta le note di “Serbia Strong”, che inneggia a Radovan Karadzic. Già presidente della Repubblica serba di Bosnia tra il 1992 e il 1996, Karadzic è stato condannato nel 2016 a 40 anni di reclusione per il massacro di Srebrenica, genocidio e pulizia etnica contro i musulmani di Bosnia.

Infine la canzone di sottofondo all’inizio del massacro è la Marcia dei Granatieri del Regno Unito, composta nel 1700.

La bolla della pace australe squarciata dal “bianco ordinario”

È la strage di “un normale uomo bianco” in un Paese che si illudeva di vivere in una sua particolare bolla di pace e benessere. Brenton Tarrant, il suprematista bianco con passaporto australiano che ha pianificato, organizzato e diretto la carneficina di Cristchurch, 350mila abitanti nelle isole del Sud della Nuova Zelanda, ha lanciato un secchio di acqua gelata in faccia ai neozelandesi. Il messaggio è chiaro: in nessun posto del mondo potete sentirvi al sicuro, colpiremo ovunque per fermare immigrati e musulmani. Nessuna pace, neppure sulle sponde del fiume Auron, dove le giornate scorrono serene tra gite in barca e pic nic sull’erba. Risultato 49 morti innocenti e disarmati, tutti fedeli musulmani che celebravano il loro venerdì di preghiera, due moschee colpite, “un disastro, un giorno nero per la Nuova Zelanda”, come dice Noor Hamzah, 54 anni, uno dei sopravvissuti alla sparatoria nella moschea di Masid Al Noor al centro della città. Noor viene dalla Malesia e vive nel Paese Oceanico dal 1980, la sua è una storia di integrazione nella società neozelandese, come quella di altre migliaia di stranieri.

I musulmani sono l’1% della popolazione in Nuova Zelanda, ma Tarrant voleva colpire proprio uno dei pilastri della società kiwi che punta sull’integrazione e sul rispetto delle libertà religiose. L’attentatore lo ha annunciato nel suo delirante manifesto, “The great replacement”, La grande sostituzione, diffuso sui social network e sui siti pochi minuti prima della strage. Tarrant ha anche filmato tutti i momenti della sparatoria: si inquadra con la telecamera mentre a bordo del suo van si dirige verso la moschea, soffermandosi sulle armi (fucili automatici, taniche di benzina ed esplosivi) che aveva con sé.

Tarrant ha voluto una strage e l’ha fatta, quasi indisturbato, in un Paese che si è scoperto fragile e indifeso. Per risalire a una strage simile bisogna andare con la memoria al 1943, quando 48 prigionieri giapponesi detenuti nel campo di Featherson furono uccisi dopo una rivolta, oppure, per riferirsi a tempi più recenti, al massacro di Aramoina, dove David Gray uccise 13 persone.

Un dato che ha già aperto un dibattito in Nuova Zelanda, soprattutto dopo le dichiarazioni del primo ministro Jacinda Arden, sul fatto che Tarrant e i suoi complici non fossero monitorati dai servizi di sicurezza. “Gli attentatori – ha detto ai giornalisti – non erano in nessuna lista di controllo”. Perché? “Non hanno agito in modo tale da giustificare una decisione del genere”. Parole che fanno indignare gli osservatori. Adesso il governo sostiene che le regole di sicurezza cambieranno, così come quello sull’acquisto delle armi.

Per David Fisher, scrittore e analista dei problemi della sicurezza, “l’attentatore non è un lupo solitario, questo assassinio è diverso, ci sono segni che indicano l’esistenza di un nucleo marcio nella nostra società, che poteva essere identificato in precedenza”. Anche Paul Bachanan, esperto di sicurezza e terrorismo, si sofferma sul ruolo delle agenzie di sicurezza. “Dall’11 settembre l’attenzione è stata concentrata sull’estremismo islamico, non sull’estremismo di destra e suprematista”. Eppure c’erano mille segnali, sul web da febbraio è iniziata una forte campagna anti-immigrazione ad opera di gruppi di destra. “I servizi segreti interni e quelli esteri – dice Barry Soper, editor politico di Newstalk ZB – non avevano idea di ciò che si stava scatenando. C’è una terribile ironia: l’intelligence per anni ha monitorato gli estremisti musulmani e i loro simpatizzanti, non quelli che hanno un odio fanatico per l’islam e per gli immigrati. La realtà è che dopo la strage la Nuova Zelanda ha perso l’ innocenza. Non siamo sotto choc, ma in stato di profondo dolore”.

Brenton Tarrant, che si definisce “ecofascista”, apprezzava Trump e la sua politica, i nazisti e la Cina, “Paese con i valori politici e sociali più vicini ai miei”. I cinesi in Nuova Zelanda sono circa 200mila, il 4% della popolazione, insediati nelle grandi città, Auckland e Wellington. La Cina è uno dei partner commerciali più forti per il Paese oceanico, grazie ad un accordo di libero scambio siglato nel 2008. Il reddito medio dei cinesi residenti in Nuova Zelanda è spesso superiore a quello dei kiwi di origine europea. Sicurezza, pace, integrazione e convivenza, sono alla base del successo di scambi e nuove rotte commerciali. “Siamo una orgogliosa nazione con più di200 etnie e 160 lingue – ha detto il primo ministro – e tra le diversità condividiamo valori comuni”. Un modello che la strage di “un normale uomo bianco” sembra aver messo fortemente in discussione.

Massacro 2.0: 49 uccisi nel videogame razzista

Il giorno del pregiudizio è stato realizzato quando l’Occidente, posto quasi tutto nel nord del mondo, era assopito. Ma è per l’Occidente bianco cristiano che i “Crociati down under”, giù in fondo a destra del mappamondo, hanno fatto, e rivendicato, strage di musulmani. Come in un videgame “sparatutto” (il primo successo mondiale fu Doom, destino, nel 1993) Brenton Tarrant ha infranto l’ormai sottilissima barriera tra virtuale e reale sparando e rimandando in diretta streaming (su Facebook) le immagini in soggettiva del tiro a segno – durato 3 minuti – dei fedeli “invasori” della moschea al Noor ad Hagley Park. Nel video, poi rimosso, si vedono i lampi dei colpi, i corpi cadere, ma non se ne vede l’agonia finale, perché il videomaker-killer ha già cambiato obiettivo. Come mettendo il gioco in pausa, il 28enne australiano torna nell’auto, depone un fucile, ne prende un altro, e guida verso il target successivo, a Linwood, la seconda moschea. Le armi (fucili mitragliatori come quelle in dotazione alle truppe d’assalto, ma acquistabili su Internet) sono tutte scritte con i nomi e gli episodi significativi, secondo la visione del suprematista bianco australe, del millenario scontro sostenuto dall’Occidente contro l’orda islamica.

Nella “cassa di risonanza tossica” (come scritto sul sito dell’Abc australiana) dei social-web Tarrant e i suoi accoliti hanno trovato nutrimento e giustificazione per le loro idee e il progetto doomsday (giorno del giudizio) che dovrebbe nelle intenzioni “svegliare le coscienze bianche”. E vendicare le vittime cadute nella battaglia per la “sostituzione” dei bianchi che sarebbe poi per Brenton&C. il Jihad islamista che si compie attraverso l’immigrazione. Le regole d’ingresso nei paesi dell’Oceania sono assai rigide: dopo la strage “uno dei giorni più bui della nostra storia” dice la premier laburista Jacinda Arden tutti in Nuova Zelanda, e in Occidente parlano di solidarietà e integrazione. Ma le armi imbracciate dal giovane vendicatore bianco (fermato e incarcerato) rivelano che il razzismo è ampiamente sdoganato nel mondo virtuale dei social e si sta trasferendo sulla punta del mirino, pronto a far fuoco.

Fedriga, la guerra della varicella

Vedi, alle volte, i pregiudizi. Il governatore leghista del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, ha avuto la sventura di contrarre la varicella e di finire in ospedale a Udine, perché a 38 anni è meglio essere cauti. E tanti su Twitter hanno ironizzato, rimproverandogli le sue copiose dichiarazioni contro l’obbligo dei vaccini. Così Fedriga si è molto risentito: “Sto leggendo una serie di commenti di fenomeni festeggianti perché sono stato ricoverato, affermando che sarei un no vax. Questi invasati che seguono Burioni (l’immunologo, ndr) non hanno letto le mie interviste dove dico che sono a favore dei vaccini e che è necessaria un’alleanza con le famiglie, non l’imposizione”. E per carità, il leghista ha ragione nell’esigere rispetto. Però chissà se in ospedale avrà riflettuto su tante sue dichiarazioni del passato, come quella del 18 gennaio 2018 in cui rivendicò come la Lega non avesse posizioni “staliniste e dittatoriali” sulle vaccinazioni. La certezza è che ieri ha parlato anche Burioni, rivolgendosi proprio a Fedriga: “Qualcuno se la prende con troppa violenza contro chi mette in pericolo senza motivo e in nome dell’ignoranza e dell’egoismo la vita degli altri rifiutando i vaccini. Però non si può mettere sullo stesso piano chi eccede nel gridare contro chi guida ubriaco e chi grida guidando ubriaco. In bocca al lupo”.