Ambiente, tra utopia e bambinocrazia

Siccome ci sarà sicuramente chi per malafede o congenita citrullaggine tenterà di farci passare per negazionisti climatici e adolescenticidi, diciamo subito che è bella, bellissima la favola “virale” di Greta Thunberg, la 16enne svedese che smuove le coscienze del mondo col suo combattivo impegno ecologista. E però crediamo che questa stessa favola stia sfuggendo di mano a chi la maneggia e avvitandosi in una specie di follia collettiva.

“La 16enne che striglia i grandi del mondo”, titolano giornali e Tv enfiando la piccola persona di Greta a misura del personaggio di una sceneggiatura distopica, combaciante coi desiderata del cittadino mediamente progressista che delega la lotta per i suoi ideali, che è troppo pigro per avanzare, a una figura vicaria. Intervistata a ritmo continuo da giornali e Tv, ospite all’Onu e al forum di Davos, dove striglia i pezzi grossi delle élite, peraltro felicissimi di farsi strigliare, con frasi ultimative (“Voglio che andiate nel panico, dovreste agire come se la vostra casa fosse in fiamme”), candidata al Nobel per la Pace (assegnato a gente come Martin Luther King e Nelson Mandela), issata sui cartelli dello sciopero semiglobale di ieri come un’icona votiva, venerata come il piccolo Buddha dai governanti europei scopertisi improvvisamente un animo verde, di Greta si apprendono croccanti dettagli biografici: che è vegana, che non prende l’aereo “per alleggerire la sua impronta ecologica”, che a Davos ha dormito non in albergo ma in una tenda montata vicino al sanatorio de La montagna incantata, e così via.

Dal mito, al rito: Zingaretti le ha dedicato la vittoria alle primarie (un’afasia selettiva impedì al neosegretario di manifestare la sua ecosensibilità quando l’allora leader del suo partito, il capomastro dello Sblocca Italia, invitava a non votare al referendum sulle trivelle), e ci sono già ovviamente una Greta italiana, Alice, della quale si riportano gli aforismi come fossero perle del Dalai Lama, e una Greta inglese, Emily, che durante il consiglio della sua cittadina ha detto: “Ho sei anni (!, ndr), date anche a me l’opportunità di cambiare il mondo”.

Sembra Il villaggio dei dannati, col mondo in preda al delirio bambinocratico, col particolare che questi bambini sono stati educati da adulti e hanno studiato su libri scritti da adulti (o Greta è forse un angelo a cui la scienza è stata infusa dal Padreterno, la reincarnazione di Marie Curie, un robot fabbricato nei sotterranei del Cern?). Perché la protesta di una ragazza naturalmente inesperta ha così tanta eco, a differenza delle lotte di chi da anni si batte con studio e competenza contro il riscaldamento globale, da Greenpeace a Al Gore, allo scienziato Joahn Rockstrom, al fondatore di 350.org Bill McKibben, a Leonardo Di Caprio?

Un’ipotesi: gli scienziati, per la bislacca alchimia anti-umanista che pervade il mondo, sono visti come idealisti un po’ pazzoidi ignari delle leggi irreversibili del mercato; e le star di Hollywood sono considerate alla stregua di figurine romantiche funzionali al racconto che è bello sognare, ma il mondo lo fanno funzionare i realisti con la loro cassetta degli attrezzi fatta di compromessi tra sviluppo e ecologia, lavoro e salute, fantasie puerili e esigenze dei grandi.

Greta è un repertorio di “tipi” perfetti per incastrarsi in questa enorme macchina che sperpera belle parole mentre consuma le risorse del pianeta a favore dell’imperio capitalista. È un fenomeno disegnato secondo i parametri di ciò che piace al cittadino europeo mediamente istruito, anglofono, cosmopolita e innamorato della generazione Erasmus (almeno finché non c’è da pagarla con salari dignitosi: allora i giovani tornano a essere choosy, viziati, bamboccioni).

Il dibattito serio sul clima lascia il posto al bombardamento mediatico e puramente emotivo su una ragazzina che capeggia milioni di altri ragazzini e detta l’agenda a politici, industriali, capi di Stato; la discussione sulle misure reali di riduzione delle emissioni di gas serra e sull’applicazione del protocollo di Kyoto è subissata dalla potenza dello storytelling. Il bambino che dice che il re è nudo ha una sua potenza poetica e rivoluzionaria; ma questo dovrebbe indurre a una superiore serietà. I giornali dovrebbero interrogare gli scienziati e non i bambini, i governi chiamare a raccolta le migliori menti del pianeta, gli adulti studiare di più e non soccombere scioccamente a un mito che si autoconsumerà a danno proprio di questi bambini idolatrati, cristallizzati nel fanatismo e perciò tre volte depredati. Oppure ci si accontenterà di una carnevalata assolutoria pompata dai media in crisi di ispirazione, una cerimonia di temporanea inversione dei ruoli che fa gioco ai potenti per continuare a inquinare, razziare e sfruttare cercando di volta in volta un alibi e una catarsi nella lacrima pop di un mea culpa fasullo.

Quota 100, Inps: “Da aprile pensione anche senza verifica”

Si punta a chiudere oggi la discussione in commissione alla Camera sul Decretone con le misure su reddito di cittadinanza e Quota 100: ok alle proposte contro i falsi genitori single e il mini incentivo per i disabili mentre si attende l’approvazione dell’ aumento di forze di controllo sia nei Carabinieri che nella Guardia di Finanza per incrementare gli ispettori. Questi i numeri: 100 finanzieri aggiuntivi e di 65 carabinieri. Prevista poi la sospensione del beneficio non solo per condanne definitive, ma anche in caso si sia indagati o imputati, e anche se si hanno immobili all’estero del valore superiore a 30mila euro. Intanto, in un messaggio inviato l’11 marzo dal direttore generale dell’Inps, Gabriella Di Michele, alle direzioni regionali e alla strutture territoriali, si legge di “procedere alla liquidazione provvisoria delle domande di pensione quota 100 a partire dal 1° aprile senza verificare l’avvenuta cessazione di attività dei lavoratori dipendenti”. Una misura straordinaria prevista solo per quelle pensioni che hanno decorrenza proprio il primo aprile “in mancanza di un dato certificato dal datore di lavoro attraverso le comunicazioni obbligatorie Unilav”. Le verifiche arriveranno dopo.

F35, la Difesa: “Dossier in mano a Conte, Salvini rispetti i ruoli”

“Il dossier è in mano al presidente Conte e si affronterà con la massima responsabilità”: mentre continuano le polemiche a distanza sulla questione F35, a intervenire ieri è stato il ministero della Difesa. Fonti interna infatti, hanno replicato al ministro dell’Interno che anche ieri aveva ribadito che “l’Italia non può restare indietro”, precisando che “altrimenti li comprano i francesi e i tedeschi”. “Preferiamo non commentare – è la dichiarazione arrivata da ambienti vicini alla ministra Elisabetta Trenta – ma chiediamo rispetto dei ruoli e meno confusione“. Sostenere che “francesi e tedeschi possono accelerare sul programma” come ha fatto il ministro dell’Interno “è fuorviante, visto che finora né francesi né tedeschi hanno comprato un solo F35”. I primi, sottolineano, “hanno la loro industrie e Berlino di recente, secondo notizie di stampa, per sostituire i suoi tornado sembrerebbe persino aver scelto di escludere dalla rosa dei finalisti i velivoli F-35”. Anche il vicepremier M5s Luigi Di Maio, al termine del vertice sul memorandum Italia-Cina, ha garantito che si faranno altre valutazioni sull’acquisto di nuovi F35: “Io penso che il M5s”, ha detto, “debba continuare a chiedere di rivisitare questo progetto”.

La rete di quinta generazione: che cos’è e a cosa serve?

Con 5G si intendono quelle reti di cui prestazioni e velocità – grazie alle antenne – sono assimilabili a quelle della rete fissa senza però che siano presenti i cavi.

Servirà, ad esempio, per applicazioni che hanno bisogno di una comunicazione “real time” come quelle per consentire il controllo a distanza di oggetti e veicoli: il settore dell’Internet of Thing.

Sul 5GSi stanno sviluppando servizi e tecnologie su cui convergono grossi interessi commerciali come le Smart City basate su sensori: per il controllo del traffico, della raccolta rifiuti, dell’illuminazione urbana, della logistica con i droni, dei sistemi di sorveglianza ad alta definizione.

E la rete fissa? Sarà potenziata. Le frequenze saranno utilizzate anche per Internet a casa. Il segnale viene diretto verso l’abitazione del cliente che lo riceve attraverso un’antenna. Basta cavi, insomma. Tutto passa via aria.

Sul 5G è troppo tardi per tornare indietro ma si può intervenire sui dati e i servizi

Sorpresa: il problema del 5G non è la Cina. Per la sicurezza nazionale non conta più di tanto che si appaltino tecnologia e reti a Pechino bensì che le si appaltino a player stranieri. Ma è tardi: i buoi sono scappati dalle stalle.

La cosiddetta asta sul 5G, vinta dai maggiori operatori in Italia, ha fruttato al governo così tanti soldi che tornare indietro è impensabile (6,5 miliardi di euro). E le conseguenze partono da qui: dopo quell’asta, che ha assegnato le frequenze, sono state avviate importanti sperimentazioni sul 5G, affidate ad aziende cinesi come Huawei e Zte. Sono pioniere del settore, tecnologicamente più avanti di Ue e Stati Uniti e in Italia (come nel resto del Mondo, prima di essere sfiduciate da molti paesi) hanno avviato anche importanti investimenti in ricerca e sviluppo, soprattutto nelle università. Laboratori, progetti, centri specializzati coinvolgono ricercatori e docenti dei più importanti atenei. Zte ha stabilito in Italia il suo quartier generale europeo. La prima telefonata sulla rete 5G dal Mobile World Congress di Barcellona è stata con l’Italia.

Due livelli di problemi: da un lato l’egemonia commerciale nella tecnologia che frutterà miliardi perché sarà la base per lo sviluppo di tutte le innovazioni nel campo delle telecomunicazioni, dall’altro l’allarme sulla sicurezza lanciato dagli Usa e rimbalzato in modo contagioso con l’accusa che una legge cinese preveda l’inserimento di backdoor nei sistemi di rete per spiare gli utenti. Huawei ha sempre sostenuto di “rispettare le leggi del Paese in cui opera” e che la legge prevede solo collaborazione col governo se richiesta. E mai nessuna prova di spionaggio è mai trapelata. Certo, la prudenza comunque non è troppa quando si parla di asset strategici. Ma vale per tutti.

“Potenzialmente stiamo dando in mano a un’azienda straniera la gestione del nostro 5G – spiega Paolo Prinetto, Direttore del Laboratorio Nazionale di Cybersecurity – Questo non significa che siano un problema i cinesi. Si parla semplicemente di sicurezza del sistema paese. La sfida vera è fare in modo che ci siano aziende italiane che si occupano di temi strategici”.

Esistono oggettivi rischi di sicurezza. “Per questo è fondamentale avere una tecnologia hardware nazionale, anche se è ovvio che non possiamo pensare di attivare ora una fonderia di silicio per la produzione di processori. Servirebbero investimenti di diverse decine di miliardi di euro”. Così, materiale e know how oggi lo si trova altrove, soprattutto in Cina. “A noi resta allora il dovere di progettare e sviluppare una architettura nazionale che, pur utilizzando componenti commerciali acquisiti sul mercato estero, sia in grado di proteggere adeguatamente gli asset strategici del sistema paese per aumentarne la resilienza ad attacchi informatici”. Intanto le aste sul 5G ci sono state, tornare indietro è difficile. “La mia impressione è che sì, lo è – continua Prinetto – . Ma ritengo che qualcosa possa essere recuperato”. Si potrebbe ragionare sul tipo di servizi da dare o evitare che sia affidata ad aziende straniere la gestione dei dati raccolti. “E in ogni caso evitare di affidare loro servizi sensibili, eventualmente ricorrendo al cosiddetto Golden Power” conclude.

L’altro punto riguarda invece l’approvvigionamento dell’infrastruttura. Il ministero dello Sviluppo Economico si è per il momento portato avanti con l’istituzione, alcune settimane fa, del Centro di Valutazione e Certificazione Nazionale che dovrà verificare le condizioni di sicurezza e l’assenza di vulnerabilità di prodotti, apparati e sistemi utilizzati nelle infrastrutture e nelle reti di interesse nazionale. E ieri, il ministro Di Maio, rispondendo sulla questione degli F35 ha fatto un appunto non di poco conto: “Bisogna rivisitare il progetto per una semplice ragione: magari dobbiamo recuperare risorse per investirle in cybersicurezza”.

“Nulla deve cambiare a Pechino affinché tutto il resto cambi”

Esce in libreria e in edicola il nuovo numero della rivista Il Mulino. Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista che il direttore, il professore di Filosofia del diritto alla Luiss Mario Ricciardi, ha fatto a Romano Prodi, ex presidente del Consiglio e della Commissione europea.

 

Professor Romano Prodi, dai tempi di quando lei era presidente della Commissione europea a oggi abbiamo assistito a tanti cambiamenti geopolitici, alcuni di grande portata. Ma certamente è la Cina l’attore al quale lei, da tempo, guarda con particolare attenzione.

Ai tempi della mia Commissione (1999-2005) c’era una grande, comune prospettiva storica in cui quel Paese enorme seguiva delle linee di sviluppo che, pur partendo da molte posizioni indietro, erano le linee degli altri, del libero mercato, dell’industrializzazione, dell’adeguamento alle regole generali del Wto. Con Xi Jinping la musica è cambiata. La Cina ha spaccato l’Europa adeguando la sua politica all’andamento del mondo. Oggi, di fronte alla crescita della Cina, e alla crescita di complessità della società cinese, Xi agisce. Lo fa secondo una logica che a me piace riassumere così: Pechino è l’opposto di Palermo, se nel Gattopardo tutto doveva cambiare perché tutto rimanesse uguale, a Pechino tutto deve rimanere fermo affinché tutto nella società possa cambiare. Cioè: di fronte a sommovimenti così repentini il Partito comunista ha rafforzato il suo controllo non solo nel governo e nell’esercito, ma su tutta la società cinese. Un minor controllo sulla società, nella visione della nuova dirigenza cinese, avrebbe certamente provocato una sosta della crescita e quindi la rottura del compimento della trasformazione cinese.

Nel frattempo è poi cambiata la sfida tra Russia e Stati Uniti.

La sfida americano-russa non è più solo sul trade, ma è una sfida sull’innovazione, sulla scienza. Anche se da molte parti si criticano i risultati raggiunti dal mondo scientifico cinese resta il fatto che il numero delle pubblicazioni cinesi nelle maggiori riviste scientifiche tiene ormai testa a quello americano. La grande sfida è cominciata quando la Cina ha lanciato il progetto 2025 e oggi, in alcuni dei più grandi settori della tecnologia, i cinesi sono davanti (il caso Huawei è emblematico). Trump la vuole fermare prima che sia troppo tardi, date anche le implicazioni che questa situazione ha sullo sviluppo dei programmi di ricerca legati all’intelligenza artificiale. Consideriamo che il 40% dell’esportazione cinese è prodotto da imprese multinazionali non cinesi. A differenza di quella russa, la sfida cinese è globale, va dalle ricerche nello spazio alla biologia molecolare. Non dimentichiamo che Reagan ha potuto mettere in crisi l’Unione Sovietica perché l’Urss aveva una situazione economica particolarmente fragile. La Cina di oggi è tutt’altro che debole. Nel 2018 è cresciuta del 6,4%, il che corrisponde a quasi tutto il Pro- dotto nazionale russo: è un po’ come dire che la Cina cresce di una Russia all’anno.

Di fronte a un potere di tali dimensioni dovrebbe risultare chiaro a tutti che abbiamo bisogno di un’Europa forte.

Certo. Anche perché a questo punto la domanda da porsi è: è immaginabile che un Paese così forte, con una proiezione internazionale così importante rinunci alla tentazione di fare prima o poi anche una politica di potenza? Difficile rispondere, ma è una domanda importante. Colpisce quanto le élite cinesi abbiano ben presenti le vicende della seconda metà dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Non scordiamo che il ricordo delle umiliazioni o delle paure subite dura moltissimo. Quando aprimmo i negoziati a Helsinki per le trattative con la Turchia, il cancelliere austriaco si oppose ammonendoci di ricordarci l’assedio di Vienna, nientemeno. Quindi non è che dobbiamo poi stupirci di questo aspetto. La Cina aumenterà ancora le spese militari (ancora oggi ridottissime rispetto a quelle americane). Fino ad ora la sua strategia è la difesa regionale. Ma sino a quando? E come può un’Europa divisa e largamente sovranista fronteggiare sfide di questa portata? Il sovranismo è una conseguenza del cambiamento del mondo tanto a est quanto a ovest, anche se dobbiamo riconoscere che il Paese più sovranista d’Europa è proprio l’Italia. Perché la somma dei consensi di cui sono capaci Lega e 5 Stelle è più elevata di quella di Orban. È dunque anche colpa nostra se stiamo perdendo quel disegno europeo che veniva riconosciuto dagli altri, che aveva un’influenza forte su tanti Paesi vicini.

L’intesa Italia-Cina si firmerà. La Lega cede (ma non molla)

Alla fine il governo ha resistito alle pressioni statunitensi ed è riuscito ad evitarsi una figuraccia internazionale: come previsto, il Memorandum d’intesa tra Italia e Cina verrà firmato la prossima settimana, quando arriverà in visita a Roma il presidente Xi Jinping. Accanto a quel testo verranno sottoscritti una cinquantina di accordi settoriali che aziende e istituzioni del nostro Paese hanno contrattato con le controparti di Pechino negli ultimi tre anni.

La Lega, che ieri mattina al tavolo di Palazzo Chigi rappresentava direttamente gli interessi Usa, ha dato il via libera alla cerimonia ma si riserva di bloccare le operazioni sgradite ai suoi dante causa d’Oltreoceano in futuro: “Ovviamente la sicurezza nazionale viene prima di tutto e quindi su alcuni settori strategici per noi e per gli alleati (telecomunicazioni, energia, porti e infrastrutture) stiamo facendo tutte le verifiche e le valutazioni necessarie”, dettano alle agenzie dalle parti di Matteo Salvini dopo il via libera all’intesa.

Giuseppe Conte, che si era già esposto sulla firma insieme al Quirinale, può tirare un sospiro di sollievo: “Si firma il Memorandum che è un accordo quadro non vincolante. Sarebbe stato un po’ eccentrico non partecipare a questo importante progetto infrastrutturale che richiama la via della Seta e di cui l’Italia è l’approdo naturale”, tanto più che “dei 13 paesi Ue che hanno già sottoscritto il memorandum, quello tra Italia e Cina è l’unico che richiama diffusamente principi e regole europee”.

Com’è noto il famigerato internet di quinta generazione (5G) che preoccupa Donald Trump è da sempre escluso dall’intesa, ma ora la Lega ha messo in questione anche la volontà cinese di lavorare nei porti italiani, in particolare Trieste e Genova, provocando un certo disagio persino in un salviniano di ferro come il ligure Edoardo Rixi (per non dire del governatore Giovanni Toti che ha parlato di “gazzarra politica”): Germania e Polonia, per dire, sono già di fatto nella via della seta “ferroviaria”, come pure la Grecia (che su ordine Ue ha svenduto ai cinesi un pezzo del Pireo), l’Olanda col porto di Rotterdam e, in minor misura, la Francia con Marsiglia in quella “marittima”; senza contare che l’Italia esporta in Cina meno dei suoi concorrenti europei ed è destinataria di meno investimenti diretti (finora acquisizioni di aziende, mentre l’intesa dovrebbe spingere quelli “greenfield”, cioè la creazione da zero di nuove aziende). Per questo al Quirinale hanno parlato di “critiche interessate” all’accordo tanto da parte Usa, per ovvi motivi geopolitici, che europea, per più banali questioni di portafogli.

Per avere il via libera della Lega, in ogni caso, Conte e Di Maio hanno dovuto promettere un rafforzamento della normativa sul golden power (il potere del governo di bloccare un’operazione economica in settori strategici): un mezzo che potrà essere utile in materia di reti infrastrutturali, compresa quella del 5G (la cui sperimentazione, al momento, coinvolge in due casi Huawei e nel terzo l’altra cinese Zte); più difficile che il golden power possa impedire a un’azienda cinese di lavorare in un porto italiano (motivo per cui “gazzarra politica” è forse la definizione tecnica del dibattito sul Memorandum).

La scelta del governo non è piaciuta a Washington. “La Cina sembra credere che l’Italia sia economicamente vulnerabile o politicamente manipolabile”, ha buttato lì il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca: “Siamo seriamente preoccupati per le conseguenze sull’interoperabilità della Nato, in particolare per quanto riguarda le comunicazioni e le infrastrutture critiche usate per sostenere le iniziative militari congiunte”.

Restando alle preoccupazioni “atlantiche”, il Financial Times, in un articolo sull’accordo, ha rivelato che l’Italia potrebbe sottoscrivere prestiti con la Banca degli investimenti cinese per le infrastrutture (Aiib) nell’ambito dei progetti per la nuova via della seta: anche fosse, una non notizia se si tiene conto che il nostro Paese ha da tempo sottoscritto il 2,8% di Aiib (2,5 miliardi), meno del 5% della Germania, del 3,7% della Francia e del 3,4% della Gran Bretagna.

Da Mosca a Mumbai: studenti in piazza in 1.700 città

Milioni di giovani sono scesi nelle piazze di ogni angolo del mondo per difendere il proprio futuro e l’unica casa che hanno, la Terra. Chiedono “azioni concrete” per salvare il pianeta nella prima manifestazione globale per il clima, il Global Strike for future. Hanno scioperato “da Washington a Mosca, da Beirut a Gerusalemme, da Shanghai a Mumbai. Giovanissimi stanchi di aspettare trattative infruttuose. Una protesta che ha toccato tutti i continenti, coinvolto 100 nazioni e animato di persone, colori e slogan 1.700 città con cortei, comprese le città di nazioni tra le più inquinate al mondo come l’India, la Cina, la Russia e paesi dell’America Latina. In Europa gli studenti hanno sfilato in cortei dalla Slovenia alla Francia, dove la protesta si protrarrà per tutto il fine settimana e solo a Parigi oggi erano oltre 30 mila, dall’Inghilterra fino alla Croazia. In Italia sono state 182 le piazze riempite, da Milano a Palermo, con gli slogan “Salviamo il pianeta, non il profitto”, “La crisi siete voi, noi il futuro”, “Ci avete rotto i polmoni”, “Non abbiamo un pianeta B” con la presenza di oltre un milione di ragazzi, secondo un calcolo dei Verdi. Le massime autorità hanno risposto alla voce che si è levata dalle piazze. A partire dal capo dello Stato Sergio Mattarella: “Tanti giovani ricordano a tutti e chiedono a tutti e soprattutto alle istituzioni, di agire per difendere il clima”. La questione ambientale, ricorda il premier Giuseppe Conte, è “una sfida cruciale, non ci sottrarremo”.

Se in tutte le città lo sciopero dei giovani è stata una festa seppur di rivendicazioni, a Napoli ci sono stati momenti di tensione poichè una parte del corteo, a suon di slogan contro Salvini, ha tentato di arrivare sotto la prefettura dove il ministro partecipava al Comitato provinciale per la sicurezza. “Dovrebbe essere una manifestazione sulla difesa del pianeta – ha commentato Salvini – ma i soliti ‘democratici’ a Napoli, insultano”.

Polemiche anche in Italia sull’assenza da scuola dei giovani da parte del presidente dell’’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli (“non credo che saltare un giorno di scuola possa davvero aiutare diventare più consapevoli sulla questione”) mentre il ministro Bussetti ha valutato “positivamente” la partecipazione dei ragazzi. Ora i manifestanti, dai più piccoli ai più grandi, aspettano che le parole si traducano presto in fatti.

Carbone e allevamenti: chi avvelena la Terra

Cina, Stati Uniti e India sono i Paesi che inquinano di più al mondo, emettendo nell’aria le maggiori quantità di anidride carbonica. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2017, sono quelli forniti dal Global carbon project in uno studio pubblicato a dicembre scorso, proprio nei giorni in cui in Polonia si teneva l’annuale conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul clima. Si tratta di dati in linea con quelli dell’Agenzia Internazionale dell’Energia.

Secondo il report Global carbon budget, Pechino si attesta sui 9,84 miliardi di tonnellate di CO2 (con una crescita del 4,7%) e da sola genera il 27% delle emissioni di anidride carbonica nel mondo. Gli Stati Uniti ne producono il 15% con 5,3 miliardi di tonnellate, l’India 2,4 miliardi. Poi ci sono Russia (1,7 miliardi), Giappone (1,2), Germania (0,9). Tra i primi dieci anche Iran, Arabia Saudita, Corea del Sud e Canada. Considerata nel suo complesso, però, l’Unione Europea si piazza al terzo posto, con il 10% delle emissioni globali e una flessione dello 0,7%.

Le stime per il 2018 parlano di emissioni generate dall’uso dei combustibili fossili in crescita del 2,7%, arrivando a 37,1 miliardi di tonnellate di CO2. A cui bisogna aggiungere altri 5 miliardi che derivano da deforestazione e altre attività umane. Secondo il report alla base dell’incremento c’è la crescita del consumo di carbone, petrolio e gas.

Che la questione sia complessa lo dimostra il fatto che, nonostante la Cina sia impegnata da circa sei anni in un cambio di rotta sul fronte ambientale, i livelli di inquinamento atmosferico registrati nel 2019 sono aumentati in decine di città. Secondo Lauri Myllyvirta, esperto di Greenpeace, ne sono causa il continuo aumento dell’industria pesante e la produzione di centrali a carbone. E il 45% delle emissioni di CO2 è prodotto proprio da centrali a carbone, al primo posto tra i combustibili fossili (30% in più delle emissioni rispetto al petrolio e 70% rispetto ai gas naturali).

Nei mesi scorsi, l’organizzazione ambientalista CoalSwarm ha accusato la Cina di continuare a investire nel combustibile, dopo aver analizzato le immagini satellitari dei siti dove la costruzione di centrali era stata sospesa. Sarebbero centinaia, invece, quelle in realizzazione. Secondo uno studio condotto dall’Istituto di ingegneria ambientale di Zurigo, in Svizzera, se Cina e Stati Uniti sono i maggiori produttori di energia a carbone, a causare il più alto tasso d’inquinamento nel mondo sono le centrali dell’India, che combatte anche con un’aria tra le più irrespirabili del pianeta. Se gli impianti cinesi, quelli negli Usa e in Europa centrale sono più moderni, in India, Russia e in Europa dell’Est le centrali sono vecchie e, spesso, inefficienti.

Per quanto riguarda gli Usa, l’inquinamento è causato anche dai prodotti di scarto dell’industria, rifiuti chimici e fumi tossici rilasciati nell’ambiente. Qui industrie pesanti e centrali a carbone producono quasi l’80% di tutte le emissioni di gas serra. Gli Usa registrano anche un ritardo sul fronte delle rinnovabili, dovuto in primis alla politica di Trump. E poi c’è la questione degli allevamenti intensivi, per la Fao responsabili del 20% delle emissioni di gas serra. Uno studio realizzato dalla non-profit Grain e dall’Institute for Agriculture and Trade Policy, stima che le prime cinque aziende mondiali del ciclo di produzione di carne e latte emettano più CO2 di quanto non facciano Regno Unito, Australia e Francia.

“Ero pessimista, adesso vedo qualche speranza”

Dobbiamo mettere in atto il cambiamento più grande nella storia dell’umanità”. Ed è meglio affrettarsi, come sostiene da anni Luca Mercalli, climatologo, docente, ma soprattutto divulgatore scientifico in prima linea sul tema del cambiamento climatico. E in prima fila, anche fuor di metafora, al corteo di Torino ieri, dove giura di aver finalmente ritrovato un po’ di speranza.

Luca Mercalli, la mobilitazione sembra essere un successo.

È stata una giornata entusiasmante. Sono sempre stato pessimista sulla reazione sociale nei confronti del cambiamento climatico, ma oggi lo sono un po’ meno.

Di scioperi però se ne vedono quasi ogni venerdì. Cosa le fa pensare che questa volta sia diverso?

Ho visto ragazzi convinti e maturi nelle loro considerazioni. È stato un momento di grande responsabilità che ha unito slogan efficaci a contenuti scientifici di livello. La grande scommessa adesso è far sì che ognuno porti avanti le proprie battaglie sul territorio. E che magari questa mobilitazione abbia un’espressione politica.

Non si ricordano campagne elettorali incentrate sull’ambientalismo.

Persino nel dibattito sul Tav si ignora l’impatto ambientale della costruzione dell’opera, che sarebbe devastante viste le emissioni di Co2. Mi piacerebbe che in Italia i Verdi raccogliessero questo spirito, ma non sono maturi. Ci sarebbe anche una delle 5 Stelle del Movimento a rivendicare l’ambientalismo, ma mi sembra un po’ appannata. Magari nascerà una nuova forza politica giovane.

Per una volta la mobilitazione ambientalista sembra aver avuto una comunicazione efficace. Merito di una ragazzina di 16 anni?

Credo sia un accumulo di circostanze. Negli ultimi anni un po’ di alfabetizzazione su questi temi è stata fatta, poi Greta ha parlato finalmente col linguaggio dei suoi coetanei. Io ho sempre tentato di farlo, ma appartengo a un’altra generazione, è inevitabile. E poi per fortuna l’informazione ha capito il potenziale di questa ragazza che diventata un’icona: era quello che aspettavamo, ma non sapevamo come sarebbe successo.

Al di là delle parole, resta un’emergenza da risolvere. Che cosa rischiamo da qui a pochi anni?

Il rischio è che quando i ragazzi di oggi avranno 60 o 70 anni ci saranno condizioni ostili per la vita.

Qualche esempio?

I colpi di calore già adesso uccidono, l’estate del 2003 ha fatto 70 mila morti in Europa. Si muore per il troppo caldo, si muore per nuove malattie tropicali, perché ci sono problemi legati alla produzione di cibo, perché siccità significa carestia, uragani significano distruzione, e allora aumenta la conflittualità sociale. Senza considerare il livello dei mari: manderemo sott’acqua intere città, comprese Venezia e Rovigo.

Ma l’inversione di tendenza passa dai nostri gesti quotidiani o serve un cambio di rotta politico internazionale?

Entrambe le cose. Ogni giorni consumiamo e sprechiamo, utilizziamo mezzi per trasporti inutili, mangiamo carne oltre i limiti, produciamo e gettiamo di continuo. Queste sono tutte cose affidate alle scelte dei singoli e che possono fare la differenza. Poi ovviamente servono politiche virtuose.

I vertici internazionali però non sembrano aver portato grossi vantaggi.

L’accordo di Parigi è ottimo, ma si perde in una enorme burocrazia: sono intese lente, vischiose, che non arrivano mai al dunque. E quando ci arriveranno, ci sarà un’accettazione sociale troppo bassa. Su questo dovremmo lavorare.

Cioè?

Quando l’accordo di Parigi sarà operativo non è che le persone saranno più felici. Anzi, si troveranno più tasse. La reazione più probabile è simile a quella dei gilet gialli, che protestano perché la benzina costa di più, non sorrideranno certo perché si disincentivano le energie fossili.

Come ci si lavora?

Le persone, a parte una piccola nicchia, non sono ancora disposte a cambiare le proprie abitudini per salvare il pianeta. L’ho detto ai ragazzi in piazza: voi siete qui, ma siete disposti a smetter di fumare? Serve dare consapevolezza, prima che sia tardi.