Tutti in sciopero per il clima: il mondo salvato dai ragazzini

La favola del “re è nudo” può sembrare desueta e retorica, però funziona. Decine e decine di migliaia di ragazzi ieri, forse un milione in tutta Italia e poi in un centinaio di Paesi, sono scesi d’istinto e di prepotenza in strada per gridare che non c’è più tempo per salvare il pianeta. E lo hanno fatto, in larga parte, condizionati dal messaggio, straniante ma di sicuro impatto, della sedicenne svedese Greta Thunberg che ogni venerdì si siede davanti al Parlamento invece di andare a scuola.

Ce lo spiega Riccardo Nanni, 19 anni, uno degli organizzatori della manifestazione di ieri a Roma: “In giro c’è tanto menefreghismo e pochissima attenzione che è bastato che una ragazzina lanciasse un messaggio semplice e chiaro per far aprire gli occhi a tutti”. Il poliedrico filosofo Slavoj Zizek la dice in altri termini: “Di Greta quello che funziona è che non ammette mediazioni o repliche, va giù dura e determinata. È come Antigone, irremovibile. E mi piace per questo”.

Il re è nudo, dunque, ma è difficile da spiegare a Rita Pavone che, al pari del pensiero di basso conio, preferisce ricamare sul viso da “film horror” o sulle treccine di Greta. Così come è difficile da spiegare a tutti coloro che non vedono l’ora di mettere le mani sui giovani manifestanti per fini politici. Il primo è stato il neo-segretario Pd, Nicola Zingaretti, che ha dedicato la vittoria delle primarie a Greta per poi andare a omaggiare gli anti-ecologici cantieri del Tav. Ieri, oltre alle dichiarazioni istituzionali del presidente Sergio Mattarella o al gesto della sindaca di Roma, Virginia Raggi che si è fermata in piazza Venezia a dialogare, si sono letti i commenti di improbabili ambientalisti come Carlo Calenda o Mariastella Gelmini o del presidente Eni Claudio De Scalzi felice della coincidenza tra il “Global Strike for Climate” e il varo del piano industriale del colosso energetico.

A “bucare il video”, invece, è proprio il messaggio ruvido e sgarbato di Greta che dà voce all’ansia di una generazione spaventata. Ieri, ovviamente, in strada c’erano tutte le varianti dei cortei studenteschi. Collettivi impegnati e con slogan duri – “Tutti insieme famo paura” – ragazzi con i cartelli della prima volta: “Scegli prodotti con poco imballaggio, ricorda che il mondo l’hai avuto in omaggio” – e quelli ripetuti in tutte le città: “Avete rotto i polmoni”. Le modalità classiche di sempre. Però stavolta è diverso. Stavolta ci si muove su un tema specifico, l’ambiente, che fa rima con il proprio futuro. Non a caso c’è l’intenzione di proseguire: venerdì prossimo a Roma ci si ritrova in piazza del Popolo. E stavolta non c’è la politica organizzata di partiti e gruppetti. Non c’è perché proprio non esiste più. A Roma si nota solo l’attivismo del sorridente Gianfranco Mascia, ex Popolo Viola, oggi nei Verdi, a garantire il rispetto della scaletta degli interventi filtrati da un amplficatore così “sgarrupato” da sentirsi solo fino a dieci metri di distanza. Il movimento ha preso le mosse l’11 gennaio quando sei ambientalisti, non giovani, tra cui Sarah Testerini, architetto, una militanza in Possibile, hanno deciso di indire i venerdì davanti a Montecitorio – il primo si è svolto il 18 gennaio – sull’esempio di Greta. Poi si sono uniti i ragazzi. “Io l’ho scoperto a una riunione sull’ambiente – spiega ancora Riccardo – e poi ho iniziato a partecipare. Negli appuntamenti settimanali davanti a Montecitorio o a piazza del Popolo a Roma, oltre a Mascia l’unico altro volto noto è quello dell’attore Massimo Wertmuller. A Roma, ieri, ha parlato per pochi minuti il geologo Mario Tozzi che ha chiesto “scusa” per non aver fatto abbastanza finora. Poi solo giovani. Le riunioni si tengono in una sala messa a disposizione di Legambiente, Greenpeace tifa a favore, ci sono le organizzazioni studentesche, Uds, Udu, Rete degli studenti e altre. “Io però sono un attivista al pari degli altri” ci tiene a specificare Riccardo, capendo già i rischi che movimenti di questa ampiezza possono correre. In un’intervista al Fatto di qualche giorno fa Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, li ha immaginati come un “nuovo ’68”. I paragoni non portano mai bene e non è il caso di farli. Eppure ieri non è sembrato “qu’un debut”.

Sarti, la email del bonifico che può smentire Bogdan

Una mail potrebbe diventare la prova decisiva per capire se il 38enne di Bacau Bogdan Tibusche, ex amico e collaboratore di Giulia Sarti, abbia mentito sui bonifici oppure se sia stata la parlamentare a non raccontare tutta la verità sui loro rapporti finanziari.

Il pm di Rimini e il Gip hanno prosciolto Tibusche dal reato di appropriazione indebita: non ci sono prove di reati a suo carico. Però non hanno indagato Sarti per calunnia.

Per capire di più è utile leggere le informative della Polizia che Il Fatto è in grado di rivelare. E la prima parola da tenere a mente è “inconfutabili”. Il 25 maggio, il dirigente della squadra mobile di Rimini Massimo Sacco scrive che la Polizia non ha “acquisito materialmente prove inconfutabili circa la responsabilità” di Bogdan “in ordine al reato contestato e se quanto accaduto riguardo ai bonifici annullati, il cui meccanismo è stato dettagliatamente spiegato dallo stesso Bogdan in sede di interrogatorio, sia stato o meno a conoscenza della persona offesa”, cioé di Giulia Sarti.

E quindi, stando alle parole della Polizia, da un lato le indagini su Bogdan non hanno raggiunto la prova ‘inconfutabile’ che il rumeno abbia preso i soldi dal conto della Carim intestato alla Sarti a sua insaputa. Dall’altro, anche su Giulia Sarti non è stata raggiunta la prova che fosse consapevole dei trucchetti illustrati al pm da Bogdan: fare i bonifici al fondo del microcredito, salvo ritirarli in seconda battuta. Alle due constatazioni segue una conclusione a beneficio del pm: “Si rimette a codesta Autorità Giudiziaria ogni più ampia valutazione”.

Il pm – probabilmente per non scavare troppo nella sfera della riservatezza di una donna, per di più presidente della commissione giustizia – ha evitato di approfondire alcune domande che, dopo la lettura dell’interrogatorio di Tibusche, restano sul tavolo.

Il 16 febbraio 2018, il giorno dopo la denuncia della parlamentare, Bogdan dice tante cose al pm. Una in particolare è interessante per riscontrare la sua credibilità.

Giulia Sarti – a detta di Bogdan – pagava l’affitto della casa di Salerno (dove viveva la sua compagna Maria Stanzione) con 1.400 euro ogni 4 mesi. “Lei mi ripeteva che se avessi avuto bisogno di denaro lo avrei dovuto prendere senza alcun problema. Una volta dimenticai di pagare l’affitto, cioé di dire a Giulia di pagarlo, e ricordo che lei mi disse: ‘non c’è problema, ti faccio io il bonifico’, siamo andati avanti così (…)”.

Dopo l’archiviazione Bogdan ha aggiunto altri dettagli con i giornalisti. Ad Antonio Atte dell’Adn Kronos ha detto: “Ho la prova che alcuni bonifici a mio carico, oggetto di accusa di appropriazione indebita, sono stati eseguiti da Giulia Sarti”. Ha mostrato prima all’Adn e poi alle Iene una mail inviatagli dalla Sarti il 7 giugno 2017 alle ore 13 e 25. L’oggetto della mail è ‘ricevuta affitto’: all’interno, un file Pdf dal titolo ‘Ricevuta bonifico Andrea’. L’agenzia di stampa così riferisce il senso della rivelazione: “è la copia di un bonifico di 1.400 euro effettuato dalla Sarti lo stesso giorno al signor Gianfranco I., proprietario della casa di Salerno in cui Bogdan vive. Secondo l’ex amico della deputata, si tratta della ‘prova’ che ‘non solo lei sapeva benissimo dei soldi per l’affitto, ma che addirittura me lo pagava lei fisicamente e mi mandava la ricevuta’. Tra l’altro, sottolinea Bogdan, ‘in quel periodo non ero nemmeno in Italia. Sono partito per la Romania il 2 giugno per poi rientrare in Italia il 12 luglio’”.

Il Fatto ha visionato la mail e il bonifico allegato. Si tratta chiaramente di un bonifico effettuato on line con il token rilasciato a Giulia Sarti dalla banca Carim. Il punto è: chi aveva in mano il token? In altri termini: chi ha effettuato il bonifico on line per pagare l’affitto di Bogdan a Gianfranco I.?

Bogdan il 16 febbraio del 2018, davanti al pm di Rimini Davide Ercolani e agli investigatori della Squadra Mobile, mette a verbale la sua difesa: “Andai quindi in Romania – dice – era di giugno 2017. Ci sentivamo con Giulia tanto che ella alla mia partenza mi disse di prendere il token perché se dovevamo fare ci avrei dovuto pensare io. Lei mi avrebbe mandato delle mail e io avrei dovuto fare dei bonifici e mi disse che se mi servivano dei soldi di prenderli tranquillamente”.

La mail di cui parla Bogdan con l’Adn Kronos è del 7 giugno 2017. Quel giorno Bogdan, stando alle sue dichiarazioni agli inquirenti, è in Romania con il token in mano. Il 7 giugno del 2017, quando partono i 1400 euro per l’affitto della casa di Bogdan sono stati effettuati con lo stesso sistema altri quattro bonifici: due al Mef per il fondo del microcredito per un totale di 4 mila e 963 euro, uno verso Valeria L. proprietaria di casa a Roma di Giulia Sarti per 1.400 euro e uno per Monica, la collaboratrice di Giulia Sarti, per 1.654 euro. Quindi delle due l’una: se il token era in mano a Giulia Sarti a Roma, le operazioni, compreso il pagamento dell’affitto di Bogdan, sarebbero state fatte dalla parlamentare. Il che spiegherebbe la mail all’amico rumeno, che si trovava nel suo paese, per notificargli il pagamento dell’affitto salernitano. Se invece il token era in mano a Bogdan, tutti i 5 bonifici, compreso quello della casa di Salerno, sarebbero stati effettuati dall’ex amico di Giulia Sarti. E a questo punto la mail spedita da Giulia Sarti a Bogdan non avrebbe più senso. Quel giorno la parlamentare era alla Camera dei Deputati. Il bonifico del 7 giugno alle 13 e 24 per il pagamento dell’affitto è stato eseguito on line e potrebbe essere stato fatto ovunque con un telefonino o un pc.

Al “Fatto” Bogdan Tibusche spiega: “Io non avevo con me il token in Romania”. E il verbale di febbraio 2018 nel quale dice al pm esattamente il contrario? “È un’imprecisione perché io sono stato più volte in Romania in quell’estate e la prima volta, quando partii il 2 giugno, non portai con me il token”. La verità probabilmente è già agli atti. Il 25 maggio 2018, nell’informativa, la Squadra Mobile scrive: “Per quanto concerne gli indirizzi di IP forniti dalla banca attraverso i quali è stato operato sul conto in esame, questi risultano, per la maggior parte di essi all’estero e in particolare in Romania. Mentre quelli registrati in Italia sono riferiti alle società telefoniche Wind e Vodafone”. Bogdan al Fatto dice: “Ho fatto presente agli investigatori l’esistenza di questa mail del 7 giugno con la contabile dell’affitto di Salerno. Penso l’abbiano verificata”. Agli inquirenti probabilmente non interessava capire chi, tra Bogdan e Sarti, avesse effettuato il bonifico del 7 giugno per l’affitto salernitano: ai fini del reato sarebbe irrilevante perché Sarti aveva comunque permesso a Bogdan di usare il token. Ai fini politici però la questione è molto rilevante.

I precedenti: il ragioniere rapito e la morte dell’avvocato Verzini

Quello di Imane Fadil non è il primo “mistero” legato al caso Ruby. Nel 2012, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre tre uomini armati e a volto coperto irrompono in casa di Giuseppe Spinelli, ragione di fiducia di Berlusconi, e tengono lui e la moglie sotto sequestro per tutta la notte. Attraverso Spinelli, chiedono a Berlusconi 35 milioni di euro in cambio di documenti da loro definiti rilevanti per il processo Lodo Mondadori. Il sequestro però si risolve nel giro di una notte, tanto da passare alla storia come “rapimento lampo”: gli aggressori se ne vanno senza aver ottenuto nulla e saranno poi arrestati e condannati. Giuseppe Spinelli è da oltre trent’anni il contabile personale di Silvio Berlusconi: prima del caso Ruby era sempre rimasto nell’ombra. Secondo i pm, ricopre vari ruoli in diverse società della holding che fa capo al leader di Forza Italia. Spinelli ha dichiarato ai magistrati di aver dato almeno 8.500 euro in due tranche a Ruby e ha dichiarato di aver portato ad Arcore tra il 2009 e il 2010 circa 20 milioni. Più in generale, il ragionier Spinelli gestiva la “cassa” delle Olgettine: “Venti-trenta mila euro al mese – dichiarò – amministrati sulla fiducia”.
Pochi mesi fa, nel dicembre 2018, è morto per eutanasia l’avvocato Egidio Verzini, che per qualche mese nel 2011 era stato il legale di Karima El Mahroug, alias Ruby, nel processo che vedeva imputato Berlusconi. Prima di recarsi nella clinica svizzera dove aveva posto fine alla sua vita in seguito a una malattia terminale, aveva fatto rivelazioni clamorose: aveva parlato di un versamento di 5 milioni effettuato da Berlusconi nel 2011 tramite una banca di Antigua verso il Messico, di cui 2 milioni a Luca Risso, già compagno di Ruby, e 3 a lei. La vicenda era stata smentita dall’avvocato Niccolò Ghedini, indicato da lui come “regista” dell’operazione, e che ha definito “destituite di ogni fondamento” le parole del collega. Le sue dichiarazioni, come la notizia della sua morte, sono state rese note oltre un mese più tardi, per sua specifica volontà.

L’ex Cav intanto esonda ancora: “Italiani, siete dei coglioni”

Mentre agenzie e siti battono la notizia della morte di Imane Fadil, Silvio Berlusconi è in Basilicata, per l’ennesima campagna elettorale (si va alle urne la prossima settimana) in vista del voto europeo di fine maggio. Poche ore prima l’ex Cavaliere, di umore gioviale, non aveva rinunciato alla consueta pièce di avanspettacolo: “Non vedo come si possa avere fiducia in questi – dice B. parlando del Movimento Cinque Stelle ma pure della Lega con cui è alleato anche in Basilicata – eppure leggo numeri sulla fiducia che mi fanno andare fuori di testa. Dovremmo essere preoccupatissimi, e, invece, c’è il 50 per cento delle persone che non è preoccupato. Italiani svegliatevi – conclude – aprite gli occhi, guardatevi nello specchio e domandatevi: ‘Sei un coglione o una persona intelligente?’. Risposta: ‘Sei un coglione’”.

Non è la prima volta che l’ex premier utilizza questo simpatico eufemismo per definire chi non vota come vorrebbe lui: lo fece già anche nel 2006 definendo parimenti “coglioni” gli elettori del centrosinistra.

Anche in questo caso, come allora, Berlusconi non se ne pente. Per nulla scosso dalle notizie che arrivano dalla procura di Milano, il leader di Forza Italia nel pomeriggio rilancia: “Sono convinto che in questo momento storico gli elettori abbiano perso la testa – ha aggiunto ieri –. La Cei ha detto ‘aprite gli occhi’. Io aggiungo, apriteli tutti e due, apriteli bene e teneteli ben aperti”. Ce l’ha soprattutto con i grillini: “Abbiamo il dovere di rimandarli a casa, la stessa casa da cui sono scappati… Gli scappati di casa come li chiamo io”.

Si concede anche un passaggio di geopolitica, sul memorandum che riguarda la Via della Seta cinese: “Non si può firmare nulla che non sia condiviso dall’Europa, dagli Usa e dall’Occidente”.

E adesso la difesa non può più fare domande sulle deposizioni

Da quanto risulta al Fatto, Silvio Berlusconi e i suoi legali hanno appreso della morte della giovane Imane Fadil dal primo lancio di agenzia di ieri pomeriggio, poco dopo pranzo. Fadil era una testimone chiave dei processi legati al caso Ruby. Tra due mesi è prevista l’apertura del processo Ruby Ter che vede, tra gli altri, imputato Silvio Berlusconi. Con la scomparsa della testimone, esclusa come parte civile in questo procedimento che vede al centro le accuse di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, né i magistrati né la difesa avranno modo di fare domande sulle sue passate deposizioni. In una delle ultime interviste, poco prima del malore in ospedale, il 14 gennaio scorso, la ragazza aveva detto: “Ho sempre detto la verità al contrario degli altri e ho respinto tantissimi tentativi di corruzione da parte di Silvio Berlusconi e di tutto il suo entourage”. Fadil, come raccontiamo nell’articolo in queste pagine, aveva anche annunciato il desiderio di raccontare tutta la vicenda delle “cene eleganti” di Arcore e della sua vita in un libro di prossima pubblicazione. Al Fatto risulta che gli avvocati di Berlusconi non abbiano mai diffidato Fadil dalla pubblicazione.

“Chi voleva uccidere un testimone poteva avvelenare me: mi hanno solo licenziato”

Imane Fadil aveva raccontato al Fatto, prima ancora che al processo di Milano, che era stato Emilio Fede a portarla ai Bunga Bunga di Arcore. Quando lo chiamiamo per parlare di quanto successo, non aspetta neppure una domanda, è un fiume in piena: “La conoscevo, le volevo bene. Era una brava ragazza con dei problemi economici, la sua famiglia era povera. Un paio di volte le ho pagato il taxi da piazzale Loreto (a Milano, ndr) a casa, mi auguro con tutto il cuore che si chiarisca la vicenda”.

Ma Imane l’aveva querelata perché durante un edizione del Tg4, quando era direttore, aveva chiesto il suo arresto perché la ragazza aveva raccontato che era stato lei a portarla ad Arcore…

Tutte stupidaggini!

Veramente non le definirei proprio stupidaggini…

Allora sono io che l’ho uccisa, che caspita dice!

Stavo solo ricordando il suo conflitto con Imane, faccio delle domande.

Non sono mai uscito con lei, io sono quello che l’ha trattata con grande ri-spet-to! Le ho sempre consigliato di vivere al meglio, se poi vuole scovare stronzate faccia pure. Io sono una persona onesta! Basta!

Imane ha raccontato delle ragazze, di Nicole Minetti travestita da suora e poi seminuda su un palo a fare la lap dance. Per lei quelle restano cene eleganti?

Ma le pare possibile quello che ha raccontato? Recentemente ha pure detto che alle cene si faceva magia nera, ma lasciamo perdere. Io ho detto la verità: io da Arcore andavo via esattamente all’una e trenta, mi fermavo a piazzale Loreto, compravo il giornale e poi rientravo a casa. Mai visto ragazze nude. Un paio di volte è capitato che abbia dato a Imane un passaggio, ma, ripeto, solo fino a piazzale Loreto. Non l’accompagnavo a casa, ma le pagavo il taxi. Non sono mai uscito con ragazze della mia redazione o con una di quelle che frequentava Arcore. Se l’avvelenamento di Imane fosse vero sarebbe un orrore, un fatto enorme.

Lei cosa crede?

Francamente, le dico, non ci credo. Non penso che fosse depositaria di tali segreti da spingere qualcuno a ucciderla. Chi ha frequentato di più Arcore è un signore ancora vivo che si chiama Emilio Fede. Io sono stato allontanato da Mediaset in quattro e quattro otto, senza neppure la liquidazione. Se avessero avuto problemi il testimone potevo essere io. E lo sono…

Cioè sarebbe stato lei eventualmente il testimone da uccidere?

Certo, invece di licenziarmi in mezz’ora. Allora: o io sono sempre stato cretino, sordo, muto e cieco, oppure quello che ho detto è la verità.

Il presidente Silvio Berlusconi lo sente ancora?

L’ho visto quindici giorni fa a cena, ad Arcore. Eravamo da soli. L’uno ha detto all’altro, da amici quali siamo: “Se hai bisogno di me, ci sono”.

Quindi non ce l’ha con il suo amico Silvio anche se è stato cacciato da Mediaset. Evidentemente il licenziamento in tronco l’ha deciso qualcun altro. Chi?

Brava, ha indovinato. Ma non le dico chi.

Il libro di Imane mai pubblicato: “Io, in quel bordello sotterraneo”

Sei aprile 2018. Una telefonata per invitarla a una trasmissione televisiva dedicata a Silvio Berlusconi, allo scandalo delle notti di Arcore. Ma Imane Fadil rispose perentoria: “Mi scusi, ma una trasmissione televisiva non basta, se vuole ci incontriamo e le dico il perché”. Allora via, biglietto del treno per Milano, incontro in un caffè. Arrivò bella, bellissima, sguardo fiero di chi non ha paura di niente. Aveva voglia di parlare, non ci stava a essere ricordata come una “ragazza di Arcore”. Iniziò a raccontare: aveva poco più di 25 anni quando venne invitata per la prima volta a casa di Berlusconi, allora presidente del Consiglio. Partecipò a ben otto “cene eleganti” e durante alcune di queste disse di aver visto di tutto: ragazze disponibili, spogliarelli, palpeggiamenti. Capì insomma in che cosa consisteva il Bunga Bunga.

Il suo racconto in quel caffè milanese arrivò a un risvolto incredibile anche se lucido, chiaro, tutti i dettagli al posto giusto. D’un tratto le parole che non ti aspetti: “In quella casa ho visto presenze strane, sinistre. Là dentro c’è il Male, io l’ho visto, c’è Lucifero”. Poteva essere presa per pazza, ma lei no, non ne volle sapere di indietreggiare: “Non mi importa niente di cosa dirà la gente. E racconterò tutto, ma lo farò più avanti. Devo solo finire il mio libro”. Già, il suo libro, dedicato alla vicenda Berlusconi e Arcore. Cercava un editore, qualcuno che avesse il coraggio di pubblicarlo.

Il titolo era emblematico: Ho incontrato il diavolo. Un lungo racconto, rimasto ancora inedito – la bozza è stata sequestrata dai pm nell’ambito delle indagini sulla sua morte – che ripercorre la sua esperienza a contatto col mondo berlusconiano. Le chiedemmo di poterlo leggere, e lei acconsentì.

“Ricordo bene l’ultima sera che sono andata là, ad Arcore”, aveva raccontato a margine dell’intervista che facemmo (sul Fatto del 24 aprile 2018, ndr). “C’erano tutte queste ragazze nude che ballavano: una di queste, svaccata per terra, con solo il perizoma addosso, si agitava in modo disperato fissandomi. Uno sguardo pieno di disperazione, un ricordo terrificante”. E poi, mesi dopo, quando scoppiò il caos, decise di costituirsi parte civile nei processi “Ruby bis” e “Ruby ter”. Anni in cui Imane subì di tutto, biasimo sociale, difficoltà a trovare un lavoro e fango, tanto fango: “Non riuscivo neanche a uscire di casa, mi è stata fatta terra bruciata intorno. La gente pensava fossi una prostituta, ho perso gli amici e quei pochi lavoretti che avevo, come fare l’hostess. Ho vissuto un periodo di forte depressione, piangevo sempre, ho anche perso i capelli a causa del forte stress”.

Ma il suo ricordo, quello che sfogliando le pagine di quelle bozze in cerca di editore piano piano riaffiorava, partiva dalla prima volta che mise piede nella villa di Arcore. Fu accompagnata dall’agente titolare dell’agenzia “Lm management” – Lm come Lele Mora – della quale faceva parte in quegli anni. E appena scesa dall’auto – ha scritto Imane nel libro – sentì urla e versi di voci femminili che inneggiavano al nome del padrone di casa. E Mora che sdrammatizzava, le diceva che erano solo versi di ragazze in festa.

Il suo racconto proseguiva, come un avvicendamento di sequenze cinematografiche. Scesero degli scalini che portavano due piani sotto terra, in un seminterrato arredato “ad arte”, l’aria si faceva sempre più cupa e soffocante, mentre Imane si guardava attorno per osservare l’ambiente inusuale. Vide le ragazze che si esibivano, sottomettendosi e compiacendo il padrone. Berlusconi, scriveva Imane, notò il disagio e l’imbarazzo di alcune. Invitò due delle ragazze, travestite da suore, a rivestirsi. Mentre Lele Mora le si mise accanto, invitandola ad accomodarsi e a ordinare da bere.

Imane scriveva di aver provato grande disagio. Chiese a Mora di andare via: lui rispose di calmarsi e pazientare. Raccontò di essere influenzata a tal punto da Mora da decidere di aspettare: voleva poter parlare con Berlusconi, magari per intraprendere la carriera televisiva, d’altronde si trovavano a casa del padrone assoluto della televisione. Berlusconi si avvicinò a Imane sorridendo, la portò a visitare la casa. La ragazza ricordava molto bene i dettagli della villa: il sotterraneo era composto da un salotto con poltrone, pianoforte, al centro del salotto un palo da lap dance o qualcosa del genere, un piano bar improvvisato, bandiere di stato, bandiere del partito di cui lui era leader; invece nella parte opposta al soggiorno, verso i famosi scalini, c’era un teatrino con poltroncine da cinema, e riattraversando il salotto c’erano altre scale.

Berlusconi – proseguiva il libro – le chiese che cosa avesse voluto fare in tv. Quegli scalini riportavano a un piano a mezz’ala tra piano terra e sotterraneo, dove c’era una sorta di spa composta da uno stanzino per massaggi sulla sinistra, di fronte una piscina, a destra una sorta di zona soppalcata completamente buia, una zona relax o altro. Dopo quella sera, Imane non si recò più a casa dell’ex premier per quattro mesi. Ma l’invito a tornarci le arrivava sempre.

Le capitò, tempo dopo, di incontrare Emilio Fede in un ristorante noto di Milano: il giornalista la notò e le rivolse la parola. Nel libro raccontava di come si fossero conosciuti nel 2008 in Rai, nel programma La Grande notte. Lei faceva la valletta, l’ex direttore del Tg4 spesso l’ospite. Fede la invitò di nuovo a incontrare il presidente: “È l’unico modo se vuoi lavorare in tv”. Imane rispose che non voleva, ma lui insistette. E così Imane andò di nuovo ad Arcore, e anche questa volta le ragazze indossavano tonache lunghe. A metà degli scalini che portavano verso la spa a sinistra, era collocato una stanzino, ricordava lei. All’interno di questo stanzino, c’erano appese almeno 30 tonache e altri indumenti che indossavano le ragazze.

Vide le ragazze in una sorta di cerchio, con Berlusconi al centro come perno: una specie d’adorazione, con alcune nude, altre mezze nude, altre travestite che vagavano per il soggiorno sotterraneo. Fu allora che Imane prese coraggio e andò da lui, per dirgli che avrebbe voluto ritornare a casa. Ma Silvio rispose di aspettare.

Nel sotterraneo, Imane vide quello che definì una sorta di bordello, ragazze nude e mezze nude in piscina. Anche minorenni, che forse non si rendevano conto tanto della cosa. Arrivava “la vergine fanciulla”, ripeteva Imane con orrore nel suo racconto. La giovanissima scelta per quella sera. Berlusconi le mandava alcune ragazze a riferirle proposte, per Imane, “indecenti”. Erano richieste di natura sessuale, in cambio di una posizione nelle sue tv. Imane voleva chiamarsene fuori. “È una follia”, rispose.

Quando lo scandalo del Bunga Bunga scoppiò per lei fu un colpo, psicologico e morale. Chiamò Emilio Fede, gli disse che avrebbe denunciato tutti se non avessero smentito pubblicamente quelle che definiva le falsità nei suoi confronti. E poi i processi. Le televisioni. E tutte quelle pressioni. E persecuzioni. E i tentativi vari di corruzione da parte di soggetti, scriveva lei, riuniti al volere di Berlusconi.

Da quel giorno, per Imane iniziò il calvario. Lo stesso calvario che ha portato alla sua fine tragica, in circostanze tutte da chiarire, a soli 34 anni.

Karima: Tutto iniziò col furto della “nipote di Mubarak”

2010: Karima el Marough, 17enne marocchina, viene fermata dalla polizia a Milano per furto. Prima che scocchi la mezzanotte, verrà rilasciata grazie all’intercessione di Silvio Berlusconi, che la presenta come la “nipote di Mubarak”. Da allora, diventerà nota ai media come “Ruby”, nome indissolubilmente legato alla scoperta del giro di concussione e prostituzione, anche minorile, ospitato dalla villa del Cavaliere ad Arcore. Il caso esplose nel 2011, ma la condanna di primo grado per B. arrivò due anni dopo: 7 anni di reclusione. Una sentenza dura, revocata un anno dopo dalla Corte d’Appello di Milano, che lo assolse da tutti i peccati. Neanche la Procura, che ricorre in Cassazione nel 2015, riesce a far cambiare idea alla Suprema Corte. Buone notizie per lui, ma non per Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti, che nel processo “Ruby bis” sono imputati e poi condannati per favoreggiamento della prostituzione (2013). Nel 2015, però, i reati di cui è accusato Berlusconi raddoppiano: non solo prostituzione minorile e concussione, ma anche corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. Secondo la procura di Milano, avrebbe infatti versato quantità ingenti di denaro per comprare le bugie degli invitati alle serate di Arcore, tra cui figurano anche i nomi di politici e lobbisti, insieme a quelli di decine di “Olgettine”: 7 milioni di euro erano destinati unicamente a Ruby, la quale in cambio avrebbe dovuto “falsamente negare di aver mai avuto rapporti sessuali con Silvio Berlusconi”. Il vaso di Pandora era stato aperto: nel 2016, il gup Laura Marchiondelli decide di suddividere il processo in sei ulteriori filoni, accogliendo le eccezioni di competenza territoriale presentate dalle difese. A Milano, Berlusconi viene rinviato a giudizio nel gennaio 2017, e nel luglio 2018 il troncone del procedimento viene riunito con quello in cui l’ex presidente del Consiglio è accusato di avere corrotto ulteriori quattro ospiti delle serate, con oltre 400 mila euro in cambio del loro silenzio.

La modella habituè delle sere di Arcore che ruppe il fronte del “Bunga Bunga”

Ha 25 anni, Imane Fadil, quando entra per la prima volta nella villa di Arcore, invitata insieme a una schiera di ragazze alle “cene eleganti” di Silvio Berlusconi. Nata a Fez, in Marocco, cresciuta a Torino, era arrivata a Milano per fare la modella. Nel 2007 esordisce con Gene Gnocchi a La grande notte, su Rai2. “Poi per tre anni sono uscita dal giro perché mi ero fidanzata e mi interessava di più il lato sentimentale della mia vita”, aveva raccontato al Fatto quotidiano. Svanito l’amore, torna a girare nel mondo dorato e scivoloso della moda e dello spettacolo. “Mi chiedono se volevo prendere un caffè ad Arcore. Ho accettato: perché non andare a prendere un caffè da un signore che è padrone di tre televisioni?”.

Il caffè diventa una cena, una “cena elegante”: nel febbraio 2010, ad Arcore. “Quando sono arrivata, c’erano già altre ragazze. Ci ha accolto il signor Silvio. Dopo la cena, Nicole Minetti e Barbara Faggioli si cambiano d’abito e si vestono da suore, con una tunica nera e una croce rossa sul velo. Ballano e a un certo punto si tolgono il vestito da suora, restano in lingerie e cominciano a dimenarsi attorno al palo della lap dance. C’era anche Lisandra Lopez, che non indossava le mutandine e quando si chinava lasciava vedere chiaramente il sedere nudo e anche diciamo la parte intima femminile”. Tra il febbraio e il settembre 2010, Imane torna almeno altre quattro volte ad Arcore e una a villa Campari, a Lesa. I suoi contatti sono Emilio Fede e Lele Mora. Riceve una busta con 2 mila euro a febbraio, con 5 mila a settembre. È appassionata di calcio. Se ne intende, sa tutto del Milan, che era ancora la squadra di Berlusconi. Accarezza il sogno di lavorare a Milan Channel, confida che le sarebbe piaciuto avere un suo programma tv. Invece solo “cene eleganti”. Assiste al bunga-bunga, senza mai partecipare attivamente alle scene hard.

Il 26 ottobre 2010 il Fatto quotidiano racconta per la prima volta che una ragazza ancora minorenne sta raccontando ai magistrati milanesi i suoi incontri ravvicinati con Berlusconi e sta spiegando che cos’è il bunga-bunga. È Ruby, la ragazza marocchina Karima El Mahroug. Ne nasce lo scandalo, l’inchiesta, due processi: uno contro Berlusconi, accusato di prostituzione minorile e concussione, l’altro contro Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti, accusati di essere quelli che organizzavano le feste e portavano le ragazze ad Arcore. Le ragazze negano. Difendono tutte Silvio. Le serate erano cene normali a cui seguivano spettacolini di musica e ballo. Solo tre rompono il fronte e raccontano il bunga-bunga: Imane, Ambra e Chiara. Le ultime due hanno partecipato a una sola serata, Imane è invece una frequentatrice più assidua. Lo racconta in un memoriale. Assistita dall’avvocato Danila De Domenico, lo consegna ai magistrati. Decide di dire la verità. “Non ce la faccio più a passare per quella che si è venduta ad Arcore. Non m’interessano i soldi, m’interessa la mia dignità. Ho partecipato a qualche serata a casa del presidente, ma io non ho mai fatto niente di sconveniente. Finita in questa storia, per sei mesi mi sono chiusa in casa. Nessuno mi dà più lavoro. Allora ho deciso di raccontare quello che ho visto, perché non voglio far vincere quelli che denigrano le donne, che fanno convincere le ragazze che si fa strada non per meritocrazia, ma per mignottocrazia”.

Diventa la testimone chiave dei processi Ruby 1 (a Berlusconi) e Ruby 2 (a Fede, Mora e Minetti). Si costituisce parte civile. Chiede di essere risarcita. Durante i processi, denuncia di essere stata avvicinata da uno strano personaggio, “un uomo alto con gli occhi azzurri” che la vuole riportare ad Arcore per farla accordare con Berlusconi. Adombra l’ingresso in scena dei servizi segreti. L’uomo è Saed Ghanaymi, siriano, scopre la Procura, che non trova però riscontri che confermino il complotto.

Imane si ripresenta in Procura quando parte il processo Ruby 3, contro Berlusconi e i tanti testimoni dei festini accusati di aver mentito a pagamento. Lo scorso 14 gennaio non viene ammessa come parte civile nel processo. Intanto ha scritto un libro che non riesce a pubblicare. Si avvita sempre più in una spirale dove ballano fantasmi neri, spiriti cattivi, riti demoniaci. Nell’ultima intervista rilasciata al Fatto nell’aprile 2018 si dice convinta che ad Arcore si ritrovasse “una setta satanica composta da sole donne”, afferma che “questo signore fa parte di una setta che invoca il demonio”. Le ombre nere con cui faticava a convivere l’hanno accompagnata fino all’Humanitas, fino alla morte.

La Humanitas e quel protocollo mai attivato

Imane Fadil è morta avvelenata. A ucciderla “un mix letale” di sostanze radioattive. Qualcuno se ne è accorto? Il primo marzo, dopo il decesso all’Humanitas di Rozzano, il fratello fa denuncia. Contro ignoti. Per questo interviene la Procura di Milano e chiede il sequestro delle cartelle cliniche e della salma. Imane non faceva uso di droghe, così almeno dimostrano i test del 26 febbraio scorso. La ragazza all’Humanitas ci arriva molte settimane prima. Il 29 gennaio. Non sta bene, anzi è in condizioni “gravi”. Secondo la Procura mostra evidenti sintomi da avvelenamento. Il protocollo sanitario, che in presa diretta avverte le autorità competenti per un’ipotesi di reato penale, non parte. Eppure già in quel momento, secondo le dichiarazioni del fratello e del suo legale, Imane è stata avvelenata. Se così fosse, i medici dell’Humanitas avrebbero dovuto far partire subito il protocollo sanitario. Protocollo che, a quanto risulta al Fatto, non è stato attivato. In sostanza la comunicazione non è arrivata né alla stazione dei carabinieri di Rozzano né alla compagnia di Corsico. E dunque cosa è accaduto? L’indagine coordinata dalla Squadra Mobile punta a questo, anche se parte con qualche giorno di ritardo visto che la denuncia della morte di Imane Fadil è arrivata in Procura solo una settimana fa e dunque poco più di otto giorni dal decesso avvenuto il primo marzo.

Il mancato avvio del protocollo sanitario risulta però incompatibile con il fatto che il 29 gennaio, secondo l’accusa, la ragazza arrivi in ospedale già in condizioni critiche e con sintomi da avvelenamento. Da quel momento Imane non si riprenderà più passando dalla terapia alla rianimazione, alla morte. C’è stata una mancanza dell’ospedale? “L’ospedale Humanitas – spiega un investigatore – ci avverte anche per un graffio”. Dal canto suo ieri la struttura sanitaria ha fatto sapere che dopo il decesso del primo marzo e dopo il sequestro delle cartelle cliniche e della salma, il successivo 6 marzo ha comunicato ai magistrati gli esiti dei risultati tossicologici. Nulla però viene detto rispetto al 29 gennaio, né la Procura fa cenno a questo particolare. L’intervento della magistratura, infatti, è scattato solo dopo che il fratello di Imane ha fatto denuncia contro ignoti. In quel momento si attiva la macchina giudiziaria. Viene poi spiegato che la ragazza è entrata in reparto già in condizioni gravi ed è stata presa in carico da una struttura multidisciplinare. Dunque per Humanitas tutto è stato fatto in modo corretto. Tradotto: il 29 gennaio Imane Fadil entra in ospedale, ma solo il 6 marzo, e cioé un mese e mezzo dopo, si saprà che a ucciderla sarà un veleno radioattivo. Ipotesi questa ancora tutta da valutare. Ora perché il protocollo non è stato attivato? Un’ipotesi, che andrà accertata, è che Imane una volta arrivata in ospedale non ha comunicato ai medici il rischio di un avvelenamento. Circostanza quantomeno strana, visto che anche in base alle dichiarazioni del fratello, la Procura di Milano sta procedendo per omicidio. Perché non dire del veleno? Di certo la ragazza in quel momento è in condizioni critiche. Difficile, poi, pensare a omissioni da parte dei dottori che sicuramente non avevano alcun vantaggio a coprire una cosa del genere con tutte le possibile conseguenze amministrative e penali.

Anzi, sembra più verosimile il contrario. Appare dunque credibile che la ragazza non abbia detto subito ai medici il suo timore di essere stata avvelenata. Certo restano le parole del procuratore Francesco Greco che ieri durante una breve conferenza stampa ha parlato di presunte anomalie nelle cartelle cliniche. Quali non è stato detto. L’ipotesi dell’avvelenamento, oltre che dal fratello, è stata sostenuta dall’avvocato Paolo Sevesi. In più, ieri in Procura è stato riferito che anche prima del ricovero la donna avrebbe presentato sintomi da avvelenamento, mal di pancia e gonfiore. Imane Fadil si è sentita male a casa di un amico. Qui viveva da qualche tempo, in un appartamento a Milano. Da qui è andata all’Humanitas. Come? Da sola o in ambulanza? L’archivio storico delle chiamate al 118 viene cancellato ogni due giorni. È chiaro, spiega un investigatore di un commissariato di polizia vicino a Rozzano, che se la donna si è sentita male in un altro posto, la comunicazione viene data alle autorità competenti per quel quartiere. Insomma, la morte di Fadil è un rebus difficilmente risolvibile in poco tempo. Un dato, oltre alla morte per avvelenamento, resta il fatto che il protocollo sanitario non è stato avviato.