“Imane Fadil avvelenata da sostanze radioattive”

Mix di sostanze radioattive. Potrebbe essere questa la causa della morte di Imane Fadil, 34 anni, testimone chiave nei processi sulle feste del Bunga bunga ad Arcore. “Temo di essere stata avvelenata”, diceva dal suo letto d’ospedale prima di morire. Era arrivata in gravi condizioni al pronto soccorso dell’ospedale Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano, il 29 gennaio. Era stata subito ricoverata nel reparto di terapia intensiva, poi trasferita in rianimazione. Una lunga agonia. Fino alla morte, il 1° marzo. Soltanto ieri la notizia è rimbalzata dal palazzo di giustizia di Milano: il procuratore della Repubblica Francesco Greco ha convocato una conferenza stampa per annunciare di aver aperto un fascicolo sulla morte della ragazza, la prima delle grandi accusatrici di Silvio Berlusconi nei processi del caso Ruby. Ipotesi di reato: omicidio volontario. L’indagine è affidata al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e al sostituto procuratore Luca Gaglio, gli stessi pm che seguono il processo Ruby 3, in cui Berlusconi è accusato di corruzione in atti giudiziari per aver pagato una serie di testimoni inducendoli a mentire. La Procura ha disposto il sequestro della cartella clinica e ha ordinato l’autopsia della ragazza, che sarà eseguita nei prossimi giorni. Ha sequestrato anche oggetti personali di Imane, tra cui il testo di un libro in cui raccontava la sua storia, che avrebbe voluto pubblicare e di cui il Fatto è in grado di rivelare contenuti alle pagine 4 e 5.

L’ipotesi che la morte sia avvenuta per avvelenamento da mix di sostanze radioattive emerge da analisi realizzate da un laboratorio specializzato di Pavia, che avrebbe individuato la presenza di diverse sostanze letali nel sangue. “Nella cartella clinica di Imane Fadil ci sono diverse anomalie”, afferma il procuratore Greco, “e non è indicata alcuna malattia specifica”. Dopo il ricovero, Imane lamentava gonfiori e dolori al ventre, senza che i medici riuscissero però a individuare una causa certa dei sintomi. “Durante il ricovero – ha confermato il procuratore – ha avuto telefonate e visite del fratello e dell’avvocato, a cui ha confidato le sue paure di essere stata avvelenata. Faremo indagini approfondite, perché c’è stata una morte e quindi bisogna considerarla una vicenda seria”.

“Non c’è una diagnosi precisa sulla sua morte”, ribadisce anche la pm Tiziana Siciliano, “ma dalle analisi emerge una sintomatologia da avvelenamento”. Durante la lunga agonia, “c’è stato il progressivo cedimento di tutti gli organi, eppure i medici dell’Humanitas non hanno ritenuto di segnalare il caso alla Procura”. L’ospedale replica che gli esami tossicologici per appurare le cause della malattia erano stati avviati già prima del decesso avvenuto il 1° marzo. “Ma gli esiti degli accertamenti richiesti, molto complessi, sono arrivati solo il 6 marzo e Humanitas li ha subito trasmessi agli inquirenti”. In una nota della struttura sanitaria si aggiunge che “la paziente era stata presa in carico da una équipe multidisciplinare che ha messo in campo ogni intervento clinico possibile per la sua cura e assistenza”.

“Durante il mese di ricovero alla clinica Humanitas Imane era sofferente ma mentalmente lucida ed è rimasta lucida fino alla fine”, racconta il suo avvocato, Paolo Sevesi. Proprio questo ha irritato la Procura, che lamenta di non essere stata informata in tempo dall’ospedale, quando sarebbe stato ancora possibile interrogare Imane. I pm hanno potuto invece sentire soltanto il fratello e l’avvocato, e solo dopo la morte della ragazza. Appena la notizia si è sparsa, si è rapidamente diffusa anche la paura tra le altre protagoniste delle serate di Arcore. “Quello che èsuccesso mi sembra preoccupante, in questa situazione stare tranquilli è pretendere un po’ troppo”, ha detto il legale di Ambra Battilana e Chiara Danese.

Vieni avanti, gretino*

Ieri, leggendo per il terzo giorno consecutivo le dichiarazioni d’amore dei politici italiani a Greta Thunberg e le prime pagine dei giornaloni sui giovani di tutto il mondo che lo difendono dai grandi inquinatori, ho verbalizzato una fastidiosa sensazione che mi pervade da tempo: o sono pazzo io, o sono pazzi gli altri. Sono mesi che l’autoproclamato Partito del Pil ci spiega a reti, edicole e Camere unificate che bisogna sbloccare i cantieri, moltiplicare gli appalti, trivellare il mare, costruire nuovi quartieri, grattacieli e “boschi verticali” abbattendo quelli orizzontali (il “modello Milano”, mai più senza), cementificare e asfaltare ovunque, aprire discariche e inceneritori in ogni angolo, e guai a tassare le auto inquinanti perchè quelle ecologiche si fanno solo all’estero (qui non si usa) e non sta bene favorire lo straniero invasore e penalizzare la Fca, e guai a rinunciare a Tav, Tap, Terzo Valico, Gronda, estrazioni petrolifere, e pazienza per le aree verdi (gli alberi rompono i coglioni e non fatturano) o blu (i fiumi e i torrenti sono bagnati e non edificabili: meglio intombarli sotto il cemento).

I leader e i governatori pidin-forza-leghisti parlano a una sola voce come Carlo Verdone-Armando Feroci in riva al Tevere ne “Il gallo cedrone“: “Signori! Elettori! Ma ‘sto fiume ce serve o nun ce serve? … Se nun ce serve, e io dico che nun ce serve, levàmolo, sotteràmolo, prosciugàmolo! Seguitemi bene in questa mia straordenaria intuizione: al posto del fiume, una lunga lingua d’asfalto a tre corsie. Los Angeles! Risultato, due punti virgolette: traffico azzerato, inquinamento disintegrato, guardo a destra e vedo verde, guardo a sinistra arivedo verde, guardo in alto e vedo le rondini senza più l’ombra di un gabbiano, guardo in avanti e se score, signori, finalmente a Roma se score! Parafrasando la frase di un grande autore del passato ma di una modernità straordenaria, io dirò: con me se va nella città ridente, con me se va nell’eterno splendore. Grazie!”.L’ultima impellenza, urgentissima da 29 anni fino a tre giorni fa, era scavare subito nelle Alpi il buco più lungo del mondo per trasportare ad alta velocità merci inesistenti con qualche minuto d’anticipo da Torino a Lione, così da far girare 15-20 miliardi in un cantiere che finge di fare cose da 15 anni e ne durerebbe altrettanti creando la bellezza di 450 posti di lavoro e infestando di Co2 (12 milioni di tonnellate) e altre emissioni venefiche, cemento, acciaio, rame, amianto, materiali radioattivi e polveri la Val di Susa, che curiosamente non ne vuole sapere (subornata dai famigerati anarchici e/o dalle nuove Br).

I 5Stelle provano a dire no (insieme ai Verdi europei), Conte tenta di convincere i francesi che non conviene neanche a loro e tutti strillano che così tramonta lo sviluppo e arrivano la “decrescita infelice”, la bancarotta, l’apocalisse, finiremo tutti sotto i ponti o agli angoli delle strade col cappello in mano. L’altroieri l’ex pm Carlo Nordio, noto “garantista”, chiedeva sul Messaggero di depenalizzare l’abuso d’ufficio per sostituirlo con un apposito reato di omissione in atti d’appalto, per “sanzionare” finalmente con pene esemplari “chi non decide per sbloccare i cantieri”. Quali, non importa. Lavori utili o inutili, amici o nemici dell’ambiente, sostenibili o insostenibili, sono dettagli. L’importante è costruire altre grandi opere con grandi costi e grandi tangenti ma bassa occupazione, anziché fare piccole manutenzioni con bassi costi e alta occupazione contro il dissesto idrogeologico (su 700 mila frane in tutta Europa, 500mila sono in Italia). Ora, all’improvviso, tutti questi impuniti spasimano per Greta e le sue sorelle: ritratti strappalacrime, improbabili candidature al Nobel per la Pace, fiumi di retorica e titoloni del tipo: “E la politica che fa?”. Svetta su tutti Repubblica, che dopo averci illustrato per mesi, ogni giorno che Dio mandava in terra, gli effetti balsamici del Tav sull’ambiente e la salute, indovinate con chi se la prende? Con “le Cinque stelle che ormai non luccicano più”, cioè con l’unica forza politica dell’arco costituzionale che prova a bloccare quello scempio (sostenuto da Repubblica) e gli altri (le trivelle, sostenute da Repubblica), e viene attaccato da Repubblica per non aver bloccato pure il Tap e chiuso l’Ilva (sostenuti da Repubblica).

L’Agenzia dell’Energia ha documentato che, per domare il clima imbizzarrito, si dovrebbero lasciare sottoterra l’80% dei fossili: altro che trivelle petrolifere e gasdotti. Il decreto sulle energie rinnovabili fu bloccato due anni fa, indovinate da chi? Dai trafelati tifosi dell’incolpevole Greta, quelli che predicavano l’astensione per far fallire il referendum sulle trivelle (Pd, FI e Napolitano), varavano il mirabolante Sblocca-Italia (Renzi e Delrio) e approvavano 12 decreti Salva-Ilva per neutralizzare le indagini e garantire l’impunità ai vertici e ai commissari dell’azienda avvelenatrice. Monica Frassoni, leader dei Verdi europei e no Tav convinta, ricorda che basterebbe aumentare di un punto l’efficienza energetica per creare in Europa 366mila posti di lavoro e ridurre del 4% le importazioni di gas. E che l’Italia ha pagato 600 milioni di multe in 8 anni per le infrazioni alle regole europee sullo smaltimento dei rifiuti. Ma qui l’unico politico che parla di questi temi è Grillo, noto comico, mentre la cosiddetta informazione cadenza le nostre giornate al ritmo dell’armonioso fragore delle rotative misto al festoso sferragliare di supertalpe, turbine, scavatrici e betoniere. Poi, all’improvviso, tutti pazzi per Greta. Noi non abbiamo la fortuna di conoscerla. Ma le auguriamo di tenersi a debita distanza da questi gretini*.

* Citazione dalla vignetta di Riccardo Mannelli pubblicata ieri dal nostro giornale

Silas Corey, i segreti della Prima guerra mondiale nascosti in un francobollo

C’è un filone del fumetto francese che in Italia non ha mai davvero attecchito: quello dell’intrattenimento puro, tutto azione, colpi di scena e ritmo. I lettori italiani di solito amano la ligne claire classica (da Tin Tin a Michel Vaillant) o il fumetto umoristico (da Asterìx a Titeuf). Ma in Francia tra i best-seller ci sono sempre anche serie come Largo Winch e XII, per citare due classici moderni. Magic Press porta ora in Italia un degno membro di questo club di eroi da fumetto che non hanno costumi attillati come i loro colleghi americani, ma sono altrettanto super: Silas Corey. Un po’ giornalista, un po’ agente segreto al servizio soprattutto di se stesso, molto cinico ma, come tutti i veri cinici, anche romantico e idealista. Nella Francia della Prima guerra mondiale si muove sotto la superficie della politica a Parigi, un mondo che sembra fatto soltanto di gossip e champagne ma basta un attimo e si arriva a toccare la guerra. Ne La rete Aquila tutti sono a caccia del più inutile degli oggetti da collezione, un francobollo. Ma anche in uno spazio così piccolo può essere nascosto il destino della guerra. Fabien Nury è uno scrittore che ha assorbito le cose migliori dal fumetto americano (è suo Io sono legione e W.E.S.T.), poche didascalie e molta azione, con la giusta dose di umorismo. Pierre Alvary viene dall’animazione e si vede: le sue tavole si potrebbero leggere anche senza i testi, tanto il montaggio è narrativo e autosufficiente. Una lezione di tecnica del fumetto a chi pensa che i disegni servano soltanto a illustrare i testi. Ogni vignetta è un cambio di campo, un piccolo colpo di scena, ogni spazio bianco tre due scene serve a tenere alto il ritmo. Nel suo genere Silas Corey è il prodotto perfetto.

 

 

La lezione di vita di Forsyth, “il pilota” delle emozioni

Il libro di cui parleremo oggi è scritto da Frederick Forsyth, scrittore inglese esperto nei romanzi di guerra e di avventura. Il libro si intitola Il pilota. Questo romanzo racconta di un giovane pilota dell’esercito britannico che la notte di Natale doveva tornare a casa dalla sua famiglia in aereo da solo. Sembrava che il volo andasse perfettamente bene ma all’improvviso qualcosa andò storto e la suspense cominciò ad aumentare. Forsyth fa una lunga descrizione di quello che succede nel momento angosciante della storia, gli strumenti si spengono, la radio non funziona più, la nebbia si intensifica, la visibilità è ridotta e l’ansia è al massimo. L’autore vuole mostrare che bisogna sempre stare allerta anche quando qualcosa sembra che stia andando bene.

Ma che alla fine c’è sempre una soluzione, che si possa chiamare miracolo o fortuna, ma anche queste due cose, coniugate con la capacità e con il coraggio della persona, non sono così importanti, l’importante è uscire fuori dal brutto momento e credere che ci sia la fortuna o qualche altra cosa concreta o non concreta che ci possa salvare.

Dunque mai perdere la speranza, poiché c’è sempre una soluzione anche per i problemi più grandi. Lo scrittore britannico ci dà una lezione di vita da non dimenticare.

 

Roma, il centro del mondo per i Poirier

Ovunque sia seppellito, il passato ci lascia in custodia sempre delle schegge. E insegna l’archeologia che è proprio nelle schegge, rovine e scarti all’apparenza inutili, che risiede l’unica possibilità di (ri)costruire un presente consapevole, sia esso reale o immaginario.

Un esempio per intuire cosa si intenda per “presente consapevole reale” è il villaggio di Paraloup nel Cuneese: noto per aver ospitato i primi gruppi della Resistenza italiana, come racconta Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti, nell’ultimo decennio è stato ricostruito (con tanto di case e botteghe d’epoca) a opera di studiosi, e in seguito ripopolato. Per comprendere, invece, come possano le schegge ricostruire un “presente immaginario” consapevole del proprio passato, bisogna visitare l’esposizione Romamor di Anne e Patrick Poirier a Villa Medici a Roma (fino al 5 maggio, a cura di Chiara Parisi).

Con un approccio che potremmo definire archeologico, nelle opere della coppia di artisti francesi “la rovina e la memoria di civiltà” spiega la curatrice, “diventano le impalcature sulle quali costruire un immaginario straordinariamente atemporale”. Dedicata nel nome alla città di Roma, culla per eccellenza del passato e luogo caro ai Poirier, la mostra inizia con la ricostruzione di un mondo mandato sottosopra dalla guerra nella scultura luminosa Le monde à l’envers (2019) e prosegue con L’incendie de la grande bibliothèque (1976), dove le rovine di una città sono ricostruite in carbone, a metà tra l’apocalisse e l’utopia. E l’utopia è la chiave di volta di un’altra scultura sospesa: Ouranopolis (1995), in cui un grande anello ospita al suo interno quaranta biblioteche ideali di un onirico palazzo della memoria. Come oniriche sono le scritte al neon che istoriano Le songe de Jacob (2019) e Retrovision (2018), che ben dialogano con l’ipnotico vorticare del mappamondo nell’installazione Surprise Party (1996).

Il vetro, la forma circolare, la luce del neon, il nero del carbone sono le schegge che accumulano storie e vincono l’oblio: magnetico è, infatti, l’accumulo di 168 collage (disegni vegetali fissati nella cera) in Journal d’Ouranopolis (1995). Ed è in questa sala che l’enquête dei Poirier rivela la sua natura: non è solo una mostra sulla memoria, quanto sul tempo, o meglio sul tempo del mondo. I coniugi Poirier proiettano il visitatore in un tempo mutuato dal rapporto che l’uomo ha con le cose, e sembrano suggerire che l’individuo potrà salvarsi solo se si sposterà dal tempo dell’uomo in favore del tempo del mondo.

 

Arriva Pietro Bensi, detective contadino e socialista nell’Italia fascista

È il 3 luglio del 1936, di venerdì. A Firenze, lungo l’Arno. Sono le cinque di mattina e un tranviere va a liberarsi la vescica in un vespasiano. Mosche e topi. E un cadavere. Una giovane donna, massacrata con cinque o sei colpi alla nuca. Il poliziotto che accorre è giovane e si chiama Vitaliano Draghi. Viene dalla campagna, è il figlio di un fattore. Draghi è vicecommissario e risponde a un prefetto – una macchietta di prefetto – allineato in tutto e per tutto al regime del Duce. La donna si chiama Renata Pinotti ed è la moglie di un influente senatore fascista. Il caso comincia a essere scivoloso e Draghi, di per sé divorato dall’ansia e dall’insicurezza, chiede e ottiene che ad affiancarlo nelle indagini ci sia Pietro Bensi, maturo contadino. Bensi è il suo “maestro” e vive nella tenuta del conte dove il papà di Draghi fa il fattore.

Bensi è il vero protagonista di Trappola per volpi, l’esordio da giallista di Fabrizio Silei, acclamato scrittore per ragazzi. Sopravvissuto al macello della Grande guerra, seppure con un braccio fuori uso, il contadino ha cinquant’anni (in quell’epoca si era già vecchi a quest’età), è antifascista e socialista e vanta incredibili doti deduttive alla Sherlock Holmes. In una Firenze estiva, dalla bellezza immutabile, i due, Draghi e Bensi, indagano sulla morte di Renata, scontrandosi con la fretta del regime di chiudere il caso con un colpevole “pazzo” e senza complici. Sono tempi in cui le notizie degli omicidi non compaiono sui quotidiani e l’Italietta molle dei gerarchi viene descritta come un’improbabile potenza imperiale. Per prendere l’assassino sarà necessario imitare le trappole per volpi. Un felice debutto nel giallo, quello di Silei.

 

Il piccolo grande gioiello di un medico

La malinconia è pervasiva: si trasmette con dolce prepotenza dall’autore al fruitore, sia che si tratti di una musica, di un film o di un testo. Nell’arte è il canto della memoria: provoca un piacere estetico in cui gioia e dolore si mescolano, a simboleggiare lo stato ambivalente e precario della condizione umana. Oggi, in letteratura, è sopraffatta dalla volontà dell’intrattenimento a tutti i costi. Ed è per questo che, per contro, capita di rivolgersi con maggior felicità all’autobiografia, al taccuino, al “quaderno”, meno pretenziosi. O a romanzi che, mescolando l’autobiografia all’invenzione, facciano però cogliere, agli occhi del lettore, il sogno dell’autenticità contrapposta al fittizio. Si può definir tale La malinconia dei nati altrove, il romanzo di un medico, un ematologo e internista illustre, Antonino Mazzone, direttore di un’unità operativa complessa di medicina generale in un grande ospedale lombardo? Si può. Di Mazzone ricordo una frase che pronunciò anni fa durante un incontro: “Un medico deve possedere tre qualità: sapere, saper fare, saper essere”. Dove mi colpì soprattutto quel “saper essere” in clausola finale. Vale per la medicina come per tutte le attività umane, letteratura compresa: se manca sottotraccia il dolceamaro filo esistenziale della consapevolezza dell’essere, con le sue nostalgie e i suoi doveri, l’opera vacilla. Ma l’autobiografismo del romanzo di Mazzone trova, mediante un espediente, il modo di non ostentarsi.

Perché nell’anno 2036, nella Milano dei grattacieli delle multinazionali, Federica, manager in carriera, figlia del protagonista, il medico Conitto, siciliano trapiantato in Lombardia (“Conitto era proprio il mio nome, il diminutivo di Cono, il patrono del paese”), e morto da poco, riceve da un notaio, vecchio amico del padre, un diario che lo stesso Conitto ha scritto vent’anni prima, rievocando la sua vita. Lei lo legge con commozione. E attraverso quest’opera di distanziamento l’autobiografia scorre con trasparenza di cuore, assumendo la testimonianza della continuità degli affetti. Conitto, così racconta, è un “nato altrove”, a Naso, vicino a Capo d’Orlando, da famiglia modesta, ma non gli viene a mancar nulla: l’amore dei genitori, i piccoli amici, il suo mare, gli scherzi di paese – un paese “chiuso nella sua nobiltà decadente” –, il senso di calda fratellanza destinato a esser allentato o distrutto dalla vita. Verranno poi gli anni degli studi di medicina a Pavia, le prime passioni, le prime soddisfazioni professionali. Alternando, il romanzo, la storia personale di Conitto, fino al conseguimento dei suoi traguardi, al racconto di alcuni duri casi clinici; dove spicca il credo di questo medico d’eccezione: “Curare e infondere speranza”; “somministrare ai malati non soltanto cure ma anche speranze e sogni”. Non sempre si vince: “Nessun uomo è immune dal dolore e dalle malattie”. Ma ciò che importa è la lotta insieme al paziente: è il nobile assunto che ci fa amare ancor più questo piccolo libro.

 

Corsetti, neo direttore dello Stabile di Roma: “Per chi non sa dov’è il teatro, apriamolo”

Il Consiglio di amministrazione del Teatro di Roma – Teatro Nazionale non ha avuto il minimo dubbio quando, il 19 febbraio, ha eletto il suo nuovo Direttore per il triennio 2019/2021. La scelta è infatti ricaduta all’unanimità su Giorgio Barberio Corsetti, che si occuperà della progettazione e programmazione artistica dei teatri (rispettivamente Argentina, India, Torlonia e Valle), oltre che delle mansioni più prettamente organizzative. Sarà affiancato da Francesca Corona in qualità di consulente artistica per la programmazione del Teatro India.

Tutti i soci aderenti (Comune di Roma, regione Lazio e Ministero per i beni e le attività culturali) hanno riconosciuto senza esitazione la “grande creatività e professionalità artistica” di Corsetti, e questo non poteva che essere uno stimolo incoraggiante per il neo-direttore… “La situazione che ho trovato mi sembra molto positiva, c’è un gran desiderio di imbarcarsi in una nuova avventura, ci sono enormi potenzialità in questo teatro che sono state già messe in moto dalla direzione precedente. Mi ha fatto piacere che ci siano stati sostegno e supporto dal mondo artistico, sia a livello nazionale che europeo: mi hanno dimostrato un grande desiderio di collaborazione, e questo lascia ben sperare”.

Per il futuro, infatti, Corsetti ha ambizioni importanti: vuole che il Teatro di Roma diventi epicentro culturale della Capitale e non solo. “Innanzitutto cercheremo un’apertura verso la Città, anche in senso fisico: sarebbe bello creare luoghi d’aggregazione e di ritrovo aperti tutta la giornata, in cui sia possibile parlare, leggere… Aprirsi alla città significa anche insistere sulla periferia e la provincia. Un’altra urgenza, al momento, è la creazione del ‘cartellone’: vogliamo che ogni spettacolo e ogni evento selezionato diventino spunti di riflessione per gli spettatori, segnando un momento di ascolto profondo, non semplicemente un prodotto da consumare e dimenticare. Oggi siamo abituati a milioni di input continui, che però non ci lasciano niente. Inoltre, c’è un potenziale enorme di pubblico giovane che non conosce la strada per arrivare al teatro: bisogna spianarla”.

 

Spike Lee riporta in Vietnam i veterani della guerra

Si gira in questi giorni a Palermo Il delitto Mattarella, un film scritto e diretto da Aurelio Grimaldi dedicato all’omicidio del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, ucciso a 44 anni il 6 gennaio 1980 da Cosa Nostra per punire la sua politica riformatrice. Sul set alcuni grandi attori siciliani di varie generazioni come Leo Gullotta, Nino Frassica, Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina, Tony Sperandeo, Donatella Finocchiaro, Lucia Sardo e Guja Jelo.

Spike Lee dirigerà nei prossimi mesi per Netflix Da 5 Bloods in cui racconterà le vicende di alcuni veterani della guerra in Vietnam che tornano nella giungla in cerca della loro innocenza perduta. Per interpretarli arriveranno sul set star del calibro di Chadwick Boseman (Black Panther nella saga di Avengers), Jean Reno, Delroy Lindo e Giancarlo Esposito.

Dopo l’eccellente L’ora più buia, il film su Winston Churchill che ha portato all’Oscar un monumentale Gary Oldman, Joe Wright è uno dei registi più ambiti sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti. L’autore di riferimento di Keira Knightley in Orgoglio e pregiudizio, Espiazione e Anna Karenina si prepara a dirigere Tom Hanks in In The Garden of Beasts, trasposizione del libro di Erik Larson dedicato a William Dodd, un professore di Chicago che fu il primo ambasciatore degli Stati Uniti a visitare la Germania poco prima che i nazisti iniziassero a espandersi in tutta l’Europa. Il 46enne regista londinese intanto sta ultimando il montaggio di Woman in the Window, un thriller tratto dall’omonimo romanzo del giovane editor A.J. Finn interpretato con Julianne Moore e Gary Oldman dalla protagonista Amy Adams nel ruolo di una psicologa infantile con forti problemi di alcol, agorafobica e farmaco-dipendente che assiste a un omicidio dalla finestra di casa.

 

Che grande “Gioia” ci regala Delbono

 

Ma che bella e grande gioia La gioia di Pippo Delbono: finalmente uno spettacolo che commuove, che rinfranca, che allarga il cuore, che interessa perché per primo è commosso, rinfrancato e interessato l’autore, attore e regista.

Prodotta l’anno scorso dall’Ert e dal Théâtre de Liège, la pièce chiuderà la sua felice tournée (anche internazionale) al Piccolo di Milano a giugno. Non ci si faccia, però, troppo lusingare e ingannare dal titolo: La gioia parla – anche – di morte, o meglio dell’incessante fluire della vita e della morte. Delbono dice di aver tratto spunto, in questo, dall’Ivan Il’ic di Tolstoj e dagli “occhi gioiosi dei bambini nella discarica di Manila o sulla riva del Gange… Penso alla gioia come a qualcosa che c’entra con l’uscita dalla lotta, dal dolore, dal nero, dal buio. Penso ai deserti, alle prigioni, alle persone che scappano da quelle prigioni, penso ai fiori”.

Inevitabile, quindi, che lo spettacolo “rinasca dalla morte di Bobò” (lo scorso febbraio), uno degli attori-simbolo della compagnia di Delbono, salvato illegalmente dal manicomio di Aversa nel 1995. Ma protagonisti sono un po’ tutti gli eccentrici performer dell’ensemble (Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella), con i loro assoli straordinari, dal tango a Maledetta primavera nella strepitosa interpretazione di Gianluca Ballarè.

L’allestimento promette poesia e lacrime già dalla prima sequenza, in cui Nelson Lariccia – che somiglia a Houellebecq, solo un po’ più spaesato – annaffia pian piano un giardino: fazzoletto di eden, sì, ma pure angolo del camposanto. Di fiori è vestita l’intera recita, curata nel dettaglio dal fleuristenormanno (solo a scriverlo si scatena la fantasia più gioiosa) Thierry Boutemy, mentre la sapiente drammaturgia di scena cuce insieme, con eleganza, tranche de vie degli attori; citazioni letterarie e cinematografiche, da Erri De Luca a Totò; sfilate mostruose; siparietti del circo (più Barnum che Fellini); incubi da manicomio e sbarre da quadri di Bacon; le “sere azzurre d’estate” di Rimbaud, la carne e l’amore, l’esilio e la trance, le allucinazioni private e le fughe collettive su quel “mare nostro che non sei nei cieli”, cimitero di naufraghi e fondale di stracci.

Qui sull’abisso, anche metaforico della follia, si danza: il regista-sciamano – fedele a un buddismo non posticcio – ci ricorda di essere pazienti perché dopo l’inverno arriverà la primavera, dopo il dolore la gioia, dopo la gioia la tristezza, e via così. Non è filosofia spicciola del “tutto scorre” consolatorio e rassegnato, è un omaggio al flusso vitale e fecondo contro il cristallizzarsi delle forme e delle emozioni. Poi, però, alla fine, “tienila la gioia. Basta una”.