Segreti e bugie nel Marocco patriarcale

Da un mese a un anno di reclusione, tanto prevede il codice penale marocchino, all’articolo 490, per chi intrattenga relazioni sessuali al di fuori del matrimonio. A mettere in esergo il castigo l’esordiente regista Meryem Benm’Barek, premiata a Un Certain Regard di Cannes 2018 per la sceneggiatura, Sofia utilizza la soap opera e il dramma familiare à la Asghar Farhadi per concentrarsi sul “delitto”, ovvero il retroterra umano e sociale.

Detto che la mediocrità dell’offerta cinematografica attuale spiega forse giudizi critici troppo entusiastici, il riconoscimento del festival francese distingue il pregio maggiore del film, ma non ne esaurisce l’importanza: se per mandare un messaggio il telegramma rimane preferibile, nondimeno Sofia si fa apprezzare per come affronta il problema principale, il Marocco patriarcale e capitalista, senza stolide certezze in favore di un’ambiguità di rapporti, un’ambivalenza morale, una verità precaria. Nessuna facile risposta, solo gravose questioni, nessuna qualità agli eroi, ma una quantità di punti di vista.

Le responsabilità individuali e le sanzioni sociali si riverberano sulla storia della ventenne Sofia (Maha Alemi), che vive a Casablanca con i genitori piccolo-borghesi: durante un pranzo di famiglia, i crampi allo stomaco la squassano, è la cugina Lena (Sarah Perles), specializzanda in oncologia, a capire quel che lei stessa non sa o, addirittura, nega. Già, Sofia è incinta, in ospedale partorisce, ma la parte difficile è da venire: per non infrangere la legge, deve sposarsi, e deve farlo in fretta.

Quella tra le cugine, l’una passiva, silente e dimessa, l’altra consapevole, istruita e facoltosa – la madre ha sposato un francese, hanno una villa affacciata sull’oceano ad Anfa –, è solo una delle tante contrapposizioni agite dal film, ma la direzione non è mai sintetica, e la tensione non sempre dialettica: la macchina da presa inquadra i rapporti di potere, senza prescrivere rimedi né indicare vie di fuga. E qui l’intenzione della Benm’Barek è palese, senza preclusioni geografiche e identitarie: in Marocco c’è il reato, ma l’humus e le dinamiche sono universali. Per trovare un colpevole, ossia il padre, tocca scendere di classe sociale: si chiama Omar (Hamza Khafif), vive nel popolare quartiere di Derb Sultan, e il resto lo scoprirete da voi.

Come si suggeriva, la regia non ha mai la meglio sulla sceneggiatura, peraltro ben incarnata dalle interpreti: il prognatismo di Maha Alemi custodisce Sofia, così come la Perles saprà rivelare le fragilità di Lena. Il punto cruciale è uno stallo vista mare: le donne di famiglia si confrontano, segreti e bugie affiorano, le parole non sono mai di troppo, viceversa, le posizioni delle attrici sono troppo rigide, studiate e teatralizzate. Nulla di grave, Sofia fa di necessità virtù, di semplicità valore: è un’opera prima che ha molto da dire, e qualcosa da mostrare.

 

La letteratura cambia, l’adolescenza resta

Da pochi giorni in libreria “L’inverno di Giona” di Filippo Tapparelli, vincitore del Premio Calvino 2018: un romanzo sul male oscuro nell’adolescenza. Abbiamo chiesto all’autore di raccontarci come la letteratura affronta questo tema.

Per quanto mi sforzi, non riesco a rivivere quello che ho provato quando ero nel mezzo di quegli anni indefinibili chiamati adolescenza. Anche adesso, quando mi capitano in mano romanzi che parlano di quell’età, mi rendo conto di non capirli del tutto, perché mi sembra di leggere un’astrazione postuma rispetto a un’esperienza fatta di terrori e di sogni, di rabbia e follia, di gesti infantili e pretese irragionevoli di autonomia di chi non è più un bambino e non è ancora un adulto. Prendiamo Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino di Christiane F. e ci troveremo tra le mani un libro che, sotto la crosta della tossicodipendenza, ci mostra la ferocia del non essere ascoltati, del non essere visti, capiti e nonostante questo, sentirsi giudicati. Oggi le neuroscienze ci spiegano che la pigrizia, l’indolenza, l’inaffidabilità, l’imprevedibilità e tutte le altre stranezze che caratterizzano il comportamento degli adolescenti non sono intemperanze legate a un’età della vita, ma l’espressione inevitabile di un processo biologico di formazione neurale. Eppure, tutto ciò che è stato scritto nei libri che ne parlano ci restituisce solo un punto di vista dell’autore che raramente è la testimonianza di un’esperienza diretta – l’adolescenza ha urgenza di sperimentare la vita e non di raccontarla ad altri – ma più spesso lo sguardo di un adulto che cerca di comprendere eventi ed emozioni ormai distanti secoli da lui.

Ecco perché parlare di chi ha scritto di quell’età folle, come se fosse un argomento univoco e compatto, mi sembra complesso. Certo, abbiamo avuto Trainspotting di Irvine Welsh che, riprendendo ciò che lo Zoo di Berlino ha interrotto a metà, ci ha mostrato quello che accade quando la paura del mondo adulto diviene più forte del terrore dei protagonisti del libro di rimanere inchiodati all’eterno presente. Eppure ne rimaniamo affascinati, perché la verità è che tutto quel buio stampato nero su bianco ci è sempre sembrato lucido e invitante, se paragonato al bianco ordinario nel quale siamo immersi. Sotto sotto abbiamo sempre fatto il tifo per i cacciatori de Il signore delle mosche perché noi, da adulti, pensiamo che un gruppo di ragazzini abbandonati a loro stessi su un’isola dell’oceano Pacifico dovrebbe passare il tempo a spassarsela, a giocare e a oziare. Invece loro si fanno la guerra, si uccidono come i grandi che si sono dimenticati di loro, solo che lo fanno con più crudeltà, come se sapessero che la loro vita sarà in ogni caso condannata a finire se verranno riportati nel mondo civile e volessero vendicarsi. Perché dall’adolescenza non si esce mai vivi: si esce adulti. Lo sapeva bene Golding, l’autore del romanzo, quando scrisse che l’uomo produce il male come le api producono il miele ed è per questo che gli adolescenti abbandonati su quell’isola ne producono più di quanto un adulto saprà mai fare: perché l’oscurità ci prende dal primo momento in cui ci ribelliamo ai nostri genitori, fino a quando non impariamo a nutrircene e diventare tutt’uno con lei. Perché il buio riecheggia in noi anche se ci sforziamo di seppellirlo sotto strati di buonsenso. E così risuoniamo nei cento colpi di spazzola di Melissa P, con il suo fare sesso senza rimorsi. Invidiamo i Mark Renton e le sue pere di eroina. Invidiamo, che dio ci perdoni, persino gli Edward Cullen di Twilight, che hanno avuto il coraggio di ribellarsi, almeno sulla carta, all’ordine costituito. Ci crogioliamo nell’immaginare l’ultraviolenza di Alex DeLarge e i suoi drughi in Arancia meccanica. Perché non è sulla candida carta di un romanzo rilegato in pelle che ogni adolescente scrive il suo personalissimo e folle racconto chiamato vita, ma sulle pagine macchiate di un taccuino cacciato nella tasca posteriore dei jeans.

Qualche anno fa mi è capitato di leggere Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron. E mi sono detto che se, a cinquant’anni di distanza, il protagonista del libro, James Sveck, potesse incontrare oggi a New York Holden Caulfield, nato nel 1951 dalla penna di J.D Salinger, i due si capirebbero alla perfezione senza bisogno di parole, perché nel corso degli anni il mondo cambia, ma le ombre dell’adolescenza restano sempre identiche a loro stesse.

Alberto Angela, il cavaliere tv tra duelli, droni record di share

Il tombeur de share Alberto Angela ha colpito ancora. Il suo ritorno su Rai1 con le Meraviglie d’Italia ha mandato a tappeto perfino Checco Zalone, e non si venga a dire che Zalone era in replica, perché Angela era più in replica di lui. L’ex figlio di Piero (ormai divenuto il padre di Alberto) replica se stesso, ed è questo il primo dei suoi segreti. La corte dei Gonzaga è stupenda, la Costiera è ’nu babà, ma nessuno se le filerebbe in slow motion se invece di Osvaldo Bevilacqua non ci fosse lui, l’ideale cavaliere che ogni telespettatrice vorrebbe avere al suo fianco. “Vedete…” “Guardate…” “Pensate…”, la tecnica di Angela, il suo fingere di trovare la parola giusta mentre legge il copione, ha radici antiche; quelle dell’Uomo in Lebole di Carosello (“Ho un debole per l’uomo in Lebole”) e del “Signor Mike” del Rischiatutto, ma con assi nella manica di grande modernità. Per cominciare, agisce in regime di monopolio politico; tutti si accapigliano sulla strana coppia Salvini-Di Maio, ma solo lui affronta il braccio di ferro tra Bernini e Borromini. Poi c’è il drone galeotto, grazie a cui si elevano gli animi e le pupille; e quando il drone atterra, terzo e decisivo asso: il calar delle tenebre. Bello di giorno, Angela diventa irresistibile di notte, nel riverbero dei lampioni, nella vampa delle fiaccole, mentre Piazza Navona si srotola deserta alle sue spalle. Il conduttore che crea un’atmosfera. Da una feritoia nascosta Bernini lo osserva compiaciuto. E un po’ invidioso.

Zingaretti, ascolta Cacciari e fai l’opposto di Renzi

Spero che Zingaretti dia ascolto a Cacciari. Il neo segretario Pd ha condensato in due parole la sua bussola: unità e cambiamento. Unità è proposito scontato per chi assume la guida di un partito. Cambiamento è impegno che esige di essere più precisamente declinato. E che può entrare in tensione con la cura per l’unità. Merita perciò fissare il senso di tale discontinuità. Può aiutarci l’ultimo libro di Renzi, che rivendica con orgoglio la sua azione alla guida del partito e del governo.

1. Il Pd, nella scorsa legislatura, è stato o ha trasmesso l’immagine di “partito dell’establishment”. Il che ha contribuito a disegnare la propria geografia elettorale dentro il perimetro della ZTL, cioè dei ceti urbani abbienti e istruiti. Un problema per un partito con radici a sinistra. A conferma, due elementi connessi: a) una legge elettorale (il Rosatellum) concepita in vista di una maggioranza Pd-FI; b) la campagna per il “voto utile” a battere i “barbari” essenzialmente intesi come i 5 stelle, scelti da Renzi come l’avversario principale e sistemico, con un effetto boomerang. Concorrendo cioè ad accreditarli come il partito anti-establishment quando il vento spirava vigorosamente in tale direzione.

2. A correggere quell’autorappresentazione del Pd non hanno giovato le rapsodiche concessioni di Renzi a un’antipolitica light: le polemiche con la Ue, i tecnici, i burocrati, i professori, Bankitalia; la campagna referendaria costituzionale fondata sul discredito verso i politici. Affonda lì la rottura tra Renzi e Gentiloni che, nel libro La sfida impolitica, critica l’errore inseguire goffamente umori che avrebbero premiato più plausibilmente gli avversari.

3. La differenza già messa a verbale da Zingaretti è quella della politica delle alleanze, larghe, plurali, inclusive, civiche e politiche. L’opposto della presuntuosa autosufficienza inaugurata da Veltroni ed esasperata da Renzi. Una cultura della coalizione che si costruisce nel tempo, non si improvvisa in campagna elettorale. Zingaretti parla di empatia. L’opposto dell’antipatia sulla quale già ammoniva il Pd renziano un simpatizzante come Farinetti.

4. Tra i mantra di Renzi, la tesi della guerra degli oppositori interni al “Matteo sbagliato”. Curiosa autocritica, come di chi fa il mea culpa battendo il petto degli altri. In realtà, pochi hanno potuto godere di un potere tanto grande. Partito personale, Direzione ridotta a teatro di un rito di mera ratifica delle decisioni del capo. Non si ha memoria di una sola volta in cui la Direzione si sia chiusa con una decisione diversa da quella con cui si era aperta. Chi ha esordito col gioco duro della rottamazione (forse necessaria) non poteva attendersi una dialettica da “mammolette”.

5. La tesi secondo cui oggi dovremmo rimpiangere la bocciatura della riforma costituzionale è singolare. Essa conferiva straordinari poteri alla maggioranza contingente, mettendo nella sue mani gli stessi organi terzi di garanzia. Come si può protestare oggi (con ragione) contro una maggioranza non immune da pulsioni illiberali e rimpiangere una riforma che le avrebbe assegnato un potere esorbitante?

6. Continuo a pensare che fu un errore negarsi al dialogo con i 5Stelle quando Mattarella ne fornì al Pd l’opportunità. Oggi è tutto più difficile. Ma non convince Renzi quando rivendica il merito di “avere distrutto” i 5Stelle. Intanto sarei più prudente. Ma soprattutto: a) è un gran merito avere concorso a raddoppiare il consenso a Salvini? Forse sì, se il non detto è che Salvini sia più potabile; b) proprio la Lega dimostra come muovendo dal 17% (il Pd ebbe un punto in più!) si possono invertire i rapporti di forza. Naturalmente se si fa politica, non ci si rifugia sull’Aventino e non si tiene in ostaggio il partito per un anno.

Ecco un piccolo promemoria per declinare la discontinuità e per porre le basi di un nuovo corso, che deve discostarsi esattamente dal corso renziano.

Rai governativa da sempre, anche con Verdelli

Non ho ancora letto il libro in cui Carlo Verdelli, neo direttore di Repubblica, racconta la sua breve e travagliata esperienza alla Rai, nella veste di direttore editoriale, a fianco dell’ad e dg Antonio Campo Dall’Orto. Entrambi, come si sa, furono poi costretti a dimettersi nel giro di un anno e mezzo o poco più. Ho letto però la recensione di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, dove si parla testualmente di defenestrazione, e poi l’elogio dell’ex consigliere di amministrazione Guelfo Guelfi, di nomina renziana, sul Foglio. E tanto m’è bastato per farmi un’idea della tesi del memoir di Verdelli.

Cominciamo dal titolo del libro, edito da Feltrinelli: Roma non perdona. Sottotitolo: Come la politica s’è ripresa la Rai. Ma quando mai, in quale periodo storico, la politica ha lasciato la Rai? Non risulta che sia accaduto né nella Prima Repubblica né nella Seconda e, almeno finora, neppure nella Terza sotto il governo giallo-verde. Ha ragione probabilmente de Bortoli: Verdelli “non sapeva allora che avrebbe poi diretto Repubblica (sede principale a Roma) se no il titolo sarebbe cambiato”. Ma il problema non è soltanto logistico, perché quel giornale è da sempre “romanocentrico”, strettamente legato alla vita politica, al cosiddetto Palazzo. E dunque, il neo direttore si ritroverà prima o poi a frequentare gli stessi ambienti: tanto più che ormai “Stampubblica” non appartiene più a un “editore puro” – com’era la proprietà originaria divisa fra il Gruppo L’Espresso e la Mondadori, e com’è stato fino a quando è durato Carlo Caracciolo – bensì a due padroni come la Fiat e la famiglia De Benedetti, due lobby che con quel mondo hanno avuto e hanno molto a che fare. Auguri.

Quanto alla Rai, posto che la politica non se l’è ripresa per il semplice fatto che non l’ha mai lasciata, bisogna dire che non l’aveva lasciata neppure ai tempi in cui Campo Dall’Orto e Verdelli furono insediati al vertice. Anzi, quelle nomine, precedute da una “riformicchia” del governo Renzi che avocò la scelta dell’ad e accentrò nelle sue mani i pieni poteri contro tutte le pronunce della Corte costituzionale, furono decise in forza di una lottizzazione come tutte le precedenti. Per cui, al di là delle doti e dei curriculum delle persone prescelte, corrispondevano a un criterio di appartenenza o di fedeltà politica. E così sarà, purtroppo, fino a quando non verrà approvata una riforma organica, sul modello di quella proposta nel 2005 – come ha ricordato Marco Travaglio – da un gruppo di giornalisti, artisti e giuristi, per affrancare il servizio pubblico dalla sua doppia sudditanza alla politica (governance) e alla pubblicità (risorse).

A memoria d’uomo, non sembra che l’autore del libro si sia mai occupato della questione in precedenza, né su Vanity Fair, né sulla Gazzetta dello Sport e neppure sul Corriere. Il suo piano editoriale, pur contenendo alcune proposte positive e altre meno come il trasferimento del Tg2 a Milano, un improbabile Tg Sud, l’accorpamento RaiNews-Tgr e la riduzione delle sedi regionali, ottenne una bocciatura informale dal Cda. E in particolare, suscitò la giustificata opposizione dell’Usigrai. La stessa liaison di Verdelli con il consigliere di amministrazione renziano, l’unico componente del Cda – come rivela lui stesso – col quale aveva buoni rapporti, conferma quantomeno un’affinità personale e intellettuale. Del resto, non era un mistero per nessuno che Campo Dall’Orto, chiamato dall’autore del libro il Celeste – “chissà perché”, nota de Bortoli – come Formigoni, avesse stabilito un rapporto privilegiato con l’ex premier ed ex segretario del Pd. Tanto da aver partecipato anche a una o più edizioni della Leopolda, non si sa se in qualità di osservatore o di supporter. Sarà pur vero, allora, che “Roma non perdona”. Ma non perdona soprattutto i peccatori. E noi, cristianamente, lo siamo più o meno tutti.

Tav, il vero profitto di cittadinanza

Le motivazioni dei sostenitori del Torino-Lione sono di grande interesse: rivelano errori intellettuali che tendono a estendersi alla generalità degli investimenti nelle infrastrutture di trasporto. I principali sono tre: il keynesismo ingenuo di chi vede gli investimenti pubblici come semplice eccipiente della domanda aggregata; chi vede le opere pubbliche come omaggio dello Stato al territorio specifico; infine chi sostiene che basti costruire le infrastrutture affinché poi qualcuno si decida a usarle.

Parto dall’ultimo. La separazione tra le infrastrutture e i trasporti nelle politiche pubbliche ha una lunga storia, documentabile già dal regno di Sardegna e per tutto il periodo unitario con un ministero dei lavori pubblici che si occupava delle infrastrutture ma non dei servizi di trasporto che avrebbero dovuto utilizzarle. Solo nel 2001 i due ministeri sono stati unificati, ma solo a livello di nome e di vertice politico, non nell’organizzazione interna. Finché il Paese era fortemente sottodotato di infrastrutture, e i vincoli di finanza pubblica non stringenti, l’approccio dell’intanto costruiamole poi qualcuno le userà, poteva andar bene. Da tempo non è più così e ogni duplicazione in aree in cui non servono è una sottrazione di risorse per le aree che restano sotto-dotate e per le indispensabili manutenzioni, ordinarie e straordinarie.

Se oggi per miracolo la Torino-Lione esistesse già, maggiori quantità di merci entrerebbero e uscirebbero dall’Italia? È ciò che affermano implicitamente coloro che sostengono che l’opera sarà fonte di sviluppo. Si tratta però di un grave errore: il fabbisogno di transiti mercantili dell’Italia è paragonabile al fabbisogno di transiti di un gregge di pecore dai varchi di un recinto. Se creiamo più varchi non avremo un gregge più grande, come sostengono i nostri sostenitori dello sviluppo prodotto dalle opere, semplicemente le pecore esistenti usciranno usando più varchi. Non è il numero o la capacità dei varchi a determinare la grandezza del gregge ma quest’ultima a determinare il fabbisogno di varchi e, finché la loro capacità globale resta molto elevata rispetto a chi li usa, non si vede la necessità di costruirne di nuovi a caro prezzo.

Questo è vero solo a condizione di non essere keynesiani ingenui, i quali vedono la domanda per opere pubbliche come semplice eccipiente della domanda aggregata in fasi di crisi, così non importa a cosa servono, dove vengono fatte e cosa sono in grado di mutare dal lato dell’offerta. Ovviamente i costruttori scaltri vanno d’accordissimo con i keynesiani ingenui. Nell’ottica precedente, la costruzione delle piramidi nell’antico Egitto poteva risultare molto più keynesiana della Torino-Lione se solo ai Faraoni fosse venuto in mente di remunerare gli schiavi. Essa ha inoltre attivato molta domanda turistica, anche se con qualche millennio di ritardo. Ovviamente non arrivo a consigliare ai torinesi di seguire l’esempio e costruire al posto del Tav una piramide, anche se immagino che l’effetto sullo sviluppo economico potrebbe risultare ben maggiore e la spesa pubblica assai minore.

Per i keynesiani ingenui, il Tav non è principalmente una linea ferroviaria ma un’enorme buca keynesiana in orizzontale. Vi è però una differenza non piccola: le buche keynesiane che due squadre successive dovevano prima aprire e poi chiudere, avevano lo scopo di erogare sostegno economico senza disabituare al lavoro. Un precursore intelligente del reddito di cittadinanza. Invece le grandi opere, costruite con grande dispiego di tecnologia e mezzi meccanici e poco lavoro, non hanno la stessa funzione e quando non servono sono una furbesca attuazione del profitto di cittadinanza, inventato già molto tempo fa e ovviamente riservato a pochissimi fortunati.

Vi sono infine coloro che vedono lo Stato non come un proseguimento dei cittadini con altri mezzi bensì una sorta di elargitore di beni manna, con in testa le imprescindibili opere pubbliche. Esse soddisfano il bisogno dei territori di essere considerati, non necessariamente i bisogni di spostamento dei cittadini. Così, per accontentare i territori, raddoppiamo i binari anche dove nessun treno si incrocia o ha bisogno di incrociarsi al di fuori di stazioni prefissate e realizziamo terze corsie autostradali anche nei casi in cui esse servono solo a lasciare libere le prime. In altri Paesi se la cavano meglio. In Svezia l’ottanta per cento delle linee è a binario singolo, non si lamenta nessuno, i treni viaggiano puntuali e sono usati più del doppio che in Italia. In Francia le amministrazioni locali sostengono quote rilevanti dei costi delle opere pubbliche, oltre i quattro quinti , così evitano di formulare richieste eccessive. Se fosse così anche da noi i piemontesi non potrebbero chiedere ai calabresi e siciliani, che non hanno avuto il ponte sullo Stretto, di contribuire al Tav così da poter andare più comodamente a Parigi anche se hanno paura di volare.

Mail box

 

La Chiesa ostacola lo Stato nella lotta alla povertà

Anche i vescovi si scagliano contro il Reddito di Cittadinanza, da loro definito “una forma di cittadinanza passiva e parassitaria”. Eppure al centro del messaggio cristiano c’è il tema della povertà. Come spiegare questa sorprendente deviazione dalla retta via? Semplice: la Chiesa per millenni è stata l’istituzione che più si è spesa per aiutare i poveri e si è fatta carico di questa problematica anche quando la politica si mostrava del tutto indifferente. Ora, l’intervento dello Stato in un ambito che la Chiesa ha sempre considerato di propria esclusiva competenza viene percepito come un’indebita interferenza in una materia gestita per secoli dalle istituzioni ecclesiastiche. Se è lo Stato a occuparsi dei poveri, la Chiesa teme di perdere il monopolio nell’esercizio della virtù teologale della carità. Anzi, lo Stato è un pericoloso concorrente, perchè pone tale questione sul piano del diritto e non su quello della carità: il diritto esalta la dignità delle persone, la carità la umilia e la mortifica.

Maurizio Burattini

 

Il Parlamento italiano può imparare dagli inglesi

Ho assistito in diretta tv alle votazioni circa il futuro della Brexit. Al di là del risultato importantissimo per l’Inghilterra, per l’Europa ed anche per il resto del mondo, mi hanno colpito la compostezza e i toni pacati con i quali si è commentata la storica votazione e la modestia del luogo in cui è avvenuta. Mi sono venute alla memoria le scene che invece succedono nel parlamento italiani, lo spettacolo miserrimo di gente che si trastulla con i-phone, legge giornali e magari vota per gli assenti. Che dire poi dell’esposizione di striscioni, forche, lanci di volumi e il tutto con centinaia di gallonati steward, pagati per dividere le varie tifoserie? Il video della votazione inglese andrebbe fatto girare nelle scuole, per far vedere dove si esercita la democrazia vera e non quella costosa rappresentazione italiana. Alla Camera dei Comuni non si sono viste persone che parlavano al telefono e, tantomeno, che si tappavano la bocca per non far capire dal labiale cosa dicevano. Come si potrebbe concepire, in Italia, il fatto che alcuni debbano rimanere in piedi per mancanza di posto sui divani e non distinguere, come nelle curve degli stadi, i tifosi di una o dell’altra parte? Non sarà mica questa la libertà di ogni eletto, se lo ritiene giusto, di votare una proposta che non sia del suo gruppo? In Italia se ‘’appartieni’’ ad partito devi votare anche ciò che ripugna alla tua coscienza, turandoti il naso però. Credo anche che questo modo di interpretare la democrazia come uno spettacolo, abbia incoraggiato gli americani e gli europei nel cercare di condizionare, pesantemente, le decisioni del governo di fare accordi commerciali con la Cina che potrebbero aiutarci ad uscire da una decennale crisi, iniziata negli Usa, e che tuttora ci minaccia. Non mi convincono gli avvertimenti ‘’alla venezuelana’’ che ogni giorno giungono da certe cancellerie. Spero che non scoppino bombe come in certi periodi è successo.

Francesco Novembrini

 

Siamo sicuri che Grillo sia stato messo da parte?

Non è vero quanto si legge nei giornali, e cioè che nel “nuovo Movimento 5 Stelle” Grillo, come garante, è stato ridotto a un ruolo irrilevante. Infatti Grillo, in base allo Statuto (artt. 3, 4, 8 e 10):

1) Dev’essere consultato sulle candidature alle elezioni politiche, europee e amministrative;

2) Propone la mozione di sfiducia al capo politico e la sottopone alla consultazione della rete. Di essa può anche chiedere la ripetizione;

3) È il custode dei valori fondamentali dell’azione politica del M5S: in tale spirito esercita con imparzialità e autorevolezza le prerogative riconosciute dallo Statuto;

4) Gli è attribuito il potere di interpretazione autentica e non sindacabile delle norme dello Statuto;

5) Sceglie i candidati all’incarico di componenti del Comitato di Garanzia;

6) Resta in carica a tempo indeterminato, ma il Comitato di Garanzia, a maggioranza assoluta, può revocarlo con delibera che dev’essere ratificata dalla maggioranza assoluta degli iscritti. Se gli iscritti non ratificano la proposta di revoca, il Comitato di Garanzia viene immediatamente sciolto;

7) Propone i candidati all’elezione del Collegio di Garanzia, il quale, anche su una denuncia, può avviare un procedimento disciplinare.

Nicola Ferri

 

DIRITTO DI REPLICA

Contrariamente a quanto affermato nell’articolo di Antonio Massari (“Firenze, indagine sul bando firmato anche da Conte”), il prof. Augusto Fantozzi non ricopre la carica di Rettore dell’Università Telematica “Giustino Fortunato” ormai dal 12 febbraio 2018. A partire da tale data, ricopre la carica di Rettore il prof. Angelo Scala, ordinario di Diritto processuale civile nella nostra Università.

Ufficio Rettorato, Università Telematica “Giustino Fortunato”

 

I NOSTRI ERRORI

Sul giornale di ieri, nell’articolo “Richiamo del Garante della Privacy: ‘Non diffondetele’” abbiamo per errore pubblicato la foto di Guido Crosetto e non quella di Antonello Soro. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Social network. Ne siamo così dipendenti da considerarli servizi di prima necessità

Buongiorno, come tutti, l’altro giorno, mi sono molto irritato per il black-out di Facebook e Instagram, mai però mi sarei sognato di allertare polizia e carabinieri, come pare abbiano fatto alcuni australiani. Ma siamo impazziti?

Giorgio Zanetti

Gentile Giorgio, impazziti no, assuefatti sì. Tanto da considerarli ormai servizi di prima necessità. Ci ho pensato stamattina: mentre arrivavano le foto, gli audio, i messaggi che ieri sera Whatsapp non era in grado di traghettare dai miei amici e colleghi a me, ho pensato: “Ma erano davvero così importanti? Sapere in diretta che la mia amica aveva infornato un tortino a forma di cuore o controllare l’ultima sfaccettatura di sé che il mio amico voleva comunicare al mondo su Facebook e Instagram è davvero fondamentale?”. La risposta è stata rapida: no. Ma non posso negare che, in parte, tutto questo arricchisce parti della mia esistenza che altrimenti sarebbero molto più aride. Perché non ho mai tempo per parlare con la mia amica quanto vorrei. E se lo trovassi, potrei comunque usarlo per chiederle della ricetta (cosa che invece non farei con brevi messaggi). Non ho neanche la possibilità di incontrare il mio amico perché vive a 500 km di distanza, né ho con lui abbastanza confidenza da chiedergli il numero: sono però a quel livello di conoscenza tale da desiderare di sapere come se la passa. Se fossi in paese mi informerei con sua madre. Non ci sono e quindi lo seguo su Facebook o Instagram. Arrivo così alla seconda considerazione: la comunicazione senza fili si è trasferita dalle linee telefoniche alla Rete. Ci si telefona sempre meno, si lasciano molti più messaggi vocali su Whatsapp e Telegram. Gli sms sono scomparsi ma si usano i messaggi privati. La conseguenza è che tutto resta registrato e indelebile. Di quasi ogni scambio c’è traccia: foto agli amici o alla dolce metà, audio in cui si parla male del capo, approcci online a sconosciuti. Insomma: immagini cosa significhi ipotizzare o temere che ci sia stato un attacco hacker che rischi di sottrarre tutto questo, oltre che di interrompere quei servizi ormai diventati essenziali. Un po’ di ansia è forse comprensibile. Per molti, ancora, i social network hanno sostituito “Internet”: non conoscono la Rete oltre le piattaforme ed equiparano i loro malfunzionamenti a quelli della fornitura di luce o gas. E ora, mi scusi, ma devo correre a salvare su un hard disk tutte le adorate foto del mio passato che da anni conservo solo su Facebook e Instagram.

Virginia Della Sala

Il Padrino ucciso a New York spaventa Palermo

Sono le 2,20 di notte in Italia: sei proiettili ammazzano Francesco Paolo Augusto Calì, 54 anni, detto “Frank Boy”, pezzo da novanta dei Gambino, una delle storiche cinque “famiglie” padrone di New York. L’agguato, in pieno stile mafioso, è avvenuto “in prima serata”, 21,20 ora locale, davanti alla casa del boss, padre di tre ragazzi minorenni, in quella Staten Island già quartier generale di don Vito Corleone nella finzione hollywoodiana de Il Padrino.

Scosse che dall’America si propagano in Italia, piombando sulla scrivania del magistrato di collegamento con gli Stati Uniti. A New York un omicidio di mafia del genere non finiva sulla cronaca nera da trent’anni. Primi indizi: viaggi saltati all’ultimo momento. O due mesi prima per l’arresto, nel caso di Settimo Mineo, il boss di Pagliarelli “scelto” a maggio 2018 per presiedere la nuova Cupola, che già aveva incontrato i cugini Inzerillo. Poi c’è la figura di Stefano Fidanzati, libero a Palermo, quartiere dell’Arenella, da ormai più di un anno, dal 23 gennaio 2018: rappresenta un raro esempio di famiglia non sconfitta e non costretta alla fuga dai Corleonesi di Riina pur appartenendo a quella “nobiltà” di Cosa nostra condivisa proprio con gli “scappati” a “Broccolino”, in fuga a Brooklyn per non rimanere sull’asfalto di Palermo in un lago di sangue.

Quegli “scappati” che ricominciarono, dopo l’arresto di Totò Riina nel 1993, a rimettere il naso negli affari di Palermo, in punta di piedi, magari per ritornare a comandare dentro Cosa nostra una volta che la stella nera dei Corleonesi fosse tramontata dopo la morte di Riina da detenuto (2017) più che dopo l’arresto del “moderato” Bernardo Provenzano (aprile 2006). E a riprendere i contatti con la Sicilia fu proprio “Frank Boy”, da cui si recarono Nicola Mandalà di Villabate e Gianni Nicchi come ambasciatori del boss Antonino Rotolo. Un equilibrio, anche nei traffici di droga, garantito via Miami da Roberto Settineri, tramite dei Gambino e dei Colombo. Colombo che hanno perso da pochi giorni il capo storico: Carmine Persico detto “The Snake”, morto mentre scontava una pena cominciata a metà anni ’80, da quanto durava la pax mafiosa americana. Coincidenze? Scherzi del caso come la morte di John Gambino a Staten Island “raggiunto” dopo qualche ora proprio da Riina tra il 16 e il 17 novembre 2017? Forse. Ma due giorni fa il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi, in commissione Antimafia a Roma, ha fatto riferimento all’aumento del traffico di droga, segno di una rigenerazione di Cosa nostra. Segnali di una poderosa riorganizzazione anche per Nino Di Matteo, ora in forze alla cosiddetta Superprocura. L’ex pm di Palermo ha un’altra convinzione: “L’ortodossia corleonese non è tramontata come molti pensano”. Quel che appare certo è che tra una sponda e l’altra dell’Atlantico la Piovra si agita.

Bruxelles aspetta, ma ha già “messo in sicurezza” le urne di fine maggio

Il caos inglese si ripercuote su Bruxelles e su tutto il resto dell’Unione: decisivi per orientarsi da qui alle elezioni europee saranno i prossimi 7 giorni.

Come risponde l’Ue alla richiesta di tempo di Londra?

La decisione ufficiale spetta al Consiglio Ue, che si riunisce a Bruxelles giovedì e venerdì. Ieri sera da Bruxelles facevano sapere che sono già in corso colloqui informali tra le rappresentanze dei 27 (Regno Unito escluso): l’orientamento generale è di concedere il rinvio, ma ben motivato da parte della May. Ma nessuno spiraglio di rinegoziazione dell’accordo.

I Paesi Ue sono quindi compatti rispetto a Londra?

Per approvare le decisioni di Londra, serve l’unanimità: i governi più severi nei confronti del Regno Unito sono quello francese, quello olandese e quello spagnolo (per la controversia su Gibilterra), ma tendenzialmente raggiungere l’unanimità non dovrebbe essere un problema.

Quali gli scenari possibili?

1) Uscita entro 23 maggio, data d’inizio delle elezioni europee. In questo caso i britannici non sarebbero tenuti a votare per il Parlamento Ue. È lo scenario auspicato da Bruxelles.

2) Uscita entro il 2 luglio, dato d’insediamento del nuovo Europarlamento, dunque successivo alla scadenza del 30 giugno. Anche in questo caso, i britannici non sarebbero tenuti a votare. Bruxelles preferirebbe di no, ma ancora non saremmo all’irreparabile.

Come si sta preparando il Parlamento europeo allo scenario voto?

Fonti di Strasburgo confermano che i tecnici non sono ancora al lavoro e non lo saranno finché Londra non avrà preso la sua decisione e questa non sarà stata ratificata dal Consiglio la prossima settimana. Il Parlamento aveva già previsto, la redistribuzione parziale dei 73 seggi del Regno Unito ad altri Paesi. Il numero totale è attualmente fissato a 705, rispetto ai 751 della scorsa legislatura.