La Brexit viene solo d’estate. Resta in bilico il voto sull’Ue

Ed estensione sia. Con un voto storico il parlamento britannico ieri sera ha approvato a stragrande maggioranza (412 a 202, quindi anche con il sostegno laburista) la mozione del governo May: entro il 20 marzo ci sarà un terzo passaggio parlamentare per il suo accordo con Bruxelles, già affossato due volte. In caso di approvazione, il giorno dopo la May chiederà al Consiglio europeo una estensione tecnica dell’art 50 fino al 30 giugno, tre mesi in più per approvare la legislazione necessaria all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.

Se invece per la terza volta il Parlamento boccerà la ratifica di quell’accordo, la May chiederà una estensione molto più lunga, di 12 o 21 mesi, vincolata però ad una decisione del parlamento su quale direzione seguire.

Una road-map finalmente chiara ma, soprattutto, un ultimatum ai falchi del suo partito e agli unionisti del Dup che, facendole mancare voti cruciali, sono stati i primi responsabili della bocciatura del suo piano. Tradotto: se stavolta non mi sostenete rischiate di perdere quella Brexit che è la ragione principale della vostra esistenza politica.

Una linea rilanciata a distanza anche dal Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che ieri ha gettato alla May un salvagente twittando: “Prima del summit europeo della prossima settimana farò appello ai leader dei 27 stati membri perché siano aperti ad una estensione lunga, se il Regno Unito la riterrà necessaria per ripensare la sua strategia su Brexit”.

Che significa? Che una lunga estensione potrebbe portare a vari esiti non graditi ai falchi: nuove elezioni o, più probabile, la temutissima virata verso una soft-Brexit, magari con unione doganle permanente come vorrebbe il Labour di Corbyn.

Prospettiva di fronte alla quale potrebbero forse riconsiderare i meriti del deal portato a casa dalla May: controllo dell’immigrazione, uscita dalla Corte di giustizia europea, uscita dal mercato unico e, con dei caveat, dall’unione doganale.

E infatti cominciano ad esserci avvisaglie di cedimento: il Dup ieri ha fatto sapere di aver ripreso il dialogo con il governo, a cui chiede solo garanzie che, in caso di approvazione del deal, l’integrità costituzionale con la Gran Bretagna verrà preservata. E i Tory euroscettici cercano ulteriori chiarimenti legali sulle modalità di uscita unilaterale dal meccanismo della backstop.

Insomma, stratagemmi per cedere senza perdere la faccia, dopo mesi e mesi di opposizione dura e pura.

Certo, resta il convitato di pietra, quella Unione Europea disposta ad una breve estensione tecnica ma per cui una estensione lunga sarebbe molto complicata. Implicherebbe la partecipazione dei britannici alle elezioni europee, cioè al parlamento europeo e, soprattutto, a decisioni cruciali sulla prossima Commissione e sul prossimo budget.

Come sottolineato dalla Commissione poco dopo il voto di ieri: “Una estensione dell’art 50 richiede l’assenso unanime dei 27 stati membri. Sta al Consiglio europeo valutarla, dando priorità al buon funzionamento delle istituzioni europee e tenendo in considerazione le ragioni di una possibile estensione”.

“Come riconoscere l’ebreo” in Polonia dilaga il tic nazista

“Come si riconosce un ebreo?”. Nella pallida Polonia europea lo spiegano, a lettere cubitali, in prima pagina sul Tylko Polska, ovvero “solo Polonia”. Non prima tra le altre: nazione unica, sola. “L’ebreo devi individuarlo dal suo nome, dalle caratteristiche antropologiche, dalle apparenze”. Poi “dalle espressioni facciali, i tratti del corpo”, da un non specificato “metodo delle operazioni e delle attività di disinformazione”. Stampata nei colori accecanti della bandiera della patria, il bianco e il rosso, una domanda arriva al posto di una conclusione: “Questo non può continuare! Gli ebrei dobbiamo sconfiggerli!”.

“Attacco alla Polonia”. È il secondo titolo che urla giallo su nero. “Hanno colpito la Polonia alla conferenza di Parigi” quando ha preso la parola l’ebreo polacco Jan Gross, oggi professore di storia a Princeton. La faccia dell’accademico ricopre per intero la prima pagina del settimanale distribuito ai parlamentari del Sejm, parlamento di Varsavia.

Premiato con la medaglia dell’ordine di merito della Repubblica polacca, – un titolo che il partito Pis, ora al potere, ha tentato però di ritirargli nel 2016 -, Gross ha ricordato durante la recente conferenza nella capitale francese, come fa nei suoi corsi agli studenti americani, che frange della popolazione polacca collaborarono con i soldati nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Per questo è “un anti-polacco e attacca la Polonia” scrive Tylko Polska, sulle cui prime pagine svettano però sempre semiti. Su una copertina c’è un ebreo deformato, su un altro numero un ebreo ha la testa di maiale. Su un’altra copertina la Merkel indossa l’hijab musulmano tra le moschee. A volte svastiche bruciano con titoli rossi che sanguinano.

Nel paese dell’autoritario Jaroslaw Kaczynski, a capo del Pis, partito Diritto e Giustizia, dove si rischia di finire in galera per 3 anni se si associano i campi di concentramento nazisti ai polacchi, questa storia non è titolo da prima pagina. A Varsavia stanno per andare in stampa con “dilemmi più grossi”. Se in Europa l’antisemitismo polacco è una notizia, non lo è nella redazione della Gazeta Wyborcza, il maggior quotidiano del paese: “Non conosco i dettagli del nuovo caso, ma hai idea di quanti articoli abbiamo pubblicato? Sono anni che scriviamo di quell’antisemita pazzo di Bubl”. Roman Imelski, editorialista di punta della Gazeta Wyborcza, ha fatto il callo al cuore nero della sua patria.

Leszlek Bubl è l’editore di Tylko Polska, un cantante rock che dedica le sue note di odio ai rabbini, e l’intervistatore di se stesso nei filmati youtube che definisce corsi sulla “vera storia della Polonia”. Con la pancia che preme contro i bottoni della camicia, le fessure degli occhi dietro il vetro opaco delle lenti, nell’ultimo video del 9 marzo, racconta la sua versione sul pogrom di Jedwabne: per la storia, su ordine dei nazisti, i polacchi non ebrei del villaggio tolsero la vita ad almeno 340 semiti. Ma Bubl spiega che non è andata così, mentre la sua faccia pallida diventa rubizza e spiritata sotto i capelli grigi.

Imelski fa da bastione contro l’autoritarismo governativo insieme alla redazione da anni e ci sono altre due questioni gravi su cui la Varsavia ufficiale vuole far calare il sipario dell’oblio in questi giorni: la distruzione dell’indipendenza del sistema legislativo e le vittime dei preti della chiesa, nella cattolicissima Polonia dove la devozione al crocefisso è più importante della verità. Un pezzo d’Europa dove alle donne è ormai vietato abortire.

“Rendere impossibile l’exit della Polonia dall’Unione europea”: questa è la missione dell’opposizione per le prossime elezioni europee. Per la battaglia di maggio l’opposizione al Pis, – il partito Psl, liberali, socialdemocratici e verdi – si è unita battezzandosi “coalizione europea” e facendo scudo dietro le spalle di Grzegorz Schetyna, leader del partito Piattaforma Civica, di cui faceva parte il sindaco Pawel Adamowich, assassinato sul palco di Natale a Danzica.

Intanto Michal Kaminski, legislatore dell’opposizione, in queste ore chiede che Tylko Polska venga bandito. Ma quello che è successo è solo un incidente, ha reso noto l’ufficio stampa del Sejm: “La cancelleria richiederà la rimozione della pubblicazione dal press kit”. Ma non dalle edicole. Qualche giornalista ha chiesto della diffusione dell’antisemitismo nel Paese o se si procederà contro l’editore del giornale perché “la diffusione di odio basato su religione e razza è contro la legge in Polonia, cioè è un crimine”, ha ricordato Kaminski, ma in cambio hanno ottenuto solo silenzio. Come se niente fosse successo. Domani a Varsavia è già un’altra notizia.

Duplice omicidio allo Zen: si indaga sul traffico di droga

Morto il giorno dopo il suo 19esimo compleanno. Giacomo Lupo, pugile palermitano, è stato ucciso con colpi d’arma da fuoco nella serata di ieri insieme a suo padre Antonino (53 anni), il quale aveva svariati precedenti penali per droga.

L’agguato è avvenuto vicino l’abitazione delle vittime, in via Rocky Marciano, che si trova nel rione Zen di Palermo. Il quartiere è tristemente noto per lo spaccio di stupefacenti, e secondo gli inquirenti che hanno preso in mano il caso le indagini dovranno approfondire proprio la pista dei traffici illeciti, sebbene Giacomo sia incensurato. La Questura ha precisato che sia lui che il padre sono risultati estranei agli ambienti mafiosi.

La sparatoria è stata udita dagli abitanti del quartiere e dai familiari delle vittime, che hanno tempestivamente chiamato i soccorsi. Tuttavia, a nulla è servita la corsa in ospedale: quando sono arrivati nel Pronto soccorso del Villa Sofia, Antonino e Giacomo Lupo erano già morti, con grande disperazione della folla di amici e parenti accorsi sul posto.

Alternanza scuola-poligono. L’Istituto annulla tutto dopo la denuncia del “Fatto”

Tutto annullato. L’alternanza scuola-lavoro al poligono militare di Quirra non si farà. Dopo l’articolo del Fatto Quotidiano di ieri, l’Istituto Tecnico Commerciale Primo Levi di Quartu Sant’Elena (Cagliari) ci ha ripensato e non manderà i suoi ragazzi in stage alla base di addestramento, come previsto fino a poco fa.

Una decisione che il preside Massimo Siddi dice di aver preso ancora convinto dell’aspetto formativo dell’esperienza in poligono, ma che è diventata inevitabile a seguito delle polemiche e dei malumori tra i ragazzi: “Alla luce del clamore suscitato dal percorso di alternanza scuola-lavoro – ha scritto il dirigente scolastico in una circolare – dopo aver esaminato l’intero progetto, pur confermandone la validità riguardo alla acquisizione di competenze trasversali e professionali attinenti al percorso di studi e pur avendo acquisito il parere favorevole delle famiglie interessate, ritengo opportuno non procedere alla sua realizzazione”.

Saltano dunque i cinque giorni di alternanza a Quirra, contestati soprattutto dai collettivi locali degli studenti. A preoccupare il gruppo A Foras, per esempio, era “il tentativo di far passare il mestiere delle armi e l’attività di occupazione e addestramento militare in Sardegna come possibili alternative economiche e culturali”. Tanto più, come ricordato dagli stessi ragazzi, che l’intera area del poligono è da anni al centro di polemiche, con i residenti che denunciano collegamenti tra l’elevato numero di tumori nella zona e le continue esercitazioni militari.

In attesa di sentenze definitive, otto comandanti sono imputati con l’accusa di omissione aggravata di cautele contro infortuni e disastri proprio per non aver vigilato sull’impatto ambientale della zona. Gli studenti, nel frattempo, ne staranno lontani.

Tangenti per ampliare discarica, arrestato Martino Tamburrano: “A confronto Riina è un cretino”

Un vitalizio da 5 mila euro al mese, un’auto, le spese di campagna elettorale, cene, computer e telefonini. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Martino Tamburrano (Forza Italia), finito in carcere ieri mattina, costava caro. Faceva favori grossi, aggiustava appalti, concedeva autorizzazioni, ma a un prezzo esoso. È quanto è emerso dall’inchiesta denominata “T-Rex” condotta dai finanzieri di Taranto sulle tangenti versante dagli imprenditori Pasquale Lonoce e Roberti Venuti per ottenere l’autorizzazione all’ampliamento della discarica “La Torre Caprarica”. Dall’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dal sostituto Enrico Bruschi. che oltre a Tamburrano ha portato in carcere altre tre persone e tre ai domiciliari, emergono intercettazioni secondo cui Tamburrano aveva ribaltato il precedente ”no” della Provincia all’ampliamento e aveva concesso, influenzando un dirigente, il via libera a un affare che portava nelle tasche della società 1 milione di euro al mese. Ma le richieste di Tamburrano erano pian piano aumentate assumendo la forma di “vere e proprie estorsioni”. Richieste sempre più pressanti che esasperano gli imprenditori: “Per me Martino – si sfoga uno di loro – è più mafioso di Totò Riina. Totò Riina è un coglione rispetto a lui”. Le intercettazioni raccolte dalle Fiamme gialle guidate dal tenente colonnello Marco Antonucci hanno dimostrato che Lonoce era infatti l’anello di collegamento tra il presidente Tamburrano e Venuto. Non solo. L’ex presidente avrebbe inoltre concesso appalti a Lonoce per altre questioni di competenza della provincia. Per il gip Gilli la scelta del carcere è obbligata: “Sarebbe estremamente agevole, per ciascun indagato, diversamente, continuare – scrive il giudice – a intrattenere rapporti professionali con la stessa spregiudicata disinvoltura mostrata nelle vicende che ci occupano, ovvero rapporti personali con soggetti terzi, funzionali ad apprestare versioni di comodo in grado di sviare gli inquirenti”, aggiungendo inoltre che “la fitta e intricata rete di relazioni e connivenze era già proiettata a nuove operazioni illecite”.

Truffa a Rfi: “piazzavano” terriccio a rischio amianto per i terrapieni ferroviari

Consulenze false, appalti truccati e mazzette elargite a funzionari compiacenti delle Ferrovie dello Stato. Era basato su questi elementi il sistema che avrebbe consentito ad alcuni imprenditori di fornire alle Ferrovie un tipo di “pietrisco, destinato alla costruzione di massicciate ferroviarie”, non conforme agli standard richiesti. In quel materiale infatti erano presenti rocce classificate come “pietre verdi”, ovvero “caratterizzate dalla potenziale presenza di minerali amiantiferi”. Grazie alla presenza di laboratori “amici”, gli imprenditori si sentivano in una botte di ferro: “C’abbiamo noi il controllo della situazione”, dicevano non sapendo di essere intercettati. Evidentemente si sbagliavano. I fratelli Lorenzo e Massimo Lupo Dovretto, gestori di fatto della Quarry Srl, società che si occupava di commercializzare i minerali, andranno in carcere. Mentre non potranno allontanarsi dalla propria abitazione Luca Bronzino, proprietario di una cava a Malvicino (in provincia di Alessandria), la docente Maria Iole Spalla, dell’Università degli Studi di Milano, e Tommaso Ronga, che per conto dei Lupo Dovretto avrebbe acquisito il ramo d’azienda di una società fallita, proprietaria di un’altra miniera. Sono invece 26 gli indagati: dai dipendenti delle Ferrovie che rilasciavano certificati d’idoneità dopo aver intascato mazzette, fino ad alcuni docenti delle università di Torino e Milano che redigevano relazioni false sulla composizione del pietrisco. Nel mirino degli inquirenti è finito anche un funzionario della polizia giudiziaria che, tramite il fratello e una terza persona, avrebbe messo gli imprenditori a conoscenza delle indagini. Anche un investigatore privato risulta essere indagato: avrebbe bonificato la macchina di uno degli indagati. A completare il quadro un esperto di finanza: grazie a transazioni internazionali e società intestate a prestanome avrebbe occultato i profitti permettendo agli imprenditori arrestati di frodare il Fisco.

Tra Brancaccio e Zen 1, la paranza dei bambini di Cosa nostra all’asilo

Non c’è pace per Palermo in queste ore. Prima gli atti intimidatori nel quartiere Brancaccio dove sorgerà l’asilo nido don Puglisi, poi il raid vandalico alla scuola “Sciascia” nel quartiere Zen 1. Mani diverse ma pur sempre mani di ragazzini, figli di una mentalità mafiosa che sembra attanagliare la città nei suoi quartieri più poveri e più difficili. A Brancaccio non se l’aspettavano. Venerdì scorso il centro “Padre Nostro” ha consegnato all’amministrazione il progetto dell’asilo che sarà finanziato con 3,4 milioni di euro dal Fondo di sviluppo e coesione. Una “festa” per il presidente Maurizio Artale e per i volontari del centro che finalmente realizzeranno uno dei sogni di padre Pino Puglisi.

Ma oggi come negli anni 90 quando a essere minacciato era quel “parrino” che strappava i più piccoli dalle famiglie mafiose, a qualcuno non è piaciuta l’idea che in quella piazza potesse sorgere una scuola. E a far sentire la voce di qualche boss hanno inviato i bambini a strappare lo striscione che annunciava il progetto, rompere catenaccio e lucchetto e minacciare Artale: “Ho trovato tre ragazzini, una bambina che faceva da palo e altri due nel terreno dell’asilo. Quando li ho chiamati uno di loro mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Tu cu sì? Unn’è u tuo u tirrienu e ccà tu asilo un ni costruisci” (“Tu chi sei, il terreno non è tuo e qui tu asilo non ne costruisci”)”. Ma non basta, rimessa la catena sono tornati e l’hanno di nuovo spezzata e fatta sparire, portando nel campo pezzi di mobili vecchi per appiccare fuoco. Artale non ha dubbi: “Non è farina del sacco dei bambini. C’è dietro ben altro. Abbiamo cambiato sei catenacci e andiamo avanti. Oggi lo Stato e l’amministrazione comunale stanno dalla nostra parte e noi non possiamo fermarci. In quello spiazzo vogliamo l’illuminazione in modo da vivere già da ora quel luogo”. Artale non s’arrende. Sa che con lui c’è una maggioranza silenziosa di cittadini che ancora non hanno il coraggio di denunciare ma stanno dalla sua parte.

A sentirsi soli e abbandonati ci sono, invece, gli insegnanti e il preside del plesso Smith dell’istituto “Sciascia”. Lunedì mattina si sono trovati davanti all’ennesimo atto vandalico. Quando i collaboratori scolastici hanno aperto la scuola dell’infanzia hanno subito capito che qualcosa era successo. Hanno trovato scaraventato a terra il materiale didattico, i giochi dei bambini, le ante degli armadi. Chi si è infilato l’ha fatto da una finestra che ha rotto ed è fuggito con due radio registratori e la macchina del caffè delle insegnanti. Fortunatamente computer e altro materiale era conservato in una stanza blindata. “Siamo stanchi – spiega Concetta Sinopoli, responsabile del plesso Smith – di subire questi atti vandalici, c’è un senso di rabbia insieme alla sensazione di essere impotenti. Non sappiamo come difenderci. Chiamiamo le forze dell’ordine, vengono, fanno i verbali, ma poi se non abbiamo nemmeno l’impianto di videosorveglianza che possono fare?”. Due anni fa un altro atto di vandalismo ha distrutto le telecamere e da allora non c’è più alcun mezzo per proteggere la scuola: “Nonostante la nostra richiesta per riattivarlo il Comune non risponde”, continua la maestra.

Sosta in doppia fila: a Roma si rischia un anno di condanna

La sosta selvaggia finisce in Procura. Da chi parcheggia sui binari del tram fino a chi “dimentica” la macchina davanti ai cassonetti della spazzatura. Gli automobilisti indisciplinati che interromperanno un servizio pubblico rischiano di essere condannati a scontare da sei mesi fino a un anno di carcere. A Roma, infatti, i magistrati hanno acceso un faro sull’endemico problema che riguarda le strade della Capitale, dove capita spesso di vedere auto che, comodamente parcheggiate sui binari, bloccano la corsa di un tram, causando quindi ripercussioni sul traffico già congestionato. È per questo motivo che, già da diversi anni, l’Atac, l’azienda municipalizzata che si occupa del trasporto pubblico, ogni settimana invia un centinaio di segnalazioni ai pm di piazzale Clodio. Adesso però, circa il 5% di quelle segnalazioni ha destato l’attenzione degli inquirenti. E in almeno 10 diverse occasioni i pm hanno mandato a giudizio, davanti a un giudice monocratico, gli automobilisti che da nord a sud della Capitale hanno bloccato autobus, tram o camion dei rifiuti per almeno 30 minuti.

Diaz, poliziotti condannati a risarcire lo Stato

Due milioni e 759 mila euro di danni per la Diaz. Dopo diciotto anni ai poliziotti condannati per il G8 di Genova viene presentato il conto. Per altri 5 milioni di danni all’immagine la richiesta è appesa a una pronuncia della Corte Costituzionale. Finora, scrivono i giudici della Corte dei Conti di Genova, dai documenti depositati dalle difese “è ragionevole ritenere che, allo stato degli atti, non un solo euro di risarcimento sia stato retrocesso” allo Stato.

È tutto scritto nelle 156 pagine della sentenza depositata il 12 marzo scorso. Una ricostruzione dei fatti, delle inchieste. Fino ad arrivare alla richiesta dei danni che chiama in causa pezzi grossi delle forze dell’ordine di allora e di oggi. Alcuni promossi ai vertici della Polizia dopo il loro ritorno in servizio successivo alla condanna. Parliamo, per esempio, di Gilberto Caldarozzi (condannato a 3 anni e 8 mesi per falso) che a fine 2017 è diventato numero due della Direzione investigativa antimafia. Carriere, quelle degli uomini citati nella sentenza della Corte dei Conti, che non avevano subito stop neanche durante i processi penali: Francesco Gratteri era diventato capo della Direzione centrale anticrimine; Giovanni Luperi capo-analista dell’Aisi (il servizio segreto interno). Filippo Ferri guidava la squadra mobile di Firenze; Fabio Ciccimarra era capo della squadra mobile de L’Aquila e Spartaco Mortola capo della polfer di Torino. Caldarozzi fu scelto come consulente da Finmeccanica, società statale presieduta all’epoca da Gianni De Gennaro.

“La Procura Regionale – è scritto nella sentenza – procede per un danno erariale di 8,139 milioni”. Il danno patrimoniale indiretto è “costituito dagli importi delle provvisionali assegnate, dalle spese legali liquidate dal giudice penale e dalle spese legali delle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato… per un totale di 3,139 milioni, di cui 2,2 liquidati dal ministero dell’Interno e 848 dal ministero della Giustizia”. La Corte ha riconosciuto il 70% del danno richiesto dalla Procura perché il restante 30% è attribuibile ai responsabili materiali delle violenze che non sono stati individuati.

Sono tanti i passaggi interessanti della sentenza. Per esempio dove la Corte dei Conti respinge la tesi spesso sbandierata dai condannati: cioè che alle amministrazioni interessate basterebbe la sentenza penale per chiedere i danni (cosa che non è stata fatta) senza ricorrere alla magistratura contabile.

Ma ci sono anche incisi durissimi su quello che avvenne a Genova nel luglio 2001: “Lunghe e laboriose indagini svolte dalla Procura di Genova confortata dagli esiti dibattimentali definitivi hanno accertato che l’irruzione decisa a tavolino, a cura degli appartenenti alla Polizia di Stato, si è tradotta in efferati e reiterati atti di violenza sulle persone” presenti alla Diaz, “che erano giunte a Genova per manifestare il loro dissenso”, quando la “manifestazione era già conclusa”.

E ci sono infine oltre dieci pagine che riassumono le terribili lesioni – anche permanenti – subìte da decine di manifestanti: fratture alle costole, polmoni collassati, commozioni cerebrali, manganellate nei genitali. Tanto che il giudice pronuncia quella parola che per tanti anni forze dell’ordine e mondo politico hanno taciuto: “tortura”. Nessuno degli esecutori materiali di quella “macelleria messicana”, come la definì il dirigente di polizia Michelangelo Fournier, ha pagato le sue colpe. Non basteranno i risarcimenti per lavare la vergogna della Diaz.

“Aspirina è mia”: così la Bayer fa chiudere l’omonima rivista

Col permesso dei tedeschi di Bayer, ripetiamo in coro: aspirina, aspirina, aspirina. Adesso è un atto di coraggio e ribellione, che rasenta la sovversione, usare in maniera impropria la parola aspirina. Perché la multinazionale farmaceutica che produce la pillolina, vezzeggiativo autorizzato, e fattura 40 miliardi di euro, ha imposto la chiusura di Aspirina, con la maiuscola, rivista satirica, femminista, politica, fondata oltre trent’anni fa col supporto della Libreria delle donne di Milano. Un marchio registrato nel 1995 all’ufficio brevetti, settore per l’editoria, del ministero per lo Sviluppo economico.

Pat Carra e colleghi, dal 1987, pubblicano su carta e poi sul sito la rivista farcita di racconti, fumetti, disegni e la frizzante testata con la pillolina, rotonda, fragile, simpatica. Il nome fu un’intuizione di Bibi Tomasi, poetessa e scrittrice, che leniva i fastidi cervicali con la miracolosa aspirina.

Un giorno di novembre del 2017, racconta con stupore Carra, Bayer Intellectual Property spedisce una diffida agli avvocati che custodiscono il marchio di “Aspirina la rivista”: l’aspirina è nostra, non vi azzardate a chiamarvi ancora così. Guai a confondere i consumatori di Bayer, peraltro già febbricitanti o perlomeno doloranti.

Bayer non ha pretese eccessive: intima soltanto di cancellare l’identità, il dominio della rivista, ritirare la collana di libri, cestinare più di un quarto di secolo di archivio, non citare mai, mai più, il farmaco acetilsalicilico con funzioni antinfiammatorie, antiaggreganti, analgesiche, composto di una polvere cristallina incolore. Quella roba lì, insomma, ormai innominabile.

Un momento, pensano i redattori di Aspirina la rivista: cari amici di Bayer, tanto educati e gentili, noi siamo in regola, non vi abbiamo né diffamati né danneggiati, non ci chiniamo inermi ai vostri ordini per una lettera. Parte la trattativa legale con valori in gioco un po’ diversi: la rivista che va avanti con passione e volontari, la multinazionale tedesca che s’appresta a inglobare l’americana Monsanto, agrochimica, per 66 miliardi di dollari. Bayer non ha intenzione di trascinare la faccenda in tribunale per questioni di immagine, poi i consumatori davvero si turbano. E la Libreria delle donne non ha denaro da buttare per un contenzioso decennale.

I tedeschi non recedono: non cambiano di un punto la posologia, pardon le richieste, ma propongono un risarcimento economico per comprare, con un colpo solo, pure il silenzio. Carra e colleghi, lo scorso febbraio, rinunciano ai soldi di Bayer, accettano di cancellare se stessi, cedono dominio e testata, ma conservano il diritto, la libertà di raccontare la storia: “Siamo fortunate. Abbiamo un nemico così strapotente che non potrà mai batterci sul nostro terreno. Quello della misura umana”.

Allora cos’è l’ultimo affare di Bayer? Monsanto, i pesticidi, i diserbanti, i semi artificiali. Perfetto. Addio Aspirina, nasce il blog Erbacce, forme di vita resistente ai diserbanti. E l’archivio dell’antica rivista? Viene protetto da un nuovo indirizzo per depistare i segugi di Germania, un altro sberleffo a Bayer. “La meglio aspirina se ne va. Mille erbacce fioriscano!”, chiosa Carra.

È finita bene. Una lotta impari con un discreto risultato. Per banalizzare, senza temere confronti con Bayer, si potrebbe richiamare la vicenda di Davide e Golia. Non è opportuno. Perché golia è pur sempre una caramella.