Omicidio e lesioni, condanna ad Ancona per l’untore dell’Hiv

Sedici anni e otto mesi di carcere per aver contagiato consapevolmente la compagna, poi morta nel 2017, e per aver trasmesso il virus dell’Hiv all’ex fidanzata. È la pena inflitta con rito abbreviato a Claudio Pinti, 35enne ex autotrasportatore di Ancona, riconosciuto colpevole di omicidio volontario e di lesioni volontarie gravissime. Fu l’ex fidanzata 40enne, dopo la scoperta di essere stata infettata, a denunciare l’imputato con cui aveva avuto una relazione. Pinti, detenuto a Rebibbia, e da qualche giorno uscito dall’ospedale di Viterbo dov’era ricoverato, era in aula scortato dalla Penitenziaria. Ha sempre sostenuto che l’Aids non esiste e rifiutato cure specifiche per la malattia. “Mi ha defraudata della libertà di scelta e ingannata sul suo stato di salute”, si era sfogata l’autrice della denuncia. Timori ancora maggiori di diffusione del contagio c’erano stati quando il 35enne aveva raccontato di aver avuto circa 200 rapporti anche non protetti, con donne e uomini provenienti da tutta Italia. Le indagini e la mancanza di denunce sembrerebbero aver scongiurato un contagio più ampio come quello provocato da Valentino Talluto, il romano condannato a 24 anni di carcere per aver infettato almeno 30 partner.

Cpl Concordia: verdetti opposti a Napoli e Modena

Può succedere che una indagine riguardante sostanzialmente gli stessi fatti venga spacchettata per diverse competenze territoriali in due processi che si concludono con due sentenze divergenti, una di condanna e una di assoluzione, su accuse che in molti punti combaciano? Certo che può succedere. Infatti è successo per l’inchiesta dei carabinieri del Noe, guidati dal maggiore Gianpaolo Scafarto, sulla coop rossa emiliana Cpl Concordia e la metanizzazione di Ischia. Assolti a Napoli il 16 gennaio 2018 i presunti corrotti, l’ex sindaco ed attuale eurodeputato Pd Giosi Ferrandino e il capo dell’Utc Silvano Arcamone, condannati a Modena il 28 febbraio 2019 i presunti corruttori, l’ex presidente Cpl Roberto Casari (4 anni e due mesi, anche per reati fiscali), altri tre ex dirigenti Cpl (pene tra 14 mesi e due anni), ed uno dei beneficiari dei presunti accordi corruttivi, l’avvocato e fratello dell’ex sindaco Massimo Ferrandino (16 mesi), diventato consulente legale di Cpl negli anni cui la coop approdava sull’isola verde a raccogliere commesse.

Un capo di imputazione modenese, il secondo, elaborato dai pm Marco Niccolini e Pasquale Mazzei, ricalcava in parte le accuse dei pm di Napoli Henry John Woodcock e Celestina Carrano (infatti erano “in concorso” con Giosi Ferrandino ed Arcamone). Alcuni dei reati, secondo entrambe le procure, si sarebbero consumati con la stipula da parte di Cpl di una convenzione “vuoto per pieno” a 147.000 euro all’anno per sette stanze dell’Hotel Le Querce, di proprietà della famiglia Ferrandino, con l’assunzione in Cpl del fratello del sindaco, e tramite 100mila euro di lavori svolti dalla coop per convogliare acque termali verso un albergo di un assessore di Ferrandino. Ipotesi di corruzione che il Tribunale partenopeo ha smontato in 51 pagine di motivazioni depositate tredici mesi dopo il verdetto. Nelle quali si legge che la convenzione alberghiera, se pure fosse stata ideata per “ingraziarsi” il sindaco “non significa che sia stato stipulata con la complicità interessata di Giuseppe (Giosi, ndr) Ferrandino”, tesi che persino Scafarto ha escluso in aula. Inoltre il sindaco non avrebbe interferito nei rapporti tra Cpl e il fratello avvocato, da intendersi come “mero accordo tra privati”. Ed infine i lavori sui tubi per l’albergo dell’assessore avvennero quando Ferrandino non era sindaco.

Della sentenza di Modena c’è solo il dispositivo. Solo dalle motivazioni capiremo se le due sentenze entreranno in palese conflitto, o esistono argomentazioni per reggerle in piedi entrambe. Per ora, ognuno le interpreta a modo suo. La procura di Napoli trova nel verdetto modenese buone ragioni per affilare il ricorso. Gli avvocati di Modena invece confidano nelle motivazioni di Napoli per far assolvere in appello i loro clienti. Da tutta la vicenda si intuisce perché la giustizia è raffigurata come dea bendata: è uguale per tutti, ma è anche sinonimo di fortuna. Va ora a capire, tra tutte le parti in causa, chi l’ha avuta e chi no.

“Smettila, mi fai male”: altri abusi in sacrestia a Lecce

“Sei denunce presentate alle autorità”, riferiscono dalla Procura di Lecce. “Altre tre persone, ma potrebbero essere di più, che parlano di molestie”, denuncia Francesco Zanardi dell’associazione Rete L’abuso. La Curia di Lecce trema per le accuse di pedofilia rivolte a don Carmelo Rampino, sacerdote oggi settantenne. Mentre i vertici ecclesiastici nei giorni scorsi sarebbero corsi ai ripari presentando al pm Stefania Mininni il materiale in loro possesso.

Una storia rimasta sepolta per decenni. Poi riemersa quando un uomo ormai adulto ha deciso di rimuovere un incubo che si portava dentro dagli anni 80. Scrive Fernando F., oggi quarantenne, nella querela di cui il Fatto è in possesso: “Quando avevo nove anni Rampino fu assegnato alla mia parrocchia, mi tenne sotto le sue ali protettrici e prese il posto di mio padre che lavorava all’estero. Ero il suo alunno preferito, data la mia intenzione di diventare sacerdote… Iniziò dandomi carezze come un padre a un figlio, poi dalle carezze passò ai baci. Una volta – racconta Fernando – tornando da una trattoria dove mi aveva fatto bere del vino, lo ricordo benissimo, era rosato, abusò di me. Spesso mi dava schiaffi anche pesanti, per poi proseguire con i baci e infine con i palpeggiamenti. Gli dovevo toccare i genitali”. Abusi, ha denunciato Fernando, andati avanti finché ebbe 16 anni e scappò a vivere in Germania. Ma dimenticare un abuso è impossibile: “Nel 2016 ho avuto un crollo nervoso e ne ho parlato con mia moglie”, si sfoga l’uomo. Ed eccoci a oggi. Fernando chiama don Rampino e registra la telefonata. Il sacerdote candidamente risponde: “Dammi l’Iban, così ti faccio un regalo”. Nel corso del colloquio il prete non nega gli abusi: “Era affetto, è stata la natura, una debolezza”. Poi quel passaggio imbarazzante: “Mandami il tuo Iban”, risponde il prete, chiamando in causa il vescovo Michele Seccia: “Lui sa tutto, è d’accordo, chiamalo”.

Di fronte a questa chiamata in causa la Curia ha risposto con una diffida: “Seccia, informato del caso all’indomani del suo insediamento a Lecce, avvenuto nel dicembre 2017, ha immediatamente adottato nei confronti del sacerdote tutti i provvedimenti cautelativi consentiti dalla normativa ecclesiastica… Insinuare il sospetto che l’arcivescovo abbia anche solo tentato di coprire eventuali abusi, costituisce una grave distorsione della realtà”. Zanardi, però, sostiene che fino a pochi giorni fa sul sito internet della Curia il sacerdote risultasse in servizio sempre presso lo stesso santuario. E che il prete, secondo testimoni, abbia celebrato messa fino al 25 febbraio scorso. Così la minaccia del vescovo “di adire le vie legali contro chi osa e oserà mettere in dubbio” la sua correttezza, rischia di essere perfino controproducente.

Ma da quando il vescovo fu informato? “Nel dicembre 2017”, si è ora decisa a chiarire ogni dettaglio la Curia attraverso un collaboratore del vescovo. Prese provvedimenti? “A gennaio 2018 il prete fu allontanato dal suo ufficio. Ci siamo dimenticati di aggiornare il sito”. Perché non sporse denuncia? “La Curia non è tenuta a farlo. E poi ci risultava che ci fosse già una querela”. Intanto, raccontano in Procura, le denunce oggi sono sei. Rete L’abuso parla di “decine” di segnalazioni. Il Fatto ha parlato con una persona che sostiene di aver assistito agli episodi. È l’aprile del 1984. Da una settimana è trascorsa la Pasqua. A Trepuzzi si festeggia la Madonna dei miracoli. La Chiesa Madre è piena di gente.

L’arcivescovo Michele Mincuzzi celebra la messa al termine della quale per due bambini comincia un incubo. “Don Carmelo mi incaricò di mettere a posto le sedie”, racconta Valentino, allora undicenne. Aggiunge: “Nel frattempo entrò in sacrestia con F.”. Valentino sente il suo amico piangere e ripetere: “Smettila, mi fai male”. Il parroco si accorge della presenza di Valentino. Lo fa entrare, chiude la porta a chiave e conclude il rapporto sessuale sotto i suoi occhi. “Aveva il talare alzato e F. era piegato sul tavolo”, racconta Valentino. “Sono rimasto in silenzio a guardare. Ricordo ogni particolare. Quando ha finito, ci ha chiesto se volessimo tornare a casa con lui, ma noi siamo andati via. Sulla strada del ritorno siamo rimasti muti”.

Valentino racconta tutto ai suoi genitori e alla mamma di F. Vanno dalle forze dell’ordine a presentare denuncia, ma la vicenda si conclude con un nulla di fatto: Don Carmelo lascia Trepuzzi (solo per qualche anno) e viene trasferito a 20 chilometri, a Pisignano.

Ma a Rampino sono stati davvero impediti contatti con i bambini? Seccia – che non era vescovo all’epoca dei fatti – assicura di sì. Il rischio è che tutto sia spazzato via dalla prescrizione.

Il ritratto di Ariane, l’italiana

Insignita da Mattarella dell’attestato di onore come “Alfiere della Repubblica”, Ariane ha 18 anni e vive in provincia di Bolzano, nel piccolo paesino di San Lorenzo di Sebato. Vicepresidente della sezione italiana di “Plant for planet”, l’organizzazione che si batte per la difesa dell’ambiente, ha tenuto conferenze, pubblicato saggi e organizzato corsi di formazione sulla tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile.

“Sono la prima a essere sorpresa vedendo tutti questi giovani che scendono in piazza per difendere l’ambiente”, spiega al “Fatto”. “Forse stiamo imparando a lottare per le nostre idee e stiamo uscendo dal mondo virtuale. Quello che fa Greta è bellissimo e vorrei incontrarla per scambiarci le idee, ma non mi sento la Greta Thunberg italiana. Siamo diverse: con il mio lavoro cerco di coinvolgere le persone, soprattutto i giovani, per mettere in moto le nostre idee in difesa dell’ambiente. Faccio relazioni, pianto alberi e parlo con la stampa. Lei invece ha un atteggiamento più duro, forse più forte dal punto di vista simbolico. La sua candidatura al Nobel è comunque importante, anche se non lo vincerà: è un riconoscimento per tutti noi giovani che vogliono agire per cambiare le cose”.

Ariane studia al liceo linguistico, sezione musicale, a Bolzano. Suona il flauto traverso, scrive poesie in italiano e tedesco, studia inglese, francese e latino. Si è appassionata alla difesa dell’ambiente alle scuole elementari, e a nove anni è diventata ambasciatrice di “Plant for planet”: “Ho scoperto il cambiamento climatico e le conseguenze che subirà la nostra generazione. Ora che ci sono queste manifestazioni per il clima in tutto il mondo, tutta questa partecipazione mi entusiasma. Qualcosa sta cambiando: i giovani stanno tornando protagonisti e questo è meraviglioso”.

 

Il mondo è di Greta e le sue sorelle

“I nostri politici saranno ricordati come i più grandi malvagi di tutti i tempi se sceglieranno di non ascoltare, di non agire”. Così Greta Thunberg, la 16enne attivista svedese, al cospetto della Commissione Europea il 21 febbraio scorso. Ma non c’è solo Greta: le voci dei giovani ambientalisti di tutto il mondo stanno diventando sempre più forti e decise, e si faranno sentire oggi per il “Global strike for future”. In 98 Paesi, coinvolgendo più di 1.300 città, gli studenti di scuole e università manifesteranno fuori dai municipi e dai Parlamenti nazionali per chiedere impegni concreti contro i cambiamenti climatici che stanno distruggendo il Pianeta. L’Italia è tra le nazioni più attive con le sue 109 piazze, dal Nord al Sud del Paese. Tutto all’insegna dell’esempio di Greta, che a dicembre dello scorso anno cominciò a protestare quotidianamente davanti al Parlamento di Stoccolma, impugnando il cartello: “Sciopero della scuola per il clima”. E, in pochi mesi, è riuscita a coinvolgere centinaia di coetanei e coetanee. Un vecchio studio – parliamo del 2007, più di 10 anni fa – già mostrava come, tra i bambini tra i 10 e i 14 anni di età, metà del campione fosse profondamente preoccupato per il riscaldamento globale: e 1 su 4 temeva addirittura che il mondo sarebbe finito nel corso della loro vita.

Tra i manifestanti e gli organizzatori degli scioperi, pur non mancando i ragazzi, le leader di questo movimento giovanile sono soprattutto piccole donne.

Greta Thunberg (Svezia) In principio fu lei. Ha ottenuto di recente il riconoscimento di “Donna dell’anno” di Svezia, ed è stata proposta per il Premio Nobel per la pace. A fine aprile uscirà anche in Italia il suo primo libro, La nostra casa in fiamme (Mondadori). “Sono solo un messaggero, non sto dicendo nulla di nuovo, sto solo ribadendo quello che gli scienziati hanno ripetutamente affermato per decenni. Sono qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”, ha detto in uno dei suoi giovedì davanti al Parlamento di Stoccolma.

Youna Marette (Belgio) Studentessa, 16 anni, si è fatta notare per il suo intervento al vertice C40 di Parigi: “Non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende”. Youna appartiene al movimento Génération Climat, che nelle ultime settimane ha organizzato manifestazioni durante l’orario scolastico. Assieme a lei, Anuna de Wever e Kyra Gantois (17 e 19 anni): dall’inizio del 2019 ogni giovedì le due ragazze mobilitano migliaia di coetanei nelle piazze di Bruxelles.

Alexandria Villasenor (Usa) Tredici anni sono pochi ma abbastanza per aver assistito agli incendi che hanno devastato la California, il suo paese d’origine, pochi mesi fa. Per questo Alexandria protesta ogni venerdì da 13 settimane davanti alla sede dell’Onu: chiede un taglio netto all’emissione dei gas serra.

Louisa-Marie Neubauer (Germania) È il volto tedesco del movimento per il clima. Ha 22 anni e un “passato” di attivista tra manifestazioni e campagne. Collabora con Greenpeace e, supportata dai 190 gruppi ambientalisti locali, si batte per l’estrazione del carbone entro il 2030.

Nadia Sparkes (Regno Unito) I bulli la chiamavano “ragazza spazzatura”, perché ogni mattina ripuliva le strade caricando tutto il raccolto nel cestino della sua bicicletta, prima di andare a scuola. La 12enne britannica adesso è ambasciatrice naturalistica del WWF.

Ariane Benedikter (Italia) Altoatesina, 18 anni, due giorni fa ha ricevuto dal capo dello Stato Sergio Mattarella il riconoscimento di “Alfiere della Repubblica”. È stata rappresentante per l’Italia e poi vicepresidente dell’ong Plant for the planet.

Ridhima Pandey (India) Ha solo 9 anni, ma il Paese ha già sentito parlare di lei: Ridhima si è rivolta alla Corte suprema indiana chiedendo provvedimenti per frenare alluvioni, inondazioni e frane che hanno vessato il suo stato d’origine (Uttarakkhand), uccidendo migliaia di persone.

Riikka Karppinnen (Finlandia) Viene dalla Lapponia, terra che è riuscita a proteggere dall’apertura dell’ennesima cava mineraria quando aveva solo 15 anni, nel 2009. Oggi di anni ne ha 24, è membro del Green Party Finlandese, e la sua storia è stata raccontata nel documentario di Petteri Saario, Aktivisti.

Melati e Isabel Wijsen (Indonesia) L’Indonesia è il secondo Stato al mondo per l’inquinamento prodotto dalla plastica. Le sorelle Melati e Isabel (16 e 18 anni), provenienti da Bali, hanno perciò fondato l’associazione “Bye bye plastic bags”, che oggi raccoglie migliaia di giovani con l’obiettivo di ripulire le spiagge dell’isola dalle buste di plastica.

Marinel Ubaldo (Filippine) La sua famiglia perse tutto a causa del tifone Haiyan, sei anni fa. Da allora Marinel, 22 anni, ha iniziato a combattere la sua crociata per la difesa dell’ambiente: “Il mio messaggio per i leader mondiali è semplice: il cambiamento climatico sta già accadendo. Ed è un problema che ci riguarda, tutti”.

Dall’Anpi alla nipote del Duce, l’azzurro fa arrabbiare tutti

Ancora polemichesul presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Dopo le sue dichiarazioni su Mussolini, il numero due di Forza Italia si è sentito in dovere di scusarsi “con tutti coloro che possano essersi sentiti offesi” dalle sue parole. Il leader dei Verdi Philippe Lamberts le ha infatti definite “indegne”, e a lui si è aggiunto il liberale Guy Verhofstadt, sconsigliandogli di iniziare la campagna elettorale italiana. Ha infierito la capogruppo del M5S Laura Agea, definendo le situazione una “figuraccia internazionale”. L’affondo più duro è arrivato da Carla Nespolo, presidente dell’Anpi: “Il discorso di Tajani è l’anticamera per cancellare il giudizio fondamentale dato dalla storia sul fatto che il fascismo è stato la rovina dell’Italia, come il nazismo dell’Europa”. E se Alessandra Mussolini si limita a una battuta, “Bella fratè”, Massimo Mallegni, vicepresidente dei senatori di FI, ha provato a difendere il collega di partito: “È una vergogna aver strumentalizzato le parole di Tajani. Questo attacco è il sintomo di una forte ripresa di Forza Italia che torna a far paura ai nostri avversari”.

E fu l’Otto Settembre di “Totò” Tajani, antifascista in orbace

È la sindrome dei Tartassati. Come Totò con Aldo Fabrizi. E fu così che Totò Tajani, presidente del Parlamento europeo, dopo aver dichiarato la verità di cuore alla Zanzara – “Mussolini ha fatto tante cose buone” – preso al laccio della rispettabilità istituzionale (cosa potrà mai pensare Jean-Claude Juncker?) ha dovuto smentire se stesso: “Io sono un antifascista convinto!”.

Il fascismo era consenso e quando si tratta di raccattare voti fa d’uopo indossare l’orbace.

Lo stesso Giulio Andreotti – padre della patria democratica e antifascista – durante un comizio ad Affile in Ciociaria, non esitò a chiamare sul palco Rodolfo Graziani, il maresciallo d’Italia e viceré di Etiopia. Poteva sottrarsi il ciociaro Tajani, oltretutto nato bene, figlio di un’Italia tricolore e in armi, non uscirsene al naturale?

Totò Tajani, in cerca di voti, pur delfino del Cav. Berlusconi Silvio, interpellato da Giuseppe Cruciani, torna al Cavaliere originale. Ma cosa potrà mai pensare poi un Guy Verhofstadt? Ci sono ragioni del cuore elettorale che le ragioni istituzionali non possono comprendere e fu così che Totò Tajani, inseguito dagli strali, s’è dovuto proclamare “Anti”.

Ed è proprio come nel dialogo tra il cavalier Torquato Pezzella – il commerciante perseguitato dal fisco – e il Maresciallo Topponi, il funzionario della tributaria.

Quest’ultimo, impersonato da Fabrizi, nel bel mezzo dell’ispezione sbuffa con un moto di nostalgia “… ai tempi della Buonanima!” e il povero “tartassato” allora, già consigliato dal proprio ragioniere – un magnifico Louis de Funes che dice “cerchi di scoprire come la pensi in politica, simpatizzi…” – s’aggrappa alla Buonanima e squilla: “Maresciallo… lei mi ha toccato sul debole… lei la pensa come me!”. Tra Mussolini, Berlusconi e Pezzella è tutto un manicomio di cavalieri nella povera testa di Totò Tajani che si butta sulla Buonanima: “Quelli sì che erano tempi, quelli della Buonanima” – lamenta de Curtis nel film – “e non tornano più… io la penso come lei… a noi!”.

La sindrome è però inesorabile. Fabrizi, come fosse Valdis Dombrovskis, lo gela: “…all’epoca della buonanima di mia nonna!”.

Totò, come Tajani appena ieri, gira la frittata: “…allora lei è un anti? …come me!”.

E fu così che l’attento notista del Giornale, invece che tirare dritto – come gli avrebbe consigliato la dura scuola di un Berto Ricci, da cui discende Indro Montanelli – rientra subito nei ranghi repubblicani (ahi!) e antifassisti (doppio ahi!). Tajani cresciuto in quel meraviglioso covo di magnifici ceffi che fu la redazione romana di piazza di Pietra con a capo Guido Paglia – futuro altissimo dirigente della Rai, persecutore di tutti i cognati di Gianfranco Fini – invece che marciare per non marcire va a fare la sua fuga a Pescara. Totò Tajani, insomma, il già giovane attivista monarchico, al seguito di Alfredo Covelli transitato nel Msi di Giorgio Almirante dopo questa voce dal sen fuggita s’è dovuto cercare un Otto Settembre di pronto accomodo.

E però, sì, anti – lui – lo è sempre stato. E come in Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi anche lui – il povero Totò Tajani – ha avuto il suo schiaffeggiatore di via dell’Impero.

Gli innamorati dei film del principe de Curtis lo ricorderanno: Totò guarda Aldo Fabrizi, fa mostra di ricordarselo ma di non riconoscerlo, “Dove ci siamo visti?”.

“Non ci siamo mai visti”, risponde Aldo Fabrizi e quando dice a Totò, suo consuocero nel film, “Giù il cappello!”, lo schiaffeggiato ricorda tutto: durante una parata ai Fori Imperiali, un Fabrizi in orbace, al passaggio del Duce, piazza un ceffone al Cavalier Cocozza della premiata pasticceria omonima per fargli togliere il cappello. E così fu per Totò Tajani quando, ai tempi del Giornale, ebbe ad avere da Alfredo Pazzaglia, il capogruppo del Msi, uno schiaffo a Montecitorio. Una parlamentare del Msi faceva l’amore con un collega del Pci e lui scriveva: “Tra fascisti e comunisti, relazioni di ferro”. È sempre così: lo schiaffeggiatore si fa una verginità “anti” e allo schiaffeggiato non resta che il tartasso.

Decretone: pensione di cittadinanza cash e sostegno ai disabili

La pensione di cittadinanza potrà essere pagata come tutte le altre, anche in contanti negli uffici postali o in banca, e non solo sulla card del reddito: è una delle novità in arrivo nel decretone tramite emendamenti di governo e relatrici. Arriva il sostegno alle famiglie con disabili ma il ‘mini-fondo’ da 12,8 milioni quest’anno e 17 a regime (sottratti ai centri per l’impiego) ha scatenato un’accesa polemica tra maggioranza e opposizione, che parla di un aumento a condizioni troppo stringenti (“Bisogna essere una famiglia con almeno tre figli di cui uno con disabilità”).Stretta anche per i finti genitori single. La mamma o il papà che chiederà il reddito dovrà presentare un Isee che tenga conto della situazione patrimoniale e reddituale dell’altro genitore a meno che non sia sposato, abbia figli con altri partner o ci sia un assegno di mantenimento. Inclusi nel reddito anche i ‘working poor’, lavoratori con reddito bassissimo. I lavori, comunque, sono stati agitati anche dalle frizioni tra gli esponenti di governo in commissione dei Cinque Stelle, il viceministro all’Economia Laura Castelli e il sottosegretario al Lavoro Claudio Cominardi. Evidenti, raccontano, anche nella riunione di mercoledì con i capigruppo.

Società Editoriale. Il Fatto esordisce in Borsa con scambi superiori a 1 milione di euro

Società Editoriale Il Fatto S.p.A. (“SEIF” o “Società”), media content provider ed editore di diversi prodotti editoriali e multimediali, tra cui Il Fatto Quotidiano, comunica che la negoziazione delle azioni ordinarie e dei warrant è stata avviata ieri sul Mercato AIM Italia, organizzato e gestito da Borsa Italiana S.p.A. Il volume scambiato è stato di 1.358.000 azioni per un valore negoziato di 1,03 milioni di euro. La performance aggregata (azione e warrant) è stata pari a +7,3%. Il ricavato complessivo derivante dal collocamento è stato pari a 2,9 milioni di euro, corrispondente a una capitalizzazione di 18 milioni di euro. Cinzia Monteverdi, presidente e Ad della società, ha commentato: “Sono convinta che la quotazione rappresenti un elemento di forza incredibile per una società indipendente come la nostra: per noi significa essere ancora più responsabili e trasparenti nei confronti dei nostri clienti, della nostra community e dei nostri azionisti. Da oggi proseguiremo con ancor più determinazione nel percorso di crescita che abbiamo intrapreso perché una casa editrice oggi per crescere è obbligata a trasformarsi e a diversificare come sta facendo SEIF”. Nel processo di quotazione la Società è stata affiancata da Advance SIM nel ruolo di Nomad e Joint Global Coordinator, da Fidentiis nel ruolo di Joint Global Coordinator e da Emintad Italy in qualità di financial advisor. Directa SIM ha agito come intermediario finanziario incaricato della ricezione di ordini per il segmento retail, Nctm in qualità di legal advisor, Kpmg come società di revisione, Studio Gnudi come advisor fiscale e A2B come advisor per i dati extracontabili. Close to Media è consulente della società per la comunicazione.

Scavalcati sul salario minimo: perché i sindacati dicono no

I sindacati non hanno nascosto la propria soddisfazione nell’essere finalmente riconvocati dal governo. Lo ha fatto l’altroieri il ministro del Lavoro, nonché capo del M5S, Luigi Di Maio, e lo farà di nuovo oggi il presidente del Consiglio che ha convocato Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Usb a Palazzo Chigi per discutere di investimenti e appalti.

Un punto dirimente sarà il dibattito sul salario minimo, l’ipotesi di fissare per legge una retribuzione oraria minima sotto la quale non sia possibile scendere a prescindere dalla stipula di un contratto nazionale. Di Maio vorrebbe arrivarci entro l’estate e farne un tema di campagna elettorale per le Europee. Per Cgil, Cisl e Uil non è mai stata una priorità se non nei termini di una validità erga omnes – come dice la Costituzione – dei contratti collettivi. Cioè una loro validità automatica e generale con forza di legge.

Il salario minimo legale esiste nella maggioranza dei Paesi europei – 22 su 27 – e stabilisce una soglia minima di retribuzione. Si passa dai quasi 2.000 euro al mese, lordi, del Lussemburgo, ai 260 della Bulgaria. In testa si trovano i 6 firmatari del Trattato di Roma del 1957, tranne l’Italia. E sono proprio questi ad avere i livelli più alti. In fondo c’è l’Europa dell’Est.

Tra quelli che restano fuori – Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia – c’è anche l’Italia. Si tratta di Paesi che hanno la caratteristica di avere garanzie sul piano dei contratti e della retribuzione consolidate. Ed è da qui che muove la posizione che i tre sindacati hanno esposto in una memoria consegnata l’altroieri in un’audizione parlamentare.

“In tutta Europa la contrattazione collettiva, per come è organizzata e a seguito anche dei cambiamenti economici, registra tassi di copertura dei lavoratori dipendenti importanti ma mai totali, e in alcuni casi decrescenti. Nella maggior parte dei casi, la legislazione sui minimi si è sviluppata in Paesi dalle relazioni deboli”. In Italia le relazioni sindacali sono storicamente forti e il Contratto svolge un ruolo chiave nel fissare i livelli salariali. “La strada maestra – dicono i tre sindacati – è il rafforzamento delle Parti Sociali nella contrattazione collettiva e del dialogo sociale”. Cgil Cisl e Uil sostengono che una norma di legge “che si proponga di fissare un salario minimo orario legale per tutti i dipendenti” debba partire da questa realtà stabilendo “il valore legale dei trattamenti economici complessivi previsti dai Ccnl”. Valore legale, quindi efficacia erga omnes.

Il punto da cui parte il M5S, cioè il disegno di legge 658 a prima firma di Nunzia Catalfo non si discosta molto da queste preoccupazioni: propone di fissare per legge una “retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e la zona dove si eseguono le prestazioni”. Il ddl va oltre e fissa un tetto minimo non inferiore a 9 euro lordi l’ora sotto cui non si dovrebbe mai scendere.

Quasi per paradosso è il ddl dei 5Stelle che si avvicina alle preoccupazioni sindacali più di quanto faccia il progetto del Pd che, invece, non fa riferimento ai contratti nazionali e fissa una retribuzione oraria minima non inferiore ai 9 euro netti. Visto che il salario medio oggi è a 9,48 euro, la misura sembra fin troppo ottimistica perché aumenterebbe i salari di colpo del 30-35%.

Per i sindacati fissare un importo anche nella forma del ddl Catalfo potrebbe avere come effetto “che un numero non marginale di aziende possano disapplicare il Ccnl per adottare il solo salario minimo”. Anche perché “un salario minimo legale orario ben difficilmente riuscirebbe a garantire le tante voci retributive (tredicesima, e in alcuni casi 14 mensilità, livelli di inquadramento, maggiorazioni, ferie, indennità)”. “In sintesi, l’effettiva retribuzione oraria di un lavoratore coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare” e quindi fissare i 9 euro equivarrebbe a ridurne il potere di acquisto.

La proposta è quindi quella di fissare i trattamenti economici dei contratti “con validità erga omnes” per tutte le imprese e i lavoratori, conferendo valore legale ai livelli di retribuzione di natura contrattuale.” E per far questo, Cgil, Cisl e Uil chiedono al governo di approvare la legge sulla rappresentanza sindacale per stabilire chi è davvero titolato a stipulare contratti nazionali.

Vedremo se il M5S – la Lega per ora non è in partita – vorrà stabilire un rapporto diretto con il sindacato spiazzando il Pd, o se manterrà la propria posizione nell’idea, suffragata dai dati Istat, che circa il 22% dei lavoratori italiani percepisce una retribuzione inferiore ai minimi contrattuali, percentuale che sale al 38% in agricoltura. La distanza tra le due posizioni non è incolmabile, ma la scelta è politica.