Pierluigi Biondi, sindaco dell’Aquila sostenuto dal centrodestra, ha annunciato ieri le sue dimissioni. La ragione, secondo quanto da lui spiegato, dipende dalla ricostruzione della città dopo il terremoto. Dopo pochi giorni dal decennale del sisma, infatti, ha dichiarato ad AbruzzoLive che L’Aquila “si trova in una fase anche delicata: da un lato le risposte del governo sono insufficienti rispetto alle necessità della comunità e del cratere, dall’altro la situazione locale impone alle forze politiche un atteggiamento di responsabilità”. In realtà potrebbero esserci anche altre motivazioni: Biondi, membro di Fratelli d’Italia, si è scontrato con i consiglieri della coalizione, che ieri hanno disertato la seduta del consiglio comunale in aperta polemica con la nomina di Raffaele Daniele (Udc) a vicesindaco, avvenuta senza coinvolgere la maggioranza. Una spaccatura avvenuta dopo poco più di 20 mesi. Il sindaco è stato attaccato duramente dal capogruppo di FdI, Giorgio De Matteis, che ha chiesto l’azzeramento della giunta e un rimpasto di uomini e deleghe. “È come se avessero dimenticato che l’obiettivo unico e primario è la ricomposizione comunitaria della città e del suo territorio”, ha commentato Biondi.
Il ritorno del Tentenna: si ricandida Pisapia
La nuova era del Pd post-renziano comincia ufficialmente domenica all’Ergife, con la proclamazione di Nicola Zingaretti segretario. I dieci giorni dalle primarie sono trascorsi secondo due linee direttrici, non esattamente convergenti: il Governatore del Lazio ha impostato il lavoro fino alle Europee; i renziani (o post-renziani, come i lottiani) hanno intrapreso tutte le azioni di disturbo possibili.
Il neo segretario ha fatto una serie di incontri, verificando che non c’è la possibilità di un listone unico (per il no senza appello di Emma Bonino e dei suoi). Ieri, intanto, Giuliano Pisapia ha ufficializzato il sì alla candidatura in una “possibile lista aperta”. Sarà il capolista nel Nord Est. Nel Nord Ovest (o forse al centro) dovrebbe toccare a Carlo Calenda, sempre nella lista aperta. Fin qui le certezze, con due punti fermi che non sono esattamente volti nuovi della politica. Per il resto, si aspettano le decisioni prima di tutto di Massimo Cacciari e di Ilaria Cucchi. Mentre si moltiplicano le voci di una corsa di Gianni Cuperlo. In realtà, la trattativa è già in corso, con i renziani che reclamano qualche posto. L’unica certezza sembra Simona Bonafè, europarlamentare uscente, segretario della Toscana. Che qualcuno dà in avvicinamento a Zingaretti. Come molti.
In attesa che questa battaglia entri nel vivo, prima dell’Assemblea si sta consumando quella sui posti in direzione. I renziani sono frantumati. Su 200 posti complessivi, gliene toccano in tutto 34, da distribuire in quelle che ormai sono 4 correnti: a Roberto Giachetti ne spettano 10, alla mozione Martina 24 (8 per l’ex Reggente, Matteo Richetti e Graziano Delrio, 16 per i lottiani e per i Giovani Turchi di Orfini). La battaglia interna è apertissima anche sui 2 vicepresidenti, uno dei quali spetta alla minoranza. Prima momento di scontro sarà il voto a Paolo Gentiloni presidente. Il primo ad annunciarlo è stato lo stesso Giachetti, peraltro amico storico dell’ex premier.
I lottiani stanno riflettendo sul da farsi: aspettano di capire se ci sarà un invito per una segreteria condivisa. Azioni di disturbo per far pesare i voti in Assemblea e quelli nei gruppi parlamentari. A Montecitorio si registra un certo attivismo di Andrea Orlando per sostituire Graziano Delrio: ma Zingaretti non ha intenzione di agire prima delle Europee. Ha scelto il tesoriere, Luigi Zanda, ma neanche la segreteria: con ogni probabilità, la presenterà domenica. Non è più il tempo delle turbo decisioni. La tattica di Zingaretti pare più quella di lasciar cuocere l’avversario nel suo brodo. Quella di Renzi è quella degli inizi: disertare gli organismi di partito. Domenica, infatti, non ci sarà.
Eyu (Pd) a pochi giorni dal bilancio. L’incognita della fattura di Parnasi
Non è stato ancora approvato il bilancio 2018 della Fondazione Eyu presieduta da Francesco Bonifazi: secondo quanto risulta al Fatto si attesterà intorno al pareggio nonostante, guardando il sito internet, si constati un rallentamento delle attività negli ultimi tempi. I margini sono stretti: entro fine marzo il bilancio dovrà essere predisposto dal segretario generale, e poi approvato dal comitato di indirizzo, presieduto da Bonifazi.
Il bilancio 2017 era già stato firmato il 15 marzo 2018. La lentezza del nuovo bilancio si spiega probabilmente anche con la delicatezza di questo adempimento: come sarà trattata la fattura da 150 mila euro (compresa l’Iva) che è costata l’indagine a Francesco Bonifazi? Il presidente della Fondazione non ne è il rappresentante legale. Lo è il segretario generale, Mattia Peradotto. Alla Leopolda del 2013, appena 25enne, salì sul palco per attaccare i collaboratori più stretti di Bersani perché guadagnavano troppo.
Poi Peradotto ha fatto carriera: prima capo segreteria dell’allora presidente della Commissione giurisdizionale per il personale della Camera (ossia Bonifazi) e poi segretario generale della Eyu.
Ora Peradotto dovrà firmare un bilancio pesante. La Procura di Roma infatti ha indagato Bonifazi per finanziamento illecito ma anche per false fatture perché l’ex tesoriere Pd (ora sostituito da Zanda) è sospettato di avere nascosto un contributo non dichiarato alla politica dietro lo studio fatturato da Eyu. Il 22 febbraio 2018, alla vigilia delle elezioni, l’Immobiliare Pentapigna dei Parnasi decide di pagare uno studio sul rapporto tra gli italiani e la casa 150 mila euro (Iva compresa) a Eyu. La Fondazione opera anche come centro studi a pagamento.
Nel 2017 Eyu oltre a 27 mila euro di quote di iscrizione ha avuto incassi di tre tipi: “donazioni effettuate a favore del Centro Studi per 233 mila euro”, poi circa 72 mila euro di erogazioni liberali e infine “513 mila euro riferiti principalmente a studi e ricerche commissionate alla Fondazione”. La fattura emessa da Eyu per la Pentapigna Immobiliare dovrebbe essere inserita in questa categoria. Come ricostruito dai pm, quella fattura seguiva alcune telefonate tra Gianluca Talone, collaboratore di Parnasi, e il responsabile fund-raising di Eyu, Domenico Petrolo. Come quella del 21 febbraio 2018: “Petrolo – sintetizzano i carabinieri – afferma che in passato era stata utilizzata altra forma, la donazione, nella quale l’Iva non andava calcolata”. Al Fatto risulta che la fattura sarà iscritta nel prossimo bilancio. Bisogna vedere come.
Silenzio leghista, sì azzurro. L’unico contrario è il M5S
Rischia davvero di tornare il finanziamento pubblico ai partiti? Le reazioni alla proposta di ieri di Luigi Zanda, che ha lanciato l’idea di spalmare 90 milioni a legislatura tra tutte le forze politiche, di certo non piace ai 5 Stelle, ma raccoglie già adesioni a destra e a sinistra del Pd. In attesa di capire come si esprimerà la Lega, che per il momento, attraverso il tesoriere Giulio Centemero, preferisce non commentare la proposta del collega, ma che potrebbe essere tentata da un aiutino di Stato, in piena emergenza per restituire i 49 milioni contestati dalle Procure.
Intanto Zanda può trovare alleati tra deputati e senatori addetti alle casse dei partiti. Mariarosaria Rossi, senatrice di Forza Italia con un passato da tesoriera, non ha dubbi: “Sono favorevole al ripristino di una forma di finanziamento pubblico. Se fatta con criteri certi e trasparenti è indispensabile per la tutela della democrazia”. Così anche Alfredo Messina, attuale tesoriere forzista, che ammette di “far fronte ai costi di gestione ordinaria con grande fatica” e auspica “un ritorno al finanziamento pubblico, senza tuttavia raggiungere i livelli passati”.
Due buone sponde che rinforzano la posizione di Zanda, ribadita anche da Antonio Misiani, che dei conti del Pd si è occupato in epoca bersaniana: “La totale privatizzazione del finanziamento della politica è un errore, un contributo pubblico serve. A me piace il sistema di scelta volontaria da parte dei cittadini attraverso il 2 per mille, ma la difficoltà di questi anni è stata proprio far decollare il fundraising”. Problemi che, secondo il Movimento 5 Stelle, non possono finire ancora a carico dei cittadini, come ribadisce il tesoriere del gruppo Sergio Battelli: “Non capisco perché i partiti debbano ricevere soldi come fosse un diritto. Ricevere soldi dagli elettori è un patto fiduciario, una questione di credibilità”.
Proprio Battelli rivendica con orgoglio la rinuncia a finanziamenti pubblici da parte del Movimento, già nella passata legislatura, non solo per una questione ideologica, quanto per rispetto dei cittadini: “Non dimentichiamoci che gli elettori nel 1993 hanno votato per abolire il finanziamento pubblico. Mi fa sorridere che il nuovo corso del Pd nasca con il Sì alla Tav e con la proposta di ripristinare i fondi già bocciati dagli italiani”. Eppure anche alla sinistra del Pd si alzano voci a favore di Zanda. O meglio, a favore di un finanziamento pubblico ancora più spinto, come vorrebbe Giovanni Paglia, ex deputato e tesoriere di Sel e Sinistra Italiana: “Sarei favorevole al ripristino di un finanziamento nella misura di un euro per ogni voto ricevuto, con l’obiettivo di ridurre al minimo le sovvenzioni private. Mi piacerebbe che per esempio ci fosse divieto assoluto di donazioni da parte di aziende che lavorano con la pubblica amministrazione”. Un ritorno all’antica che ribalti anche le proporzioni tra soldi ai partiti e soldi ai gruppi parlamentari, “oggi ricchissimi”: “Mi auguro che la proposta di Zanda serva quantomeno a far tornare al centro del dibattito questo tema”. Da lì ad arrivare a una nuova riforma, però, ce ne vuole. Non fosse altro perché il Movimento ha appena approvato nel ddl Anticorruzione misure per rendere più trasparenti partiti e fondazioni politiche, nella direzione di un sostentamento fatto di microdonazioni dal basso: “Ora che i partiti sono alla canna del gas ci provano, è normale – dice ancora Battelli – ma di certo non si può tornare indietro. I soldi che Zanda vuole regalare alle forze politiche noi preferiamo utilizzarli per le aziende in crisi o per finanziare il salario minimo”. Messaggio all’alleato di governo.
Il nuovo Pd di “Zinga” vuole il tesoro dei soldi ai partiti
Avolte ritornano. Sopravvissuto a tre referendum, due Repubbliche e infiniti scandali, il finanziamento pubblico ai partiti sembrava esser stato eliminato una volta per tutte dal governo Letta, anno 2014. Adesso però – vuoi la crisi, vuoi la recente stretta sulla trasparenza voluta da Alfonso Bonafede – qualcosa potrebbe cambiare, tanto che il nuovo tesoriere del Pd Luigi Zanda ha confermato a Repubblica di voler incontrare gli altri partiti per proporre un ritorno all’antica. Non certo alle vacche grasse berlusconiane, ma quanto basta per dare una gonfiatina a bilanci sempre più in rosso e costretti a dipendere dalla “tassa” imposta agli eletti.
Zanda partirà da un testo presentato l’estate scorsa in Senato che prevede un tesoretto di 90 milioni a legislatura (18 all’anno) da dividere: un 10 per cento andrebbe in parti uguali a tutte le forze politiche presenti in Parlamento, il resto sarebbe distribuito in base al numero di eletti. Sempre tenendo conto, giura Zanda, delle “spese annue rimborsabili”. Tradotto: le forze politiche dovrebbero comunque presentare le ricevute dei costi sostenuti.
L’ipotesi è ancora tutta da realizzare, ma già da adesso il mantra del nuovo Pd sembra un déjà vu di proposte già viste in passato. Da quando è diventato impossibile parlare di finanziamento pubblico, infatti, i soldi ai partiti sono rientrati dalla finestra sotto il nome di “rimborsi”, salvo poi essere del tutto svincolati – guarda caso: sempre in eccesso – rispetto alle reali spese per fare campagna elettorale. Si è andati avanti così fin dal 1993, quando un referendum promosso dal Partito Radicale è riuscito dove nel 1978 aveva fallito, profittando dell’indignazione generale causata da Mani Pulite per abolire la legge Piccoli del 1974, quella che per prima aveva istituito i finanziamenti pubblici in Italia.
Ma fatto il referendum, trovato l’inganno: già dalle Politiche del 1994 i partiti poterono contare su rimborsi sempre più allargati, vista la generosità bipartisan delle nuove norme varate da centrosinistra (1999) e centrodestra (2002), in grado anche di eludere – forti del quorum – una nuova consultazione abrogativa promossa dai Radicali nel 2000.
Il capolavoro del finanziamento a pioggia è però datato 2006: un articolo ad hoc del solito Milleproroghe aveva modificato la modalità di erogazione dei fondi, che diventavano dovuti per tutti i cinque anni della legislatura a prescindere dalla sua effettiva durata. Morale: dopo due anni il governo Prodi crolla, si torna a votare ma i partiti percepiscono il doppio dei fondi, perché a quelli della nuova legislatura (2008-2013) si sommano quelli della precedente. Una cuccagna proseguita sena remore sino al 2010, quando la politica si poté permettere di eliminare il doppio finanziamento anche in virtù di bilanci più che sorridenti: per le elezioni del 2008 il Pdl aveva incassato 206 milioni, il Pd 180 e la Lega 41. Cifre che oggi appaiono fuori dal tempo – Zanda, appunto, ragiona su 90 milioni complessivi – e che già avevano imposto una revisione ai governi Monti e Letta, assediati dallo spread, dai venti anti-casta e dalle esigenze di spending review. La crisi di risorse che toglie il sonno a Zanda è figlia proprio della riforma lettiana, per cui dal 2014 al 2017 i finanziamenti sono stati progressivamente aboliti, questa volta per davvero. I partiti hanno così potuto finanziarsi soltanto attraverso il 2 per mille volontario dei cittadini (insufficiente: 14 milioni in totale, di cui 7 al Pd secondo i dati del 2018) o per mezzo di donazioni private fino a 100mila euro, consentite però in forma anonima prima dell’intervento della Spazzacorrotti.
L’intervento di Letta ha però anche lasciato spazio a zone grigie, perché non ha incluso nelle norme la galassia di associazioni e fondazioni legate ai partiti e che per conto dei partiti hanno finanziato eventi, incontri, campagna elettorale. È il caso delle varie Più Voci (Lega) e Eyu (Pd), i cui nomi sono per altro comparsi, assieme a quelli dei tesorieri dei due partiti, nelle recenti vicende giudiziarie del costruttore Luca Parnasi, perché sospettate di aver ricevuto finanziamenti illeciti. Ma la lista è lunga: dall’Associazione Rousseau alla renziana Open, che ha pagato parte della campagna referendaria per il Sì nel 2016, o ancora la A/simmetrie del leghista Alberto Bagnai. Una commistione cui ha provato a dare regole il ddl Anticorruzione, che ha equiparato le fondazioni ai partiti con il desiderio di inchiodarle agli stessi obblighi di trasparenza. Senza convincere, evidentemente, il tesoriere Zanda.
Democrazia proprietaria
Tenetevi forte, perché sta per arrivare la nuova coppia comica dell’anno. Di Maio e Salvini? No, quella ha già vinto l’Oscar 2018. Ora c’è di più e di meglio: Calenda e Pisapia. Se tutto va bene, saranno i capilista del Pd alle Europee, sempreché il primo non riesca a dar vita a una lista fiancheggiatrice denominata nientemeno che “Siamo europei”. L’uso di un brand fra i più screditati sul mercato l’avevano già tentato Bonino&Tabacci l’anno scorso (“+Europa”), con esiti strepitosi: 2,5% dei voti (“-Europa”), ben sotto la soglia del 3%. Ora, siccome alle Europee lo sbarramento sale al 4%, Calenda ci riprova. Sennò fa il capolista Pd a mezzadria con Pisapia. L’idea che, per stare insieme in una lista o in un partito, si debba avere almeno qualcosa in comune, specie se si contestano i giallo-verdi che litigano su quasi tutto, non sfiora più da tempo il trust di cervelli che guida (si fa per dire) il centrosinistra. E gli elettori, sempre trattati come una massa di beoti, ormai se ne accorgono. Poco più di un anno fa, i giornaloni oracolavano il successo travolgente di +Europa. E noi domandammo cosa mai tenesse insieme un vecchio democristiano antiabortista come Tabacci e una radicale abortista come la Bonino, oltre all’urgenza della seconda di associarsi a una lista già esistente che le risparmiasse il fastidio di raccogliere qualche migliaio di firme in piazza. E proponemmo, a titolo paradossale, altre liste similari: Progressisti Reazionari, Bigotti Libertini, Carnivori Vegani e così via. Pensavamo di scherzare, invece vedevamo lungo a nostra insaputa: infatti ecco Calenda&Pisapia che – a parte forse il conto in banca e le fregole di Repubblica – non hanno in comune nulla. Neppure la stazza. Uno, a giudicare dalle foto che posta per farci conoscere, se non le sue idee, almeno la sua circonferenza, è un filino in sovrappeso. L’altro è smilzo e smunto. Praticamente Stanlio e Ollio.
Poi ci sarebbero pure le incompatibilità più rilevanti, quelle – con rispetto parlando – sui programmi. Calenda viene da Confindustria, Ferrari, Italia Futura di Montezemolo e Lista Monti. Pisapia viene dalla sinistra extraparlamentare, da Democrazia proletaria e da Rifondazione comunista. Che avranno mai da raccontarsi? Dalle grandi opere al lavoro, dall’economia agli esteri, dall’immigrazione all’ambiente, sono agli antipodi. Calenda, se fosse per lui, asfalterebbe pure i laghi, i fiumi e il mare. Pisapia, nel 1996, tuonava contro la variante di valico dell’Autosole Firenze-Bologna, voluta dall’allora ministro dei Lavori pubblici Antonio Di Pietro e bloccata dall’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi.
“Compito di un governo coerente – disse l’allora senatore del Prc, schierandosi con Ronchi contro l’opera – è di portare avanti il programma per cui ha avuto il consenso popolare ed è quindi comprensibile la decisione di chi si oppone a scelte personali di un singolo ministro non eletto (Di Pietro, ndr) o a prese di posizione diverse da quelle concordate nella maggioranza”. Chissà Calenda, che si appalterebbe pure il cigno del laghetto, cosa ne pensa. Lui che ha appena detto no alla Boldrini in quanto “buonista” e promotrice di una “accoglienza indiscriminata dei migranti”. E che l’altra sera litigava col portavoce di Baobab perché “prima di tutto bisogna dire che non vogliamo e non possiamo aprire le frontiere a chiunque voglia venire, altrimenti perderemmo il controllo del Paese. La sinistra deve imparare a dire delle parole chiare”. Chissà se le dirà Pisapia, amicone della Boldrini, e se coincidono con le sue. Più che candidarsi nel Pd, i due dovrebbero fondare il Dp: Democrazia Proprietaria.
Ma grande è la confusione sotto tutti i cieli. Il vecchio camerata monarchico Antonio Tajani, inopinatamente presidente del Parlamento europeo e vicepresidente di FI, esce al naturale a La Zanzara: “Mussolini, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto cose positive fino alle leggi razziali e alla guerra al fianco di Hitler”: cioè fino al 1938 (le leggi liberticide, l’abolizione dei partiti avversari, il Tribunale speciale e la guerra d’Etiopia, precedenti al ’38, furono una figata). Poi, per salvarsi la poltrona (in Europa certe cose è ancora meglio non dirle) e il maquillage da argine moderato contro la barbarie populista, ha dovuto violentarsi e proclamarsi nientemeno che “antifascista convinto da sempre”. Un atto contro natura che non andrebbe mai chiesto ad alcun essere umano, tantomeno a Tajani. Intanto il “nuovo” Pd di Zingaretti, con il suo “nuovo” tesoriere Luigi Zanda (76 anni, in politica da appena 43), che ha sostituito quello vecchio Francesco Bonifazi (appena indagato per finanziamento illecito e false fatture), tiene subito a distinguersi dal vecchio che nel 2013 aveva abolito il finanziamento pubblico diretto ai partiti: chiedendone l’immediato ripristino. Non solo. Il Pd strepita contro la legge-porcata sulle autonomie regionali, come se non fosse stato Gentiloni ad aprirle la strada ai tempi dei referendum lombardo-veneti e delle richieste analoghe dei governatori pidini Bonaccini e Chiamparino. Pd e Forza Italia accusano il governo di svendere il Paese alla Cina per l’accordino sulla “Via della seta”, forse ignari delle trionfali missioni di B., Prodi, Renzi e Gentiloni sotto la Grande Muraglia. E i sindacati, non contenti di aver criticato il Dl Dignità, quota 100 sulle pensioni e il reddito di cittadinanza dopo aver chiesto per anni cose simili ai governi amici che facevano l’esatto opposto, se la prendono pure con il salario minimo, che invocavano fino a quando non l’ha proposto Di Maio: del resto che sarà mai un lavoratore italiano su cinque che guadagna meno di 9 euro lordi l’ora. Già pronta la nuova lista Confindustria Sindacale.
La web tax e la moralità a geometria variabile
Dice: che brutta cosa sono i paradisi fiscali dove si nascondono le imprese cattive (e quelle buone) per pagare meno tasse o nascondere certi soldi più scuri degli altri. Dice: brutti, proprio brutti, bene ha fatto l’Ecofin Ue martedì ad ampliare la lista dei paradisi fiscali su cui provare poi a far finta di nulla. Dice: e che figuraccia che ha fatto l’Italia che voleva chiudere un occhio sugli Emirati Arabi per certe cose che interessano l’Eni e anche perché hanno detto che adesso approvano una legge buona, basta aspettare. Cattivi questi Emirati e buona la Ue. Peccato che lo stesso Ecofin abbia deciso che la famosa “web tax” seguirà nel nulla l’altrettanto famosa “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie: la proposta prevedeva che le imprese con ricavi annui complessivi superiori a750 milioni di euro, di cui almeno 50 milioni in Europa, pagassero un’imposta del 3%sul fatturato prodotto nell’Ue. Gettito atteso: 5 miliardi l’anno su un’elusione fiscale che Mediobanca R&S ha calcolato per 21 grandi multinazionali del web (da Google e Amazon in giù) in 12,1 miliardi di euro nel solo 2017 (quasi 50 miliardi in 5 anni). E come fanno a pagare meno? Vanno in Irlanda, Lussemburgo o Olanda, che però si chiamano “Paesi a fiscalità agevolata” perché “paradisi fiscali” si usa solo per i puzzoni. E quindi niente web tax che sennò Juncker piange. D’altra parte l’Europa è lo spazio metafisico delle proteste morali a geometria variabile: se riescono a mettere assieme il carrozzone Deutsche Bank-Commerzbank ve lo spiegheranno bene in tedesco.
Quanto costa la “psicobanalisi” di Recalcati?
Lessico amoroso non è stato un successo di audience. Partito con 717.000 spettatori, lontano dal milione del Lessico del 2018, ha toccato quota 399.000 la sera di Serena Dandini.
Ma non si tratta di una arida questione di numeri. Il programma è stato infatti da più parti criticato perché ritenuto banale e populista. Su tutti Aldo Grasso che si è domandato come uno “studioso decide di diventare un guru” diluendosi in una “parodia di Raffaele Morelli”. Thanopolus lo ha stroncato come discorso retorico e fumoso. Crozza, con la “psicobanalisi”, ha fatto il resto mettendo alla berlina la psicoanalisi tout court. Che qualcosa sia andato perso, lo si è visto dalle reazioni. Dopo l’apparizione alla Leopolda, qualsiasi riferimento a Recalcati e al suo modo di veicolare la psicoanalisi costava violenti e trinariciuti takle sui calcagni da parte di intellettuali schierati al grido di “Non potete impedirgli di parlare!”. Oggi, molti di questi hanno posato le armi, arresi all’evidenza di un lessico analitico privato della sua forza dissacrante e corrosiva. Memori forse del monito di Lacan: “Dopo la morte di Freud certi suoi allievi hanno preteso di fare psicoanalisi (…) riducendo il suo insegnamento a qualche formuletta banale (…) Una psicoanalisi di comodo, da salotto. La psicoanalisi è altro”.
Al silenzio delle penne forti ha fatto da contraltare, specie nei social e nelle riviste online, un feroce e malmostoso argomentare di autonominati pretoriani i quali urlando: “Non potete criticare il maestro! Invidiosi!” si sono lanciati nella difesa a oltranza e non richiesta di quel maître del quale hanno probabilmente bisogno, irrompendo come cavallette in ogni discussione sul tema, pena il crollo delle loro certezze. “Avrà risposta legale” mi intima una collega. Si tratta di quel pubblico descritto da Grasso con un alto tasso di “gurità”, composto da individui estatici, gratificati dalle parole del sommo “sacerdote”.
Per una sorta di snobismo culturale che Battiato ha ben cantato, io questo programma non l’ho visto. Per questo non mi addentro nell’analisi dei concetti esposti, preferendo mettere in tensione le opinioni di chi lo ha criticato duramente avendolo visto. Dunque non come analista, ma come cittadino pagante, vorrei sapere quanto questo esperimento è costato. Sì, lo so. Siamo assuefatti alla critica spocchiosa tipo “la cultura non guarda l’audience”. Ma fare i conti della serva è l’accusa solitamente scagliata da chi gestisce denari non propri, un argomentare fortunatamente sepolto il 4 Dicembre.
Ho gioito delle restrizioni previste agli stipendi di Fazio & co. (che pure fa ancora ascolti altissimi). Ho riso quando, a fronte di una richiesta ragionevole delle spese dell’azienda pubblica, si gridava alle epurazioni (il sostegno di Recalcati a Renzi, la mitica scuola PPP, sono storia). Quanto è dunque costato, a quegli abbonati Rai che hanno votato per quel polo grillino affetto da una patologia bipolare, un programma che ha avuto bisogno in cauda di Benigni per tornare al mezzo milione? Lacan ha detto: “l’analista (…) bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione”. Vale anche per i programmi Rai?
“Io e gli scrittori abbiamo in comune solitudine e fatica”
Che cosa c’entrano Jonathan Coe, David Peace, Roberto Saviano e Michele Serra con Roberto Bolle? Non si direbbe, ma è la notte che li accomuna, anzi una in particolare: riprendendo il titolo italiano di un romanzo dell’autore britannico – che a sua volta riprendeva Morrissey – Questa notte mi ha aperto gli occhi è un programma di quattro puntate che andrà in onda su Sky Arte a partire da sabato prossimo (prodotto da Ballandi Arts e Artedanza). L’étoile, mente del progetto, racconta le quattro città che sente più sue – Londra, Milano, New York e Tokyo – accompagnato dagli scrittori e dalle partner cui è più legato, da Alessandra Ferri a Svetlana Zakharova. Un viaggio notturno tra la fine delle prove o degli spettacoli e il silenzio dei luoghi, attraverso i quali interrogarsi sul senso della propria arte. Un modo per avvicinare due mondi apparentemente lontani.
Bolle, lei ribadisce spesso di avere senso di responsabilità verso il suo pubblico. Gli scrittori con cui ha scoperto le quattro città condividono questo imperativo?
Non in modo così accentuato. Per me è una missione cercare di avvicinare il grande pubblico alla danza: per questo porto in scena sempre qualcosa di qualità che possa però essere anche interpretato, capito, che possa parlare a tutti.
Jonathan Coe sostiene di comprendere il valore della disciplina ma di avere una routine diversa da quella dei ballerini.
Ne parliamo anche con Michele Serra, che scrive ogni giorno ma non la vive come una routine. I nostri allenamenti sono una particolarità: una fatica fisica che è unica.
Un’altra parola che viene fuori nella puntata su Londra è “talento”. Coe non è consapevole di essere talentuoso, lei sì.
Il nostro mondo è particolare: già da ragazzo devi scegliere cosa diventare nella vita. Mentre puoi continuare a scrivere facendo tutto il resto, se decidi di danzare professionalmente non puoi dedicarti ad altro. Per me il momento della consapevolezza è arrivato presto, quando da bambino ho lasciato la mia famiglia per venire a studiare alla Scala. E la notte che mi ha aperto gli occhi è stata quella in cui sono diventato primo ballerino, avevo 21 anni.
C’è una cosa che accomuna scrittori e danzatori: la solitudine; dietro le quinte, prima di entrare in scena, un ballerino è solo, come un autore davanti al foglio…
In scena sei solo, hai tutti gli occhi puntati e devi eccellere. Per me però c’è sempre stata anche la solitudine dei viaggi: fin da quando ero ragazzo ho avuto la fortuna di poter scoprire nuove città, una grande opportunità con tanti momenti di solitudine. Perciò l’idea di questo programma mi appartiene: mi ritrovo nelle immagini in cui cammino da solo, di notte, una volta uscito dal teatro. Gran parte della mia vita è stata così.
Lei sta insegnando che la danza può essere un’arte pop. Però siamo lontani da un pieno riconoscimento: mentre le scuole sono piene di allievi, molti ballerini pur di non fare la fame se ne vanno all’estero…
Bisognerebbe riuscire a farli rimanere tutti! E invece ci sono davvero poche opportunità in Italia. Cerco di fare il possibile perché cambi la percezione, con le serate televisive oppure con gli spettacoli per le strade. Dal 25 maggio al 2 giugno tornerà a Milano OnDance, la manifestazione che unisce danze diverse, flash mob nelle piazze, lezioni aperte. E siccome è un’idea vincente, il 18 e il 19 maggio la anticiperemo esportandola a Napoli. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla chiusura o alla riduzione drastica di compagnie invece che la loro valorizzazione. Questo è un impoverimento culturale per l’Italia e va denunciato.
Il 26 marzo compie 44 anni. Cosa farà quando il corpo non l’accompagnerà più?
Mi piace lavorare con i giovani, scoprire nuovi talenti. Lo faccio già nei miei Bolle&Friends. E poi non voglio smettere di coinvolgere altri ambiti della danza, creando sinergie speciali e avvicinando sempre più persone a questo mondo.
Com’è umano Ludwig
È un uomo malato, è un uomo cattivo: le memorie dal sottosuolo si somigliano tutte, che a compilarle sia un vecchio tapino oppure un brillante filosofo. Fragile, piagnucoloso, innamorato della donna sbagliata, pigro, depresso e un filo misantropo: Ludwig Wittgenstein, uno di noi. O almeno così lui si ritrae nei diari privati, appena riediti, dopo vent’anni, da Quodlibet con la curatela di Ilse Somavilla e l’introduzione di Michele Ranchetti.
Movimenti del pensiero raccoglie gli appunti del filosofo (1889-1951) tra il 1930 e il 1932 e tra il 1936 e il 1937: i primi furono scritti a Cambridge (dove era tornato a insegnare nel 1929, dopo l’arruolamento nella Prima guerra mondiale, l’isolamento e la catastrofica esperienza come maestro elementare), i secondi a Skjolden, in Norvegia, isolato in un eremo tra i fiordi; i primi segnano il ritorno dell’intellettuale agli studi teoretici, i secondi coincidono con la “conversione” dal cristallino Tractatus alle brulle e impervie Ricerche. E infatti, già nei diari, si accenna ai giochi linguistici, ai fraintendimenti e ai pregiudizi della filosofia, al linguaggio privato, al terreno scivoloso della logica…
È materiale prezioso questo: non solo perché è l’unico diario “tradizionale” di Wittgenstein – scoperto nel 1996 ed edito in Italia, per la prima volta, nel 1999 –, ma anche perché sopra il precipitato filosofico galleggia l’umanissimo spirito. “La vita è di una tremenda serietà”, figuriamoci quella di un pensatore di professione, ex soldato, ex maestro dalle bacchettate facili, eremita a tempo perso, amante respinto e perciò livoroso e autore refrattario che vuole bruciare i propri scritti un giorno sì e l’altro pure: in vita Ludwig non pubblicherà nulla, a eccezione del Tractatus logico-philosophicus nel 1921, su cui nutre peraltro riserve perché “contiene anche del kitsch”. “Se il mio nome sopravviverà sarà solo come il terminus ad quem della grande filosofia occidentale. Un po’ come il nome di colui che ha bruciato la biblioteca di Alessandria”.
Modesto in metafisica e vanitoso nella vita, Wittgenstein ha – per sua stessa ammissione – l’inverno nell’anima e spera perciò di trovare conforto e serenità nella teoresi: “Il compito della filosofia è quello di tranquillizzare lo spirito su questioni prive di significato. Chi non è incline a tali questioni non ha bisogno della filosofia”. Tra antidepressivo e ansiolitico, la prima delle scienze funziona un po’ come la pillola della felicità; se non fa addormentare, quantomeno calma i nervi, di questo Ludwig ha bisogno: “Ho un’anima più nuda della maggior parte degli uomini e in questo consiste per così dire il mio genio”.
Tra una riflessione e l’altra, una annotazione e l’altra, l’intellettuale ama perder tempo, vorrebbe “solo mangiare e dormire tutto il giorno” nella sua cameretta, si impigrisce, ha “pensieri torbidi”, si sente “depresso, ma in modo cupo”. E via con l’autoflagellazione e/o l’autocommiserazione: “Sono sterile, stupido, vile, permaloso, meschino, avido, volgare, molto debole e lunatico, sporco con tutta la mia vanità… Tendo un po’ alla sentimentalità facile, allo scoramento, alla paura… e a fondare questa vita sul fatto che io sono molto più intelligente degli altri”.
In amore, però, è come tutti: fesso. Si invaghisce di Marguerite Respinger, con cui flirta passeggiando e con cui il massimo dello svago, e della trasgressione, è andare al cinema a vedere film americani, western soprattutto. Non ha timore di dichiararsi infantile, Wittgenstein, amante com’è delle favole e dei romanzi: “Ho la sensazione ora che se perdessi la Marguerite dovrei andare (interiormente) in convento”, come un’Ofelia qualunque. Ovviamente la signora gli preferirà un altro, tal Talla Sjögren: è una banale “relazione borghese”, scriverà lui, borghese per eccellenza ancorché schifato e scornato. “Quando si è nella merda c’è una sola cosa da fare: marciare”: Ludwig non regge bene la disfatta amorosa; non è proprio in grado di prenderla con filosofia, ma con la tipica cupezza austriaca sì, e infatti si ammala subito di “costipazione e bronchite spirituale”. È solo uno delle tante vittime delle passioni – e delle malattie – del suo tempo, tutte appartenenti “alla stessa classe caratteristica di quest’epoca”: parenti, amici, colleghi, artisti, scrittori e intellettuali, come Ramsey, Moore, Keynes, Bachtin, Spengler…
Da buon austriaco, Wittgenstein eccelle nell’arte dell’aforisma (vedi l’ammirato Kraus), è ossessionato dai sogni (come Freud, il poco stimato “porco”), è un fanatico dell’architettura (Loos & c.) e ama visceralmente la musica. Sostanziosa, ovviamente, è l’eredità filosofica di cui si fanno carico le pagine, da Nietzsche a Kierkegaard, da Spinoza a Kant. Ma Wittgenstein è un pensatore difficilmente etichettabile: è un analitico? È un continentale? È un logico o un sentimentale?… Meglio astenersi, al più produrre “osservazioni sulla metafisica come un genere di magia”, stando ben lontani dalle “facce di culo” dei critici.
E poi c’è Dio, spesso rapace o indifferente o irriducibilmente Altro, con cui Ludwig vorrebbe “litigare”. La sua è una fede “debole” e inadeguata, e su tutto problematico è il suo rapporto con le radici ebraiche, rinnegate dalla famiglia che si era convertita al protestantesimo. Il diario si chiude con un appello: “Ebrei!… Date nuovamente qualcosa per la quale vi spetti non freddo riconoscimento ma caldo grazie. Ma la sola cosa che il mondo richiede da voi è la vostra sottomissione al destino”. È il 1937: mai profezia fu più infausta.