“La Cia ci spia”: ora Madrid accusa gli Usa per l’assalto all’ambasciata nordcoreana

È stata la Cia. Secondo la polizia spagnola, l’attacco del 22 febbraio alla sede dell’ambasciata nordcoreana a Madrid sarebbe legato all’intelligence Usa, a cui farebbero riferimento almeno due dei 10 uomini che vi hanno partecipato. Interrogata, la Cia avrebbe negato, ma “in modo poco convincente”, secondo gli inquirenti.

Un caso dai connotati cinematografici, che potrebbe rappresentare la scintilla di un caso diplomatico tra Spagna e gli Stati Uniti, giacché le autorità madrilene sottolineano che se la responsabilità della Cia fosse confermata si tratterebbe di un comportamento “inammissibile” da parte di un alleato. Innanzitutto, perché l’intellingence Usa avrebbe operato sul suolo spagnolo senza chiedere l’autorizzazione del paese ospite. E in secondo luogo perché avrebbe violato le convenzioni internazionali sulla protezione dei diplomatici. L’assalto è degno di 007. Dieci uomini con armi giocattolo fanno irruzione alle 15 del 22 febbraio – in pieno giorno – nell’ambasciata della Corea del Nord, in via Darío Aparicio, 43, nel quartiere di Aravaca, periferia residenziale di Madrid. Le otto persone presenti vengono legate, incappucciate, picchiate e interrogate. I vicini insospettiti dalle urla chiamano la polizia. All’arrivo della volante, alla porta della sede diplomatica si presenta un uomo dai tratti orientali che rassicura gli agenti: dentro è tutto a posto. Poco dopo due veicoli di lusso lasciano l’ambasciata a tutta velocità: sono le auto del corpo diplomatico usate dagli assalitori in fuga.

È chiaro fin dalle prime ore che non si è trattato di una semplice rapina. L’operazione è pianificata da un commando militare: l’obiettivo sono gli archivi informatici e i telefoni cellulari che vengono rubati. L’intelligence spagnola, grazie alle telecamere interne, è riuscita ad identificare alcuni degli assalitori, per la maggior parte sudcoreani, due dei quali legati alla Cia. Se non è ancora certo il coinvolgimento di Washington, si sa che il movente fosse raccogliere informazioni sull’ex ambasciatore nordcoreano a Madrid, Kim Hyok Chol, espulso nel 2017 perché “persona non gradita”, e diventato consulente di Kim Jong-un per le trattative con gli Usa sul nucleare.

Video-cartolina da Baghuz: saluti dal Califfo

Una cartolina da Baghuz, anticamera dell’inferno. O del paradiso, a credere ai jihadisti: “Domani, se Dio vuole, noi saremo in paradiso e loro, gli infedeli, bruceranno all’inferno”. Lo dice, agitando la destra, il miliziano protagonista d’un video del sedicente Stato islamico, l’Isis, il primo edito, o intercettato dai servizi di monitoraggio occidentali, da gennaio. Scene di vita dall’accampamento ormai assediato e progressivamente svuotatosi dei familiari dei guerriglieri e degli stessi jihadisti, che tentano la fuga o che preferiscono consegnarsi e finire in prigionia piuttosto che restare uccisi. Il video è senza data: impossibile, quindi, dire, solo vedendolo, se sia stato girato ieri o giorni o settimane fa: accertamenti dell’intelligence sono in corso. Nelle vie del campo, passano mamme con bambini nel passeggino e furgoni costretti, dal caos, a muoversi a passo d’uomo; le strade sono sterrate e fangose, ma non ci sono segni di disperazione o di devastazione.

“Qual è la nostra colpa? Quali sono i nostri crimini”, dice, rivolto alla camera, un presunto jihadista. “Perché veniamo bombardati giorno e notte? Perché tutte le nazioni del mondo miscredente ci combattono? Qual è la nostra colpa? Perché siamo sotto assedio, mentre il mondo tace? Qual è la nostra colpa, quali sono i nostri crimini? Vogliamo applicare la legge di Dio”. Le domande del miliziano sono anche rivolte ai ministri degli Esteri degli “amici della Siria”, i Paesi che aderiscono alla coalizione condotta dagli Stati Uniti. Riuniti a Bruxelles, cercano – ma lo fanno da otto anni, senza alcun risultato – una “soluzione politica” al conflitto, di fatto risoltosi, ad opera della Russia e dell’Iran, con il concorso della Turchia, in un consolidamento del regime di al Assad, nonostante l’insurrezione godesse del sostegno dell’Occidente. La Lega araba s’appresta a dibattere la riammissione della Siria.

E mentre Mosca e Ankara discutono di “pattuglie congiunte” in funzione anti-curda alla frontiera siriana di nord-est, raid russi colpiscono una prigione a Idlib e consentono la fuga ai detenuti.

Da Baghuz, nella piana tra l’Eufrate e il confine con l’Iraq, nel Sud-Est del Paese, dove l’offensiva di terra dei curdi procede lentamente, con il sostegno di raid aerei principalmente americani, giunge notizia della resa di 500 miliziani, mentre nessuna conferma si ha della presenza nell’accampamento dell’auto-proclamato Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, già dato per morto oppure volta a volta segnalato a Mosul, a Raqqa, alla Sirte – oggi, c’è chi lo vuole alle prese con una faida di potere interna, come se non gli bastassero i nemici esterni.

Brexit, via con l’accordo. Ma oggi si torna a votare

È stato un giorno di follia, in cui è apparso chiaro, dopo la sonora, seconda bocciatura del suo accordo, che Theresa May ha perso il controllo e che, in circostanze meno eccezionali, si sarebbe già dimessa. E invece continua a subire umiliazione dopo umiliazione. Ieri Westminster ha approvato con solo 4 voti di maggioranza, 312 a 308, un emendamento che rigetta la possibilità di no deal in ogni circostanza.

La May aveva fatto pressioni per non farlo mettere ai voti e invece il parlamento, approvandolo, ha vanificato la mozione governativa, un mostro bicefalo che consentiva di escludere l’uscita senza accordo il 29 marzo ma la manteneva come opzione di default. A questo punto il governo ha imposto ai parlamentari tory di votare contro la propria mozione, per mantenere sul tavolo la possibilità di no deal. E quindi conservatori che pochi minuti prima avevano votato per evitare il no deal poco dopo hanno dovuto astenersi o votare per tenerlo in gioco. Malgrado questo, 321 contro 278, il governo è stato sconfitto sulla sua stessa mozione. Un disastro. Previste dimissioni di massa, anche molto in alto.

C’è almeno la garanzia che il Regno Unito non uscirà dall’Unione Europa senza un accordo? No.

Perché per evitare il no deal non basta che la maggioranza dei parlamentari votino no: devono votare sì a qualcosa d’altro, una proposta credibile, concreta e accettabile per l’Unione Europea. In sintesi, il voto di ieri ha spianato la strada al voto di oggi, con il parlamento chiamato a decidere se richiedere a Bruxelles una estensione dell’art 50, cioè più tempo per sbrogliare la matassa. Problema: siccome la politica britannica è in una crisi senza precedenti e nessuna delle possibili alternative al no deal oggi ha la maggioranza parlamentare, richiedere una estensione a queste condizioni significa porgere il collo a un’Unione europea esasperata dalle schermaglie britanniche è irritata dal rischio ora molto alto di una uscita senza paracadute, con le sue pesanti ricadute anche sugli equilibri economici e politici europei. Ieri il capo negoziatore europeo per Brexit Michel Barnier lo ha ribadito a muso duro al parlamento europeo: “Tocca al Regno Unito dirci cosa vuole per le future relazioni. Questa è la questione a cui devono rispondere prima di decidere su una possibile estensione”.

Intanto c’è una inevitabile escalation dei preparativi per il no deal: con significativo tempismo, proprio ieri mattina, il governo ha pubblicato le linee guida dei regime doganale temporaneo (12 mesi) che entrerebbe immediatamente in vigore in caso di uscita senza accordo. Non ci sarebbero dazi per l’87% delle importazioni dall’Ue, ma ci sarebbero tariffe a protezione di alcuni settori dell’economia britannica. E, importante, almeno temporaneamente niente controlli al confine fra le due Irlande.

Una decisione che ha scatenato una tempesta di critiche da parte dei rappresentanti dei settori produttivi, dagli agricoltori agli industriali, con la leader della potente Confederation of British Industries Carolyn Fairbairn che ha definito il piano “una mazzata per l’economia”. Anche perché la Commissione europea ha confermato che in caso di no deal l’Europa imporrà al Regno Unito le tariffe applicate ai paesi non europei senza accordi commerciali con Bruxelles: un salasso per le esportazioni britanniche.

Non c’è alternativa a Bouteflika

Un tweet cinguettato in Rete durante una discussione sul futuro dell’Algeria e sulle prossime mosse dei conservatori che non intendono rinunciare al potere, fotografa molto bene il clima che si respira nell’ex colonia francese. “Riflettete amici. Non abbiamo vinto un bel niente. Il potere è sempre lo stesso e sempre nelle stesse mani. Perché cantate vittoria?”, c’è scritto nel messaggio.

Lunedì scorso, l’82enne presidente Abdelaziz Bouteflika, colpito da un ictus e costretto su una sedia a rotelle, ha annunciato la sua rinuncia alla candidatura per un quinto mandato e il rinvio delle elezioni previste per il 18 aprile. “Finirò il mio lavoro entro il 2019”, ha anche assicurato in una nota diffusa dal suo ufficio (lui non si vede in pubblico da almeno 6 anni e non era mai comparso, neppure durante la campagna elettorale del 2014). Ma non tutti gli algerini credono alla sua promessa. I manifestanti hanno continuato a scendere in piazza; da un lato per festeggiare il traguardo raggiunto (“No al quinto mandato”, era uno dei loro slogan), dall’altro per chiedere tempi certi per il periodo di transizione e per fissare una nuova data elettorale. Da notare che le dimostrazioni sono del tutto pacifiche e le forze dell’ordine si sono limitate a contenere la folla senza usare violenza. I problemi che affliggono l’Algeria sono essenzialmente tre: disoccupazione a livelli insopportabili, carenza di servizi inefficienti e ridotti all’osso e una corruzione rampante e intollerabile che divora le straordinarie risorse che derivano dallo sfruttamento del petrolio e del gas. L’ultimo forse è il più rilevante, perché da quello dipendono tutti gli altri. Le manifestazioni che si susseguono dal 22 febbraio non solo ad Algeri ma anche nelle altre città, Costantina, Annaba, Orano hanno mostrato la loro spontaneità e non hanno ancora fatto emergere un leader certo. Il timore che serpeggia in queste ore è che il potere incarnato dal vecchio regime non si ritenga sconfitto e tenti di reagire con un colpo di coda per modificare gli equilibri e frammentare l’opposizione. “L’intero sistema deve sparire immediatamente e la nostra battaglia deve continuare”, ha urlato ai manifestanti in una piazza centrale lo studente Noureddine Habi, mentre gli altri chiosavano “Devono andarsene; devono andarsene subito”. Il fatto che Bouteflika resterà presidente fino alle prossime elezioni inquieta l’opposizione. Durante questo periodo, in cui è prevista una conferenza di riconciliazione, i suoi fedeli avranno il tempo di escogitare qualche stratagemma per restare incollati alle loro poltrone, è il pensiero corrente.

“Il governo sa bene in questi casi come reagire – spiega Hugh Roberts, professore alla britannica, Tufts University di Storia del Nord Africa, ed esperto in particolare di Algeria – . Nel passato ha spesso incoraggiato sotto banco la radicalizzazione delle ribellioni popolari, applicando alla perfezione il vecchio principio del divide et impera. E così ha prima indebolito la protesta e poi l’ha sconfitta”.

Probabilmente, proprio per la mancanza di un leader, l’opposizione è già comunque divisa. Da un lato la piazza dei giovani (si potrebbero definire rivoluzionari) senza guida, che si affidano ai chi fa leva sul malcontento popolare per animare la protesta e renderla energica e incisiva; dall’altro il club degli anziani, anche reduci della guerra d’indipendenza o che hanno vissuto nel suo mito, alla ricerca di una soluzione meno traumatica ma che comunque contempli un rovesciamento del sistema. Questi ultimi puntano tutto su Lakhdar Brahimi, un diplomatico d’esperienza ex combattente nella guerra di liberazione, ex ministro degli esteri, ex segretario della Lega Araba e ex inviato dell’Onu in Siria, Haiti, Afghanistan.

Brahimi ha però un handicap: i suoi 80 anni pesano, soprattutto in un Paese come l’Algeria governato da un’inossidabile gerontocrazia. A lui dovrebbe essere affidata la guida conferenza di transizione, ma i giovani chiedono di essere seriamente rappresentati. Tutto questo avviene nel nord del Paese, modernizzato e dinamico, che spinge per essere considerato un prolungamento dell’Europa. Nel sud povero e rurale, dove la protesta ha avuto soltanto una eco marginale, le cose vanno diversamente.

Lì sono presenti gruppi di dinamitardi che vagano tra la Mauritania, il Mali e il Niger. Nel 2002, dopo 11 anni, il governo ha sconfitto la guerriglia del Fis (Fronte Islamico di Salvezza). Una recrudescenza del terrorismo rischierebbe oggi di far ripiombare il Paese negli anni bui della guerra fratricida e permetterebbe al governo di ergersi a guardiano della pace e rivendicare: “Senza di me il caos”. E allora sarebbe la fine del sogno delle riforme.

Sgomberati Sprar e centro sociale dopo l’allarme di Salvini

“concreto pericolo di crollo”: con questa motivazione ieri è stata sequestrata la sede del centro sociale Ex Canapificio e dello Sprar di Caserta. La struttura ospitava 200 migranti in 20 appartamenti, ma secondo i pm i capannoni erano “fatiscenti” e dunque pericolanti. Il provvedimento è stato eseguito d’urgenza per evitare danni alle centinaia di persone che ogni giorno si servono dei locali, dopo che nei mesi scorsi il vicepremier Matteo Salvini aveva lanciato l’allarme sul centro sociale, definendolo “abusivo” e inserendolo tra quelli da sgomberare. Gli operatori del centro sociale protestano: “Acausa del sequestro dei localial momento siamo in strada e di fatto le nostre attività sonobloccate”, dice la responsabile del centro sociale Mimma D’Amico. La struttura era già finita in passato al centro delle cronache per l’inchiesta in cui sono indagati sette operatori del centro, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, per essersi insinuati nei circuiti dell’assistenza ai migranti per fare affari.

Furto col buco, ladri beffati: il Bruegel in chiesa era un falso

Un colpo perfetto. Ieri mattina i ladri sono entrati nella chiesa di Santa Maria Maddalena, a Castelnuovo Magra (La Spezia). Un furto studiato fino all’ultimo dettaglio: in un attimo hanno estratto una mazza, scardinato la teca e sono fuggiti con il capolavoro.

Addio alla Crocifissione di Pieter Bruegel il Giovane. Dopo qualche ora, però, si è scoperto che l’opera rubata era una copia. Insomma, una patacca. Già, perché qualche settimana fa i carabinieri avevano ricevuto una soffiata. Qualcuno aveva avvertito le forze dell’ordine che una banda di ladri d’arte aveva adocchiato il Bruegel. Così gli investigatori avevano predisposto un contropiano. Certo, mettere il capolavoro al sicuro, ma non solo. Il quadro è stato sostituito con una copia molto accurata, tanto da confondere gli stessi malviventi. Lo scopo: lasciar lavorare i ladri e poi arrestarli. E infatti ieri, appena scattato l’allarme, è partita anche la caccia a quegli uomini che, ripresi dalle telecamere, sono fuggiti a bordo di una Peugeot. Potrebbe essere questione di ore.

Davvero uno strano furto: i ladri si sono portati via la copia della copia di un quadro. Spieghiamoci meglio: la Crocifissione visibile a Castelnuovo è un capolavoro che ha un valore stimato di quasi 4 milioni. A dipingerla è stato Pieter Bruegel il Giovane che dedicò gran parte della vita a riprodurre i capolavori perduti del più famoso padre, Pieter Bruegel il Vecchio (capostipite della celeberrima famiglia fiamminga di pittori attivi tra ‘500 e’600); tra questi, appunto, la Crocifissione. Nel dipinto del figlio, su cinque tavole di rovere, la passione è ambientata in un paesaggio nordico.

Ma anche il quadro di Bruegel il Giovane ha rischiato di andare perduto: nascosto nella Seconda Guerra per evitare che i tedeschi lo portassero via, era già stato rubato e recuperato negli anni 80.

L’isola di Nisida, là dove c’erano soltanto i delfini ora nuotano anche le megattere

Nel Mediterraneo vivono nientemeno che otto diverse specie di cetacei, e nulla di strano se sui social compaiono regolarmente balene e delfini avvistati dai diportisti. Ma il video, virale, di sabato scorso, ha fatto fare un salto sulla sedia anche agli esperti; davanti all’isola di Nisida, non i soliti delfini o un grande ma relativamente consueto capodoglio, bensì una megattera, specie che normalmente nel Mediterraneo non c’è. È una balena altrove molto conosciuta, dalle lunghe pinne pettorali bitorzolute e la coda dai disegni bianchi e neri. Quella avvistata in pieno golfo di Napoli, quanto a spettacolarità, con la coda che si alzava batteva fragorosa sull’acqua, non aveva nulla da invidiare alle beniamine del whale watching in Australia o alle Hawaii. Ma cosa ci faceva una megattera nelle nostre acque? In realtà non era la prima; nel 2009 ne era già comparsa una che aveva spiazzato i ricercatori, di fronte a Pirano nell’alto Adriatico, dove si avvistano regolarmente solo delfini. Si trattava di un giovane maschio, che si aggirò in zona da febbraio ad april per poi scomparire.

Nessuno lo aveva mai visto prima, perlomeno tra gli studiosi, che sono in grado di riconoscere i singoli individui proprio dalla coda; il disegno sulla faccia inferiore, visibile prima dell’immersione, è come un’impronta digitale, tanto è vero che esistono vere “anagrafi” di questa (e altre) specie di cetacei.

Cosa che tornò utile nuovamente nel 2013: un team dell’Istituto Tethys (www.balenedelfini.org), la onlus che per prima ha iniziato a studiare mammiferi marini in Mediterraneo, era alla ricerca di balenottere attorno a Lampedusa, quando si imbatté in una megattera, e stavolta, era una già conosciuta. Era stata infatti vista l’anno prima in Liguria, dove peraltro sarebbe presto ricomparsa in agosto. Non era, del resto la prima volta che si scopriva una megattera “abitudinaria”: in USA, nel 1985 “Humphrey”, come fu chiamata dai media, risalì il fiume Sacramento facendo impazzire le autorità locali che cercavano di convincerla a ritornarsene in mare prima di finire spiaggiata nel bel mezzo delle terre californiane. Ci riuscirono con gran dispiego di mezzi, salvo vedersela ricomparire cinque anni dopo.

Ma che succede in Mediterraneo; qualcosa sta cambiando? Sembra che effettivamente le incursioni nelle nostre acque siano in aumento, dal 2001 ad oggi se ne registrano ben 15; in parte può essere dovuto a un aumento dell’attenzione da parte dell’uomo, ma potrebbe anche significare che in Atlantico stanno aumentando di numero e qualcuna non disdegna un giro esplorativo oltre di Gibilterra.

Quanto alla balena delle acque partenopee, che i ricercatori di Tethys hanno battezzato “Bella Napoli”, si cercherà di capire se si tratta dello stesso individuo di Lampedusa: le macchie sulla coda sono simili, ma il video non è abbastanza definito. Si spera in un nuovo avvistamento con foto, ma con una raccomandazione: chi la avvicina rispetti il codice di condotta distribuito dal progetto “Cetacei FAI attenzione”, di Tethys in collaborazione con FAI e Guardia Costiera (www.cetaceifaiattenzione.it). Le regole sono semplici: avvicinarsi piano, rotta parallela all’animale, motore in folle entro i 100 m di distanza. Così che “Bella Napoli” si senta a suo agio durante la sua vacanza mediterranea.

“Tutti presenti”, la chat avverte interisti e laziali: 13 mila tedeschi (con i bergamaschi) in arrivo

Alcuni sono già arrivati ieri a Milano, altri arriveranno oggi. Annunciati 13.600. Tanti sono i tifosi dell’Eintracht Francoforte che questa sera sfiderà l’Inter nel match di ritorno per gli ottavi di Europa League. Di questi, ben 3000 rappresentano il nocciolo duro della tifoseria violenta. A gettare benzina sul fuoco ci sono poi i gemellaggi incrociati. I tedeschi alleati con gli ultrà dell’Atalanta e gli interisti con i laziali. Romani e bergamaschi sono attesi oggi. Tanto più che lo scorso dicembre, sia a Francoforte che nella Capitale, ci sono stati violenti scontri con gli ultrà della Lazio (le due squadre erano nello stesso girone). Anche allora erano presenti i bergamaschi a dare appoggio a quelli dell’Eintracht. Insomma, la serata si annuncia calda. È anche per questo che da ieri nella chat riservatissima degli ultrà nerazzurri sta girando un appello a “essere tutti presenti”. L’appuntamento è al Baretto. L’ordine è esserci, anche perché dopo la guerriglia di Santo Stefano contro i napoletani, molti della prima linea della Nord sono daspati o in carcere. Tre giorni fa la Procura ha chiesto fino a 5 anni di condanna per i cinque ultrà a processo. Tra loro Nino Ciccarelli, leader dei Viking e Marco Piovella, capo dei Boys. La Prefettura ha già vietato la vendita di alcolici sia in centro che nei locali attorno allo stadio Meazza. “Sarà una serata impegnativa – confida un investigatore – quella del Francoforte è una tifoseria bruttissima, anche a causa dei gemellaggi incrociati”. I tifosi tedeschi si raduneranno in centro e poi arriveranno con la metropolitana. Scontri potrebbero avvenire già lì o vicino allo stadio in via dei Rospigliosi dove c’è la fermata San Siro. O ancora in piazzale Axum. I tedeschi, infatti, entreranno dalla parte della curva Sud. Per loro è riservato il terzo anello blu e parte di quello rosso. Il timore però è che la frangia più violenta possa staccarsi e dirigersi verso il Baretto per assaltarlo. Almeno questo è il timore degli ultrà della curva Nord.

L’orrore della “Squadra decoro”: a caccia di scritte anti-semite cancella “Vota Garibaldi” del ’48

Nemmenodecenni di dura contesa politica registrati a Roma, possibili lavori di restauro oppure atti di vandalismo erano riusciti a cancellare la storica scritta elettorale “Vota Garibaldi, lista n° 1”, impressa dal 1948 su un edificio di edilizia popolare nel quartiere della Garbatella. C’è voluta la solerzia eccessiva di una squadra inviata in zona dal Gabinetto della sindaca Virginia Raggi con un altro incarico per cancellare in pochi minuti un reperto della storia cittadina che resisteva da 71 anni. Sembra – a quanto trapela dal Campidoglio – che gli operatori del decoro urbano si trovassero in zona Garbatella per cancellare l’ennesima scritta antisemita contro Anna Frank apparsa in città nelle ultime settimane quando avrebbero deciso, di loro iniziativa, di eliminare anche il vecchio slogan elettorale situato in via Basilio Brollo confondendolo con un murales che deturpava la parete. Una vicenda a tratti surreale in una città letteralmente ricoperta di scritte murali di ogni tipo.

Il Comune ha precisato che la scritta “non andava cancellata” e che la sindaca “non ha mai dato disposizioni in tal senso”, promettendo di “ripristinarla”. Ma il danno ormai è fatto, con il minisindaco del municipio di Garbatella Amedeo Ciaccheri che parla di “insulto gravissimo da parte del Campidoglio alla memoria storica e all’identità democratica cittadina”. La scritta, testimonianza delle prime elezioni politiche libere dopo la Costituente, ricordava il Fronte popolare costituito da Pci e Psi per concorrere contro la Dc alle elezioni dell’aprile del 1948. Nel 2004 il municipio l’aveva fatta restaurare a cura della scuola comunale di arte ornamentale riportandola all’aspetto originale e ponendovi sopra una pensilina per ripararla dalla pioggia e una targa commemorativa per spiegarne il valore di documento storico. Uno sforzo di conservazione che però non è servito, nonostante la targa fosse a pochi centimetri, ignorata dalla “squadra decoro”.

Pignatone in pensione a maggio. In corsa Lo Voi, Viola e Creazzo

Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone va in pensione il 9 maggio e ieri il Csm durante il plenum che ha dato il via libera al “collocamento a riposo” c’è stato un plauso del vicepresidente David Ermini per l’impegno di Pignatone in questi anni a Roma. Ermini ha anche lanciato un appello ai consiglieri affinché prendano una decisione “celere e condivisa” sul nuovo procuratore della capitale. Giuseppe Cascini, capogruppo di Area in Consiglio e procuratore aggiunto di Roma ha omaggiato il “suo” procuratore: “La credibilità della Procura di Roma è stata ampiamente recuperata grazie al suo lavoro. È uno dei magistrati più seri e preparati con cui abbia mai lavorato”. Anche il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio, di Unicost come Pignatone, ha voluto ricordare l’impegno del procuratore a Palermo, Reggio Calabria e Roma. La nomina del suo successore ci sarà verosimilmente dopo l’estate. A oggi tre i favoriti: Franco Lo Voi, procuratore di Palermo, Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, entrambi di Mi e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, di Unicost.