Un tweet cinguettato in Rete durante una discussione sul futuro dell’Algeria e sulle prossime mosse dei conservatori che non intendono rinunciare al potere, fotografa molto bene il clima che si respira nell’ex colonia francese. “Riflettete amici. Non abbiamo vinto un bel niente. Il potere è sempre lo stesso e sempre nelle stesse mani. Perché cantate vittoria?”, c’è scritto nel messaggio.
Lunedì scorso, l’82enne presidente Abdelaziz Bouteflika, colpito da un ictus e costretto su una sedia a rotelle, ha annunciato la sua rinuncia alla candidatura per un quinto mandato e il rinvio delle elezioni previste per il 18 aprile. “Finirò il mio lavoro entro il 2019”, ha anche assicurato in una nota diffusa dal suo ufficio (lui non si vede in pubblico da almeno 6 anni e non era mai comparso, neppure durante la campagna elettorale del 2014). Ma non tutti gli algerini credono alla sua promessa. I manifestanti hanno continuato a scendere in piazza; da un lato per festeggiare il traguardo raggiunto (“No al quinto mandato”, era uno dei loro slogan), dall’altro per chiedere tempi certi per il periodo di transizione e per fissare una nuova data elettorale. Da notare che le dimostrazioni sono del tutto pacifiche e le forze dell’ordine si sono limitate a contenere la folla senza usare violenza. I problemi che affliggono l’Algeria sono essenzialmente tre: disoccupazione a livelli insopportabili, carenza di servizi inefficienti e ridotti all’osso e una corruzione rampante e intollerabile che divora le straordinarie risorse che derivano dallo sfruttamento del petrolio e del gas. L’ultimo forse è il più rilevante, perché da quello dipendono tutti gli altri. Le manifestazioni che si susseguono dal 22 febbraio non solo ad Algeri ma anche nelle altre città, Costantina, Annaba, Orano hanno mostrato la loro spontaneità e non hanno ancora fatto emergere un leader certo. Il timore che serpeggia in queste ore è che il potere incarnato dal vecchio regime non si ritenga sconfitto e tenti di reagire con un colpo di coda per modificare gli equilibri e frammentare l’opposizione. “L’intero sistema deve sparire immediatamente e la nostra battaglia deve continuare”, ha urlato ai manifestanti in una piazza centrale lo studente Noureddine Habi, mentre gli altri chiosavano “Devono andarsene; devono andarsene subito”. Il fatto che Bouteflika resterà presidente fino alle prossime elezioni inquieta l’opposizione. Durante questo periodo, in cui è prevista una conferenza di riconciliazione, i suoi fedeli avranno il tempo di escogitare qualche stratagemma per restare incollati alle loro poltrone, è il pensiero corrente.
“Il governo sa bene in questi casi come reagire – spiega Hugh Roberts, professore alla britannica, Tufts University di Storia del Nord Africa, ed esperto in particolare di Algeria – . Nel passato ha spesso incoraggiato sotto banco la radicalizzazione delle ribellioni popolari, applicando alla perfezione il vecchio principio del divide et impera. E così ha prima indebolito la protesta e poi l’ha sconfitta”.
Probabilmente, proprio per la mancanza di un leader, l’opposizione è già comunque divisa. Da un lato la piazza dei giovani (si potrebbero definire rivoluzionari) senza guida, che si affidano ai chi fa leva sul malcontento popolare per animare la protesta e renderla energica e incisiva; dall’altro il club degli anziani, anche reduci della guerra d’indipendenza o che hanno vissuto nel suo mito, alla ricerca di una soluzione meno traumatica ma che comunque contempli un rovesciamento del sistema. Questi ultimi puntano tutto su Lakhdar Brahimi, un diplomatico d’esperienza ex combattente nella guerra di liberazione, ex ministro degli esteri, ex segretario della Lega Araba e ex inviato dell’Onu in Siria, Haiti, Afghanistan.
Brahimi ha però un handicap: i suoi 80 anni pesano, soprattutto in un Paese come l’Algeria governato da un’inossidabile gerontocrazia. A lui dovrebbe essere affidata la guida conferenza di transizione, ma i giovani chiedono di essere seriamente rappresentati. Tutto questo avviene nel nord del Paese, modernizzato e dinamico, che spinge per essere considerato un prolungamento dell’Europa. Nel sud povero e rurale, dove la protesta ha avuto soltanto una eco marginale, le cose vanno diversamente.
Lì sono presenti gruppi di dinamitardi che vagano tra la Mauritania, il Mali e il Niger. Nel 2002, dopo 11 anni, il governo ha sconfitto la guerriglia del Fis (Fronte Islamico di Salvezza). Una recrudescenza del terrorismo rischierebbe oggi di far ripiombare il Paese negli anni bui della guerra fratricida e permetterebbe al governo di ergersi a guardiano della pace e rivendicare: “Senza di me il caos”. E allora sarebbe la fine del sogno delle riforme.