Massimo Carminati ci prova ancora: reclamo contro il carcere duro

Massimo Carminati ci prova: niente più 41 bis. Pende infatti un reclamo contro il carcere duro presentato dall’ex Nar condannato in appello a 14 anni e sei mesi per associazione mafiosa. Sarà il Tribunale di sorveglianza a decidere sul regime carcerario (l’udienza non è stata ancora fissata), mentre lo scorso 7 marzo gli atti del processo sono stati trasmessi in Cassazione per la sentenza definitiva.

Carminati è stato arrestato il 2 dicembre 2014 perché ritenuto a capo di una presunta “mafia capitale”. È la prima volta che a Roma si parla di “un’organizzazione originaria e originale”, autoctona, diversa quindi dalle altre associazioni criminali. L’ondata di arresti di quattro anni fa coinvolge 37 persone, e tra queste Salvatore Buzzi. In primo grado (la sentenza è del luglio 2017) però l’accusa più grave, quella di 416 bis, cade. Per i giudici della X sezione del Tribunale, Roma è una città corrotta, ma non mafiosa: delineano l’esistenza non di una mafia, ma di due associazioni a delinquere semplici. La prima costituita anche dal “nero” Carminati e dall’uomo ritenuto dai pm il suo braccio destro Riccardo Brugia, l’altra operante invece negli appalti pubblici, che faceva capo al “rosso” Buzzi. Per il Tribunale nessuna delle due è mafiosa. Così Carminati viene condannato a 20 anni e come prima conseguenza della caduta dell’accusa di 416 bis, viene revocato il carcere duro.

In appello la sentenza però viene ribaltata. E si torna a parlare di mafia. La sentenza viene emessa a settembre 2018 e nelle motivazioni i giudici parlano di una “nuova associazione” nella quale “Carminati conferì la sua forza di intimidazione e Buzzi conferì l’organizzazione delle cooperative e il collaudato sistema di corruttela e di prevaricazione”. Scrivono i giudici di appello: “Risulta accertata la sussistenza di un’unica associazione di tipo mafioso” che – aggiungono poco dopo – “grazie a un contesto amministrativo e politico permeabile, fu in grado di determinare, nei settori economici che interessavano le cooperative, il condizionamento dell’azione amministrativa orientando in proprio favore le nomine dei vertici amministrativi comunali e le loro scelte economiche”.

In secondo grado, quindi, Carminati viene ritenuto colpevole del reato di associazione mafiosa, anche se la pena scende a 14 anni e sei mesi: ritorna, però, subito al carcere duro. Ma il “Samurai” non ci sta e qualche tempo fa ha presentato il reclamo.

Ennesimo sconto a un femminicida: “E tra 7 anni è fuori”

“L’imputato non ha semplicemente agito sotto la spinta della gelosia, ma di un misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento. Il tutto acuito dall’alcol, dal lungo viaggio e dal comportamento ambiguo della vittima… Certamente ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso né umanamente del tutto incomprensibile”. Scrive così il giudice genovese nella sentenza che ha condannato in primo grado – rito abbreviato – Javier Napoleon Pareja Gamboa (ecuadoriano di 52 anni) a 16 anni di reclusione. Era accusato di aver ucciso la moglie Angela Jenny Coello Reyes con una coltellata al polmone.

Condanna, quindi, ma le parole del giudice hanno suscitato la protesta dell’avvocato di parte civile, Giuseppe Maria Gallo. E, dopo un articolo di Marco Fagandini sul Secolo XIX, è esplosa la polemica. A suscitarla le parole usate nelle motivazioni: “gelosia” e soprattutto “spinta di uno stato d’animo molto intenso”. Espressioni che, secondo qualcuno, farebbero pesare a un “ritorno mascherato” del delitto d’onore.

Una vicenda complicata quella di Javier e Angela. Un amore avvelenato da gelosia, botte (oggetto di denuncia nel 2003) e tradimenti. Una passione durata più di vent’anni e finita, apparentemente, nel 2017 quando Javier decide di andarsene dopo aver scoperto che la moglie aveva un amante: “Si decise a partire”, racconta la sentenza, “per non fare qualche pazzia”.

Ma il legame tra Javier e Angela – contorto, doloroso, disperato – non era finito. L’imputato racconta che la moglie lo chiamava anche in Ecuador per fargli sentire quando faceva l’amore con l’amante. Non ci sono conferme. Ma i magistrati sembrano credere a Javier quando racconta che Angela lo aveva cercato, gli aveva chiesto di tornare in Italia da lei. Addirittura aveva preso soldi all’amante per comprare il biglietto aereo.

Ma il 7 aprile 2018 quando Javier arriva all’aeroporto di Milano racconta di aver incontrato la moglie già ubriaca. Subito cominciano le liti. L’uomo capisce che Angela non ha troncato il rapporto con l’amante. Sono ore terribili nell’appartamento della donna: urla, liti, alcol. Javier racconta che Angela lo deride, dice che prova schifo per lui perché è vecchio. Fino a quella frase: “Tu non hai i coglioni per uccidermi”, avrebbe detto la donna. Javier racconta di aver visto una “scintilla” e di averla colpita con un solo colpo al torace. Fatale. Poi l’uomo fugge, viene arrestato in stato confusionale. Confessa.

Il pm Gabriella Marino aveva chiesto 30 anni di carcere per omicidio volontario. Il giudice è meno netto: “Non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a se stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto contraddittorio che lo ha illuso e disilluso allo stesso tempo”.

Un ritorno dell’omicidio d’onore, dunque? “La condotta dell’imputato si caratterizza per un dolo d’impeto e l’unicità del colpo suggerisce l’idea di una volontà omicida che si esaurisce sul momento”, scrive la sentenza. Insomma, omicidio d’impeto, non premeditato. Il giudice sottolinea: “Non si può parlare di provocazione”.

L’onore non c’entra, giurano in Tribunale a Genova, anzi 24 anni, sono una pena pesante (“una sanzione severa perché nulla può giustificare l’uccisione di un essere umano” è scritto nella sentenza che compensa attenuanti e aggravanti). Ma con il rito abbreviato – previsto dalla legge – la pena è ridotta di un terzo. E si scende a 16 anni.

Non è d’accordo l’avvocato Gallo: “Con le leggi in vigore il condannato potrebbe uscire in semilibertà tra sette anni”. Com’è possibile? “Gamboa è stato condannato a 16 anni, ma per ogni anno scontato tre mesi vengono ‘abbuonati’ in caso di buona condotta. Si scende così a 12. Scontati poi due terzi della pena si può ottenere la semilibertà. E Gamboa ha già scontato un anno di custodia cautelare. Il libero convincimento del giudice è sovrano, ma è il legislatore che dovrebbe interrogarsi: il concetto di ‘tempesta emotiva’ sta prendendo piede e somiglia tanto al delitto d’onore”.

Strage di Bologna: indagato un generale 90enne ex Sisde

A oltre un anno (era l’ottobre del 2017) dalla riapertura da parte della Procura generale di Bologna delle indagini sui mandanti della strage del 2 agosto 1980, emerge un primo indagato nell’inchiesta che potrebbe aggiungere nuove verità su una delle vicende più oscure del Paese. C’è un nome, infatti, che risulta iscritto nel fascicolo nelle mani dei magistrati ed è quello di un ex generale dei carabinieri, oggi 90enne, Quintino Spella. L’ex ufficiale, che nel 1980 era a capo del centro Sisde a Padova, è accusato di depistaggio. Proprio ieri Spella avrebbe dovuto testimoniare in Corte d’Assise, a Bologna, nell’ambito del processo per concorso nella strage a carico dell’ex Nar Gilberto Cavallini, ma non si è presentato per motivi di salute. E mentre spiegava le ragioni di questa assenza, la sua legale, Luisa Granata, ha fatto sapere alla Corte che l’ex generale è, appunto, indagato dalla Procura generale. L’iscrizione sarebbe avvenuta dopo la sua audizione dello scorso 25 gennaio nella caserma della guardia di finanza di Padova. In questi mesi i magistrati che cercano i mandanti hanno ascoltato diversi testi e non è escluso che possano esserci anche altri indagati.

Auto bruciata al cronista: “Ma io vado avanti lo stesso”

“Ormai non le conta più Guido Scarpino, il giornalista del Quotidiano del Sud, le intimidazioni della ’ndrangheta. L’ultima lunedì sera quando qualcuno ha cosparso di benzina la sua Alfa Romeo 156 e le ha dato fuoco. È avvenuto a Paola in provincia di Cosenza, nella centralissima via Nazionale dove la vettura del cronista è stata distrutta dalle fiamme. Chi ha agito lo ha fatto con spavalderia a pochi metri dalla caserma dei carabinieri dove era parcheggiata l’auto di Scarpino che già nel 2014, in un altro incendio doloso, ha visto andare in fumo la sua Mercedes Classe A. Prima delle fiamme, Scarpino aveva ricevuto altri avvertimenti. Nel luglio 2010, infatti, un esponente della cosca Rango-Zingari di Cosenza citofonò alla sua porta per “consigliarli” di smettere di scrivere. E poi lettere e proiettili spediti in redazione.

Guido, ti sei domandato il perché dell’ennesima intimidazione?

Saranno le indagini a stabilirlo. So solo che, come è stato nel 2014, anche stavolta mi è stata incendiata l’auto pochi giorni dopo che ho scritto della cosca Serpa.

Una coincidenza?

No, è la mia opinione ma credo che l’incendio dell’altra notte sia legato agli articoli scritti sulle condanne all’ergastolo rimediate dalla famiglia Serpa nel processo “Tela di Ragno”. Penso che abbia dato fastidio il secondo pezzo sulle dichiarazioni di Nella Serpa che, in aula, ha accusato ferocemente il pentito Giuliano Serpa. È successo nel 2014 ed è successo anche adesso. Ma io vado avanti.

Hai sentito le istituzioni vicine?

Sì. Il direttore del mio giornale mi ha accompagnato per la denuncia. Ho incontrato il procuratore di Paola Pierpaolo Bruno che mi ha manifestato la sua vicinanza e assieme alle forze dell’ordine si sono già adoperati per la mia sicurezza. Ieri mi ha telefonato anche il presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Sono sereno perché non mi sento solo.

L’alternanza scuola-poligono di Quartu

Un po’ di studio, un po’ di poligono. Un po’ di Foscolo e Leopardi, un po’ di pistole e siluri militari. Questione di alternanza scuola-lavoro e per la precisione dei progetti previsti per alcuni studenti di Quartu Sant’Elena, in provincia di Cagliari, che la settimana prossima trascorreranno cinque giorni all’interno del poligono militare di Salto di Quirra, uno dei più estesi d’Europa.

Lo “stage” – così viene definito in una circolare interna alla scuola – riguarda appunto “l’orientamento al lavoro e alle professioni” previsto dall’alternanza, appendice della Buona scuola renziana sopravvissuta, nonostante qualche taglio, anche all’ultima legge di bilancio. Per la gioia dei ragazzi del terzo anno dell’Istituto Tecnico Commerciale Primo Levi, che potranno così godere del poligono. E pazienza se, come già lamentano diversi collettivi studenteschi locali, ci si aspetterebbe dalla scuola una formazione professionale diversa da quella militare: “Ci troviamo davanti al tentativo – protesta il gruppo A Foras – di far passare il mestiere delle armi e le attività di occupazione e addestramento militare come possibili alternative economiche e culturali”.

Il guaio, sottolinea questa volta la sezione locale di Rifondazione Comunista, è che “sia dia spazio a valori contrari alla nostra Costituzione”, lasciando per altro indietro i principi fondanti dell’alternanza: “In che modo si coniugano gli interessi della formazione dei ragazzi con un poligono militare?”. Ma non è soltanto la mancanza di un aspetto educativo ad alimentare la protesta degli studenti. Da anni, infatti, il poligono di Quirra è al centro di enormi polemiche per il suo impatto ambientale, frutto di decenni di test missilistici e di addestramento militare iniziati ai tempi della Guerra Fredda. La scelta di svolgere lì l’alternanza scuola-lavoro significa quindi, secondo gli studenti, legittimare una presenza militare molto invasiva e al tempo stesso mandare i ragazzi in un’area a rischio: “Ci chiediamo se durante questo progetto – attacca ancora A Foras – verranno fatti presenti agli studenti i dati relativi all’inquinamento da polveri sottili che il Poligono produce”.

Nessuna sentenza ha ancora confermato che esista una correlazione tra il crescente numero di tumori tra i residenti e la base di addestramento, ma per accertare le responsabilità è ancora in corso un lungo processo che vede imputati otto militari. Si tratta dei comandanti che hanno guidato il poligono dal 2004 al 2010 e che non avrebbero interdetto alcune zone a rischio, motivo per cui devono adesso rispondere – al netto della prescrizione – di omissione di cautele contro infortuni e disastri. Un quadro che suggerirebbe quantomeno prudenza all’istituto, dato che già in passato l’alternanza scuola-lavoro si è dimostrata fin troppo negligente sul piano della sicurezza, tra ragazzi che hanno perso un dito (la scorsa estate, un diciassettenne toscano) e chi ha rischiato la vita finendo sotto a un muletto (uno studente di La Spezia, due anni fa). Non certo i presupposti migliori per una settimana di stage al poligono.

Calabria punto e a capo (14 anni dopo Fortugno)

’Ndrangheta e sanità. Sembra essere un binomio imprescindibile in Calabria. La storia si ripete a 14 anni dallo scioglimento dell’Asl di Locri deciso dopo l’omicidio dell’ex vicepresidente del Consiglio regionale Franco Fortugno nel 2005. L’Asl di Locri non esiste più perché, con Palmi si è fusa con l’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria che ieri è stata sciolta per infiltrazioni mafiose. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, su proposta del prefetto Michele Di Bari, che ha affidato la gestione dell’Asp a una terna di commissari. Il loro arrivo era nell’aria dalla settimana scorsa, quando il ministro Giulia Grillo è stata in Calabria.

La relazione che ha portato allo scioglimento è ancora secretata. Tuttavia non è difficile immaginare che la commissione d’accesso abbia puntato il dito sui disastri dei bilanci dell’Asp che in alcuni casi sono inesistenti. Ma anche su tutti gli appalti prorogati da anni, senza una gara pubblica, sempre alle stesse ditte che, “per motivi d’urgenza” non erano tenute a presentare nemmeno il certificato antimafia.

Se nel 2006, a Locri, i clan avevano trasformato l’Asl in un centro di affari e potere che gestiva 172 milioni di euro l’anno, in riva allo Stretto, la torta a disposizione dei clan potrebbe essere stata più consistente. Basta pensare che i debiti della sanità reggina superano i 420 milioni (potrebbero essere molti di più perché non esiste una contabilità ufficiale). Se anche ci fosse stata, non c’era chi la sapeva leggere. Come emerge infatti dalla relazione che l’ex direttore generale Beniamino Brancati ha consegnato ai commissari, l’ufficio economico finanziario è stato retto per anni da dirigenti amministrativi “privi di competenze specifiche”.

Ecco quindi che tra gli atti in mano ai commissari sono finiti certamente i cosiddetti “doppi e tripli pagamenti” di fatture a creditori già saldati. Nella sua relazione, Brancati ha puntato il dito contro i “fattori di ‘confusione gestionale’ e ambientali che operano per tentare di condizionarne il permanere”. In altre parole, il sistema di potere dentro l’Asp andava in autoprotezione favorito da “un grave disordine amministrativo-contabile” in grado di compromettere tutti i settori. A partire da quello del personale con l’anomalia degli stipendi e degli assegni alimentari erogati ai dipendenti condannati, e in alcuni casi detenuti, per reati gravissimi, anche di mafia, e interdetti in perpetuo dai pubblici uffici.

“Io sono stato mandato via nonostante questi fatti li avessi segnalati da tempo”. L’ex direttore generale Beniamino Brancati ricorda che, al momento del suo insediamento ha accertato “in ogni angolo dell’Asp incrostazioni e personaggi, alcuni con tanto di nome e cognome. Personaggi che allora definii ‘incrostati come datteri di mare’ che governavano l’azienda”.

In attesa di conoscere il contenuto della relazione prefettizia, non è escluso che ai commissari siano state consegnate alcune intercettazioni registrate nell’inchiesta contro la componente “riservata della ‘ndrangheta”. Conversazioni già depositate nel processo “Gotha” come quella tra il docente di Tor Vergata Leonardo Iacopino e l’ex vicepresidente di Confindustria Valerio Berti che, nel 2014, all’indomani di una riunione massonica hanno cercato di avvicinare l’allora senatore Nico D’Ascola (Ncd).

Nessuno dei tre compare tra gli imputati o indagati dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Il Ros, però, scrive che “Berti è interessato a mantenere invariata la linea di condizionamento della azienda sanitaria. Si autocolloca al centro di un sistema di interessi e relazioni creato per gestire a proprio vantaggio il settore sanitario reggino. Tale controllo viene svolto tramite la politica al cui condizionamento si perviene creando le alleanze politiche e controllando il libero esercizio del voto”.

Il sogno americano ucciso dalla Tangentopoli dei vip

Il sogno americano si regge su una precisa promessa della società a ogni cittadino: i migliori saranno premiati, la disuguaglianza è dunque un male necessario perché chi vale di più deve ottenere di più. La competizione per eccellere inizia con i test sulle performance dei bambini all’asilo e culmina con i test di ammissione alle università: quelle di élite accettano soltanto il 6 per cento delle domande. Per queste ragioni lo scandalo esploso in questi giorni delle tangenti pagate da genitori ricchi per far entrare i figli in atenei prestigiosi come Yale e Stanford non è soltanto una vicenda di malcostume, ma distrugge una delle grandi illusioni su cui si regge il compromesso sociale negli Stati Uniti. Perché dimostra che “merito” è spesso soltanto un sinonimo di “privilegio”.

William Rick Singer, 58 anni, arrestato martedì a Boston (rischia 20 anni di carcere), aveva costruito il sistema perfetto: i ricchi che volevano essere sicuri che i propri figli, magari assai poco geniali, venissero ammessi nelle migliori università pagavano alla società Edge Colledge & Carreer Network tariffe tra i 15 e i 75.000 dollari. Con quei soldi Singer pagava mazzette da 10.000 dollari ai funzionari delle università che amministrano i test per fare avere il giusto punteggio ai figli dei clienti. “Tutti hanno un amico di un amico che conosce qualcuno che conosce qualcun altro, ma non c’è alcuna garanzia, al massimo danno una seconda occhiata (al candidato, ndr), mentre le mie famiglie vogliono garanzie”, spiega Singer in una intercettazione con un cliente.

Ma Singer ha fatto di meglio. Ha dimostrato come tutto il sistema fiscale americano permetta ai ricchi di usare le proprie risorse per falsare la competizione: ha inventato le mazzette deducibili dalle tasse. A fianco della sua società, ha creato una fondazione benefica, la Key Worldwide Foundation. Dal 2013 i clienti di Singer invece di pagare la società, potevano donare soldi alla fondazione, così da dedurre la beneficenza dall’imponibile. Quei soldi venivano poi girati, sempre come donazioni, ai coach corrotti che mandavano commosse lettere di ringraziamento: “La vostra generosità ci permetterà di sostenere programmi di sostegno ai giovani più disagiati”. In realtà quei soldi, su cui neanche l’università paga tasse in quanto ente non- profit, remuneravano l’alterazione dei risultati sportivi di studenti da far accettare nelle università come atleti straordinari.

Tra i clienti vip di Singer, oltre all’attrice di Desperate Housewives Felicity Huffman, c’era anche William McGlashan, finanziere di successo nel private equity che con Tpg finanzia l’iniziativa Rise Fund che promuove proprio la parità di opportunità. Quella parità che lui, con i suoi soldi, cerca di evitare per favorire il figlio.

L’indignazione generale di fronte a questo scandalo genera un’immediata domanda per una meritocrazia ancora più spinta, perché gli americani hanno una fiducia nella libera concorrenza e nelle virtù della competizione che niente può scalfire. Ma così si rischia di peggiorare il problema: negli anni Settanta gli attivisti per i diritti civili hanno ottenuto misure di affirmative action, che hanno permesso ai ragazzi delle minoranze (neri prima, ispanici dopo) di accedere anche ai college di prima fascia grazie a un sistema di quote. Meritocrazia significa garantire eguaglianza di opportunità, e studiare a Princeton è una grande opportunità, non di risultati. Ma trent’anni dopo quelle battaglie per dare opportunità ai neri, sono i conservatori (bianchi) a contestare quelle misure proprio sulla base della meritocrazia: la Corte suprema dovrà pronunciarsi sul caso della 23enne Abigail Noel Fischer, che ritiene di essere stata esclusa dalla prestigiosa Università di Austin in Texas in quanto bianca, dunque discriminata da misure nate contro la discriminazione (dei neri). Come ha ricostruito il sito ProPublica, la realtà è un po’ più complicata: la selezione avveniva sulla base dei punteggi ottenuti in un test e su altri parametri personali, tra cui i successi fuori dalla scuola e “circostanze speciali” che includono lo status disagiato della famiglia di origine. Abigail non aveva punteggi eccezionali nel test ma, è vero, è stata superata da altri studenti con punteggi più bassi. Cinque di questi erano neri o latinos. Gli altri 42 erano bianchi. Ma questo i conservatori che hanno promosso il ricorso alla Corte suprema non lo dicono mai.

Il clima sta cambiando, negli Usa. Secondo un sondaggio dell’istituto Pew, il 73 per cento degli americani pensa che l’aspetto razziale non debba avere alcun ruolo nell’ammissione all’università. Lo pensano anche i potenziali beneficiari di una discriminazione positiva su basi etniche: il 62 per cento dei neri, il 65 degli ispanici, il 59 degli asiatici. Il Washington Post ha scovato vecchie dichiarazioni di Joe Biden del 1975: l’ex vicepresidente di Barack Obama diceva che le quote per le minoranze nelle università “sono razzismo”. Parole che oggi, anziché penalizzare Biden nella possibile corsa per la Casa Bianca nel 2020, potrebbero rivelare la sua sintonia con un Paese che vuole continuare a credere nell’illusione della meritocrazia.

Fondazione Eyu: Bonifazi (Pd) indagato anche per false fatture

Non solo finanziamento illecito. L’ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi (in foto), è indagato dai pm di Roma anche per false fatturazioni nell’ambito dell’inchiesta sui 150 mila euro che la Fondazione Eyu (da lui presieduta) ha ricevuto a cavallo delle elezioni del marzo 2018 dalla Immobiliare Pentapigna Srl, riconducibile a Luca Parnasi, l’immobiliarista accusato – per altre vicende – di associazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione. Stando alla fattura del 22 febbraio 2018, i 150 mila euro venivano corrisposti alla Fondazione Eyu per un progetto di ricerca commissionato dalla società di Parnasi dal titolo: “Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà”. I pm stanno verificando la natura di quella erogazione di denaro e se realmente si sia trattato di un progetto di ricerca. Nel frattempo Bonifazi è finito indagato per false fatturazioni ma anche per finanziamento illecito. Per quest’ultimo reato è indagato anche il tesoriere della Lega Giulio Centemero: nel suo caso nel mirino dei pm ci sono 250 mila euro versati nel 2015 da una società riconducibile al costruttore alla onlus di area leghista “Più Voci”, di cui è presidente.

Ecco gli esami truccati dai prof con la “spartizione territoriale”

L’abilitazione scientifica nazionale (Asn) non è un concorso. È un esame. Non esiste un limite al numero di candidati da promuovere. Chi merita, passa. Tutto qui. L’importante è ottenere il voto dei quattro quinti della commissione che, per legge, deve giudicare dopo aver esaminato e valutato titoli e pubblicazioni. La procura di Firenze ha scoperto che la prassi per l’Asn di diritto tributario – nelle tornate 2012 e 2013 – era ben diversa. Secondo l’accusa si procedeva con altre logiche. Inclusa quella “illecita” della “spartizione territoriale”.

Tornata 2012: il 1° febbraio 2013 il ministero dell’università sorteggia come commissari Francesco Tesauro, Massimo Basilavecchia, Valerio Ficari, Guglielmo Fransoni e Alvarez Martinez Joaquin Augustin. Sei giorni dopo, il 7 febbraio, Ficari scrive una mail a Fransoni nella quale, secondo gli investigatori, indica “le probabili abilitazioni, tenendo conto della provenienza geografica dei candidati e dei loro ‘commissari di riferimento’”.

“Guglielmo – scrive Ficari –, ho scaricato da internet la lista e in mezzora in aeroporto ho fatto qualche prima valutazione molto approssimativa (…) indicando in rosso quelli di prima tornata e verde quelli di seconda e viola quelli fuori. (…). Se lavoriamo su questi due file excel siamo in grado di avere il quadro inter nos anche geografico… gente sconosciuta!!! p.s. Magari si potrebbe anche immaginare di mettere accanto il nome di commissari di riferimento”.

Poiché i due file sono danneggiati, Fransoni chiede a Ficari di rispedirglieli. “Ci riprovo – risponde Ficari –, ho dato qualche colore più d’istinto che altro ma tu che sei più freddo vedi di correggere, ho l’impressione che per evitare lo sbraco e la contrapposizione bisognerà accettare uno o due che per me sarebbero viola. Dammi i tuoi colori e vedi chi altro vi sia non di ruolo, ciao. p.s. Magari potresti aggiungere Vf – Gf (Valerio Ficari – Guglielmo Fransoni, ndr) sui nostri candidati e la provenienza geografica…”.

“Già il 7 febbraio – sottolinea la Finanza –, ovverosia un mese prima che i commissari potessero avere contezza delle candidature relative alla tornata 2012, ma soprattutto dei titoli e delle pubblicazioni presentate dai candidati nelle loro domande, e ancora prima che la tornata 2013 prendesse avvio (…), i due commissari avevano già stilato una previsione di abilitazioni da concedere nella tornata 2012 (nominativi in rosso), in quella successiva, tornata 2013 (nominativi in verde), escludendo sin da allora alcuni candidati (nominativi in viola), tra i quali spicca Philip Laroma”.

Le fiamme gialle non hanno dubbi: “È chiaro che queste prime ‘valutazioni’ fossero scevre da qualsiasi riferimento al merito dei candidati”. Philip Laroma è il ricercatore – oggi diventato professore – che con le sue denunce ha fatto partire l’indagine.

Perquisendo l’ufficio di Ficari nell’Università di Roma Tor Vergata i finanzieri sequestrano anche dei “prospetti dattiloscritti” nei quali i candidati vengono suddivisi in quattro insiemi in “relazione alle chance di abilitazione” denominati “remoto”, “possibili”, “intermedi” e “probabili”. La suddivisione, secondo gli investigatori, rappresenta una “allusione alle trattative che i commissari avrebbero dovuto intavolare” per ottenere l’abilitazione dei candidati voluti, concedendo e ottenendo “il voto” sulla “base di accordi” e “prescindendo dalla qualità dei candidati”.

Ma gli inquirenti scoprono nelle perquisizioni un dettaglio in più: i documenti che testimoniano l’intento di una “spartizione territoriale degli abilitati”. Per l’accusa è una sorta di premessa “agli accordi corruttivi tra i commissari”.

I finanzieri, perquisendo l’ufficio di Ficari, scoprono infatti l’esistenza di una serie di “cartine mute” dell’Italia. Sui fogli sono “apposti molteplici appunti manoscritti che indicano graficamente l’appartenenza territoriale dei candidati (…) per ciascuno o gruppi di essi, con a fianco l’indicazione del professore ordinario o del commissario di riferimento”. Il documento indica 2 nomi per la Sicilia, un paio al massimo per la Campania, 2 per l’Abruzzo, 4 per il Lazio, 2 per la Toscana, uno per l’Emilia Romagna, 2 per il Veneto e 4 per la Lombardia.

Ficari e Fransoni, in concorso con altri 37 professori, sono accusati dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, e dal pm Paolo Barlucchi, di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Il do ut des della corruzione non riguarda alcuna somma di denaro ma esclusivamente “l’utilità di far abilitare i candidati da ciascuno sponsorizzato”.

Per l’accusa – che due giorni fa ha chiesto il loro rinvio a giudizio – hanno agito sia come pubblici ufficiali, in qualità di componenti della commissione per il biennio 2012- 2013, sia come soggetti privati “interessati a far abilitare” alcuni “candidati”, a volte perché erano “loro allievi”, altre perché “componenti dello studio professionale”. Se non bastasse, avrebbero impedito “l’abilitazione di candidati che rappresentavano un ostacolo alla carriera dei loro allievi o soggetti professionalmente collegati”.

In questo modo, sostiene la procura di Firenze, si precostituivano le “condizioni per far conseguire ai ‘propri’ candidati, in assenza di reale concorrenza, i posti di professore ordinario o associato che sarebbero stati banditi dalle varie università in sede locale”.

Scala, lunedì la resa dei conti sui quattro spicci dei sauditi

Nella Sala Gialla del Teatro alla Scala, lunedì 18 ci sarà la resa dei conti. Il consiglio d’amministrazione dirà “no, grazie” ai sauditi e ai loro soldi. E contemporaneamente spegnerà le speranze di Alexander Pereira di essere riconfermato sovrintendente alla Scala. Pensava di avere in mano il jolly, Pereira: mettere nelle casse del teatro 15 milioni di euro, portati dall’Arabia Saudita, in cambio di un posto tra i “soci fondatori” nel consiglio d’amministrazione, accanto a Comune di Milano, Stato, Regione Lombardia, Camera di commercio di Milano, Cariplo, Eni, Mapei, Fondazione Banca del Monte di Lombardia.

I soldi – 3 milioni all’anno per 5 anni – sarebbero arrivati dalla compagnia petrolifera Saudi Aramco, interamente controllata dal governo saudita. Il principe Badr era arrivato tutto sorridente alla prima della Scala, il 7 dicembre scorso, e Pereira considerava la cosa fatta. Si era però dimenticato di coinvolgere il consiglio d’amministrazione e i soci, tra cui il governo italiano. Ha finito per indispettire tutti, dal sindaco di Milano Giuseppe Sala al presidente lombardo Attilio Fontana. Ha trascurato alcuni piccoli particolari, come il fatto che l’Arabia Saudita non brilla per rispetto dei diritti umani. Ha dimenticato anche il caso di Jamal Khashoggi, giornalista dissidente fatto sparire in una sede diplomatica saudita, ucciso e poi forse bruciato in un forno per kebab.

Dopo una lunga serie di pasticci e bisticci, dichiarazioni e interviste, Pereira è stato fermato. Sala ha detto che il sì ai sauditi potrebbe arrivare, lunedì, soltanto con un voto all’unanimità del consiglio d’amministrazione. Obiettivo irraggiungibile, visto che voteranno certamente no almeno Francesco Micheli (rappresentante dello Stato) e Philippe Daverio (della Regione).

La Francia ha già fatto un accordo con gli Emirati Arabi e ha portato il Louvre ad Abu Dhabi: un’operazione da 1 miliardo di euro, realizzata con incontri e accordi di vertice tra i due Stati. La Scala è il Louvre della lirica: può vendere un posto nel suo cda per un piatto di lenticchie, ricevuto oltretutto da un Paese che taglia a pezzi i dissidenti? Chi ha un posto in cda versa almeno 3 milioni, ma la Fondazione Cariplo ne dà 10. Ha senso svendere la Scala ai sauditi per 3 milioni? Certo che sarebbe stato bello vedere in cda Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni malgrado i processi per corruzione internazionale e malgrado gli affari sbarazzini di sua moglie, seduto accanto al concorrente di Aramco. Non vedremo la scena.

E così nel 2020, alla scadenza del suo secondo mandato, Pereira sarà fuori. E già adesso è un’anitra zoppa. A sostituirlo potrebbe arrivare Carlo Fuortes: niente contro gli stranieri – la cultura non ha confini – ma sarebbe finalmente un italiano che torna a guidare un teatro che è la quintessenza della cultura italiana, dopo quindici anni di sovrintendenti arrivati da altri Paesi (prima Stéphane Lissner, poi Pereira).

Il cambio al vertice potrebbe portare all’uscita anche del direttore musicale: Riccardo Chailly termina il suo mandato nel 2022. Fuortes difficilmente lo confermerebbe sul podio, più verosimilmente porterebbe a Milano maestri come Antonio Pappano o Daniele Gatti. Chailly – per niente amato da quegli intenditori dei loggionisti – cerca allora alleati per difendere il podio. Il 30 maggio porterà il Coro e l’Orchestra della Scala a Brescia, dove dirigerà un Requiem per la canonizzazione di papa Paolo VI. Grande regista dell’operazione, naturalmente, Giovanni Bazoli, nel cda della Scala per conto di Fondazione Cariplo.