Sul Tav ha vinto Conte. Salvini ingoia il rospo?

Avete già giocato al nuovo gioco? “Chi vince e chi perde nel governo”. Giocano tutti, in tv, sui giornali, sui social. E tutti con la risposta automatica: ha vinto il Capitano! Grande Capitano! L’hanno fatto anche sul Tav. Solo se sei un guastafeste, con il viziaccio dei fatti, gratti un attimo e scopri che non è così. E che, per esempio, il primo vincitore è indubbiamente il premier Conte. “L’avvocato difensore del popolo italiano” – come si autodefinì – si è dimostrato innanzitutto e ancora una volta (dopo la trattativa sulla manovra con la Commissione Europea) avvocato del Governo, riuscendo a salvarlo con un compromesso alla Perry Mason tra le due “teste calde” Salvini e Di Maio, già lì a fare a chi ce l’aveva più dura (la testa, eh), col rischio di spaccarsela.

Certo, in realtà il suo è solo un rinvio della decisione finale sul Tav, ma i paletti che mette nella lettera a Telt (il riferimento all’analisi costi-benefici che boccia l’opera, “la cui corrispondenza all’interesse pubblico non appare affatto scontata”, l’invito ad astenersi da qualunque vincolo giuridico ed economico a carico dello Stato italiano, le clausole di dissolvenza sui bandi, la “ridiscussione integrale del progetto”) consegnano una parziale vittoria anche a Di Maio e ai 5 Stelle sul possibile stop al tunnel. E Salvini? Be’, lui, da copione, ostenta il consueto ottimismo padano, promette “la Nuova Tav si farà”, ma al momento deve ingoiare il rospo. Checché ne dica il gioco di cui sopra, ossia la narrazione mediatica che, a fronte dell’ossessione anti-grillina, dimostra invece verso di lui un mix di invaghimento, sudditanza e convenienza. Manco fosse quell’altro Matteo… E poi non si era affidato pure lui allo studio costi-benefici? Ora gli tocca accettare il responso e rispettare i patti.

Ma perché Salvini – questa mi sembra la domanda più interessante – punta tanto ostinatamente i piedi adesso, anche considerando che in passato la Lega è stata No Tav (quasi tutti i partiti lo sono stati a ridosso di elezioni, per poi trasformarsi ad Alta Velocità in “talpe” una volta arrivati al governo; il M5S in questo fa eccezione)?

Tre ipotesi da vera malpensante: 1) per inseguire il consenso popolare fotografato nei sondaggi e magari drenare altri voti pure agli “amici” grillini; 2) (questa è cattiva cattiva): è vero che la settimana scorsa scadevano i termini per i bandi, ma, da bravo stratega mediatico – Matteo il Selfie-Made Man – non avrà voluto oscurare il lancio (tutto liscio nonostante le mille gufate) del Reddito di Cittadinanza, altro rospo che ha dovuto ingoiare? Infine: 3) non si può non pensare a prove tecniche di leadership, dopo i successi alle elezioni regionali (non dimentichiamo la lettera alla ministra Grillo sui vaccini, in perfetto stile premier: che sia quella la vera divisa che vuole indossare?) e, in vista del possibile bis alle europee, sondare anche una nuova maggioranza con tutti i Sì Tav, da Forza Italia al Pd – già vista in piazza in quel di Torino insieme alle madamine.

Ah, ma sono solo e tutte supposizioni malevole di una mente perversa, fiaccata dalla lettura debilitante dei retroscena politici, figurarsi se il ruspante Matteo… È vero che – diceva quel tale – “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. Ma era uno da Prima Repubblica, certi giochi sono ormai lontani. No?

Ora l’Ue allunga la vita ai prodotti

Qualcuno ci sta arrivando. Probabilmente fuori tempo massimo. Dove? A comprendere che il modello di sviluppo che abbiamo imboccato a partire dalla Rivoluzione industriale e che poi abbiamo cavalcato sempre più velocemente è sbagliato da ogni punto di vista, non solo ecologico, che è quello più intuitivo, ma economico e umano. Una direttiva Ue vuole obbligare le aziende ad “allungare la vita dei loro prodotti”. Questa misura, se davvero fosse applicata ed estesa (per ora riguarda solo gli elettrodomestici bianchi) è devastante. Va contro uno dei totem su cui si regge il nostro modello di sviluppo: “l’obsolescenza programmata del prodotto”, cioè un prodotto deve avere una vita breve, la più breve possibile, per non interrompere, ma anzi accelerare, il ritmo del consumo su cui si regge tutto il sistema. Ma il provvedimento va concettualmente molto più in là. Come nota sul Giorno Gabriele Canè “il mercato sforna sempre una serie nuova di qualunque cosa, pochi mesi dopo aver messo in vendita la precedente novità”. La cosa è particolarmente evidente nell’economia digitale dove uno smartphone di nuova generazione viene immesso sul mercato con varianti trascurabili rispetto a quello precedente per attirare l’uomo-consumatore che pressato da una pubblicità altrettanto incalzante ci casca regolarmente. Ma il concetto può essere tendenzialmente valido quasi per qualsiasi altro prodotto. Si tornerebbe così all’economia del ‘riciclo’ su cui ha vissuto, per secoli, il Medioevo europeo. Dice: questa è la legge del mercato. Certo, ma questo è proprio il meccanismo, basato sul mito delle crescite esponenziali, che ci porterà necessariamente al collasso, non tanto ecologico, perché l’uomo è un animale molto adattabile, ma economico.

Inoltre sta inquinando e deteriorando da tempo la nostra esistenza. Da questo punto la prende l’autorevole opinionista del Corriere, Galli della Loggia, in un editoriale del 7.3 “Lo sviluppo crea insicurezza”. Della Loggia la prende alla larga e con prudenza, ma in sostanza sostiene che l’uomo, nella sua ricerca affannosa di uno sviluppo sempre maggiore, si è troppo subordinato all’Economia e alla Tecnologia. Che è la mia tesi, sempre irrisa, almeno da quando pubblicai La Ragione aveva Torto? nel 1985. Abbiamo la possibilità di ricorrere a un esperimento ‘in vitro’. La Cina, che per ragioni culturali profonde che risalgono alla teoria dell’inazione cioè detto in termini molto semplicistici della non azione di Lao-Tse (Il libro della norma) si era fino a pochi decenni fa sottratta al modello di sviluppo occidentale, oggi vi è entrata con prepotenza. Ebbene, nell’odierna Cina il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. La ‘ricchezza delle Nazioni’, per dirla con Adam Smith, non ha niente a che fare con il benessere e la qualità della vita dei suoi abitanti. Nell’Africa subsahariana, prendiamo la Nigeria, i Paesi più ricchi sono quelli che hanno il maggior numero di poveri o per meglio dire di miserabili. Agli albori della Rivoluzione industriale Alexis de Tocqueville nel suo libro Il pauperismo nota, con stupore, come in Europa i Paesi che avevano imboccato per primi questa strada avessero un numero molto maggiore di poveri di quelli che erano rimasti fermi. Scrive Tocqueville: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I paesi reputati i più miserabili sono quelli dove si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”.

Sono cose che dovrebbero far riflettere se avessimo ancora capacità di riflessione. Ma poiché l’abbiamo perduta si continua imperterriti sulla strada di sempre: costruzione di infrastrutture sempre più pesanti e complesse, superstrade, superponti, supertrafori, il tutto per aumentare la produttività ed essere all’altezza della competizione globale. Noi dobbiamo produrre compulsivamente per poter, altrettanto compulsivamente, consumare. Peggio, le cose si sono ormai invertite: consumiamo per poter produrre. Siamo noi al servizio del meccanismo, non il contrario. Come si esce da questo automatismo infernale? Con un “ritorno graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano per il recupero della terra e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”. È la mia tesi, inascoltata in Italia e in Europa, ma non negli Stati Uniti i quali, essendo la punta di lancia dell’attuale modello, stanno proponendo i primi anticorpi, sia pur ancora molto di nicchia, nelle correnti di pensiero che si richiamano al bioregionalismo e al neocomunitarismo.

Ma dubito molto che le nostre classi dirigenti abbiano letto non dico Lao-Tse ma almeno Alexis de Tocqueville che al pensiero occidentale appartiene.

Mail box

 

Bisogna parlare di più di quello che accade ai Bahà’i

A nome della comunità Bahà’i d’Italia desidero ringraziare il Fatto Quotidiano per l’approfondita inchiesta sull’ondata di repressioni in corso in Iran nei confronti delle minoranze politiche e religiose, persecuzioni che sarebbero documentate persino da un registro segreto del regime. Le violenze si concentrano in particolare nei confronti della comunità Bahà’i locale, nata proprio in Iran. Centinaia di cittadini iraniani ogni anno sono arrestati, imprigionati, torturati e in alcuni casi giustiziati con l’unica colpa di essere credenti Bahà’i e quindi di condividere messaggi di pace su cui si fonda la nostra Fede, seconda religione più diffusa al mondo dopo il Cristianesimo, con 8 milioni di credenti: l’esistenza di un unico Dio, la tolleranza, l’unità dei popoli, la parità tra uomo e donna, il rifiuto di ogni forma di violenza. Purtroppo l’Iran non è l’unico Paese in cui i Bahà’i sono costretti a subire persecuzioni. Di recente, gli italiani hanno mostrato grande vicinanza alla nostra Comunità, sottoscrivendo con oltre 65mila firme la petizione lanciata online per chiedere la liberazione di Hamed bin Haydara, membro Bahà’i ingiustamente imprigionato e condannato a morte in Yemen, dove altri 24 nostri fratelli rischiano la vita. Bisogna tenere alta l’attenzione su questa grave emergenza in sede internazionale, non facendo sconti di fronte a simili violazioni dei diritti umani fondamentali. E in questa battaglia di civiltà sarà cruciale anche il sostegno degli organi di informazione, come il Fatto Quotidiano, al quale ribadiamo quindi la nostra gratitudine.

Guido Morisco,
Relazioni esterne Comunità Bahà’i d’Italia

 

“Balle spaziali”: un format utile e divertente

Vorrei ringraziare Marco Travaglio per l’interessante rubrica che tiene regolarmente su Loft: Balle spaziali. Un consiglio: mettete l’ultima puntata in cima alla lista. Ora è necessario scorrere tutte le puntate della stagione per arrivare alla più recente.

Un’idea: perchè non estendere al passato questo format? Sarebbe davvero interessante rileggere gli editoriali di anni fa e constatare quante balle siano state scritte. Penso agli editoriali sul M5S, alle profezie economiche sulla rovina dell’Italia..

Giuseppe Cucchi

 

I 5Stelle sono i più criticati, ma anche gli unici che lavorano

Sono sempre d’accordo sulle valutazioni di Marco Travaglio, non lo sono completamente quando afferma che i 5stelle sono l’Armata Brancaleone in funzione del loro avvallo al salvataggio di Salvini, dove peraltro una soluzione diametralmente opposta avrebbe potuto far peggio con il martirio del Capitano leghista.

Riguardo al cedimento sulle norme “dell’illegittima difesa”, lo considererei quasi un contentino, visto che nel contesto nazionale riguardo 5 o 6 processi nel corso di quattro anni. Due situazioni di poco conto da digerire, rispetto ad una legge enorme come il reddito di cittadinanza, fatta metabolizzare ad una Lega che non parla nemmeno più di Flat Tax, una Lega lontana anni luce da un progetto del genere.

Potrei aggiungere il passo falso dell’incontro con i gilet gialli, dettato più da un goffo tentativo di emulare il loro furbo contraente piuttosto che da un’effettiva convinzione, ma non basta ancora per capire come mai, all’interno dello stesso governo, una parte crolla nei consensi mentre un’altra li raddoppia.

Maurizio Contigiani

 

Cambiano i segretari, ma il Pd resta sempre lo stesso

Zingaretti ha fatto il suo primo discorso da segretario Pd a Torino a fianco di Chiamparino in difesa del Tav.

È ormai evidente e dimostrato che la sua elezione a segretario sia un’opera cosmetica per vendere un apparentemente nuovo prodotto politico, mentre nella realtà tutto cambia per nulla cambiare (infatti tra i suoi sostenitori vi erano gli ex dc renziani). Gattopardismo puro. Attribuire a Renzi tutte le responsabilità per le numerose leggi antipopolari e incostituzionali è chiaramente una mistificazione, dato che gran parte dell’apparato e dei militanti hanno sostenuto il renzismo, persino Grasso e Boldrini.

Ma questo trasformismo peloso e indecente ha raggiunto l’apice a Milano, dove Sala e le classi dominanti hanno usato i poveri migranti come scudi umani per difendere i loro privilegi, cosa che oggi Zingaretti ha provato con le sue dichiarazioni. Un colossale inganno sostenuto dai poteri forti e dai loro media.

Trasformismo della peggior specie che usa i disgraziati come alibi per legittimarsi. Purtroppo sull’argomento dei partiti devo rilevare che anche l’analisi del Prof. Ginsbourg sia stata molto superficiale, al più politicista, oltre che immersa in categorie storico-politiche di un mondo morto e inesistente. Nessun approfondimento sulle trasformazioni sociali di Ds e Pd, giudizi molto banali, che nemmeno la rozzezza culturale dei giornalisti di altre testate (anche molto peggiori) darebbe sui 5S.

Vincenzo Magi

Montanelli e le sue nozze con la giovane Destà, nell’Africa di quasi un secolo fa

 

Caro Travaglio, da allievo di Montanelli le chiederei un commento sulla brutta vicenda della bambina schiava divenuta sua moglie in Eritrea. Il mito mi si sta un po’ sgretolando.

Andrea Zanello

 

Caro Andrea, su quella vicenda – tornata di attualità l’8 marzo perché un gruppo di femministe ha imbrattato la statua di Indro a Milano con vernice rosa – disponiamo solo della testimonianza di Montanelli, che la raccontò varie volte. Nel 1935, a 26 anni, partì volontario come giornalista-soldato in Etiopia, come sottotenente in un battaglione coloniale di Àscari eritrei e abissini (che fiancheggiavano le truppe italiane). Il suo attendente di colore (“sciumbasci”) suggerì a lui e ai suoi commilitoni di trovarsi una compagna. Secondo le usanze del tempo e del luogo, i militari – italiani e indigeni – si accordavano con i genitori delle ragazze una sorta di matrimonio provvisorio, formalizzato con tanto di contratto pubblico, che prevedeva una dote in denaro e un tucul. Montanelli così “sposò” Destà, una ragazza di 14 anni che, com’era (e ancora in parte è) usanza nei Paesi tropicali, era già una donna da marito. Il XX Battaglione Eritreo si spostava continuamente nel Paese, ma Destà e le altre compagne dei soldati riuscivano incredibilmente a rintracciarli ogni 15 giorni portando loro biancheria pulita e generi di conforto. Finita la guerra – racconta Montanelli – “uno dei miei tre ‘bulukbasci’ (altri graduati del battaglione, ndr)… mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto il tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale. Nel ’52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus e la prima tappa… la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio ‘bulukbasci’, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo” la sua partenza. Oggi quel matrimonio combinato quasi un secolo fa sconcerta, anche se quelle usanze tribali restano intatte in molte popolazioni africane e non solo (la ragazza, fra l’altro, era infibulata), mentre la pratica del “madamato” fra le truppe coloniali è legata a quel clima storico, fortunatamente superato. Ma parlare di schiavismo, violenza, pedofilia è assurdo (Destà non avrebbe dato al suo primogenito il nome Indro). O peggio ancora di razzismo. Poco dopo l’unione fra Indro e Destà, Mussolini proibì i matrimoni misti fra colonizzatori e colonizzati: quella sì fu una misura razzista, non le unioni fra italiani e africane.

Marco Travaglio

Il caso Tello e gli strani affari tra juve e genovesi

Andres Felipe Tello Munoz, per semplificare Andres Tello, è un ragazzo colombiano di 22 anni di Medellin, un viso fanciullesco che poteva ispirare un reportage di Gabriel Garcia Marquez, terzino destro in patria, esterno o mezzala in Italia. Andres viene scovato appena maggiorenne a Envigado, una cittadina a 1.600 metri di altitudine, dagli osservatori della Juventus, pare la controfigura smaccata del connazionale Juan Cuadrado. Col tempo ne assume le sembianze, la chioma folta e piena di riccioli.

I bianconeri lo sottopongono a un rigido svezzamento professionale: Cagliari, Empoli, Bari. Finché Tello, dopo tre discrete stagioni, l’ultima eccellente in Puglia, lo scorso giugno diventa una plusvalenza (differenza tra il prezzo di acquisto e vendita), una merce di scambio, una cessione che genera profitto nei bilanci. Andres va al Benevento, retrocesso in Serie B, per 2,5 milioni di euro. Oggi è oggetto di una controversia regolamentare tra la Juve, la Lega Calcio e, di riflesso, la Figc. È diventato un caso di scuola, suo malgrado.

Il cartellino di Andres, cioè la carriera, le ambizioni, la sua stessa vita, è di proprietà dei sanniti, ma il contratto firmato in giugno prevede un’opzione: il “diritto di recompra”, mutuato dai costumi spagnoli, così viene importato in Italia, neppure tradotto. Vuol dire che i bianconeri possono riacquistare Tello per 8 milioni in futuro, riflettere a lungo e poi scegliere dopo il torneo 2018/19, come sostiene l’ultima relazione finanziaria dei bianconeri. Quando la vendita di un calciatore è incompleta, non esistono effetti sul bilancio. In gennaio, però, la Juve rastrella affari per rimpinguare le casse e decide di rinunciare all’opzione per la recompra di Tello e così iscrive la plusvalenza in bilancio per 1,89 milioni di euro. Insorge la Lega di B, spalleggiata dai fratelli maggiori di A, perché l’accordo ufficiale e depositato col Benevento fissa l’opzione al termine dei campionati 2019/20 o 2020/21 e non 2018/19, e poi rammenta che le norme federali (articolo 1, comma 4, delibera n. 59 del 2018) vietano “modifiche del contratto tranne per indennizzi o premi”. Per aggirare il diniego, la Juve spedisce una lettera in Figc, un gesto che nei casi del genere viene definito “irrituale”, per informare la federazione dell’operazione su Tello. Contattati dal Fatto, la Figc fa sapere che ha solo preso atto della comunicazione e la Juve spiega che la rinuncia era una “mera facoltà”, non una alterazione del patto col Benevento. Per la Lega il precedente è assai pericoloso, perché crea un lassismo sui contratti con il diritto di recompra, usati per raccattare plusvalenze all’uopo, e suggerisce ai presidenti di rivolgersi alla Federcalcio per scavalcare le leghe di appartenenza. Una babele innescata da un episodio, dal giovane Tello.

Pure la Vecchia Signora degli Agnelli, che ha celebrato l’impresa con l’Atletico Madrid in Champions League col titolo ieri in Borsa a +17,4 per cento e una sospensione per eccesso di rialzo, ha bisogno di plusvalenze per limare le perdite. I circa 200 milioni di euro investiti per Cristiano Ronaldo hanno un impatto ancora negativo sui conti della Juve, che nell’ultima semestrale registra 384,3 milioni di euro di debiti e perciò ha emesso un prestito obbligazionario da 175 milioni. Il CR7 bond. Tra la sessione estiva e invernale, la Juve ha riportato in bilancio oltre 80 milioni di euro di plusvalenze: 43,7 tra giugno e agosto, 36,7 in gennaio. Il resoconto estivo: 21,5 milioni per Mattia Caldara; 13,6 per Rolando Mandragora; 8 più 1 di prestito per Alberto Cerri; mezzo milione per Tena Garcia e Alberto Brignoli. Il momento di Tello cade nel mercato invernale di riparazione, ma è un dettaglio rispetto ai 18,9 milioni di plusvalenza apportati da Emil Audero (Sampdoria) e ai 13,6 di Stefano Sturaro (Genoa).

Il 24 gennaio 2019, la Juventus annuncia il rientro di Sturaro, era in prestito allo Sporting Lisbona. Non era mai sceso in campo in Portogallo. Il Genoa di Preziosi lo accoglie volentieri per sei mesi, sempre in prestito, per 1,5 milioni di euro e s’impegna al riscatto, all’acquisto totale del cartellino, per altri 16,5 milioni. Sturaro non riesce a esordire con i rossoblu, ma il 6 febbraio “scatta il riscatto”. Cos’è successo? Il Genoa ha pareggiato col Sassuolo: il punto, da contratto, ratifica la vendita. Preziosi non è un pivello, l’operazione Sturaro rafforza l’asse con Torino. Il 10 febbraio, la Juventus Under 23 batte l’Arzachena e “scatta il riscatto” di Luca Zanimacchia. I bianconeri prelevano il calciatore dal Genoa per 4 milioni di euro più 2 “al maturare di determinate condizioni”. Non male per un classe ’98 che milita in una società di metà classifica in C. La Juve ha spalmato al Genoa i 16,5 milioni di euro di Sturaro in 4 anni, la prima rata corrisponde al costo di Zanimacchia. La Samp di Ferrero, che s’è svenata per Audero, incassa 4 milioni dai bianconeri per Daouda Peeters (’99, mediano), origini guineane, passaporto belga, arruolato nella Primavera. Agnelli, Preziosi e Ferrero esultano assieme. Una plusvalenza ciascuno.

Plusvalenze e debiti: perché il calcio ha paura del crac

La sirena d’allarme è suonata la sera di domenica 10 marzo, durante la Domenica Sportiva. Nel bel mezzo dell’appuntamento tv nazional-popolare per eccellenza, il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina si è messo a parlare di “plusvalenze”. Il messaggio è stato chiaro: “È nostro compito attenzionare plusvalenze e scambi sospetti. Tutti gli scambi senza finanza vanno segnalati alla Procura e segnaleremo alle società di revisione se alcuni elementi danno sospetti, facendole intervenire. E obbligheranno una svalutazione della plusvalenza fittizia”. Il tifoso medio ha capito quanto basta: se il presidente della Figc ne parla alla Domenica Sportiva, vuol dire che il problema è grosso.

I bilanci delle società di calcio rischiano di esplodere. Il fenomeno delle plusvalenze è il sintomo della crisi. Sembrano ricavi fittizi per nascondere le perdite e rinviare l’appuntamento con la realtà. È un mondo dove la Juventus vale in Borsa 18 volte la Lazio, azienda che pure fa esattamente lo stesso business. E la Roma vale un quinto della Juventus, ma quattro volte la Lazio. Un mondo dove la matematica è un’opinione.

Il meccanismo delle plusvalenze è semplice. Se un calciatore l’ho pagato un milione e lo cedo a 20 milioni, aggiungerò ai proventi da abbonamenti, biglietti e diritti tv pagati da Sky una plusvalenza di 19 milioni: nel bilancio andrà ad aumentare i ricavi e ad abbattere le perdite. Ci sono due modi di ingannare la realtà. Se i 20 milioni mi vengono pagati in tre anni, ugualmente segno subito nel conto economico la plusvalenza intera, cioè soldi non ancora arrivati. Ma soprattutto, se, dopo aver venduto a 20 milioni un ragazzo pagato un milione, vado a comprarne per 20 milioni un altro, e se tutti si scambiano i calciatori in una girandola di contratti a prezzi crescenti, ecco fatta la fabbrica dei ricavi falsi.

I dati sui bilanci del calcio professionistico pubblicati nei report della Figc sono chiarissimi. Nella stagione 2016-2017, l’ultima di cui si hanno tutti i bilanci approvati, le società nel loro complesso hanno fatto incassi effettivi per 2,6 miliardi a fronte di spese per 3,3 miliardi, con uno sbilancio tra costi e ricavi, cioè un buco, di 711 milioni. Ma ecco le plusvalenze: le società calcistiche ne hanno realizzate per 749 milioni, cosicché il risultato a livello di margine operativo lordo (Ebitda) diventa positivo per 38 milioni. Anche nel campionato precedente, 2015-2016, la differenza tra costi e ricavi era stata di circa 700 milioni, ma le plusvalenze si erano fermate a 437 milioni, così il rosso si era avvicinato ai 300 milioni.

Gravina deve intervenire perché le plusvalenze sono come una droga iniettata nei bilanci. E prima o poi la paghi. Se segni tra i ricavi una cifra alla quale non corrisponde un effettivo incasso, da qualche parte il buco verrà fuori. Le spese, per esempio gli stipendi pagati ai calciatori (la Serie A è in Europa il campionato con il maggior impatto del costo dei calciatori sul fatturato), sono soldi veri che escono tutti i mesi dalla cassa, mentre le plusvalenze non sempre si appalesano nella loro volgare materialità.

A ben guardare i bilanci, si nota che il debito totale della Serie A è passato dai 3 miliardi del 2016 ai 3,6 del 2017. Ecco che cosa diventano le plusvalenze: debiti. Nel 2017 le società italiane hanno segnato nei loro bilanci 749 milioni di plusvalenze e i debiti sono cresciuti di 600 milioni. Numeri che suggeriscono quante possano essere le plusvalenze fittizie. Altro indicatore sospetto è che in due anni le plusvalenze sono raddoppiate, da 381 a 749 milioni, fenomeno spiegabile solo con il tentativo del sistema di tappare le falle in qualche modo.

Il patron del Genoa Enrico Preziosi ha depositato una preziosa testimonianza nel bilancio 2017, dove si legge: “Successivamente alla data di chiusura dell’esercizio 2017, nel corso della sessione invernale di calciomercato, sono state realizzate importanti plusvalenze che hanno consentito alla società, come meglio precisato all’interno della relazione sulla gestione, di superare la situazione di cui all’art. 2447 c.c. e ripristinare l’integrità patrimoniale della stessa”. Il Genoa, nonostante avesse segnato all’attivo 30,4 milioni di plusvalenze (più di un terzo dei ricavi), aveva chiuso il bilancio con 12 milioni di perdita, il che aveva provocato la scomparsa del patrimonio netto, che avrebbe dovuto essere ricostituito con costosi aumenti di capitale.

Invece è bastata qualche plusvalenza. Finché dura: il Genoa ha 173 milioni di debiti, tre volte il fatturato senza plusvalenze; l’Inter ha 668 milioni di debiti, quattro volte il fatturato senza plusvalenze. Il Milan, che fa relativamente meno plusvalenze e ha chiuso l’ultimo bilancio in rosso di 135 milioni, ha debiti per 537 milioni; la Sampdoria ha 164 milioni di debiti, più del doppio del fatturato senza plusvalenze. Dicono gli esperti che le banche non hanno paura di questa bolla, perché si sentono garantite dai contratti dei diritti tv, 1,1 miliardi all’anno già garantiti per questo campionato e per ciascuno dei prossimi due. Però a presiedere la Lega Calcio è stato mandato l’ex numero due di Intesa Sanpaolo, Gaetano Micciché. Che dovrà discutere seriamente con Gravina per trovare una via d’uscita.

Blutec? Ginatta? Chi era costui?

che scandalo! Oggi, signora mia, non c’è più il senso del dovere. Ma ha sentito di questa Blutec che s’è presa i soldi per fare l’auto ibrida a Termini Imerese e invece… Che scandalo! Che sfacelo! Ussignùr! Uscendo dal bar, ieri mattina, ci era però rimasto un dubbio: ma che è ‘sta Blutec? Per togliercelo, siamo tornati dentro notando subito, su un tavolino, i principali quotidiani del Gruppo Gedi. Finalmente la verità! Purtroppo La Stampa s’è rifiutata di aiutarci: la notizia era in un anodino boxino; Repubblica invece sì, un’intera pagina sotto al titolo immaginifico “Il grande colpo dei ladri di lavoro”; è qui che abbiamo appreso, grazie a un provvidenziale catenaccio, che questa brutta faccenda riguarda “l’ex stabilimento Fiat”. E infatti sul tavolino accanto Il Corriere della Sera – che non ha più tra gli azionisti l’azienda torinese – coraggiosamente sparava “ex Fiat” addirittura nel titolo (avventurieri!). Ma da dove sarà arrivata questa Blutec? Chi è Roberto Ginatta, il presidente? Come sono arrivati a Termini Imerese? Si tratta forse di un’azienda il cui ruolo in Sicilia è stato sponsorizzato dalla stessa Fca, come sostiene qualcuno, presso l’allora governo Renzi? Questo Ginatta non è forse un imprenditore della galassia Fiat, ancora oggi socio di Andrea e Anna Agnelli in una società immobiliare? Sui tre giornali del bar non siamo riusciti a saperlo. Vabbè, ci terremo la curiosità

Antitrust, ora Rustichelli rischia il flop

C’è una vera sorpresa al Csm che riguarda il presidente dell’Antitrust in pectore Roberto Rustichelli, scelto e nominato – come prevede la legge – dai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Casellati, poco prima di Natale. Poiché Rustichelli è un magistrato (fa il giudice al tribunale dell’impresa di Napoli) deve però avere necessariamente l’autorizzazione di Palazzo dei Marescialli al “fuori ruolo”.

E qui le cose per lui si sono inaspettatamente complicate. Unicost, la corrente centrista che ha cinque consiglieri togati al pari di Magistratura Indipendente (la corrente più conservatrice) avrebbe cambiato idea: non è più per il via libera al “fuori ruolo”. Infatti, a quanto risulta al Fatto, la commissione che lavora al caso (la Terza) è spaccata a metà: il presidente Michele Ciambellini di Unicost, e i consiglieri Ciccio Zaccaro di Area (sinistra) e Alberto Maria Benedetti, laico di M5S nonché direttore dell’ufficio studi del Csm, sono contrari a concedere il “permesso” perché sia la legge Severino sia la circolare del Csm del 2014 stabiliscono che non si possano avere incarichi extragiudiziari per più di 10 anni complessivi. Rustichelli, però, come ha scritto il Fatto, quel tetto l’ha superato per tutti gli incarichi avuti tra il 2001 e il 2013 a Palazzo Chigi o al ministero della Funzione Pubblica come esperto di semplificazione normativa.

L’altra metà della Commissione, invece, è a favore del “fuori ruolo”: Michele Cerabona, laico di FI, ex avvocato di Silvio Berlusconi, e i togati Paola Maria Bragion e Corrado Cartoni, di Magistratura indipendente come Claudio Galoppi, consigliere giuridico della presidente Casellati e fino a settembre scorso consigliere del Csm.

Secondo loro non vanno applicate né la Severino, né la circolare del Csm ma una legge precedente che riguarda l’esclusione delle Authority dalle norme sul “fuori ruolo”. Sempre tra i fautori del via libera a Rustichelli c’è chi considera elettiva la carica di presidente dell’Antitrust: in quel caso la Severino non varrebbe visto che esclude dal tetto dei 10 anni proprio le cariche elettive oltre agli incarichi alla Consulta. Si spiega così l’acquisizione in commissione al Csm della delibera con cui l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa ha autorizzato il “fuori ruolo” per Luigi Carbone, oggi capo di gabinetto del ministro Tria: quella delibera, infatti, ha considerato elettiva la carica di commissario dell’Authority per l’Energia per 5 anni, che Carbone aveva ricoperto, facendolo rientrare nei canoni della legge Severino.

Il caso Rustichelli, politicamente spinoso per la fonte di nomina (i presidenti di Camera e Senato) e la delicatezza del ruolo, potrebbe approdare al plenum del Csm il 20 marzo. Se Unicost confermerà il no in quella sede, allora l’autorizzazione a Rustichelli si deciderà all’ultimo voto. Il ruolo decisivo lo avranno i 7 consiglieri laici (escluso il vicepresidente Ermini): anch’essi però sono divisi. Il voto, imbarazzante per molti nel Csm, potrebbe saltare se Rustichelli si dimettesse dalla magistratura: d’altronde l’incarico all’Antitrust dura 7 anni e il magistrato ne ha quasi 58. Qualcuno, a Palazzo dei Marescialli, sta pensando di consigliarglielo.

Provincia: il Palazzo-scandalo e il triangolo Zinga-Parnasi-Bnp

A Roma è scoppiata la pace. Le vecchie guerre dei palazzinari, ognuno col suo referente politico e il suo giornale, non si portano più. Nella Capitale in cui il potere sono il mattone e la politica, nei decenni le battaglie per la spartizione della torta furono epiche: ora c’è pace e silenzio. Sarà la crisi del settore innescata dalla fine della torta o sarà che i palazzinari di un tempo oggi si fanno chiamare “sviluppatori” e si sono raschiati di dosso l’aura titanica e pericolosa dell’homo faber per i business plan e le cravatte in tinta.

La pace, si diceva, e il silenzio si sono inghiottiti pure una delle notizie più succose degli ultimi giorni: la Corte dei Conti contesta a Nicola Zingaretti – e moltissimi altri giù giù fino a Virginia Raggi – un danno erariale da 260 milioni per il palazzo della Provincia di Roma comprato qualche anno fa da Luca Parnasi, l’erede del “carpentiere rosso” Sandro, di recente finito nei guai per certe disinvolture nella gestione dei suoi affari. Bizzarro silenzio se si ricorda l’incessante campagna che a suo tempo Il Messaggero – il giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, l’essere mitologico che da palazzinaro si fece finanziere – portò avanti contro quella scelta di Zingaretti che favoriva l’odiato concorrente. A Roma, però, c’è pace e non manca il silenzio, tanto più che a Parnasi ci hanno già pensato il mercato e la magistratura e, a questo punto, è inutile disturbare il neosegretario del Pd per faccende già risolte dal fluire delle cose. Allora vale la pena spiegare bene la triangolazione tra l’ex Provincia di Roma, i costruttori d’area Parnasi e Bnp Paribas, al centro di un conflitto d’interessi plurimo, che per le toghe contabili ha danneggiato lo Stato per 263 milioni. Tutto inizia nel 2005, quando a capo dell’ente c’è il rutelliano Enrico Gasbarra: serve una sede unica, dice, così risparmieremo. La scelta, nonostante altre opzioni, cade su uno dei due grattacieli che Sandro e Luca Parnasi stanno costruendo all’Eur, in zona Castellaccio, area d’elezione dei loro affari assieme al Torrino.

Il contratto preliminare risale all’ottobre 2010 regnante da oltre due anni Nicola Zingaretti. L’acquisto funziona così: la provincia di Roma mette tutti i suoi immobili, alcuni di pregio e in pieno centro, in un fondo che dovrà venderli; in cambio incassa subito un prestito coi soldi da dare a Parnasi per il grattacielo. Prezzo: 263 milioni appunto. Cassa depositi e prestiti, siamo al febbraio 2012, avverte Zingaretti & C. che il fondo è un’opzione inutilmente rischiosa: meglio vendere i palazzi uno per uno o in blocco. Niente da fare: la costituzione del Fondo immobiliare “Provincia di Roma” è decisa con voto del 19 dicembre 2012. Dieci giorni dopo, Zingaretti si dimetterà per candidarsi governatore.

Scrive il procuratore della Corte dei Conti, Massimo Lasalvia, che di fatto la Giunta si è messa da sola “nella condizione di dover necessariamente costituire un Fondo”, “strumento atipico e rischioso”. Non bastasse, l’ente si “autoqualifica ‘cliente professionale’, caratteristica riconosciuta in automatico solo a governo e Banca d’Italia” e investe da subito il suo Fondo del pieno “rischio di mercato”.

La gestione viene affidata a una società specializzata, che poi è quella che ha presentato l’unica offerta valida, la Sgr di Bnp Paribas. E quella che fa? Firma subito il contratto d’acquisto, già il 28 dicembre, cioè il giorno prima dell’addio di Zingaretti: il palazzo da 263 milioni viene venduto dal Fondo Upside, gestito sempre da Bnp su mandato di Parnasi, e acquistato a carico del Fondo Provincia, scrive il magistrato, “attraverso l’assunzione di un oneroso mutuo di 215 milioni a un tasso elevato presso banca del gruppo Bnp, al solo fine di far beneficiare il venditore Bnp Upside, e per esso la società costruttrice del gruppo Parnasi” – a sua volta, aggiungiamo noi, all’epoca assai esposta proprio con Bnl-Bnp – “dell’intera pronta liquidità, oltre a gravarsi di pesantissime commissioni sul finanziamento”. Il resto è altrettanto pazzesco: il Fondo ha durata triennale (dicembre 2015), con due anni di possibile proroga e ulteriori tre per il cosiddetto “periodo di grazia”. La gestione è una catastrofe. I 20 immobili conferiti dalla Provincia dovrebbero valere 255 milioni ma secondo la Corte dei Conti oggi hanno perso il 20% del valore (50 milioni). Per di più in tre anni ne vendono solo un paio e pure sottocosto portando il Fondo Provincia “a un default tecnico”: a quel punto la minaccia delle banche creditrici (tra cui Bnp) “costringe la Provincia alla sottoscrizione di nuove quote per 50 milioni di euro” tra 2016 e 2017, a cui si aggiungono 10 milioni nel 2018 e 10 quest’anno (motivo per cui è coinvolta Raggi, che guida la città metropolitana, ex provincia).

Il magistrato ipotizza un danno erariale pari all’intero costo del grattacielo (263 milioni) o comunque non inferiore a 107 milioni, tra cui i 70 milioni dovuti alle nuove quote e i 20 milioni spesi in affitti per il 2013 e 2014 visto che la Provincia acquistò il Palazzo due anni prima che il grattacielo di Parnasi fosse pronto. Storia succosa, come si vede, ma a Roma è scoppiata la pace degli sviluppatori, già palazzinari.

Vertici Inps, Nori rinuncia a fare il vice del 5Stelle Tridico

“Ringrazio tutte le persone che mi hanno manifestato la loro fiducia, ma non sono disponibile ad assumere alcun incarico all’Inps”. Così ieri Mauro Nori, ex direttore generale dell’Istituto di previdenza si è sfilato dalla corsa alla vicepresidenza dell’Ente. Al termine di un duro scontro di potere nella maggioranza, il governo ha deciso che all’Inps finisse l’era dell’uomo solo al comando inaugurata da Tito Boeri. Alla guida andrà Pasquale Tridico, docente a Roma Tre e consigliere economico di Luigi Di Maio (è l’uomo che ha disegnato il reddito di cittadinanza). Tridico partirà come commissario, a cui la Lega – in base alla ripartizione dei pesi negli enti decisa dai gialloverdi – andrà affiancato da un subcommissario. I due poi assumeranno la carica di presidente e vicepresidente dell’Inps. Il problema è che il nome della Lega non si riesce a trovare (prima si era ritirato anche Francesco Verbar). Nori sembrava ben visto dal Carroccio, che ieri però ha provato a smorzare la paternità della candidatura. “A volte vengono attribuiti alla Lega nomi che sono del ministero”, ha spiegato il leghista Claudio Borghi, presidente della Commissione bilancio della Camera: “Stiamo vagliando una rosa di nomi”.