L’Inps sta per chiamare quasi tre milioni di pensionati a restituire una piccola parte degli assegni ricevuti a gennaio, febbraio e marzo. Ma il governo ha deciso che questa antipatica richiesta arriverà a giugno, dopo le elezioni europee. Un problema burocratico che sta mettendo in imbarazzo la politica. Nei primi tre mesi dell’anno, infatti, non sono ancora stati applicati i tagli alle pensioni sopra 1.539 euro lordi al mese previsti dalla legge di Stabilità. Per risparmiare 2,3 miliardi in tre anni, il governo ha stabilito il rallentamento dell’adeguamento all’inflazione per chi prende più di tre volte il minimo. Esempio: chi prende una pensione da quattro volte il minimo, con le vecchie norme quest’anno avrebbe avuto un aumento pari al 90% dell’inflazione; la manovra gialloverde, invece, prevede che l’incremento si fermi al 77%. L’Inps, però, non ha avuto tempo di ricalcolare tutti gli importi, così finora ha pagato le pensioni come se non fosse mai stata approvata la legge di Bilancio. Quindi 2,7 milioni di ex lavoratori italiani hanno ricevuto cifre più alte del dovuto e ora devono restituirle. Si è, però, deciso di dilatare i tempi per evitare ripercussioni sul voto di maggio. Il crono-programma è questo: ad aprile le pensioni inizieranno a subire la riduzione prevista dalla legge; l’addebito delle cifre di troppo versate da gennaio a marzo, molto basse per buona parte dei coinvolti, sarà sul cedolino di giugno. Fonti ben informate confermano questo schema, ma l’Inps per ora non ha commentato. Dura la reazione dei sindacati: “Non solo dal primo aprile milioni di pensionati avranno una rivalutazione più bassa – dice il segretario Spi Cgil Ivan Pedretti – ma dovranno anche restituire parte dei soldi che hanno ricevuto finora. Questo è il governo che ci ha definito avari e ora mette le mani nelle nostre tasche. Faremo di tutto per non permetterglielo”.
L’uomo della legge Pd pagava gli addetti 5,4 euro
Addirittura Ken Loach si era schierato contro Mauro Laus, o meglio, contro la sua cooperativa. Era il 2012 e il regista inglese, noto per i suoi film sulla “working class”, aveva rifiutato il “Gran premio Torino” del Torino Film Festival per solidarietà ai dipendenti della Rear, coop di servizi di Torino a quel tempo presieduta dall’attuale senatore Pd. Quei lavoratori erano stati sanzionati o licenziati dopo le proteste per le paghe misere, roba da 5,44 euro lordi l’ora, poi anche meno. Oggi Laus è il promotore della proposta di legge dem sul salario minimo garantito.
Il senatore Pd, in passato consigliere regionale del Piemonte, ha guidato la Rear dal 1996 al 2014, anno in cui è stato eletto presidente del Consiglio regionale. A quel punto ha lasciato la sua carica dell’azienda nel cui consiglio siedono ancora suo fratello Nicola, sua moglie Maria Cardone e sua cognata Valeria Cardone. Poi, circa un anno fa, durante la scorsa campagna elettorale, Laus aveva lanciato la sua proposta per il salario minimo. Sul palco del centro congressi “Giovanni Agnelli” al Lingotto il 25 febbraio 2018 illustrava la sua idea e già si riparava dalle eventuali obiezioni: “Tu dopo che hai retribuito le persone a quattro euro o cinque euro l’ora, ti permetti il lusso di voler rappresentare i diritti dei lavoratori?”, chiedeva retoricamente. Il pensiero andava a quegli episodi cominciati nel 2011, alle proteste al Museo del Cinema e alla Reggia di Venaria e alle condanne. La Rear forniva lavoratori per il controllo delle sale, l’accoglienza e la biglietteria. Applicava il contratto Unci con paga base di 5,44 euro l’ora lordi.
Nel giugno 2011, però, l’assemblea dei soci decide di abbassare le paghe del 10 per cento per i ritardi dei pagamenti degli enti pubblici. Al Museo del Cinema diversidipendenti protestano e alcuni vengono licenziati, come Federico Altieri che dopo aver scoperto dell’invito di Ken Loach al Torino Film Festival, scrive al regista e gli spiega l’accaduto. Oltre alla solidarietà del cineasta, i lavoratori ottengono anche giustizia dal Tribunale prima e dalla Corte d’appello dopo: i licenziamenti sono illegittimi, il contratto applicato è errato. L’ultima sentenza è dell’aprile 2018: la Cassazione (salvo rinviare alla Corte d’appello la valutazione di un aspetto) ha confermato che il contratto da applicare non era quello Unci, meno oneroso, ma quello di Confcooperative, ragione per cui la Rear doveva risarcire l’ex lavoratore del museo. “Non è un imprenditore che decide quanto deve pagare, è la contrattazione collettiva – si discolpava in campagna elettorale Laus – E oggi per alcuni contratti collettivi firmati da organizzazioni sindacali e da quelle datoriali più grandi, ci sono delle persone, anche laureate, che vengono retribuite con un salario di quattro euro l’ora”. E dopo i sindacati, Laus dava la colpa alle amministrazioni pubbliche: “Quando la stazione appaltante fa appalti al prezzo più basso, chi partecipa sa che può vincere con due centesimi e l’obiettivo è il contratto più basso”.
Sognando 9 euro l’ora. La battaglia dei costi per il salario minimo
Se oggi applicassimo il salario minimo legale da 9 euro lordi all’ora, come suggerisce il Movimento Cinque Stelle, bisognerebbe alzare gli stipendi a quasi tre milioni di lavoratori italiani. A beneficiarne sarebbero soprattutto i giovani, le donne e gli apprendisti, specie al Sud. L’incremento medio per ognuno sarebbe di 1.037 euro all’anno, mentre le imprese dovrebbero sborsare 3,2 miliardi in più. È lo scenario ipotizzato dall’Istat, presentato ieri durante l’audizione in commissione Lavoro al Senato. Come detto, però, è solo un’ipotesi. Perché le aziende potrebbero anche reagire riducendo le ore di attività, per mantenere fermi i costi del personale. “Un salario minimo troppo alto – ha scritto l’istituto di statistica – potrebbe scoraggiare la domanda di lavoro o costituire un incentivo al lavoro irregolare”. E questo penalizzerebbe i più deboli. Se invece fosse troppo basso, prosegue, “potrebbe non garantire condizioni di vita dignitose”. Quindi serve la giusta via di mezzo.
In questi giorni sono in piedi due proposte di legge. Una firmata dalla pentastellata Nunzia Catalfo che prevede 9 euro lordi all’ora; un’altra è invece di Mauro Laus (Pd) e indica ben 9 euro netti come soglia minima. Le proiezioni dell’Istat si riferiscono a quella del Movimento Cinque Stelle. Quindi è evidente che, prendendo come riferimento la proposta dem, il numero di lavoratori coinvolti salirebbe di tanto. Si tratterebbe, secondo l’Istituto di analisi delle politiche pubbliche (Inapp), anche questo intervenuto in commissione, del 52,6% dei lavoratori dipendenti privati (non agricoli) e il costo totale sarebbe 34,1 miliardi di euro. L’obiettivo della legge, insomma, sarebbe contrastare il fenomeno dei lavoratori poveri che pur occupati restano in difficoltà economiche. Gli effetti, però, sarebbero incerti.
In Europa lo applicano 22 Paesi su 28. L’ultimo a introdurlo è stata la Germania: da allora non si è ridotta l’occupazione ma, fa notare l’Inapp, le ore di servizio dei lavoratori che erano sotto la soglia sono calate del 21% e le imprese hanno alleggerito o interrotto gli scatti di anzianità.
Tornando all’Italia, l’Inps ha spiegato che i lavoratori oggi pagati meno di 9 euro lordi all’ora sono il 22%, ma diventano il 38% nell’agricoltura. Nel settore del lavoro domestico, invece, un addetto del più alto livello ha una retribuzione oraria da 8,52 euro. Oggi gli stipendi dei lavoratori dipendono dai contratti collettivi. Quindi il salario minimo esiste già, ma non è indicato dalla legge bensì dagli accordi tra sindacati e associazioni di imprese. Il minimo è 7,92 euro nell’industria, 7,17 euro nei servizi e 6,08 euro nell’agricoltura. In Italia la contrattazione collettiva copre una quota molto ampia, ma ci sono due problemi. Il primo riguarda chi, appunto, lavora con datori che non aderiscono ai contratti. L’altro, fa notare l’Inps, è il fenomeno dei “contratti pirata”, che creano una concorrenza al ribasso fatta da sindacati e associazioni di imprese poco rappresentative. Da qui è nata l’esigenza di individuare per legge una cifra sotto la quale non si può scendere. Ipotesi che, però, non piace né a Confindustria né ai sindacati. Questi ultimi vorrebbero che fossero estesi a tutti i minimi previsti dai contratti collettivi. I disegni di legge ora stanno proseguendo l’iter parlamentare. Vista la convergenza, quantomeno di principio, qualche giorno fa il ministroDi Maio ha chiesto la sponda al segretario del Pd Nicola Zingaretti.
Crosetto ce la fa: Montecitorio vota le sue dimissioni
Il deputatodi Fratelli d’Italia Guido Crosetto lascia il Parlamento: con 231 voti favorevoli, 31 contrari e 126 astenuti, Montecitorio ha approvato la richiesta di dimissioni dell’imprenditore piemontese. Per Crosetto era il terzo tentativo, ma le cose avrebbero potuto trascinarsi anche più a lungo, come successe al suo collega del M5S Giuseppe Vacciano, trattenuto dal Senato per anni. Le ragioni delle dimissioni di Crosetto sarebbero “personali”, secondo quanto da lui dichiarato. “Il mio impegno politico – ha aggiunto l’ormai ex deputato – proseguirà fuori dal Parlamento”. Rimarrà infatti coordinatore nazionale di FdI e presidente dell’Aiad, la Federazione che riunisce le aziende del comparto difesa, aerospazio e sicurezza. Nel lasciare il posto alla Camera a Lucrezia Mantovani, Crosetto ha raccolto parole d’affetto e stima da parte dei membri del suo partito, come Francesco Lollobrigida, ma non solo: anche il sottosegretario al ministero della Difesa Angelo Tofalo ha espresso parole di gratitudine. Vittorio Sgarbi, però, lancia la provocazione: ”Crosetto chiede un divorzio con insistenza. Ma dato che il matrimonio era evitabile, mi chiedo: perché si è candidato?”.
Il Narciso Pop tutto chiacchiere e televisione
È uscito in questi giorni il saggio di Giandomenico Crapis dal titolo “Matteo Renzi dal pop al flop”
Renzi non è più segretario del Pd, ma ha guidato il partito per un periodo quasi ininterrotto di circa 5 anni, diventando il capo che per più tempo ha occupato la cabina di comando. La sua azione ha lasciato il segno, nel bene e nel male: ha rappresentato un esperimento condotto con il pedale dell’acceleratore sempre pigiato e scontando una conflittualità interna inedita, frutto certo delle caratteristiche innovative del suo comando ma anche di errori politici e del suo temperamento irridente e aggressivo (lo stesso che una sera del 2008 a Canale 10, una tv toscana, lo portò a chiamare l’oncologa Patrizia Gentilini “maga magò”).
Per “personalizzare” il partito Renzi ha percorso due strade: la prima è stata quella della comunicazione a ogni costo e con qualsiasi mezzo, soprattutto con la televisione (a cui si è dato con voluttà e desiderio). La seconda è stata quella della trasformazione della sua figura, perseguita attraverso un’accorta presenza sulla scena pop dell’intrattenimento, sui nuovi media e su quelli vecchi, stampa e riviste compresi. Con Renzi il processo innovativo diventa travolgente, nel senso letterale del termine. Grazie anche al tratto che più lo ha caratterizzato in questi anni, che è quello dell’eccesso, del troppo, della sproporzione. Eccesso di movimento, eccesso di ottimismo, eccesso di hybris, eccesso di comunicazione, eccesso di parola, eccesso di retorica: il “di più” è stato consustanziale alla sua figura, sia alla sua ascesa che al suo declino. Sia il successo delle europee del 2014 che la sconfitta del 4 marzo, entrambi così clamorosi, vanno letti alla luce della forte impronta personale imposta al Pd dal suo segretario.
Renzi può essere descritto ricorrendo alla categoria del popular più che a quella del populismo: punta da subito a fare la star, a diventare un’icona al pari delle celebrities contemporanee. Ha incarnato alla perfezione il tratto narcisistico della società contemporanea, che i media accentuano a dismisura. E come spesso accade nelle parabole dei partiti personali, il destino di questi diventa strettamente legato alle fortune dei loro leader. Lo studioso Mauro Calise ha sottolineato l’incapacità (soprattutto della sinistra) di “fronteggiare, interpretare e assorbire la nuova sfida che i leader impongono alla logica dell’agire collettivo”. Quanto accaduto lascia infatti spazio per nuove considerazioni sugli effetti collaterali e indesiderati della personalizzazione, nella politica e nei partiti.
Da Freccero all’Agcom, l’Opa leghista sulla Rai non fa sconti
Non contenta della strabordante presenza di Salvini in Rai, ma pure su SkyTg24 e La7, con un richiamo formale a Rai e Sky da parte di Agcom, contro l’Autorità per la garanzia delle comunicazioni ieri si è scagliata proprio la Lega. Con uno dei suoi rappresentanti in Vigilanza. Secondo Massimiliano Capitanio, infatti, “è assurdo che un’autorità indipendente, tra l’altro spaccandosi nelle decisioni, si presti a offrire inutili veline al Pd in vista delle Europee”. Il riferimento è al voto del cda di Agcom sulla decisione di rendere pubblici i dati, presa con tre consiglieri a favore e due contro: “Non vorrei che la pubblicazione a colpi di maggioranza del ranking dei politici in tv servisse a coprire problemi ben più seri, come le presunte ipotesi di danno erariale contenute in un recente esposto alla Procura della Repubblica relativamente ai requisiti curriculari del segretario generale”.
Qui si parla invece di un esposto sulla nomina a segretario generale Agcom di Riccardo Capecchi, avvenuta nell’aprile 2016, su cui ci sarebbero delle contestazioni, appunto, per mancanza di requisiti. Dichiarazioni, quelle del leghista, che provocano la dura reazione del Pd. “Le minacce della Lega sono di una gravità inaudita”, dice il senatore dem Salvatore Margiotta. “Ora la Lega vuole occupare pure l’Agcom?”, si chiede Francesco Verducci (Pd).
Il Carroccio, comunque, contesta la loro pubblicazione, ma non la veridicità dei dati. “Salvini è il primo nei Tg perché lavora molto ed è impegnato su diversi temi, più degli altri”, spiega Capitanio. E infatti, come ha raccontato ieri Milena Gabanelli sul Corriere, Salvini è dappertutto tranne dove dovrebbe essere, ovvero al Viminale. L’offensiva leghista su Viale Mazzini, comunque, ha il sapore di un’Opa a tutto tondo. In tal senso va incardinato anche l’attacco, a freddo, del capogruppo leghista Paolo Tiramani martedì mattina in Vigilanza al direttore di Raidue, Carlo Freccero. “Lei è superato, ha in mente una tv vecchia di 15 anni”, le parole di Tiramani che hanno fatto saltare Freccero sulla seggiola. Non basta, forse, alla Lega di aver piazzato Marcello Foa alla presidenza di Viale Mazzini, Teresa De Santis alla guida di Raiuno, Gennaro Sangiuliano al Tg2 e Alessandro Casarin alla Tgr. E di essere riuscita, grazie all’attivismo di Foa, a modificare le parti del piano industriale poco gradite, specie sull’informazione. Forte anche dei successi elettorali e dei sondaggi, la Lega vuole di più. E mette nel mirino tutti coloro che non può controllare direttamente. Agcom, appunto, o Freccero.
Oggi, intanto, Salini e Foa avrebbero dovuto essere in Vigilanza per rispondere sul piano industriale, ma l’audizione è slittata a martedì prossimo. L’ad, però, ha scritto una lettera a dipendenti e maestranze della tv di Stato: “Nel mio piano i protagonisti sarete voi, voglio esaltare professionalità e competenze di chi lavora in azienda”. Mentre Foa ha annunciato che si sta cercando una nuova sede a Milano “che sia all’altezza delle aspettative e delle sfide che ci attendono”. Corso Sempione addio?
Nel frattempo continuano a circolare voci su possibili ritorni. Massimo Giletti viene dato per sicuro rientrante, con buona pace di Cairo. Ma si parla anche di Gabanelli e Crozza. Mentre per Fabio Fazio (possibile trasloco su Rai3) e Bruno Vespa (che non ha gradito le parole di Freccero sul suo potere) si parla di una riduzione dei compensi. Fazio è d’accordo, Vespa (che se l’era già ridotto) un po’ meno.
Dalle Iene a Gruber, 24 ore di smentite e precisazioni in tv
“Il casoGiulia Sarti, sollevato da Le Iene, domina il dibattito politico”: inizia così la nota pubblicata dal programma di Italia1 in relazione alle immagini circolate durante la giornata. “Noi indaghiamo su questioni di pubblico interesse, su dove potrebbero essere finiti i soldi che la parlamentare aveva dichiarato di aver restituito al fondo per il microcredito – si legge – e che sarebbero stati dedicati anche all’eventuale acquisto di apparecchi di videosorveglianza forse per girare filmini privati. Non c’entra nulla con la diffusione del materiale rubato anni fa dalla sua posta elettronica. La diffusione delle sue foto intime, oltre che un reato, è una vera violenza”. Sempre ieri, anche La7 ha diffuso una precisazione: “In merito alle polemiche sulla vicenda Sarti, vengono attribuite a Lilli Gruber affermazioni (“Chi di spada ferisce di spada perisce”) che la conduttrice non ha mai fatto e che non corrispondono al suo pensiero né ai contenuti della puntata”. La frase infatti era di Paolo Mieli e riferita alle foto inviate ai giornalisti: ”È come se chi le sta mettendo in giro dicesse ai 5Stelle: avete voluto questo mondo selvaggio? È il gusto sadico di dire: chi di spada ferisce, di spada perisce. Adesso ve la beccate voi questa cosa”.
Richiamo del Garante della Privacy: “Non diffondetele”
La eco che ieri ha assunto la vicenda del servizio de Le Iene sullo scandalo che riguarda la deputata del M5s Giulia Sarti ha spinto, ieri, il Garante della Privacy Antonello Soro a mettere in guardia i giornalisti e i media su come trattare il caso astenendosi dalla diffusione di sue immagini personali.
“Con riferimento a notizie relative alla possibile circolazione di immagini molto personali della deputata M5s Giulia Sarti – si legge nella nota diffusa in mattinata – il garante richiama l’attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali e del codice deontologico dei giornalisti”.
Ha poi spiegato il contenuto e le norme da rispettare.
“Tali regole – sottolinea – impongono al giornalista di astenersi dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche, richiedendo invece il pieno rispetto della sua vita privata quando le notizie o i dati non hanno rilievo sul suo ruolo e sulla sua vita pubblica”.
3 domande a
Il disegnodi legge stamattina sarà incardinato in commissione Giustizia e quindi sarà presto in esame”. Elvira Evangelista è una senatrice del M5S, prima firmataria del ddl sul contro il Revenge Porn.
Senatrice, qual è l’obiettivo?
Prima di tutto, tipicizzare il fenomeno, finora considerato genericamente come diffamazione aggravata, violazione della privacy o stalking. Intende punire chi pubblica online immagini o video privati senza il consenso.
Poi?
È prevista un’aggravante se a diffonderlo è qualcuno di cui la persona offesa si fidava e se tra le conseguenze ci sia la morte. Quando ci sono queste aggravanti, diventa anche procedibile di ufficio.
Le leggi che ci sono ora non bastano?
Finora non sono state efficaci e quando la vittima è consenziente a girare il video è difficile far perseguire qualcun altro per la successiva diffusione. La pena è quasi sempre irrisoria e minima.
Sarà reato anche inoltrare un video ormai virale ?
Sì. La diffusione virale prevede un delitto punito solo con la multa. Funzionerà da deterrente: se hai un video del genere, non importa come ti sia arrivato ma cosa ne farai: se lo girerai ad altri potresti essere denunciato.
Signori, quei video non sono messaggi di auguri pasquali
Deve essere successo qualcosa di distopico nell’ultimo mese. Devono aver diluito una sostanza nel sistema idrico che ha abolito i parametri della decenza e sventrato le discussioni sui diritti delle donne.
Assisto basita al susseguirsi degli eventi che stanno annientando Giulia Sarti: come è possibile che tv e giornalisti cavalchino in maniera così irresponsabile la sua vicenda?
La questione dello stipendio e la mancata espulsione dal partito erano fatti di interesse pubblico, d’accordo. Poi inizia la querelle tra la Sarti e l’inquietante personaggio che è Andrea Bogdan Tibusche: e il tema si sposta su cosa faccia lei in camera da letto. E si comincia a parlare di sue foto e video come se, in quanto grillina, il suo amplesso in streaming, commentato e condiviso, fosse un nostro diritto, e non un’intrusione. I giornalisti si inviano compulsivamente il materiale via whatsapp come se si trattasse di foto del coniglietto per Pasqua e il caso finisce in tv – trattato con cinismo e mezza goliardia- negli stessi contenitori in cui fino a pochi giorni fa si discuteva di donne, leggi sul revenge porn e #metoo.
“Le Iene” trasmettono un servizio sulla vicenda dei filmini hard della Sarti con intervista esclusiva a Bogdan Tibusche. Non si sa perché a Le Iene dovrebbe interessare se la Sarti, mentre fa sesso, ami riprendersi o ustionarsi con della cera bollente o invitare a casa dei nani albini. Ci interesserebbe invece comprendere l’acrobatico motivo per cui i moralizzatori incravattati dedichino decine di servizi sulla vicenda Fausto Brizzi (le donne si rispettano e proteggono da molestie e ricatti sessuali!), e poi trattano un possibile caso di revenge porn e un sicuro caso di violazione della privacy, di violenza psicologica, di mortificazione di una donna colpita nella sua sfera più intima, come se fosse cosa di interesse pubblico. “Ah se questo computer potesse parlare!” ride l’inviato Filippo Roma con Tibusche. E Tibusche sottolinea che il suo computer “è pieno di video, ho paura che me lo rubino, è già successo”.
Insomma, se dovesse girare materiale privato della Sarti o di altri di voi che era contenuto nel suo vecchio computer sappiate che è colpa dei ladri. Poi l’inviato gli chiede se oltre ad avere una compagna altrove fosse fidanzato con la Sarti e, quando quello nega, l’inviato ride ancora: “Saresti stato un mito!”. Del resto si parla di dinamiche per cui qualche donna si è suicidata, mica di cose serie. Quindi Roma tira fuori delle chat da cui risulta che Tibusche, dopo che la Sarti lo ha accusato di aver gestito lui i bonifici, scrive agli amici che lei si faceva riprendere durante il sesso con altri e che quei video li ha anche lui. Gli amici gli rispondono “Se ti fa del male la smerdi totalmente”, “Strano che lei non si preoccupi di tutte queste cose”. Tibusche stesso scrive alla Sarti: “Prima che tu faccia la denuncia ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare. Ricordi i 4.000 euro per i video-controlli di Dedo e Luca?”. La Sarti risponde “Non c’entrano nulla”. E lui: “C’entrano, tu hai preso una posizione di guerra e io mi devo difendere ora”. Strano che le Iene non abbiano colto i toni dal sapore vagamente ricattatorio. Strano che, sapendo bene che alla fine quelle foto e quei video sono girati ovunque – guarda caso – in questi giorni, ai moralizzatori incravattati non sia venuto in mente che al di là di chi quei video li abbia diffusi (su questo non v’è certezza), è evidente che la Sarti sia vittima di un gioco schifoso e devastante.
Eppure, giorni fa, proprio con Filippo Roma la Sarti piangeva al telefono chiedendo di essere lasciata in pace. E se lei cadesse in depressione? Se si facesse del male? “Il mistero sui filmini a casa dell’onorevole continua!”, chiude l’inviato. Come fosse una soap, mica la vita di una donna umiliata nel suo intimo.
A “Otto e mezzo”, va in onda una scena ancora più inquietante. Paolo Mieli racconta che ha quelle foto “conservate” sul telefono e che gliele hanno inviate gli amici. Così, come se inviare foto intime diffuse senza il consenso dell’interessata non potesse costituire un reato o non fosse un’evidente violazione dell’intimità altrui. Si discute quindi dei pericoli della democrazia sul web, di come il caso Sarti sia una specie di contrappasso per il 5 stelle e Mieli afferma “È come se qualcuno stesse dicendo ai 5 stelle “Avete voluto questo mondo selvaggio? Ecco, è capitato a una di voi!”. “Una di voi che da quello che sappiamo ha messo delle telecamere in casa”, commenta la Gruber. Nessuno che dica “Qui si sta umiliando una donna, non parliamo di questa schifezza pruriginosa, cancelliamo quelle foto dai telefoni e speriamo che la Sarti denunci!”. No, è che i 5 stelle volevano la trasparenza. Se poi qualcuno ha capito che volevano i muri trasparenti in camera da letto amen, mica ci indigniamo. Ci facciamo un programma.