Corona ha mangiato la Fogli: dopo il linciaggio, chiede scusa

Nell’anno in cui l’ex frontman dei Queen Freddie Mercury è stato celebrato da un film premiato agli Oscar, l’ex frontman dei Pooh Riccardo Fogli è stato cazziato da Fabrizio Corona all’Isola dei famosi, a dimostrazione del fatto che esistono tramonti più crudeli degli altri. Passare dalle urla delle ragazze che ti lanciano reggiseni sul palco alle urla di uno che lanciava le sue mutande da un balcone appena uscito di galera, è davvero uno scherzo del destino che Riccardo Fogli non meritava.

Specie in questa versione da frate stanco e imbolsito, costretto a spaccare cocchi pur di non raschiare il fondo del barile nella carriera di ogni artista che fu: andare dalla D’Urso a litigare per l’eredità di un trisavolo. O a Sanremo per un duetto con Anna Tatangelo. O, peggio, essere nominati commissari per l’Unesco da Di Maio.

A ogni modo, la vicenda che ha occupato le prime pagine dei giornali per giorni, ha avuto il suo triste epilogo lunedì sera durante la diretta dell’Isola dopo una serie di avvincenti episodi. Tutto inizia la settimana scorsa con un’idea geniale degli autori: serve qualcuno di autorevole, credibile, saggio, coscienzioso che dall’alto della sua rettitudine, della sua integrità, del suo rigore possa fare la morale agli altri. Che possa redarguire il prossimo. Scartati i nomi di Piercamillo Davigo e di Gino Strada perché avevano degli impegni familiari, la scelta è naturalmente ricaduta su Fabrizio Corona. Quest’ultimo, dopo aver urlato anche di recente “Non ho paura dei potenti”, ha effettivamente proseguito il suo coraggioso percorso di lotta ai poteri forti passando, negli anni, dall’attaccare gli Agnelli, per poi passare a Ilary Blasi e infine, in un moto particolarmente baldo e ardimentoso, a infierire su Riccardo Fogli. A furia di alzare l’asticella dell’audacia, le sue prossime vittime saranno Valerio Scanu e Leone il cane fifone.

Fatto sta che durante la penultima diretta viene mandato in onda un video registrato e quindi approvato dalla produzione in cui il moralizzatore tatuato comunica a Riccardo Fogli che è cornuto. “Tua moglie ti ha tradito per 4 anni, devi accettarlo visto che sei in un reality, ho le prove del tradimento di tua moglie con il mio amico Giampaolo Celli per 4 anni. E ti dirò di più, io li ho anche frequentati, ho fatto cene, eventi con loro due”. Il tutto davanti alla totale indifferenza della conduttrice Alessia Marcuzzi che se Corona avesse detto “Hey Riccardo Fogli, ti ho visto adescare una dodicenne al concerto di Emma Marrone”, avrebbe fatto la stessa faccia, la faccia del cane che guarda la pioggia dalla finestra.

A quel punto l’azzeccatissima idea provoca esilaranti eventi a catena. Riccardo Fogli passa dall’essere uno sbiadito cantante anni anni 70 all’essere in coda per la beatificazione. Pier Silvio Berlusconi grida “Insomma, quell’uomo potrebbe essere mio padre!”, poi gli rammentano che il padre, all’Isola, altro che cornuto, si sarebbe trombato pure Paolo Brosio, ma comunque decide che Fogli è stato umiliato e i colpevoli vanno puniti. I colpevoli – alcuni autori – vengono individuati e fatti fuori (il più eroico dirà che del video lui non sapeva niente, pur essendo non solo autore dell’Isola ma anche miglior amico di Corona stesso). Corona, convinto di vivere nel 1945 e di essere l’imperatore Hirohito che annuncia la resa del Giappone, fa una conferenza stampa per comunicare al Paese che lui per Riccardo Fogli non ha dormito tre notti e gli chiede scusa, quindi nel giro di due mesi ha chiesto scusa a Ilary Blasi, a Silvia Provvedi, a Francesco Totti, a Riccardo Fogli e ora torna ospite dalla D’Urso dopo anni di maretta tra i due perché, come specificato dalla conduttrice, “Mi ha chiesto scusa”. Tra un po’ chiederà scusa pure per il Vajont e per la guerra in Abissinia e si farà tatuare “Sorry” sulla chiappa destra.

Alessia Marcuzzi, una che l’ultima volta che ha preso posizione su qualcosa ha detto “Mamma, io la mia cameretta la dipingerei di rosa”, è stata crocifissa da spettatori e giornalisti per la mancata difesa a Fogli e dunque, nella puntata di lunedì, ha iniziato la diretta senza sigla, senza applausi, in un clima cupo da annuncio di attacco nucleare imminente. “Un’onda più grande di noi ci ha travolto la scorsa settimana. Chiedo scusa a nome mio e a nome della trasmissione perché abbiamo sorpassato un limite”, ha sussurrato mesta. Nel frattempo ha pianto pure un po’, così ha dimostrato di avere un cuore. Fogli non ha aggiunto nulla anche perché gli autori devono avergli detto “Zitto che se replichi poi la Marcuzzi deve improvvisare e sull’improvvisazione la Marcuzzi va forte quanto Magalli nel krav maga” e lì è finita la saga più trash degli ultimi anni di tv. Del resto, Fogli lo sa, non abbiamo mai trovato risposta al famoso quesito dei Pooh “Chi fermerà la musica”, speriamo arrivi almeno qualcuno che fermerà Corona, prima o poi. Ci accontenteremmo.

Maledetto botteghino, senza Zalone son dolori

Che il Natale sia una promessa di Resurrezione quest’anno non lo intenderanno solo i cristiani più avvertiti, ma i cinematografari tutti: il 25 dicembre arriva in sala il nuovo film di Checco Zalone. È il salvatore della patria, il re Mida, il re taumaturgo, il campione del box office, chiamatelo come vi pare, per Luca Medici parlano i numeri: il suo Quo vado? nel 2016 registrò 65 milioni e 300 mila euro al botteghino, pari al 34% degli incassi del cinema italiano e al 9,9% di quelli totali. Di lì in poi miseria, vesti stracciate e templi, pardon, sale vuote, sicché i credenti sgranano il rosario di Checco: Cado dalle nubi (2009), Che bella giornata (2011), Sole a catinelle (2013), Quo vado? e l’annunciato Tolo Tolo. Non può, non deve fallire, nonostante le incognite non manchino: il titolo esotico, comunque meno evocativo dei precedenti; l’ambientazione africana (Kenya e Marocco), che potrebbe scontare questi tempi sovranisti e razzisti; la prima volta alla regia di Luca, dopo il divorzio consensuale da Gennaro Nunziante e il mancato accordo con Paolo Virzì, che co-firma la sceneggiatura.

Però la serie storica è importante, l’abituale produttore Pietro Valsecchi confida, da Trieste in giù l’astinenza da Zalone è conclamata: dati Cinetel, gli spettatori nel 2018 sono stati 85 milioni e 903 mila, contro i 92 milioni e 264 mila del 2017 e – udite, udite – i 105 milioni e 293 mila del 2016, l’ultimo anno-Zalone. Venti milioni di presenze volatilizzate, e sul fronte incassi la débâcle si taglia col machete: dai 661 milioni e rotti di euro dell’anno-Zalone, via i 584 del 2017, si è passati ai 555 dello scorso anno. Un’ecatombe, ancor più per il settore tricolore: rispetto all’anno-Zalone, la quota di mercato nazionale nel 2018 segna un -34,17%. Se considerando la tradizionale stagione cinematografica 1° agosto-31 luglio il prospetto sarebbe ancor più punitivo, nemmeno gli anni solari nascondono la crescente disaffezione per la produzione nostrana, ovvero la rarità di un exploit da top10: nel 2017 Mister felicità di e con Alessandro Siani si piazzò al decimo posto (10.206.028 euro) degli incassi, preceduto al nono (10.376.400 euro) da L’ora legale di Ficarra e Picone; nel 2018 il primo degli italiani, A casa tutti bene di Gabriele Muccino che peraltro verrà insignito del neonato David dello Spettatore, non è andato oltre l’undicesima posizione (9.179.618 euro). In questo scorcio di 2019 le cose non vanno meglio, anzi: gennaio e, addirittura il peggiore dal 2013, febbraio hanno palesato un decremento di spettatori e incassi sul 2018, e per i nostri colori il saldo è vieppiù negativo. Un osservatore poco attento potrebbe scambiare la top10 italiana dal 1° agosto 2018 fin qua per quella americana, giacché comprende nove titoli statunitensi e uno, Animali fantastici: I crimini di Grindelwald, britannico; viceversa, nella top10 dell’anno solare a conquistare una piazza è unicamente 10 giorni senza mamma, settimo con 7 milioni e 159 mila euro. Che fare? Scommettere su qualche titolo di prossima uscita capace di invertire la rotta – il sequel Bentornato presidente con Claudio Bisio o Ci penso io di Riccardo Milani? – oppure mettere le mani avanti, guardando ai registi sul set o giù di lì: Nanni Moretti (Tre piani), Matteo Garrone (Pinocchio), Giuseppe Tornatore (ancora senza titolo), Gianni Amelio (Hammamet) e Marco Bellocchio, che si vorrebbe in predicato per Cannes con Il traditore, alias il Tommaso Buscetta di Pierfrancesco Favino.

Nomi illustri e film promettenti, invero, più per i festival che il botteghino, ma mai dire mai. Per quello c’è già, sempre dati Cinetel, il botteghino, dove il traguardo del milione è ormai impresa da novelli Marco Polo: dal 1° agosto 2018 sono 228 – ha fatto i conti il blog Cinemotore – i titoli che non l’hanno superato, sintomo scoperto di parcellizzazione e distacco. C’è tempo per raddrizzare la situazione? Macché, semmai C’è tempo, l’esordio alla regia di un lungometraggio di finzione di Walter Veltroni, approdato lo scorso weekend su 217 schermi: forse il titolo non induce a scapicollarsi in sala, di certo gli spettatori non si sono precipitati, appena 29.903 per 188.700 euro di incasso. Tredicesima posizione, la peggiore media copia (870 euro) dei primi quindici, Veltroni può consolarsi – punge il daily Cineguru – con “i consensi sperticati di alcuni dei maggiori editorialisti italiani e in generale una grande attenzione mediatica”. Gli spettatori paganti, però, chi li ha visti?

 

“Marielle uccisa per le sue idee” Arrestati a Rio due ex poliziotti

È pacifico che Marielle Francisco da Silva è stata sommariamente giustiziata a causa della azione politica in difesa degli ultimi. La barbarie eseguita nella notte del 14 marzo 2018 è stata un duro colpo per lo Stato democratico di diritto”. Con questa motivazione sono stati arrestati a Rio de Janeiro due ex poliziotti ritenuti esecutori materiali dell’omicidio della consigliera comunale del Partito Socialismo e Libertà e del suo autista Anderson Gomes di cui ricorre giovedì il tragico anniversario. Si tratta del sergente della Polizia militare in pensione Ronnie Lessa, di 48 anni indicato come l’uomo che ha aperto il fuoco sull’automobile di Marielle con una mitragliatrice e dell’ex agente Elcio Vieira de Queiroz, che avrebbe guidato l’auto.

L’ordine di arresto è partito dal giudice sostituto del quarto processo Gustavo Kalil su denuncia dei procuratori Simone Sibilio e Leticia Emile, che hanno spiegato come l’uccisione di Marielle sia “stata pianificata meticolosamente nei tre mesi precedenti”. Oltre agli arresti, l’operazione aveva l’obiettivo di eseguire perquisizioni e sequestri negli indirizzi degli imputati per sequestrare documenti, telefoni cellulari, notebook, computer, armi, accessori, munizioni e altri oggetti. Lessa e Elcio sono stati denunciati anche per il tentato omicidio di Fernanda Chaves, assistente della consigliera che è sopravvissuta all’attacco. L’operazione – chiamata Buraco do Lume, in riferimento al centro omonimo, a Rua São José, in cui Marielle incontrava i cittadini per parlare delle misure adottate durante il suo mandato e dove ha anche dato vita al progetto Lume Feminista. I pm hanno richiesto per Lessa, oltre che la sospensione della retribuzione e il ritiro delle armi da fuoco, anche il pagamento del risarcimento per le vittime e una pensione per il figlio di Anderson fino al compimento dei 24 anni.

Boeing 737 Max vietato in tutta Europa

Il Boeing 737 Max ormai è una specie di fantasma dei cieli. A tre giorni dalla sciagura in Etiopia (157 vittime nello schianto, tra cui 8 italiane), il velivolo più richiesto del momento – 8100 esemplari ordinati nel mondo – è stato “vietato” in tutta Europa. Lo ha deciso ieri “come misura di precauzione”, l’Agenzia europea per la sicurezza aerea (Easa), che ha stabilito di “sospendere tutte le operazioni di volo di tutti gli aerei Boeing dei modelli 737-8 Max e 737-9 Max”. Decisione che avevano preso già nel primo pomeriggio il Regno Unito, la Francia, la Germania.

Anche l’Italia si era accodata, dalle 21 di ieri sera. Nel nostro paese la flotta di Air Italy dispone di 3 Boeing 737 Max, tutti “bloccati”: “Gli aeromobili presenti nella nostra flotta sono sempre pienamente conformi con le istruzioni delle autorità di regolamentazione e con le procedure operative della casa costruttrice” la nota della compagnia diffusa in serata.

Ma è stata una reazione che si è man mano diffusa in tutto il mondo, dall’Oman all’Australia, dalla Malesia alla Corea del Sud. Boeing anche ieri ha subito un forte colpo in borsa. A Wall Street – dopo il tonfo di lunedì – il titolo ha perso ancora il 7%.

Sempre ieri la società ha affermato che procederà ad un aggiornamento del software dell’intera flotta dei 737 Max 8. L’annuncio poche ore dopo che Fedaral Aviation Administration statunitense ha comunicato che era intenzionata a chiedere alcuni cambiamenti riguardanti l’aereo in questione entro aprile.

Proprio un problema di funzionamento del software di protezione dallo stallo (un sistema che può abbassare automaticamente il muso del velivolo se i dati dovessero indicare un rischio appunto di stallo) è stato indicato come possibile causa dell’incidente di domenica.

Mentre anche il presidente americano Donald Trump non ha mancato di dire la sua. Su Twitter ha spiegato come “gli aeroplani stanno diventando fin troppo complessi da far volare”, una “complessità che crea pericolo”. “Non sono più necessari i piloti ma piuttosto gli informatici del Mit. Io non voglio che Albert Einstein sia il mio pilota. Io voglio che a grandi professionisti del volo sia consentito di prendere il controllo dell’aereo facilmente e rapidamente!”, ha aggiunto, invocando “le cose vecchie e semplici”.

Brexit ko: l’accordo è May Lei: “Ora votate il no deal”

Con una maggioranza di 149 no – 242 Si, 391 No – il Parlamento britannico ha bocciato ieri per la seconda volta l’accordo concluso dal governo con l’Ue lo scorso dicembre. Decisivo il no dei 10 deputati del Dup, mentre i falchi conservatori si sono spaccati. Con una opposizione così ampia, sembra tramontata l’ipotesi di un terzo voto sull’accordo prima del summit europeo del 21 marzo. E sulle alternative è nebbia fitta.

Per qualche ora, ieri mattina, era parso che gli ultimissimi sviluppi potessero ottenere il supporto dei falchi Brexiteers e degli unionisti nordirlandesi, che da mesi chiedevano l’eliminazione dall’accordo di divorzio dalla Ue della clausola sulla backstop irlandese o garanzie legali sul fatto che il Regno Unito potesse uscirne unilateralmente. Dal meeting di emergenza con Jean-Claude Juncker a Strasburgo, lunedì notte, la May aveva riportato rassicurazioni “legalmente vincolanti”. Ma il parere dell’Avvocato Generale dello Stato Geoffrey Cox, pubblicato in tarda mattinata, ha gelato le speranza di sbloccare l’impasse. Per Cox i nuovi accordi “riducono il rischio che il Regno possa essere trattenuto indefinitamente e involontariamente nella backstop”, ma il rischio legale che questo accada “resta invariato” nel caso di “differenze irreconciliabili” fra Londra e Bruxelles nelle relazioni future. Insomma, dal punto di vista legale non ci sono garanzie assolute.

Il punto è, ovviamente, politico: l’Ue aveva gettato alla May un salvagente concreto. Il Parlamento britannico ha deciso di non utilizzarlo. “La politica è pragmatismo. Non rischiate di far del meglio il nemico del buono” aveva ammonito la May ieri pomeriggio durante l’ultima, appassionata difesa del suo piano alla Camera dei Comuni. Voce roca, viso tesissimo, aveva chiesto il sostegno dei parlamentari facendo appello al buon senso e ricordando il rischio di prolungare l’incertezza o di finire senza nessuna Brexit. E aveva ottenuto qualche risultato: nel pomeriggio una ventina di parlamentari conservatori avevano annunciato di aver cambiato idea e di aver deciso di sostenerla, data la serietà della posta in gioco e dei rischi in ballo. Non è bastato, e ora il paese, a soli 17 giorni da una uscita dalla Ue per cui è tragicamente impreparato, si trova in un labirinto molto intricato. Cosa succede ora? Subito dopo il voto una May provata ma ancora capace di un tono di sfida ha confermato i prossimi passi.

Oggi la Camera dei Comuni deciderà se uscire o no senza accordo: l’orientamento prevalente sempre quello di scongiurare un no deal considerato catastrofico. Domani, la decisione sulla richiesta di estensione dell’art. 50: altro tempo, da ottenere da 27 stati membri sempre più irritati dalle indecisioni britanniche. Finora i leader dell’Ue si sono mostrati aperti a concedere una breve estensione, di circa due mesi, purché vincolata ad una precisa roadmap alternativa, per esempio la virata su una soft Brexit, mentre per approvare e indire un secondo referendum servirebbero almeno sei mesi. Ma una estensione più lunga pone un grosso grattacapo politico e legale: se il Regno Unito resta nell’Unione oltre le elezioni europee di maggio deve parteciparvi. Occhi puntati su Bruxelles.

In ogni caso, come May ha ribadito poco dopo la sconfitta, per evitare di uscire a precipizio il Parlamento deve trovare una alternativa e al momento nessuna di quelle sul tavolo ha dietro una maggioranza. Sale il rischio di un no deal “accidentale”, per inerzia. O l’ipotesi, a oggi irrealistica, di una revoca dell’intero processo.

Intanto, poco dopo il voto, il capo negoziatore Ue Michel Barnier ha twittato: “La Ue ha fatto tutto il possibile per agevolare la ratifica dell’accordo di divorzio. L’impasse può essere risolta solo nel Regno Unito. I nostri preparativi per un no deal sono più importanti che mai”.

Epurazioni e frustate. Carceri aperte in Iran nel 40° della Rivoluzione

L’anno del quarantesimo anniversario della Rivoluzione islamica in Iran verrà probabilmente ricordato come uno dei più duri soprattutto per le cittadine che aspirano alla libertà. Quando il regime teocratico iraniano è in difficoltà apre le porte del famigerato carcere di Evin. Ma non per far uscire i dissidenti, bensì per imprigionarne di nuovi o per riportare dietro le sbarre i vecchi. Lo dimostra la durissima e ingiusta condanna a 33 anni di carcere e 148 frustate nei confronti dell’attivista e avvocata premio Sacharov Nasrin Sotoudeh, 55 anni, madre di due bambini, l’unica tra le attiviste a non aver lasciato la repubblica islamica dopo aver già scontato 3 anni di carcere dal 2011 al 2014.

L’altro metodo usato dalla Guida Suprema, il grande ayatollah Ali Khamenei – successore di Khomeini – per reprimere il dissenso interno è la nomina di giudici oscurantisti. Per questo la decisione presa da Khamenei di nominare a capo della magistratura Ebrahim Raisi, colui che nel 1988 ha fatto parte della cosiddetta “Commissione della morte” responsabile di migliaia di condanne all’impiccagione ai danni degli oppositori, è un ulteriore segnale delle turbolenze scatenatesi nel paese, non solo tra semplici cittadini e la nomenklatura sciita, ma anche all’interno del clero spaccato tra riformisti e falchi. L’esempio più lampante sono state le recenti dimissioni, poi rientrate, del ministro degli Esteri, Javad Zarif, fedelissimo del presidente progressista Rohani e, di conseguenza, inviso alla Guida Suprema.

Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul Nucleare, stipulato nel 2015 grazie anche agli sforzi diplomatici di Zarif, e il rinnovo delle sanzioni contro Teheran costituiscono solo una parte dei problemi socio-economici che la società iraniana sta vivendo e che l’anno scorso hanno portato alla prima serrata del gran bazar di Teheran, cuore pulsante dell’economia iraniana, da quando lo scià venne defenestrato. Il tasso di disoccupazione altissimo, la svalutazione monstre della valuta, l’inflazione a doppia cifra, il sistema bancario fragile e opaco, condito con la corruzione dilagante dell’ampio entourage di Khamenei protetto dai pasdaran, dal 2017 hanno portato, a intervalli sempre più ravvicinati, nelle strade delle principali città migliaia di persone esasperate. Il regime, anziché tentare di dialogare, però ha risposto reprimendo ancora più violentemente del solito le manifestazioni. “La condanna della signora Sotoudeh è terribile, persino per un paese dove il dissenso è sempre stato bloccato in modo crudele”, commenta l’organizzazione Iran Human Rights. Secondo l’Ong negli ultimi due anni c’è stato un aumento esponenziale degli arresti di coloro che provano a difendere la libertà di critica. La sproporzionata condanna dell’avvocata è la conferma che il regime vuole mettere a tacere la società civile. Anche Amnesty International ha commentato con toni assai preoccupati “una sentenza vergognosa arrivata al termine di un processo irregolare”.

A diffondere la notizia della condanna emessa nel giugno scorso è stato il marito della donna, Reza Khandan, con un post su Facebook. L’uomo a sua volta è stato condannato a gennaio a 5 anni per aver cospirato contro la sicurezza nazionale e a un anno per propaganda anti-governativa, assieme a un altro attivista, Farhad Meisami. Le accuse nei confronti dell’attivista iraniana vanno dalla “collusione contro la sicurezza nazionale” alla “propaganda contro lo Stato”, dall’“istigazione alla corruzione e alla prostituzione” e ancora alle “apparizioni in pubblico senza hijab”. A scatenare la furia degli ayatollah contro l’avvocata è stato il suo impegno nella difesa delle donne arrestate per essersi scoperte il capo in luoghi pubblici e per aver criticato il nuovo codice penale che consente solo a un ristretto numero di avvocati di rappresentare imputati di crimini contro la sicurezza nazionale.

Ieri è stato condannato anche un cittadino americano, Michael White, veterano della Marina statunitense, per un reato che il giudice della città di Mashad non ha rivelato. Il veterano si trovava in Iran per fare visita alla fidanzata. Si tratta del primo americano finito in carcere in Iran da quando Donald Trump è diventato presidente. Nei prossimi mesi, quando le conseguenze delle sanzioni economiche statunitensi si saranno fatte più dolorose per la popolazione, è probabile che altri americani finiranno dietro le sbarre iraniane come forma di ritorsione. Vale la pena ricordare il monito del ministro Zarif quando tentò di dimettersi: “Le battaglie tra partiti e fazioni in Iran sono un ‘veleno mortale’ per la politica estera”.

Intesa governo-Regioni, i navigator diventano degli assistenti tecnici

Più che i numeri dimezzati, è un’altra la vera novità dell’accordo tra governo e Regioni sul reddito di cittadinanza: quelli che finora abbiamo chiamato navigator in realtà non faranno davvero i navigator. In altre parole, gli operatori che stanno per essere assunti dall’Anpal Servizi – che saranno 3 mila e non più 6 mila – dovranno limitarsi a dare un aiuto tecnico alle Regioni stando nel back office. A differenza delle intenzioni iniziali, non potranno invece seguire con contatto diretto i disoccupati nella ricerca del lavoro né orientarli o suggerire corsi di formazione.

Questo compito sarà un’esclusiva dei dipendenti regionali dei centri per l’impiego. Queste strutture saranno rinforzate con un piano di reclutamenti, che avverrà con procedure più facili, e prevede l’ingresso di 4 mila nuovi addetti a tempo indeterminato e 1.600 a tempo determinato. Queste quantità potrebbero anche crescere, perché la riduzione delle assunzioni dell’Anpal Servizi fa risparmiare parte dei fondi già stanziati. Ricapitolando: nella prima fase saranno assunte almeno 8.600 persone. Cioè i 3 mila assistenti dell’Anpal Servizi, più i 5.600 delle Regioni che saranno i veri navigator. Con i soldi avanzati, ogni Regione potrà scegliere che fare: se fare altre assunzioni a tempo determinato in aggiunta a quelle previste o pagare altri servizi per far funzionare il reddito di cittadinanza. Nel 2021 saranno stabilizzati i 1.600 (e gli eventuali aggiunti) a tempo determinato e ci sarà un nuovo concorso per altri posti stabili. A questo potranno partecipare i 3 mila “ex navigator” dell’Anpal Servizi, senza però alcuna certezza di superarlo. In tre anni, il numero totale dei nuovi professionisti al servizio dei centri per l’impiego sarà 11.600. Alla fine, insomma, non si tratta di un taglio ma di uno spostamento dal centro ai territori. Il governo voleva guidare la nave ma alla fine è stato costretto a lasciare il timone in mano alle Regioni. Il progetto originario di Luigi Di Maio era gestire direttamente le politiche attive del lavoro da destinare ai percettori del reddito di cittadinanza, immettendo un contingente di 6 mila navigator nella società pubblica posta sotto il controllo dell’agenzia Anpal, quindi del ministero del Lavoro. Il problema è che la materia è affidata dalla Costituzione alle Regioni. Quindi queste ultime hanno fin da subito rivendicato questa competenza e alla fine hanno vinto il braccio di ferro. La macchina che dovrà accompagnare i beneficiari del reddito alla ricerca del lavoro sarà di fatto nelle loro mani. L’organizzazione sarà decisa con un piano da approvare in conferenza Stato-Regioni attraverso un’intesa forte. Nessuna decisione potrà dunque essere presa senza il parere favorevole delle Regioni.

La distorsione politica dell’intesa con Pechino

La possibilità che l’Italia firmi un Memorandum of Understanding (MoU) con la Cina nel corso di una prossima (e prima) visita del presidente cinese Xi a Roma il 21 marzo ha scompigliato le cancellerie di mezza Europa, Bruxelles e Washington, sin dal suo primo annuncio lo scorso ottobre. Paese fondatore dell’Unione e tuttora tra i pilastri dell’Europa unita, nonché membro fondatore della Nato, l’Italia sarebbe il primo paese del G7 a firmare un documento d’intesa con Pechino. Sin dal suo annuncio, la ventilata disponibilità dell’Italia ha fatto inalberare sia Washington, per i timori concreti di un’ingerenza cinese in settori strategici per la sicurezza (come la tecnologia 5G, le infrastrutture e le reti in cui la Cina chiede una maggior presenza) e per le conseguenze inevitabili che tale ingerenza avrebbe sul ruolo dell’Italia nell’alleanza Nord-Atlantica, sia Bruxelles, che da tempo cerca di costruire una posizione condivisa in Europa sul futuro delle relazioni economiche con Pechino.

I motivi di tanto scompiglio sono numerosi. Innanzitutto, la bozza del testo, dopo settimane di tentativi di ottenerne l’accesso, è stata data alla stampa e divulgata davvero soltanto ieri, a meno di 10 giorni dalla firma, ostacolando quindi un’analisi dei contenuti e un confronto con gli altri MoU firmati dalla Cina (123 in totale con 105 paesi, secondo l’agenzia di Stato Xinhua) e con i comunicati o dichiarazioni condivise, come per esempio quella con la Francia. Da una prima e rapidissima analisi della bozza in prospettiva comparata con gli altri, ci sono differenze che sembrano affatto marginali. Alcune sono differenze apparentemente sottili di espressione che sottendono significative differenze nella portata dell’influenza che tale documento potrà esercitare. Per esempio, per quanto concerne le controversie nel framework del MoU con l’Italia, vale sempre il principio degli incontri amichevoli tra le due parti? Nel testo si parla di dialogo amichevole con incontri “diretti”.

Come si collocano i tribunali della Bri (Belt and Road Initiative) in questo contesto? In altri casi, invece, ci sono evidenti differenze che mostrano l’intenzione di stabilire un’intesa più stretta. Insomma, secondo Chris Devonshire-Ellis, fondatore di Dezan Shira, il “MoU sembra largamente innocuo, ma contiene i semi di quello che potrebbe essere usato in futuro come strumento diplomatico nella forma di un appiglio a presunte intese già raggiunte sui temi inclusi nel documento”. E se l’interpretazione dei contenuti del documento è tolta dalla sfera di competenza dei tribunali internazionali, ma deve avvenire in un contesto amichevole di consultazioni dirette, è evidente il rischio di divergenze interpretative orchestrate per sollevare potenziali incidenti diplomatici.

Per quanto riguarda i contenuti in merito agli ambiti di cooperazione, la bozza conferma l’intenzione di includere nella cooperazione bilaterale alcuni settori strategici, come trasporti, infrastrutture, logistica, ambiente e finanza. Ma non solo. Balzano all’occhio soprattutto delle espressioni apparentemente innocue e innocenti, come per esempio, tra gli obiettivi del MoU, un avanzamento delle relazioni politiche tra i due paesi firmatari. A poco sono servite e ne risultano peraltro evidentemente smentite le ripetute rassicurazioni, reiterate fino a un paio di giorni fa, del sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Michele Geraci, sul contenuto meramente commerciale ed economico del documento.

Infine, come tutti gli altri MoU firmati dalla Cina, gli ambiti di cooperazione sono gli stessi 5 che costituiscono i deliverables ufficiali della Bri, vale a dire: coordinamento delle politiche, connettività e infrastrutture, libero scambio, integrazione finanziaria e scambi culturali. Al di là dell’aura apparentemente romantica di quella che i cinesi abilmente chiamano “iniziativa”, la Belt and Road Initiative (Bri) che infatti in Italia viene continuamente chiamata “nuova via della seta”, come a volerne sottolineare l’aspetto intrinsecamente benefico, essa in realtà è un progetto di sviluppo interno e internazionale con importanti connotazioni strategiche. Il 24 ottobre 2017 il perseguimento della Bri è stato inserito nella Costituzione cinese, che coincide con la Costituzione del Pcc. La Bri è oggi un obiettivo strategico di Stato, non un’iniziativa economica e commerciale.

Geraci ha dichiarato che questo MoU sorprenderà tutti perché alzerà gli standard richiesti nella cooperazione con la Cina. A guardare il testo, non si vede traccia di un cambio di stile o di format. E nemmeno di trasparenza. Il tentativo di convincere il paese è le aziende che sono alla ricerca di opportunità di affari e di mercati dinamici, che questo MoU servirà ad aumentare l’export italiano in Cina e gli investimenti cinesi in Italia, non solo è pericolosamente riduttivo, ma anche pericolosamente distorto. Gli altri grandi esportatori europei , di cui si lamenta la maggior forza economica e commerciale in Cina, non hanno firmato MoU, ma guidato e sostenuto cordate e missioni di imprese per firmare contratti e accordi concreti. La richiesta cinese e il forte appoggio dell’attuale governo italiano costituiscono una mossa fortemente divisiva per l’Italia in Europa e per l’Italia nella sua collocazione atlantica. Il MoU tra Italia e Cina è destinato indubbiamente a sigillare il ruolo strategico dell’Italia come ponte strategico della Cina in Europa, e non invece come ponte tra Ue e Cina. Sperare che almeno intensifichi il commercio e gli investimenti non basta a compensare le remore di un documento le cui conseguenze politiche non riusciamo ora nemmeno a immaginare.

*Co-direttrice dell’Osservatorio Asia presso l’Ispi

Il Sole 24 Ore, cda delibera l’azione di responsabilità contro gli ex vertici

Il consiglio di amministrazione del Sole 24 ore ha deliberato all’unanimità di sottoporre alla prossima assemblea dei soci l’azione di responsabilità nei confronti dell’ex presidente Benito Benedini, l’ex amministratore delegato Donatella Treu e l’ex direttore responsabile, Roberto. Le motivazioni saranno contenute nella “relazione illustrativa” in vista dell’assemblea dei soci del prossimo 30 aprile, quando gli azionisti potranno esprimersi sull’azione contro gli ex vertici del gruppo editoriale. Il consiglio ha deliberato inoltre “all’unanimità” di inviare una “lettera interruttiva” della prescrizione a Kpmg, la società incaricata della revisione legale dei conti de Il Sole 24 Ore Spa fino al bilancio al 31 dicembre 2015. I reati contestati sono false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo. Sul gruppo pende anche una richiesta di sanzioni amministrative formulata a Consob da parte dell’Ufficio competente della stessa Commissione, con multa possibile per l’azienda di 140 mila euro, oltre all’obbligo di rispondere in solido per le sanzioni chieste per i suoi ex vertici in caso di incapienza. Nelle scorse settimane aveva lasciato il cda un consigliere di lungo corso, il presidente di Bnl Luigi Abete, motivando la sua uscita con sopraggiunte incompatibilità di poltrone. “Ho dovuto lasciare il Sole 24 Ore, che come avete visto nei giorni scorsi ha chiuso dei conti riportati in equilibrio. Quindi lo faccio in modo più tranquillo”, ha dichiarato l’altro ieri Abete, scagliandosi contro presunte “attenzioni più o meno morbose” nei confronti del gruppo editoriale.

Un “quasi Agnelli” cresciuto all’ombra del Lingotto

I signorotti locali vivono all’ombra del conte o del marchese. Quando quello emigra, per loro iniziano i guai. Roberto Ginatta, nato a Torino nel 1947, potrebbe essere definito un “quasi Agnelli”. Anzi, suo figlio lo hanno proprio chiamato così.

È successo in occasione del processo per l’inchiesta “Tacco 12”, relativa a un giro di prostitute minorenni in cui era finito Mario Ginatta, figlio trentenne di Roberto. Nelle intercettazioni dell’inchiesta si sente una delle giovani rivolgersi a lui in questo modo: “Amo’, ascolta: allora io praticamente vado da questo tipo che è… quasi Agnelli… (non coinvolti nell’inchiesta, ndr) e mi dà dei soldi”, dice la 17enne a un’amica in una telefonata intercettata e riportata dal Corriere della Sera.

E “quasi Agnelli” Ginatta lo è stato davvero, visto che nella sua vita precedente, prima di dimostrare le nuove “abilità” con la Blutec, si era ritagliato una attività da industriale cittadino tutta all’ombra del gruppo Fiat.

La sua impresa, la Stola, fondata nel 1919, poi assorbita in Bluetec, era un marchio nella progettazione dei veicoli prima di essere acquisita dalla Rgz di Ginatta e di Giuliano Zucco.

L’attuale presidente di Blutec, agli arresti domiciliari per aver intascato i fondi pubblici destinati a riqualificare lo stabilimento di Termini Imerese, aveva portato la sua esperienza nello sviluppo e produzione di prototipi oltre a 1500 addetti della Rgz. Aveva tre sedi in Europa, Rivoli, Cinisello Balsamo e Parigi e poi un polo in Brasile, a Belo Horizonte. In piena orbita Fiat, quindi, così come le altre società Rgz: la Magneti Marelli after market, la Dayco Fuel and Fluid, la Vagnone e Boeri.

Quando Ginatta si è buttato nell’impresa di Termini Imerese sembrava che questa relazione privilegiata con i “signori” di Torino fosse segno di affidabilità e garanzia. Del resto, le due famiglie vivono quasi in simbiosi a riprova di una modalità anche familiare di gestire gli affari.

Oggi Ginatta è amministratore unico della Investimenti Industriali Spa, capitale sociale di 3,6 milioni, in cui l’altro azionista al 50 per cento è la Lemsa Spa, 20 milioni di capitale divisi quasi a metà tra Andrea Agnelli (51%) e la sorella Anna (49%). Investimenti Industriali è una società di partecipazioni, investe soprattutto in società immobiliari, ma 807 mila euro li ha messi nella Nobis Assicurazioni di cui consigliere è ancora Ginatta. L’azionista principale della piccola compagnia – 180 milioni di premi – è invece Alberto Di Tanno che presiede il gruppo Intergea che, a sua volta, si occupa di “distribuzione automotive”, concessionarie per auto. E sempre lì torniamo.

La partecipazione più rilevante di Investimenti Industriali, oltre 2 milioni, è in Bravo Invest partecipata insieme alla finanziaria Aysad con sede in Arabia Saudita, a Gedda, di proprietà dello sceicco Ahmed Abdullah Al Sayed. L’amministratore è Francesco Roncaglio che oltre ad amministrare la Lamse degli Agnelli siede anche nel consiglio della Nobis assicurazioni accanto a Ginatta.

Ma, come nelle relazioni feudali, gli affari si uniscono ai piaceri e così troviamo Ginatta e Agnelli (Andrea) soci anche nel Royal Park Estate che gestisce i campi da golf Roveri. Qui, oltre ad Andrea, c’è anche la madre Allegra e nel consiglio di amministrazione siede il figlio di Ginatta, Matteo. Non Mario che, oltre a farsi conoscere per quella avventura di prostituzione minorile e per una storia di puma tenuti in giardino, è stato socio nella LA holding di Lapo Elkann, cugino di Andrea come è noto, con una quota prima dell’11% poi ridotta a meno del 5%. Due “quasi Agnelli” che alla fine non si sono molto piaciuti.