Una farsa che dura dal 2010, con un finale scritto da tempo. “Non lasceremo gli operai soli”, promette il vicepremier Luigi Di Maio. Eppure sono 9 anni che i 700 dipendenti, 1.000 compreso l’indotto, vengono presi in giro con la consueta girandola di tavoli pluriennali. L’arresto del patron di Blutec, Roberto Ginatta, e dell’ad del gruppo, Cosimo di Cursi era nell’aria. Sono solo gli ultimi avventurieri piovuti sullo stabilimento siciliano abbandonato nel 2011 dalla Fiat.
Sul piano dei generosi aiuti pubblici legati alla ripartenza dell’impianto (350 milioni, 94 disponibili subito) si era fiondata subito la Cape Rev di Simone Cimino, in seguito travolto da guai giudiziari. Poi Gianmario Rossignolo, patron della De Tomaso, fallita nel 2012, e la Dr Motor di Massimo Di Risio, che promise di investire 150 milioni. Nulla è successo. Poi sono arrivati i brasiliani di Grifa, spinti dal ministero dello Sviluppo del governo Renzi fino all’ultimo, quando il Fatto rivelò che non esistevano le garanzie bancarie promesse. Il 22 dicembre 2014, dieci giorni prima che scattassero i licenziamenti, i sindacati appresero a sorpresa dal viceministro Claudio De Vincenti che arrivava la Blutec di Ginatta, spinto dalla Fiat.
Cinque anni dopo è tutto fermo. Blutec ha sfornato più piani industriali e promesse che modelli. Avrebbe dovuto produrre i motori elettrici per i furgoni Doblò (fatti da Fca in Turchia) e per nuovi veicoli a tre ruote delle Poste, e altri componenti (con un peso degli ordinativi Fca attorno al 60% del totale). Non è partito quasi nulla, sono stati riassorbiti in azienda finora in 130, mentre 570 sono fuori, così come quelli dell’indotto, privi di ammortizzatori sociali, che per gli operai diretti scadranno a fine anno.
Oggi si rischia la beffa peggiore. I 21 milioni anticipati da Invitalia, la società del Tesoro per gli investimenti, a Blutec sono garantiti da un’ipoteca sullo stabilimento regalatogli dalla Fiat, che così ritornerebbe alla Regione Sicilia, che l’aveva costruito e donato all’azienda degli Agnelli nel 1970. Dopo aver ottenuto miliardi dallo Stato, Fiat (oggi Fca), a metà dei Duemila ha dirottato in Serbia la produzione dei modelli destinati alla Sicilia da un accordo firmato ai tempi del governo Prodi. A inizio 2009 ha strappato l’intesa con cui si era impegnata a produrre a Termini la nuova Lancia Y.
Tutti sanno a Torino che la Fiat ha caldeggiato l’arrivo di Ginatta – 76 anni, amico personale di Umberto Agnelli e socio di Andrea Agnelli – desiderosa di uscire da una situazione difficile e grazie a una posizione di forza. Il gruppo, racchiuso nella Metec (1.170 dipendenti tra Asti, Torino, Tito scalo, Val di Sangro, stabilimenti ieri visitati dalla Guardia di finanza), specializzato in componentistica per auto, ricava la gran parte del fatturato dal colosso controllato da casa Agnelli. A nulla sono serviti gli allarmi sulla fragilità finanziaria del nuovo acquirente avanzati ben prima che si chiudesse l’accordo. Per rilevare lo stabilimento Metec ha fuso in Blutec tutte le attività (comprese quelle del colosso di componentistica Stola in Brasile) riducendosi a semplice holding. Blutec ha chiuso il bilancio 2017 con un utile di 2,7 milioni, un fatturato di 94 e debiti per 140 milioni (dieci in più del 2016), di cui 24 con le banche (per oltre la metà in scadenza entro l’anno) e quasi 40 verso Erario ed enti di previdenza, on cui ha avviato piani di rateizzazione, specie per i contributi dei dipendenti non versati all’Inps e al fondo Cometa. Il Comune di Termini gli aveva invece chiesto 2 milioni di Imu e Tari non pagate.
Ieri il responsabile auto della Fiom, Michele De Palma, ha chiesto un incontro urgente al ministero dello Sviluppo guidato da Di Maio, che aveva visitato lo stabilimento solo un mese fa: “Sono a rischio migliaia di lavoratori in tutta Italia”. L’epilogo di un accordo che nel 2014 Matteo Renzi festeggiò con successo: “Anche questo è il Jobs act”, esultò l’ex premier.