La lunga lista di avventurieri sulla pelle di 1000 lavoratori

Una farsa che dura dal 2010, con un finale scritto da tempo. “Non lasceremo gli operai soli”, promette il vicepremier Luigi Di Maio. Eppure sono 9 anni che i 700 dipendenti, 1.000 compreso l’indotto, vengono presi in giro con la consueta girandola di tavoli pluriennali. L’arresto del patron di Blutec, Roberto Ginatta, e dell’ad del gruppo, Cosimo di Cursi era nell’aria. Sono solo gli ultimi avventurieri piovuti sullo stabilimento siciliano abbandonato nel 2011 dalla Fiat.

Sul piano dei generosi aiuti pubblici legati alla ripartenza dell’impianto (350 milioni, 94 disponibili subito) si era fiondata subito la Cape Rev di Simone Cimino, in seguito travolto da guai giudiziari. Poi Gianmario Rossignolo, patron della De Tomaso, fallita nel 2012, e la Dr Motor di Massimo Di Risio, che promise di investire 150 milioni. Nulla è successo. Poi sono arrivati i brasiliani di Grifa, spinti dal ministero dello Sviluppo del governo Renzi fino all’ultimo, quando il Fatto rivelò che non esistevano le garanzie bancarie promesse. Il 22 dicembre 2014, dieci giorni prima che scattassero i licenziamenti, i sindacati appresero a sorpresa dal viceministro Claudio De Vincenti che arrivava la Blutec di Ginatta, spinto dalla Fiat.

Cinque anni dopo è tutto fermo. Blutec ha sfornato più piani industriali e promesse che modelli. Avrebbe dovuto produrre i motori elettrici per i furgoni Doblò (fatti da Fca in Turchia) e per nuovi veicoli a tre ruote delle Poste, e altri componenti (con un peso degli ordinativi Fca attorno al 60% del totale). Non è partito quasi nulla, sono stati riassorbiti in azienda finora in 130, mentre 570 sono fuori, così come quelli dell’indotto, privi di ammortizzatori sociali, che per gli operai diretti scadranno a fine anno.

Oggi si rischia la beffa peggiore. I 21 milioni anticipati da Invitalia, la società del Tesoro per gli investimenti, a Blutec sono garantiti da un’ipoteca sullo stabilimento regalatogli dalla Fiat, che così ritornerebbe alla Regione Sicilia, che l’aveva costruito e donato all’azienda degli Agnelli nel 1970. Dopo aver ottenuto miliardi dallo Stato, Fiat (oggi Fca), a metà dei Duemila ha dirottato in Serbia la produzione dei modelli destinati alla Sicilia da un accordo firmato ai tempi del governo Prodi. A inizio 2009 ha strappato l’intesa con cui si era impegnata a produrre a Termini la nuova Lancia Y.

Tutti sanno a Torino che la Fiat ha caldeggiato l’arrivo di Ginatta – 76 anni, amico personale di Umberto Agnelli e socio di Andrea Agnelli – desiderosa di uscire da una situazione difficile e grazie a una posizione di forza. Il gruppo, racchiuso nella Metec (1.170 dipendenti tra Asti, Torino, Tito scalo, Val di Sangro, stabilimenti ieri visitati dalla Guardia di finanza), specializzato in componentistica per auto, ricava la gran parte del fatturato dal colosso controllato da casa Agnelli. A nulla sono serviti gli allarmi sulla fragilità finanziaria del nuovo acquirente avanzati ben prima che si chiudesse l’accordo. Per rilevare lo stabilimento Metec ha fuso in Blutec tutte le attività (comprese quelle del colosso di componentistica Stola in Brasile) riducendosi a semplice holding. Blutec ha chiuso il bilancio 2017 con un utile di 2,7 milioni, un fatturato di 94 e debiti per 140 milioni (dieci in più del 2016), di cui 24 con le banche (per oltre la metà in scadenza entro l’anno) e quasi 40 verso Erario ed enti di previdenza, on cui ha avviato piani di rateizzazione, specie per i contributi dei dipendenti non versati all’Inps e al fondo Cometa. Il Comune di Termini gli aveva invece chiesto 2 milioni di Imu e Tari non pagate.

Ieri il responsabile auto della Fiom, Michele De Palma, ha chiesto un incontro urgente al ministero dello Sviluppo guidato da Di Maio, che aveva visitato lo stabilimento solo un mese fa: “Sono a rischio migliaia di lavoratori in tutta Italia”. L’epilogo di un accordo che nel 2014 Matteo Renzi festeggiò con successo: “Anche questo è il Jobs act”, esultò l’ex premier.

Arrestati i “salvatori” di Termini: distratti 16 milioni di fondi statali

Doveva finanziare il rilancio del polo industriale di Termini Imerese abbandonato dalla Fiat nel 2011, restituendo al lavoro 700 operai in cassa integrazione, ma gli amministratori di Blutec avevano tutt’altri obiettivi: 8 milioni di euro del finanziamento di Invitalia, società del Tesoro specializzata in investimenti, erano stati investiti in titoli esteri e quasi un milione e mezzo era finito nelle casse dell’azienda dei figli del titolare, che ne avevano fatturato solo 500 mila. E poi 11 milioni di euro di spese non ritenute ammissibili, quasi 2 milioni non rendicontati, oltre 1 milione e 200 mila euro spesi per un software inesistente, e quasi 2 milioni e 400 mila euro mai utilizzati né restituiti: in totale, oltre 16 milioni di euro sottratti all’eterno sogno industriale di Termini Imerese e scoperti dalla Guardia di Finanza di Palermo che ha spedito agli arresti domiciliari presidente e amministratore delegato di Blutec, l’azienda dell’indotto Fiat (oggi Fca) che nel dicembre 2014 si era intestata il rilancio del polo industriale garantendo l’occupazione per 400 operai dell’indotto.

I destinatari delle misure sono il presidente del cda, Roberto Ginatta, e l’amministratore delegato Cosimo Di Cursi, accusati di malversazione ai danni dello Stato per aver dirottato ad altri fini i 16 milioni pubblici destinati allo sviluppo dell’impianto. Per loro, oltre agli arresti, è scattata anche l’interdizione all’esercizio di “imprese e uffici direttivi’’: “Come emerso dalle indagini – ha scritto la Procura – Ginatta e Di Cursi potrebbero avvalersi di svariati prestanomi per la prosecuzione della loro attività di impresa eludendo facilmente la misura interdittiva richiesta’’.

L’azienda è stata sequestrata dalla Guardia di Finanza con l’apposizione dei sigilli alla sede di Rivoli, in provincia di Torino e perquisizioni sono state compiute in tutti gli stabilimenti della controllante Metec. Ginatta è stato arrestato in Italia, Di Cursi sta rientrando dall’estero: sono accusati di avere “girato” nel primo semestre 2017, 8 milioni di euro in un conto corrente della Credit Suisse di Milano investendoli in quote del valore medio di circa 100 mila euro in titoli esteri e, dopo il disinvestimento, di avere trasferito quei soldi, nel novembre 2017, a favore di Metec (3.515.000 euro) e di Bluetec (4.749.949 euro), dei quali 2.100.000 sono stati dirottati ulteriormente a Metec con la causale del “rimborso finanziamento soci’’. E quasi un milione di euro sarebbe finito in un’azienda dei figli di Ginatta: in favore della Due G holding srl, “rappresentata da Giovanna Desiderato – scrive il gip Stefania Galli – ma nella proprietà dei figli di Roberto Ginatta, Mario e Matteo Orlando’’. “In un periodo successivo all’erogazione del finanziamento – si legge ancora – dal 4 dicembre 2016 al 31 dicembre 2017, sono stati movimentati da Bluetec 1.437.000 di euro a fronte di un fatturato rendicontato di 500 mila euro’’, e cioè quasi 1 milione “non riconducibile ad alcuna operazione commerciale fatturata’’.

Durante la perquisizione a Termini Imerese, gli investigatori hanno inoltre scoperto un software diverso (la versione precedente) da quello fatturato: “Il Catia V6 acquistato dalla Cad Solution per 40 account e l’Icem Surf, acquistato per 13 account, benché rendicontati per complessivi 1.255.978 euro, risultavano sconosciuti – scrive il gip – e mai adoperati dai dipendenti dello stabilimento di Termini Imerese, i quali non erano neppure formati al loro utilizzo’’.

Individuata alla fine del 2014 per rilanciare il polo industriale di Termini Imerese occupato dalla Fiat, la Blutec doveva produrre componenti per l’auto e, in un secondo momento, anche auto ibride, grazie all’intervento di Invitalia, che doveva finanziare un piano industriale per un totale di 67 milioni, versando come anticipo a dicembre 2016 i primi 21 milioni agli amministratori. Sette mesi dopo, in ritardo di un mese, Blutec aveva rendicontato a Invitalia poco più di 3 milioni di euro, ottenendo comunque la proroga del termine massimo di realizzazione del progetto al 30 giugno 2018. E solo dopo la revoca del finanziamento, il 26 gennaio 2018, rendicontava a marzo l’importo di 14 milioni e mezzo, inferiore a quello dovuto (18 milioni). Sulla base delle fatture emesse, Invitalia giudicava ammissibile spese per soli 2 milioni di euro e il 10 aprile successivo revocava il finanziamento. Per i magistrati la sottrazione dei fondi pubblici destinati alla riqualificazione industriale del territorio siciliano è frutto di un “progetto preordinato”, e hanno citato le parole di un creditore di Ginatta, Giorgio Bocca: “Mi diceva (Ginatta, ndr) che non si sognava di investire tutti quei soldi nello stabilimento di Termini Imerese”. Adesso il futuro di Blutec è affidato a un amministratore giudiziario nominato dal gip, il commercialista palermitano Giuseppe Glorioso.

Riuniti in assemblea permanente davanti allo stabilimento di Termini, ieri i lavoratori in serata hanno forzato i cancelli e sono entrati nello stabilimento assieme ai rappresentanti sindacali di Fim, Fiom e Uilm.

La diserzione della classe industriale

Nove anni fa, quasi negli stessi giorni, la Fiat annunciò la chiusura della fabbrica siciliana di Termini Imerese e l’Alcoa, colosso americano dell’alluminio, fece sapere che si voleva sbarazzare dello stabilimento sardo di Portovesme. Due storie drammaticamente parallele, di cui ci occupiamo in questo numero del Fatto Economico, che si distinguono per un dettaglio tragicamente irrilevante: in Sicilia chiudeva i battenti la protagonista assoluta dell’industria privata nazionale, nel Sulcis venivano al pettine i nodi storici di quelle che furono le partecipazioni statali.

Cromosomi diversi, identica malattia. Da nove anni sei governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) non trovano il modo di far ripartire le due fabbriche nel silenzio della Confindustria di Vincenzo Boccia (assai loquace solo quando si parla di Tav). Da nove anni è sospesa la vita di migliaia di famiglie che dipendevano dalla Fiat e dall’Alcoa, imputati in attesa di giudizio in un processo che non prevede la prescrizione. Qualcuno dice, a bassa voce, che l’ottimismo della volontà di politici e sindacalisti soccombe fatalmente di fronte al pessimismo della ragione di chi ritiene che a Termini e Portovesme non ci siano le condizioni per fare industria alle condizioni date dal mercato globale. E questo è l’inesorabile, infinito dibattito di quelli che piacciono a un Paese ormai incapace di leggere la realtà e di fare le scelte necessarie in tempi compatibili con la vita delle persone.

Ma il dato più sconfortante delle due vicende è la conferma che – in un Paese serenamente consapevole di avere un sistema politico incapace di risolvere alcunché – si è dissolta anche la borghesia industriale. Sembra non esserci più nessuno (né in fabbrica, né in banca) in grado di concepire progetti più ampi di un capannone, o comunque più ambiziosi di qualche gioiellino a conduzione familiare. E questa è la vera tragedia nazionale che non possiamo neppure illuderci di risolvere con il voto.

Crisi senza fine. Dopo 10 anni Alcoa è ancora ferma

Disperazione è salire a 20 metri d’altezza, sopra un traliccio della corrente davanti ai cancelli della fabbrica a urlare la rabbia e la delusione per quella ripartenza tanto attesa e ancora rinviata, per quelle ciminiere spente nonostante gli accordi che prevedevano a primavera il riassorbimento di 260 lavoratori e il riavvio delle produzioni di alluminio entro il 2020, ma di cui ancora non si vede l’ombra. Nel gesto estremo di un operaio ex Alcoa che due giorni fa ha messo a rischio la propria vita per veder riconosciuto il diritto al lavoro e il futuro del polo dell’alluminio a Portovesme c’è il paradigma dell’intera crisi del Sulcis. Una crisi senza fine che parte dal lontano 2009, vigente il governo Berlusconi quater con Scajola al ministero dello Sviluppo, e che dopo diverse trattative fallite, fra cui quella con Glencore, porta nel febbraio 2018 alla firma dell’accordo per la cessione dello stabilimento dall’Invitalia (che rimane proprietaria al 20% degli impianti) al gruppo svizzero Sider Alloys, in virtù del cosiddetto “Piano Calenda”, che prevede un abbattimento sul prezzo dell’energia grazie alla riduzione degli oneri di sistema e altre condizioni agevolate per le aziende energivore legate al regime di interrompibilità e all’acquisto a stock di forniture energetiche dall’estero.

Il piano Calenda però rischia di saltare se il governo gialloverde non dovesse confermare le agevolazioni stabilite col bonus energia, sulle quali Sider Alloys ha sempre contato e che hanno portato l’ad della società svizzera Mannina a uscire allo scoperto sulle pagine del Corsera dopo un’infruttuosa riunione al ministero dello Sviluppo economico il 28 febbraio scorso, dove davanti al ministro Di Maio emerge la situazione di sostanziale stallo in cui versano gli impianti di Portovesme: la nuova Alcoa, denunciano i sindacati, sarebbe dovuta già ripartire col revamping (ricondizionamento, nda) degli impianti raggiungendo il pieno regime entro il 2021 con 376 occupati diretti, 70 contractors e 150 mila tonnellate di alluminio prodotte, gli stessi livelli che aveva la fabbrica al momento della chiusura nel 2012. Oggi, invece, sono rientrati a lavoro in 60 tra diretti e indiretti. “Invece non è stato nemmeno siglato l’accordo con la Chinalco, il partner cinese che avrebbe dovuto provvedere alla di ristrutturazione degli impianti, così come manca l’accordo bilaterale con Enel per la fornitura dell’energia elettrica”, spiega Roberto Forrresu, segretario Generale Fiom Cgil Sulcis.

L’ombra dell’incertezza fa paura ai sindacati, che temono che ora possa saltare il banco. “Sulla Sider Alloys, il Mise ha posto di fatto un termine tassativo: o l’azienda entro metà aprile presenta un piano industriale credibile, o salta tutta l’operazione” , dice chiaro e tondo il deputato Cinquestelle Pino Cabras, anche lui presente alla riunione in via Veneto. “Nel caso che il piano di rilancio del polo dell’alluminio non riuscisse, dobbiamo tutti prepararci a una sorta di piano B, che dovrà riprogrammare le risorse per il territorio in modo totalmente nuovo”.

“Attenzione a non fornire argomenti all’azienda per sottrarsi dagli impegni assunti, in presenza di un quadro normativo vigente costruito in anni di negoziato con l’Ue e che finalmente dà alle energivore presenti in Italia la garanzia di poter investire senza incorrere nel rischio di aiuti di stato nel settore energetico”, dice Francesco Sanna, ex deputato Pd ed estensore dell’emendamento alla legge Europea 2017 che ha introdotto la scoutistica legata alla riduzione degli oneri generali del sistema elettrico per tutte le aziende che ne hanno diritto dal primo gennaio 2018.

“I dubbi sull’attuabilità di queste disposizioni sono totalmente destituiti di fondamento. Sono norme che funzionano, chiunque può verificarlo connettendosi al sito del Csea, la vecchia cassa conguagli del sistema elettrico nazionale”, dice Sanna. “Sono migliaia in questo momento le imprese che stanno usufruendo degli sconti energetici e non c’è alcun motivo perché Sider Alloys non lo possa fare. Se anche ci fosse un problema di accesso della singola impresa a questi benefici, magari in qualità di nuovo entrante, esistono disposizioni specifiche di agevolazione all’ingresso in base ai livelli di produzione e ai consumi energetici. Insomma, i presupposti per far bene ci sono tutti, manca solo che la fabbrica inizi a produrre”.

Di piano B non vuol sentire parlare nemmeno Tore Cherchi, fino a pochi giorni fa coordinatore del Piano Sulcis nominato nella passata giunta Pigliaru. “Il piano B sottende la chiusura delle fabbriche e già a suo tempo i lavoratori si sono opposti, come è successo in Germania dove peraltro il settore alluminio è stato recuperato con successo. Solo i due contratti di sviluppo per Sider Alloys ed Eurallumiuna – dice Cherchi – valgono fra diretto e indotto 2.600 unità di lavoro fisse più 400 a contratto. Lo Stato ci mette 15 milioni di euro a fondo perduto che però generano oltre 300 milioni di investimento. Calenda può essere simpatico o antipatico, ma penso che sia interesse di qualunque governo portare a buon fine quello che ha lasciato in eredità. A proposito di piani b – prosegue – vorrei dire che più del 50% del piano Sulcis è dedicato ai nuovi settori: turismo agroalimentare, bioedilizia già in parte speso e in parte contrattualizzato per oltre 400 milioni di euro di investimenti. Il 30% è destinato a bonifiche, infrastrutturazione viaria, porti e interconnessione delle dighe come sostegno all’agricoltura”.

La Via della Seta e il dibattito pubblico in Italia: un promemoria

È meraviglioso. Il governo italiano, dopo lusinghe ultradecennali, sta per firmare un’intesa all’acqua di rose (già firmata da altri 13 Stati Ue) con la Cina che non è “un accordo internazionale”, né comporta “impegni legali e finanziari”. Diciamo che Roma e Pechino si danno conto di voler collaborare soprattutto sulla logistica per le merci: niente Tlc e lo si dice per chi, pur non lavorando alla Casa Bianca, sia preoccupato che solo gli Usa possano spiare i nostri telefoni. Ecco come se ne parlava fino al 2018: “È importante che Xi abbia confermato l’intenzione della Cina di inserire i porti italiani tra i terminali della Via della Seta” (Paolo Gentiloni); “La Via della Seta è una proposta di allargamento non solo politica, è uno strumento di cambiamento del mondo” (Romano Prodi); “L’Italia c’è e i nostri porti sono pronti per la Via della Seta” (Graziano Delrio); “C’è uno strabiliante margine di crescita dei rapporti Cina-Italia” (Matteo Renzi); “Venezia è stata scelta come terminale della Via della Seta: meno acciaio e più turisti cinesi” (Antonio Tajani); “Senza Tav la Via della Seta passerà sopra le Alpi con tanti saluti alle speranze dei nostri disoccupati” (Mino Giachino, il tizio Sì Tav). Ora, però, leggiamo che Tajani, Pd, Lega (il cui sottosegretario Geraci è il vero artefice dell’intesa) e molti giornali temono che l’Italia diventi “una colonia cinese” o che Trump si arrabbi. Ogni preoccupazione è legittima, ma un Paese il cui dibattito pubblico è ridotto a questo livello di ignoranza e malafede non ha futuro. Davvero, avete rotto il cazzo.

La torta del ponte Morandi: non c’è niente da celebrare

Breve antefatto: sui social inizia a circolare una foto che ritrae il premier Conte mentre taglia una torta a forma di ponte Morandi in occasione del primo taglio della lamiera destinata alla costruzione del nuovo viadotto nello stabilimento di Fincantieri a Valeggio sul Mincio. La torta, a detta di Fincantieri, rappresenta il logo di Fincantieri Infrastructure, il cui stabilimento si andava inaugurando. Alcuni parenti delle 43 vittime del crollo del 14 agosto e pure gli sfollati rimasti senza casa la vedono e si offendono: “Prima il plastico di Toninelli, ora la torta: c’è poco da festeggiare, una scena davvero di cattivo gusto visto che ci sono stati 43 morti, centinaia di persone che hanno perso la casa”, dice Franco Ravera, portavoce di un comitato di sfollati. “Una brutta scena perché va a toccare i sentimenti della gente che ha sofferto e che tra pochi giorni dovrà ricordare il settimo mese dalla tragedia: i politici spesso si dimenticano cosa è la sensibilità”. Paola Vicini, mamma di Mirko, una delle 43 vittime, è comprensibilmente arrabbiata: “Complimenti davvero. Preferisco non commentare, preferirei tacere davanti a cose di così cattivo gusto, si fa solo una figura migliore. Niente di nuovo, in realtà, dopo tutte le cose di cattivo gusto, le passerelle, la tragedia trasformata in show di questi mesi. Ogni volta che vediamo le immagini del ponte ci vengono i brividi, potete immaginare come ci sentiamo ora”.

In realtà no, non lo possiamo immaginare. È impossibile immedesimarsi in una perdita così tragica e violenta. E perciò – non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno di dirlo – tutte le volte che si maneggia pubblicamente la materia, bisognerebbe avere la sensibilità di comportarsi rispettando prima di tutto il dolore delle persone. Vale in generale, ma ancora di più in questo caso: si può solo provare a rimediare a danni purtroppo irrimediabili. Rispetto ai loro colleghi di qualche decennio fa, i politici di oggi non sono aiutati dalla continua esposizione mediatica: se non ci sono le telecamere delle televisioni, ci sono le videocamere dei telefonini. Proprio per questo dovrebbero essere il più misurati e cauti possibile (e vale anche per il compitissimo premier Conte). L’uscita di Danilo Toninelli con il plastico nello studio di Vespa fu uno scivolone e come regola generale i ministri dovrebbero tenersi lontani dai plastici di Porta a Porta: non fanno bene all’immagine pubblica. Di quell’esperienza si sarebbe dovuto far tesoro anche se per amor di verità nella foto della torta il premier (che difficilmente ha comportamenti sguaiati a differenza di altri colleghi di governo) non sorride né fa nulla di sguaiato tranne mettersi in posa. È evidente che i social network sono il regno di troll e imbecilli e qualunque cosa è buona per puntare il dito: però è cosa nota e sarebbe meglio non mettere il sedere davanti alle pedate, come diceva nostra nonna. E comunque c’è un tempo e un modo per tutto: non c’è bisogno che ogni minuto della giornata di un ministro sia in favore di telecamera o di selfie. Non è questo che avvicina la gente alla politica; e anzi: un atteggiamento che vorremmo definire sobrio, se si potesse ancora dopo il loden di Monti, ma insomma ci siamo capiti, ecco un modo che incarni il rispetto del ruolo, aiuterebbe i cittadini ad avere maggior considerazione delle istituzioni. Ci sarebbe anche un effetto collaterale di “autoconservazione”: basta vedere come certi esuberanti quanto sovraesposti leader si sono bruciati in fretta la carriera politica per capire che è meglio sottrarsi. Come dite? Salvini dimostra il contrario? Vedremo quanto dura e se la parabola di Matteo è destinata a replicarsi o no. Ma attenti: le crisi di rigetto sono tutt’altro che infrequenti.

Crolla il tetto del liceo? È tutta colpa di chi non vuole l’Alta velocità

Come sempre accade nelle grandi battaglie, è interessante quel che succede nelle retrovie, e le retrovie del caso Tav sono le parole, il linguaggio, l’apparato narrativo del grande dibattito nazionale: farla? Non farla? Rimandare finché si sarà finalmente inventato il teletrasporto? La questione è ormai quasi secondaria rispetto all’intrecciarsi delle narrazioni efficientiste. Ringrazio Tomaso Montanari per aver coniato, su questo giornale, il termine “sipuotismo” per dire di quella corrente di pensiero che considera possibile tutto, purché frutti qualche soldo. Lui parlava di spostare un Caravaggio di qualche chilometro – cosa considerata più remunerativa che far spostare di qualche chilometro chi vuole ammirarlo – ma il concetto è applicabile un po’ a tutto, e in primis alle famigerate grandi opere.

Se si riesce a mettere da parte le scempiaggini di chi si improvvisa ingegnere in tre minuti, magari in camerino prima di entrare in un talk show, o le menzogne dure e pure (tipo far passare il tunnel geognostico per la galleria del treno, un falso abbastanza diffuso), si vedrà che c’è una speciale curvatura negli argomenti dei “sipuotisti” che potremmo sintetizzare così: moderni contro antichi, futuro contro passato, sviluppo contro arretramento. È una retorica abbastanza efficace, variamente coniugata a seconda dell’abilità di chi la sostiene, ma insomma, la sintesi è questa. Se non vuoi il Tav la tua visione del mondo è fatta di carretti a cavalli, scarpe di cocomero e clave per cacciare le fiere dalla grotta, mentre invece se la vuoi sei un europeo moderno che compete con il mondo.

A questo punto (è una specie di regola) si tirano fuori mirabolanti cantieri cinesi dove il viadotto viene realizzato in nove minuti, o stupefacenti gesta nipponiche, tipo la strada terremotata ricostruita un’ora dopo il terremoto. Mentre qui – è il sottotesto – c’è ancora chi ferma i lavori perché è un nostalgico della peste del Seicento. Naturalmente si tratta di uno storytelling (chiedo scusa) un po’ zoppicante, ma risponde al bisogno di dividere in due, con semplicità, una faccenda non semplice, e noi-buoni-contro-loro-cattivi funziona sempre.

Naturalmente le opere bloccate non sono solo il Tav (sono più di seicento, e per i motivi più disparati), ma poi gira e rigira, si finisce lì. La prova che ciò che succede nelle retrovie, cioè il racconto all’opinione pubblica, è importante per i sipuotisti, ce la fornisce un’iniziativa dell’Associazione Costruttori italiani annunciata ieri dal Corriere. Distribuire al popolo (“davanti ai supermercati e alle stazioni della metropolitana”) dei nastri gialli con cui recintare, e dunque segnalare, le opere ferme, “le scuole fatiscenti, le voragini nell’asfalto delle strade cittadine”. Poi si scopre che tra le molte iniziative delle molte associazioni sipuotiste, il Tav è sempre ben presente come esempio di “paese bloccato”, mettendo nello stesso calderone il Tav e tutto il resto, sommando mele e pere.

In sostanza, dopo aver trasformato il gentile pubblico in due frange estreme – quelli che vogliono il bene e il progresso e i maledetti frenatori che non vogliono farci andare a Lione – ecco l’altro passo: identificare il blocco del Tav con il blocco dei lavori in generale. Si propone cioè un’equazione truccata: non vuoi il Tav, quindi sei per bloccare le opere, quindi non vuoi nemmeno riparare la buca sulla provinciale, o il tetto del liceo. Il giochetto è un po’ sporco ma, come si dice, à la guerre comme à la guerre. La battaglia di chi non ci sta si giocherà anche nel saper ribaltare questa nuova narrazione: dire chiaro e tondo che si è “moderni” e non “antichi” proprio perché si preferiscono opere utili a quelle inutili, e non viceversa, e che “bloccare” non è una categoria filosofica, ma dipende dal bloccare cosa, e quando, e perché.

Botteghe luminose, il Pd si rifà il trucco

Apprendiamo da informate e entusiastiche fonti che lo “sbaracco” dalla vecchia, centralissima sede del Pd al Nazareno promesso da Nicola Zingaretti a Che tempo che fa (e dove sennò) starebbe per avere luogo a favore di una nuova “casa” in zona Stazione Tiburtina, un ex deposito dell’Atac ricostruito tutto in vetro come un museo di arte contemporanea disegnato da qualche archistar.

Conosciamo bene il luogo, sito tra l’avveniristico hub disegnato da Paolo Desideri e gli edifici popolari di epoca fascista davanti al cinema Jolly; a sei fermate di metro B dal Colosseo, nei cui dintorni, se del caso, i dirigenti pidini più in vista dovranno farsi lasciare dalle auto blu, visto che, come ci avvisano i gazzettieri addentro, i nostri eroi arriveranno alla casa di vetro rigorosamente in metropolitana (è un lascito della reggenza Martina, che voleva un partito capace di “ripartire dalle periferie” e perciò organizzò una segreteria del Pd in una libreria di Tor Bella Monaca, con vivo disagio dei residenti e dei partecipanti, ivi giunti in sahariana e col binocolo al collo per avvistare il popolo, costretti a impostare sui navigatori un indirizzo sconosciuto alle loro mappe dell’iPhone, nell’hic sunt leones di Roma).

Chissà perché il vetro, inequivocabilmente materiale del Novecento, delle Esposizioni universali e delle vetrine dei passages parigini, sembri avveniristico, tanto da essere scelto per confezionare una leadership che si pretende nuova di zecca. Passi per chi è cresciuto col mito dei grattacieli come conquista siderale e adamantina ascesa, ma se già nel 1967 (anno de Il laureato) il futuro era “nella plastica”, oggi si sa che i grattacieli di domani saranno di legno, antisismici, ecologici, ignifughi, quindi semmai ci aveva visto giusto Veltroni quando addobbò per il neonato Pd il loft al Circo Massimo, tutto travi e soffitti e scale di legno dove si muovevano alacri giovani democratici che poi sarebbero diventati i galoppini dei dirigenti appena liquidati perché vecchi, stantii e insopportabili ai più.

Ma al di là del prodigio metonimico per cui questa futura “casa di vetro”, che tra l’altro ricorda il Panopticon di Jeremy Bentham, il carcere ideale caratterizzato dalla trasparenza assoluta quindi dal controllo e dal dominio (altro che streaming grillino), incuberà idee nuove per pura osmosi, ci sarebbe da spiegare a chi si scalda per il trasloco in zona gentrificata che la Tiburtina per i romani è un vestibolo del centro, e che da lì partono, se partono, i treni e gli autobus che conducono alla periferia vera. Noi non siamo tra quelli che godrebbero a vedere i dirigenti della nuova “squadra” (secondo la rottamanda terminologia renziana) appesi ai reggimano di bus rumorosi e autocombustibili che arrancano nel traffico della Tiburtina per il magro stipendio che lo Stato gli corrisponde. Noi anzi li vogliamo sempre arzilli, freschi, non impediti dai tornelli e non zavorrati dalle ugge del pendolare, pronti a edificare nella nuova casa anche le basi di un nuovo partito di massa, come auspicava ieri Cacciari su queste pagine.

Ma ammesso che la collocazione topografica ricalchi una qualche collocazione politica (e un significato deve averlo il fatto che Renzi ultimamente s’era barricato in una stanza al terzo piano del Nazareno con porta blindata e videocitofono, accanto a quella “terrazza Pd” da cui, Dio lo perdoni, diramava “momenti di approfondimento” via Facebook), per ora a favore di Zingaretti ci sono solo sensazioni: “non ti sega subito i nervi”, come ha detto Marco Revelli a Antonello Caporale per significargli le differenze con Renzi; e “è una brava persona”, qualità che, per quanto apprezzabile, è piuttosto eloquente del deserto di idee in cui il Pd ha pascolato per anni.

Le Botteghe luminose rifletteranno un dato schizofrenico: questo Pd risorto che si è intestato la manifestazione di Milano contro il razzismo è lo stesso Pd che attraverso l’autorevole Rosato rinfaccia via social a Salvini di non aver rimpatriato abbastanza migranti, quando Minniti ne avrebbe cacciati o respinti o affidati alle amorevoli cure dei libici molti di più; e la maggioranza assoluta di quel milione e 700 mila persone che sono andate a votare alle primarie (dato che semmai ne attesta il tracollo dai 3,5 milioni di Veltroni) lo hanno fatto per non vedere più le facce dei renziani col loro stile finto-progressista e populista (sempre Cacciari).

Intanto, che il trasloco sarà una mera operazione di cosmesi edilizia, dopo la visita del segretario ai nuovissimi cantieri del freschissimo Tav, lo lascia pensare il fatto che i gangli locali di questo pimpante, aurorale Pd zingarettiano si presenteranno alle comunali siciliane di fine aprile alleati con frattaglie alfaniane, forziste e cuffariane, a riprova del fatto che bello il vetro, belli i giovani, belle le periferie, bello tutto, ma su certe cose non si scherza.

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Chiamparino difende il Tav per interessi personali 

Chi scrive è un “vecchio” di sinistra (Ds) ed è sempre stato scettico su quel “miscuglio” che ha portato alla nascita del Pd. Ho sempre sostenuto, ed è una mia convinzione, che il diavolo non può convivere con l’acqua santa. Purtroppo è andata così. Me ne sono andato dal Pd con l’arrivo di quell’arrogante e presuntuoso di Renzi (“ecco l’acqua santa”) che ha dato, volutamente, il colpo di grazia ai resti di quella poca sinistra che ancora era presente nel partito. Riguardo Chiamparino, dico che sarebbe un bel gesto, per l’età che ha, lasciar andare questa “campagna” a favore del Tav (che poi dovrebbe essere trasporto ad alta capacità, quindi per merci e non per persone). S’intuisce benissimo che lo fa per interessi personali alla ricerca di voti per ritornare al potere che la carica di Governatore gli concede. Ai tempi del renzismo il suo partito è sempre stato contrario a quest’opera. Perché insistere dal momento che non esiste nessun’altra traccia del corridoio Lisbona-Kiev? E non dica che quell’opera serve per rilanciare l’economia o altre assurdità. Con quei miliardi di euro si possono fare altre cose più urgenti, soprattutto al Sud dove, nel terzo millennio, in alcune Regioni i treni viaggiano ancora a binario unico. Oppure intervenire in certe strutture scolastiche dove i soffitti crollano. E potrei continuare ancora.

A. S.

 

Le previsioni dell’agenzia di rating Fitch vanno riviste

L’agenzia di rating Fitch è famosa più per le previsioni sbagliate che per quelle azzeccate. Questo perché è sempre indotta a fare politica dai suoi danti causa. E così, dopo aver confermato in pagella uno scadente BBB, prevede anche le elezioni anticipate nel nostro Paese per l’instabilità politica nel quale esso verserebbe. Ciò evidentemente per le diatribe interne alla coalizione del governo giallo-verde. Ma, con buona pace di Fitch e di chi la manovra, il governo durerà, non ci sarà la patrimoniale né la manovra correttiva, e durerà perché è difficile che Salvini lasci Di Maio per fare parte di un governo inaffidabile con il resuscitato Berlusconi e, a maggior ragione, con un Pd, in atto furibondo per gli arresti dei genitori di Renzi, e anche se adesso è stato eletto un nuovo segretario. Il tutto nonostante la risurrezione della P2 con grande gaudio di Licio Gelli, e nonostante i giornaloni continueranno a sparare a zero per l’ennesima sconfitta dei membri del Movimento 5 Stelle in Sardegna.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Vaccini antinfluenzali: sono davvero così efficaci?

Quest’anno l’influenza ha fatto strage di ultraottantenni, anche perché il vaccino antinfluenzale è risultato del tutto inefficace. A detta del mio medico, paradossalmente, il virus dell’influenza ha colpito i vaccinati nella stessa misura di chi non ha fatto ricorso al vaccino. Chiedo, tramite il vostro giornale, che il ministero della Sanità effettui un’indagine per accertare a livello nazionale l’ipotesi da me formulata. In tal caso sarebbe opportuno sanzionare severamente le case farmaceutiche che hanno prodotto e diffuso quel vaccino, la cui inefficacia ha provocato drammatiche conseguenze.

Maurizio Burattini

 

Per fortuna Conte guarda alle nuove generazioni

È alquanto inusuale che ci siano politici che riescono a guardare con onestà alle future generazioni. Mi riferisco a Giuseppe Conte che mette in gioco il suo governo per una questione che riguarda uno spreco mostruoso di denaro pubblico (di tutti noi) non avallando supinamente la realizzazione del Tav. Può benissimo, per quieto vivere e per tornaconto personale, tenere contento il bambino capriccioso della maggioranza (Salvini). Finora non lo ha fatto e spero che non lo faccia a costo di far cadere il governo. Un’altra considerazione è importante: come è possibile che da Salvini alla cosiddetta opposizione siano tutti d’accordo a negare l’evidenza della inutilità del Tav pur sapendolo benissimo? La risposta me la sono data; è tutta gente che ha fatto gli interessi delle grandi società di costruzioni che sono sempre state prodighe di finanziamenti e tangenti ai partiti che le hanno favorite con appalti milionari. Mi dispiace che poi a votare questa gente inutile e dannosa sono per lo più persone umili o che non si informano adeguatamente e si lasciano abbindolare dalle frasi fatte e bugiarde. Se fossi nei panni di Conte o in quelle dei 5 Stelle mi verrebbe voglia di mandare al diavolo questa Italia in cui la maggioranza si astiene oppure vota questa destra affarista.

Donato Miccoli

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo “Tutte le consulenze che portano ad Alpa” pubblicato sull’edizione cartacea di ieri 12 marzo 2019, la frase dell’avvocato Stanislao Chimenti è stata riportata in modo inesatto. Chimenti non ha detto che la ex moglie di Conte era stata madrina di suo figlio. La frase corretta dell’avvocato Chimenti (stravolta per un lapsus calami) era invece: “Mia moglie è amica della ex moglie di Conte ed è stata la madrina del loro figlio, parliamo di 11 anni fa”. Ci scusiamo con tutti dell’errore.

Marco Lillo

Più facile morire per l’attacco di uno squalo

Buongiorno, ho visto e letto molti servizi dedicati alla tragedia aerea in Etiopia, ma francamente non ho capito se è dipesa da errore umano, da fatalità o – peggio – da difetti del Boeing. Quanto sono sicuri i velivoli, soprattutto quelli di “ultima generazione”? Alitalia e le altre compagnie italiane li hanno in dotazione? Quanto siamo a rischio noi passeggeri? Grazie.

Annamaria Cenci

 

Gentile Cenci, partiamo dall’ultima domanda. Un paio di anni fa, David Ropeik, ricercatore della Harvard University, ha calcolato che le probabilità di schiantarsi durante un incidente aereo sono una su 11 milioni. Ci sono, quindi, più possibilità di morire per l’attacco di uno squalo (1 probabilità su 3 milioni) che se si vola. La conferma arriva dall’ultimo report dell’International Air Transport Association (Iata) sulle performance delle compagnie aeree: il tasso di incidentalità (misurato in incidenti per ogni milione di voli) lo scorso anno è sceso a 1,08, contro 1,68 dell’anno prima e si è dimezzato se paragonato al quinquennio precedente. Dati che fanno dell’industria dell’aviazione un punto fermo della sicurezza grazie ai passi da gigante compiuti nell’ultimo ventennio, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, e che assegnano agli aerei il primato di comparto più sicuro rispetto agli altri mezzi di trasporto. Sapere, quindi, che 4,1 miliardi di passeggeri hanno viaggiato in tutta sicurezza su un totale di circa 42 milioni di voli dovrebbe essere la risposta all’altra sua domanda. Per quanto riguarda, invece, il caso della tragedia in Etiopia, che ha causato la morte di 157 persone, tra cui 8 italiani, al momento si può solo ipotizzare che qualcosa non abbia funzionato nel dialogo tra il software che gestisce il volo in gran parte delle sue fasi e i piloti. Ma le indagine sono ancora in corso e, al momento, a prevalere può essere solo il fattore sicurezza: l’Agenzia per la sicurezza del trasporto aereo dell’Unione europea (Easa) ieri pomeriggio ha sospeso tutti i voli del Boeing 737-8 Max e 737-9 Max in Europa come misura precauzionale. E tra questi rientrano anche i tre Boeing 737 Max in uso alla compagnia Air Italy, l’ex Meridiana. Dal canto suo, Boeing ha annunciato che procederà a un aggiornamento del software dell’intera flotta dei 737 Max, dopo le richieste della Federal Aviation Administration, che includono anche un aggiornamento del manuale per l’addestramento dei piloti.

Patrizia De Rubertis