+Europa balla da sola: “Non siamo disposti a entrare nel listone”

Niente listone: +Europa e Pd andranno separati alle prossime elezioni europee di fine maggio. L’incontro per trovare un accordo tra Nicola Zingaretti e il segretario del partito di Emma Bonino, Benedetto Della Vedova, è durato poco più di un’ora e non ha prodotto risultati sostanziali: la lista radicale non intende fondersi con i dem, ma ha rimandato le basi per una possibile unione ai successivi appuntamenti elettorali. Della Vedova e i suoi non sono stati scoraggiati dalla soglia di sbarramento al 4%, anzi intendono sfruttare la “vetrina” del voto comunitario per valorizzare il marchio della propria lista politica. Sfuma quindi l’idea – proposta da Carlo Calenda e incoraggiata dal nuovo segretario del Pd – di un “listone” del centrosinistra europeista. Zingaretti ora tenterà di allargare il campo coinvolgendo gli altri possibili interlocutori: la lista formata dai Verdi di Angelo Bonelli e Italia in Comune del sindaco ex grillino di Parma, Federico Pizzarotti. Il più deluso dal “niet” di +Europa è proprio Calenda: “Hanno chiuso all’ipotesi di fare una lista unitaria anche dopo l’offerta di piena e paritetica visibilità dei loghi – ha detto l’ex ministro –. Il fronte delle forze europeiste non ci sarà. È un grave errore”.

Palazzo Provincia, il buco da 263 milioni

Un palazzo inagibile acquistato alienando locali della Provincia grazie a una certa dose di “finanza creativa”. È la vicenda legata al fallimentare affare che riguarda la nuova sede della Città Metropolitana, una storia su cui indaga la Corte dei Conti, e che adesso ha portato gli uomini della Guardia di Finanza a notificare a 105 persone l’atto di costituzione in mora.

Dagli ex presidenti della Provincia targata Pd: Enrico Gasbarra e l’attuale governatore del Lazio e segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti, fino al sindaco di Roma Virginia Raggi, del Movimento 5 Stelle, e il suo predecessore Ignazio Marino. E ancora, il grillino Emanuele Dessì, l’ex deputato Sel Massimo Cervellini e Marco Silvestroni di Fratelli d’Italia. Il procuratore della Corte dei Conti del Lazio Andrea Lupi e il viceprocuratore Massimo Lasalvia hanno voluto notificare un atto che consente di “bloccare” la prescrizione.

Perché i fatti che riguardano l’acquisto del palazzo all’Eur, e il conseguente buco di 263 milioni di euro nel bilancio dell’ex Provincia, iniziano nel 2007, quando sotto la presidenza Gasbarra, in un momento in cui la Provincia spendeva 10 milioni di euro in affitti, si inizia a pensare alla locazione di un immobile. Nel 2008, con Zingaretti, arriva la delibera che consente alla “Provincia di Roma di acquisire l’erigendo immobile in Roma Eur, località Castellaccio – si legge negli atti – quale Nuova Sede Unica, mediante locazione con opzione di acquisto, al prezzo di 219 milioni 550 mila e 500 euro oltre iva”. Il palazzo da 32 piani doveva sorgere sui terreni di proprietà di Luca Parnasi, arrestato successivamente per corruzione nel- l’ambito dell’inchiesta sullo Stadio della Roma. La copertura finanziaria sarebbe stata trovata facendo confluire in un fondo 20 immobili della Provincia valutati 255 milioni di euro. Il fondo, affidato alla Bnp Paribas, era però “in dichiarato conflitto di interessi – scrivono i pm – per essere al tempo stesso Gestore del Fondi Venditore e del Fondo acquirenti, nonché parte del gruppo bancario cui appartiene una delle banche finanziatrici”. E inoltre “dall’analisi dei valori degli immobili (…) emerge come l’iniziale quantificazione degli stessi per un importo di 255 milioni di euro fosse stata artatamente creata al fine di dimostrare l’esistenza di un portafoglio valido a procedere all’acquisto”. E soprattutto il palazzo “risultava inagibile e quindi inutilizzabile allo scopo”.

Così la Provincia restò in affitto. Da qui il danno erariale e l’atto di messa in mora, un documento cautelativo che mira a bloccare la prescrizione e che viene notificato a chiunque abbia avuto a che fare, anche in senso lato, con la faccenda. Quindi in molti sono finiti sul lungo elenco stilato dai pm contabili: Patrizia Prestipino, Marco Palumbo, Daniele Leodori e Roberta Agostini del Pd, i 5Stelle Marcello De Vito e Giuliano Pacetti e anche gli ex commissari della Provincia, Umberto Postiglione e Riccardo Carpino.

Dove va il “nuovo” Pd? Dopo l’editoriale di Cacciari

La svolta sarebbe obbligatoria ma è forte il partito dei popcorn

Se Cacciari fosse il leader del Pd non avrei il minimo dubbio sulla sua volontà di un dialogo con i 5stelle sulle tante cose necessarie al nostro Paese. Ma il nuovo segretario si chiama Nicola Zingaretti, degnissima persona ma, temiamo, non sufficientemente forte per contrastare il partito interno del popcorn. Di quelli che vivono la competizione politica come distruzione dell’avversario. Augurandosi di assistere, come al cinema, alle altrui disgrazie per lucrarne qualche voto per sé. Si potrebbe obiettare che i primi a giocare al gioco del massacro sono stati i grillini (il famoso streaming usato contro Bersani). Ma sia come sia, questi anni di guerra reciproca hanno scavato un profondo fossato di rancore, non tanto tra i gruppi dirigenti quanto tra le rispettive basi elettorali. È probabile dunque che il dialogo auspicato potrebbe cominciare solo a una condizione. La sottomissione degli uni agli altri. Se toccasse al M5S, dissanguato da Salvini, trovarsi un altro partner. O se il declino del Pd si facesse inarrestabile. Le Europee ci diranno qualcosa in proposito.

Antonio Padellaro

 

Non basterà fare propri i temi del M5S: servono dirigenti nuovi

È evidente che il Pd di Zingaretti debba dialogare con gli elettori e gli ex elettori del M5S. Gran parte dei voti persi vengono da lì. È però illusorio pensare che il Pd possa recuperarne in gran numero semplicemente facendo propri alcuni temi del Movimento. Per esempio preferire le piccole opere a quelle grandi (perché le prime servono per rimettere in piedi un Paese disastrato dalla mancata manutenzione e garantiscono nell’immediato più occupazione rispetto alle seconde) o puntare a uno Stato sociale che si occupi degli ultimi è certamente utile in vista di una futura alleanza di governo (possibile però solo tra molto tempo). Ma non serve per convincere i delusi. Chi non vota più il Pd lo fa di solito perché disgustato dai comportamenti delle sue classi dirigenti. Il Pd (in maniera persino immeritata rispetto a altri partiti) è diventato sinonimo di Casta e di spocchia. Per recuperare i voti persi non ha bisogno solo di idee nuove. Ha bisogno di uomini e donne differenti che sappiano fare della propria vita un atto di testimonianza politica.

Peter Gomez

 

Il segretario non corra: ci vuole tempo per cambiare davvero

L’elenco che Cacciari indica a Zingaretti, per “la costruzione di un nuovo partito” (e in tempi “brevissimi”), è quasi scontato. I “valori tradizionali della sinistra” sulla xenofobia, un’Europa “sovrana” e come antidoto al “sovranismo”, il reddito, il lavoro, la scuola, l’ecologia, la riforma di enti locali e istituzioni centrali. “Vasto programma” si potrebbe dire, ma non per forza con il sarcasmo con cui lo ripeteva De Gaulle. Semmai, invece, per sottolineare come la parte meno convincente del ragionamento di Cacciari siano proprio i tempi “brevissimi”, addirittura per il voto europeo. L’impegno di Zingaretti, infatti, sembra piuttosto destinato a realizzarsi (pescando questa volta nel linguaggio della sinistra) come una “lotta di lunga durata”. E non devono ingannarlo né la partecipazione alle primarie né il recupero nei sondaggi e il quasi pareggio coi 5Stelle. E Zingaretti, che è uomo di sinistra, credo abbia ben presente tutto ciò.

Ettore Boffano

M5S e Lega litigano pure sulla kermesse dell’ultradestra

Per non farsi mancare nulla, il governo litiga anche sulla famiglia. E in particolare su una manifestazione organizzata dall’ultradestra cristiana in programma a Verona dal 29 al 31 marzo. L’incontro è promosso dal World Congress of Families, una rete internazionale considerata vicina alla Russia di Putin e alla destra post fascista italiana. Qual è il problema? Sulla locandina della manifestazione compare il logo della presidenza del consiglio dei ministri. Su questo litigano 5Stelle e Lega. Qualche giorno fa il premier Giuseppe Conte ha smentito che a Palazzo Chigi fosse mai pervenuta una richiesta di patrocini e ha fatto capire che deve essersi trattato di un’iniziativa del ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, veronese e vicino ai movimenti italiani che sostengono il World Congress of Families . Ma intanto la querelle va avanti. Ieri una velina di Palazzo Chigi ha reso noto che era stato revocato l’utilizzo del logo della Presidenza del Consiglio dei ministri (smentendo di fatto la prima versione di Conte). Poche ore dopo è arrivata la contro-velina di Fontana. “Fonti del ministero della Famiglia” fanno sapere che “non risulta alcuna richiesta di revoca del patrocinio”. Gialli e verdi vanno avanti così.

Freccero va a processo (e si difende)

“Lei mi ha profondamente ferito con dei dati falsi! Le risponderò per iscritto, con i numeri giusti!”. A far esplodere Carlo Freccero, ieri in commissione di Vigilanza, è stato il capogruppo della Lega, Paolo Tiramani. Che l’ha accusato dell’unica cosa che Freccero reputa intollerabile: essere uno superato, che ha fatto il suo tempo. “Lei mi ricorda mio papà quando è rientrato in azienda, ma nel frattempo le cose erano cambiate. Lei è tornato ora a dirigere Rai2 con un’idea di tv di 15 anni fa…”, ha detto il leghista, elencando i dati di share dei programmi che il neo-direttore ha messo in palinsesto. E che, specie quelli dell’informazione, vanno male. “Se vuole le mie dimissioni abbia il coraggio di chiederle, qui, adesso! E io l’accontenterò! Ma io vengo chiamato a parlare di televisione ovunque, tengo corsi all’università, se c’è uno che sta sull’avanguardia sono io! Ho il passaporto in regola per parlare di tv”, afferma il direttore di Rai2. Che, anche quando s’infervora, non rinuncia mai a un pizzico d’ironia. “Altro che Tiramani, lei è ‘tirapugni’, mi sta tirando dei pugni, e belli forti, che non riesco a schivare…”. Un attacco forse inaspettato, quello leghista. Che è sembrato preparato, studiato a tavolino. Fuoco amico dall’alleato di governo proprio all’uomo voluto fortemente a Rai2 dai 5Stelle.

Che sarebbe stata un’audizione-show era prevedibile. Innanzitutto perché il protagonista è Carlo Freccero, che riesce a trasformare anche una mattina in Vigilanza in un seminario sulla televisione.

Poi perché la carne al fuoco è molta, a cominciare dal flop dei suoi programmi d’informazione e dalle accuse di mancato pluralismo da parte della sinistra. Popolo Sovrano, il giovedì sera, è inchiodato al 3%. “I numeri non mi danno ragione, lo so, e io me ne struggo. La prima puntata era inguardabile, ma poi si è corretto il tiro. In tv bisogna anche avere il coraggio di sbagliare e di scommettere sulla qualità…”, la difesa di Freccero. Che sull’altro programma flop, Povera Patria, sbotta contro Bruno Vespa. “Lo volevo in onda il mercoledì, ma Vespa non ha voluto. È lui quello che comanda e decide in Rai!”, spiega il direttore di Rai2. Immediata la replica del conduttore di Porta a Porta. “Non diciamo sciocchezze. Evitare la sovrapposizione di due programmi informativi è una regola della tv che Freccero conosce benissimo…”. Sul deficit di pluralismo, poi, il neo direttore non vuol sentire ragione. “Io non sono il portavoce di nessuno, tantomeno di Beppe Grillo. Quando ho mandato in onda lo speciale su di lui, ero talmente attento da aver decurtato il programma, forse danneggiandolo. Guardate i miei conduttori, hanno tutti idee diverse. Ma non devo stare qui a giustificarmi come fossimo in Germania Est…”, dice Freccero. Che poi spiega qualcosa della sua Rai2. “Ho ereditato una rete senza palinsesto che ora sta tornando centrale, sta uscendo dall’anonimato, guardando all’informazione e ai giovani”. E Luttazzi? “Stiamo ancora parlando, però non sono un pazzo suicida, voglio un controllo editoriale su quello che andrà in onda…”.

Viale Salvini a reti unificate: su Tg1, Tg2 (e pure SkyTg24)

Viene prima il consenso elettorale o la propaganda televisiva? Chissà, ormai sono dettagli. Matteo Salvini è già il presidente del Consiglio per i telegiornali dei canali pubblici e privati, tranne per i nostalgici Tg4 e Studio Aperto che onorano la memoria politica di Silvio Berlusconi. Come svelano le statistiche dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni (Agcom) sul “tempo di parola”, riferite a gennaio, Salvini è il politico che parla di più nei tg, il più loquace, il più presente, batte il socio Luigi Di Maio e il premier Giuseppe Conte.

Il ministro dell’Interno, il vicepremier del Carroccio, il capitano leghista va in onda a reti unificate, in diretta e in differita, ubiquo e multiforme, recita la maggioranza e l’opposizione con la stessa disinvoltura, annienta e ripristina il cosiddetto “sistema di potere”, sblocca i cantieri e blocca i porti. Agcom ha richiamato al rispetto del pluralismo la Rai per il salvinismo endemico del Tg2 e SkyTg24 che assume inediti connotati leghisti. I numeri non ammettono giustificazioni, non si piegano al sacrosanto diritto di cronaca, e Salvini è un fuoriclasse nel dettare l’agenda ai media tra un cambio di felpa e l’altro.

Il Tg2 di Gennaro Genny Sangiuliano, prolifico saggista, gioventù missina, consacrato col Carroccio nazionale, è l’amplificatore del vangelo di Matteo: 20,5 per cento dello spazio concesso ai politici, quasi mezz’ora in trentuno giorni per gli interventi del ministro dell’Interno contro gli otto minuti di Conte e i sei di Di Maio. Al quarto posto, ecco Sergio Mattarella, ma soltanto perché gennaio parte col discorso di fine anno al Quirinale. Nel gruppo di testa, però, troviamo Berlusconi e il fido Tajani, a testimonianza di una speranza (o un’illusione) di un centrodestra unito. Salvini ha lottizzato con successo, Sangiuliano non ha deluso. Il Tg1 di Giuseppe Carboni, direttore indicato dai Cinque Stelle, di formazione socialista e con una carriera di pochi acuti, non è immune al vento del Carroccio: Salvini svetta su alleati e rivali pure nel telegiornale istituzionale per eccellenza. Ex ridotta di sinistra, il Tg3 di Giuseppina Paterniti premia Salvini per un’inezia e dunque riafferma l’importanza perlomeno costituzionale dell’avvocato Conte. Equilibrio simile per Rainews di Antonio Di Bella.

Viale Mazzini è un barometro per la politica, anticipa gli eventi per resistere, sostiene colui che considera il capo del futuro, condanna quello appena liso: Salvini è il padrone del servizio pubblico, c’è poco da aggiungere. O forse no, qualcosa va aggiunto.

Il leghista straripa a SkyTg 24: 21,12 per cento del tempo; la coppia Conte e Di Maio assieme fa il 20,2. Salvini è in vantaggio sul vicepremier dei Cinque Stelle al TgLa7, Conte è terzo sul podio. Mediaset non è più la tribuna di Berlusconi, anzi Salvini trionfa al Tg5 e gode di ottima ospitalità al Tg4 e Studio Aperto.

Agcom ha rilevato i politici anche nei programmi extra-tg e di testata, ma gennaio ha un valore superfluo perché patisce la sosta dei palinsesti per le vacanze natalizie. Per rassicurare affezionati e parenti, comunque, Salvini è in testa a Sky, Rai2, Rai3, La7. Ultima chicca dal pianeta Sangiuliano: il Tg2 ha accolto per quattro minuti Nicola Zingaretti e Maurizio Martina, candidati alle primarie del Partito democratico. Attenzione: non quattro minuti ciascuno, ma due per Zingaretti e due per Martina. Il Pd è sparito dal servizio pubblico.

Il governo “perplesso” sugli F-35, ma salderà le fatture a Lockeed

L’Italia salderà a breve il debito di 389 milioni di euro contratto con Lockeed Martin per gli F-35 bloccati in attesa di una valutazione tecnica dell’intero programma di acquisti del velivolo statunitense (che risale al 1998) richiesta dalla ministra Elisabetta Trenta. L’analisi, hanno annunciato ieri fonti della Difesa, è stata conclusa e il governo salderà le fatture, ma “restano delle perplessità sul programma che dunque sarà rivisto”. I cacciabombardieri ordinati erano inizialmente 131, già ridotti a 90 nel 2012: Giuseppe Conte dovrà convincere un recalcitrante Donald Trump ad accettare una nuova sforbiciata e/o a diluire maggiormente gli acquisti nel tempo (peraltro il velivolo è in parte realizzato in Italia, nello stabilimento di Cameri, vicino Novara). Le perplessità dell’esecutivo, però, non sono condivise dal capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, il generale Alberto Rosso: “Gli F-35 sono l’unica soluzione perseguibile. L’alternativa sarebbe certamente costituita da mezzi più vecchi, superati e più costosi”, ha detto ieri in audizione in Parlamento.

“La via della Seta c’è già, meglio essere pronti”

Vincenzo Petrone è stato ambasciatore in Giappone e Brasile, direttore delle relazioni internazionali di Confindustria, presidente di Fincantieri. Oggi è il direttore generale dell’Associazione Italia-Cina, creata da Cesare Romiti, presieduta da Alberto Bombassei crocevia di interessi e idee da parte di grandi gruppi industriali, banche, strutture pubbliche e delle Regioni.

La “Via della Seta” è secondo voi una buona opportunità per l’Italia?

Occorre premettere che la ‘Via della Seta’ va intesa come una rete, non un progetto di infrastrutture, ma di interconnessioni. E questa rete è già in corso di realizzazione. Dopo il raddoppio del Canale di Suez, la tipologia e il volume del traffico marittimo arrivato nel Mediterraneo e in Italia si è evoluto ed è aumentato.

Perché evoluto?

Perché il traffico delle mega-navi porta-container, quelle da 13 a 20 mila Teu (l’indice di misura dei container, ndr) è aumentato del 56%. Ma ci sono due altri elementi già avviati: le grandi società di costruzione cinesi sono arrivate in forze in tutta l’Europa centro-meridionale: Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Balcani. Inoltre hanno acquistato la maggioranza del Pireo, in Grecia, anche se il progetto di fare una ferrovia fino a Vienna si è arenato nei Balcani. Ma la Cina è entrata anche con il 40% nel porto di Valencia in Spagna, nella logistica di Vado Ligure, a Zeebrugge in Olanda.

La conclusione?

Ci piaccia o no la ‘Via della Seta’ sta già arrivando perché sta arrivando la seconda economia mondiale, che è manifatturiera e con cui abbiamo bisogno di scambiare. L’integrazione Europa-Cina ci sarà, è nell’ordine delle cose.

L’Italia ne può dunque beneficiare?

L’Italia rappresenta un’assoluta priorità dopo il raddoppio del Canale di Suez ma se resteremo ‘preda’, cioè soggetto passivo dell’investimento altrui, ci limiteremo a qualche infrastruttura e qualche posto di lavoro. Se invece volessimo seriamente negoziare da ‘sistema Paese’ a ‘sistema Paese’, come la Cina preferisce fare, i ritorni sarebbero moltiplicati.

Cosa pensa della firma del Memorandum?

Che dopo averlo firmato, bisognerebbe mettere attorno a un tavolo le Agenzie di sviluppo, la Cassa depositi e prestiti, la Sace, le grandi banche, magari creando un veicolo finanziario ad hoc per raccogliere risorse adeguate in modo da presentarsi all’appuntamento con la Cina con capitali da investire. Serve una disponibilità italiana a sviluppare il terminale europeo della Via della Seta marittima in tutte le sue declinazioni, navale, telecomunicazioni, del lancio di grandi iniziative culturali, comunicazione reciproca attraverso piattaforme digitali. Tra l’altro noi siamo il Paese europeo con la più grande comunità cinese in assoluto, 300 mila persone, di cui 50 mila hanno già una partita Iva, praticamente tutti, tolti bambini e anziani. Quindi un potenziale straordinario.

Che intende per “sistema Paese”?

Che non bisogna svendere porti o banchine a livello locale, ma investire insieme per poi arrivare in Europa con le nostre linee di sviluppo. Finita la visita di Xi Jinping occorrerebbe creare il tavolo con dei bracci finanziari, organismi strategici del governo per discutere cosa offrire come piattaforma per investimenti comuni.

Pensa che sia reale il rischio sul 5G?

Noi non abbiamo fatto uno studio approfondito, ma lo faremo perché è un tema caldissimo. Non so dirle se il problema di sicurezza esiste, perché non so se chi paventa il rischio abbia spiegato come il rischio si riveli. Però i tedeschi, che hanno ricevuto un impulso analogo dagli Usa, si sono fatti spiegare in che cosa consiste il rischio e hanno risposto: bene, negozieremo una soluzione con Huawei. Quindi un atteggiamento pragmatico e non ideologico che corrisponde agli interessi delle due parti. Questo è un metodo per affrontare il problema. Anche la Gran Bretagna considera il problema manageable, gestibile. Un buon metodo.

Il Copasir avvisa Conte: dubbi sulla sicurezza

È durata due ore abbondanti l’audizione del premier Giuseppe Conte ieri al Copasir. Tra gli argomenti sul tavolo, il Memorandum sulla Via della Seta, che l’Italia dovrebbe firmare durante la visita di Xi Jinping a Roma, diventato l’ultima materia del contendere tra Lega e Cinque Stelle, con i primi ormai orientati al no e i secondi fermamente sul sì.

I membri del Comitato, durante l’audizione, hanno sollevato una serie di dubbi relativi alla sicurezza nazionale, sostenendo che la questione non si può derubricare solo ad accordi commerciali. Di “valutazione su possibili rischi” anche in tema di cybersicurezza ha parlato il presidente, Lorenzo Guerini. Le preoccupazioni sono quelle sulle quali soffiano quotidianamente gli Stati Uniti, che vedono messa a rischio la loro supremazia in Europa. Il ‘warning’ è arrivato chiaro dagli Usa ai suoi alleati: chi non chiude ai colossi cinesi delle tlc non potrà collaborare con Washington in campi delicati come la difesa e l’intelligence. Questo perchè il Governo di Pechino avrebbe in mano i dati sensibili forniti dalle sue aziende controllate che operano in quei Paesi. A preoccupare gli Usa è soprattutto, l’ “inter-operatività nelle aree di interesse reciproco (come strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia – tra cui fonti rinnovabili e gas naturale – e telecomunicazioni)”, di cui si legge nel testo (la bozza è stata pubblicata ieri dal Corriere della Sera). Sarebbe a rischio addirittura la Nato, visto che si aprirebbe a un paese che non ne fa parte. È intervenuto il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, parlando di “accordi opachi”. A Palazzo Chigi assicurano che i rischi di cui si parla non esistono e che il Memorandum “non comporta obblighi giuridici”. Mentre Giovanni Tria, ministro dell’Economia parla di “tempesta in un bicchier d’acqua”. Quelli che l’hanno ascoltato ieri al Copasir sostengono di aver visto Conte “più consapevole della posta in gioco” rispetto all’inizio e molto disponibile. Avrebbe assicurato che il governo sta studiando tutti gli strumenti, tecnici e normativi, per garantire la sicurezza della reti evitando rischi di spionaggio di dati sensibili. Ma per ora non sembra disposto a seguire gli Usa. Come ha detto esplicitamente Francesco Castiello (che nel Comitato siede in quota Cinque Stelle) – tornerà per un’altra audizione sul tema. Mentre in casa Lega si racconta che a questo punto Matteo Salvini sarebbe pronto a chiedere a Conte di non firmare.

Ieri sulla questione è intervenuta anche la Commissione europea con un rapporto diffuso a Strasburgo: 10 raccomandazioni che arrivano quando 13 paesi europei hanno già firmato accordi commerciali con la Cina. Ma l’Italia è la pietra dello scandalo perché sarà il primo paese del G7 a farlo. Peraltro negli stessi giorni in cui il Consiglio europeo dovrà affrontare i rapporti commerciali Italia – Cina. Da Palazzo Chigi fanno notare che mentre tutti preoccupati che con il Memorandum l’Italia si va a infilare in parametri cinesi, potrebbe essere esattamente il contrario, ovvero che è l’Italia che fa entrare i cinesi dentro alcune linee della Ue. Essere i primi a firmare avrebbe qualche vantaggio.

Intanto, il Pd ha presentato un’interrogazione parlamentare (prima firma Alessandro Alfieri, capogruppo in commissione Esteri), per chiedere a Enzo Moavero, titolare della Farnesina, quali sono le reali intenzioni del governo.

Chiamparino vuole le urne in Piemonte Il governo dice di no

Il governatorePd del Piemonte Sergio Chiamparino fa quel che può per portare avanti la sua campagna a favore dell’Alta velocità Torino-Lione: la sua campagna per l’opera coincide un po’ anche con quella per se stesso, visto che a maggio corre per la riconferma. E l’idea dell’ex sindaco di Torino è che a maggio si tenesse pure una consultazione popolare sul Tav tra i cittadini del Piemonte: “È previsto dallo Statuto regionale”, ha ricordato chiedendo che il ministro dell’Interno Matteo Salvini procedesse ad autorizzare ed organizzare il tutto. Come Il Fatto ha spiegato più volte però (e anche oggi con Michele Ainis qui sotto), il referendum consultivo regionale non ha nulla a che fare col Tav: lo Statuto del Piemonte lo prevede sostanzialmente in tre casi e il tunnel caro a Chiamparino non rientra tra questi (potrebbe, ma non lo farà, fare un referendum tra i cittadini che avranno a che fare con l’opera, i valsusini); una consultazione regionale su un’opera finanziata coi soldi di tutti non ha alcun senso. Come che sia, il governo ha già risposto no: “Non si può fare”, hanno detto Salvini e Conte. Intanto il Piemonte non ha una legge regionale e per un referendum consultivo nazionale serve una legge costituzionale.