È ormai un giallo vero e proprio. S’intende l’esistenza dei finanziamenti francesi per i lavori del tunnel del Tav oggetto dei bandi da 2,3 miliardi di cui Telt ha lanciato gli avvisi lunedì scorso. “I francesi possono dare di più, l’Europa può dare di più”, ha detto ieri Matteo Salvini, alludendo all’evidente sperequazione dei costi, per due terzi in capo all’Italia per un tunnel per due terzi in territorio francese. Eppure – come ha rivelato il Fatto – finora i fondi Parigi non li ha stanziati, e questo è un problema visto in base agli accordi internazionali i bandi possono partire solo con lo stanziamento fatto. Magari è un caso ma da allora i giornali si sono riempiti di retroscena e “fonti” che spiegano che invece i soldi ci sono e comunque in Francia funziona diversamente. “Fonti francesi”, per dire, hanno spiegato ieri all’Ansa che per il 2019 Parigi ha messo sul piatto 55 milioni “in attesa di eventuali aggiunte che sarebbero necessarie in funzione del lancio effettivo dei bandi”. Insomma, i soldi arriveranno solo quando i gli appalti saranno banditi, mentre l’Italia ha già stanziato oltre due miliardi già dal governo Monti. Il Fatto ha provato senza successo a chiedere chiarimenti alle autorità francesi.
Opere e miracoli del fassiniano Mario Virano. Il più antico cantore della “lobby del buco”
Cinque anni fa Mario Virano considerava già chiusa la partita: “Qualsiasi persona di buon senso e onestà intellettuale si rende conto di quanto la Torino-Lione sia ormai irreversibile”. A trent’anni dall’inizio del folle volo dell’alta velocità in Val di Susa, l’unica cosa veramente irreversibile è lui, Virano. Architetto originario di Rivoli (To), 75 anni, l’attuale direttore generale della Telt, società pubblica mista italo-francese per la costruzione del nuovo tunnel ferroviario, perpetua la sua missione di accanito fornitore di argomenti roboanti alla lobby del buco.
Basta un dato per comprendere l’audacia della sua battaglia. In Italia ogni anno vengono spostate su strada merci per circa un miliardo di tonnellate. Di queste, solo 10 milioni passano dal tunnel del Fréjus, quello che Virano vuole sgorgare spostando il traffico, tra almeno 15 anni, sulla nuova ferrovia.
L’Italia è ferma a discutere del- l’autostrada meno trafficata e dell’uno per cento del traffico pesante, e il merito di questa follia è quasi tutto di Virano, indefesso propalatore di narrazioni oniriche sul futuro dei trasporti. Sua, per esempio, la grande predicazione del Corridoio 5, il collegamento Lisbona-Kiev via Padania, che sarebbe vanificato dalla mancanza dell’anello decisivo, la Torino- Lione. I grandi traffici, profetizzava 17 anni fa, avrebbero attraversato “le grandi pianure a nord” (soluzione più furba che bucare due volte le Alpi) e “l’Italia si troverebbe in posizione marginale”.
In realtà il Corridoio 5 non esiste né al di sopra né al di sotto delle Alpi, ma l’importante è predicare, come Virano fa da almeno 35 anni, da quando negli anni 80 a Torino era braccio destro del segretario provinciale del Pci Piero Fassino e si occupava di alleanze per le giunte locali. La militanza politica è il propellente della sua carriera, che lo vede nel 1998 amministratore delegato della Sitaf, sì proprio lei, l’autostrada del Fréjus che oggi Virano vuole svuotare a favore della ferrovia. Essendo Virano un teorico generoso, al tempo ci regalò la più convincente profezia sull’inutilità della nuova ferrovia: “Obiettivi quali quelli di un riequilibrio modale significativo con una riduzione della componente stradale rispetto a quella su rotaia sono perlomeno velleitari e illusori”. E per togliere di mezzo ogni equivoco, aggiungeva: “La strada è comunque destinata ad assolvere un ruolo fondamentale per la mobilità passeggeri e merci su scenari di lungo periodo”.
Spostato dai suoi danti causa politici dalla Sitaf al cda dell’Anas, si dedicò al ponte sullo Stretto, per il quale produsse il più onirico dei progetti: sfruttare i piloni da 400 metri che reggevano il piano di attraversamento del mare per infilarci case e uffici. Davvero, lo battezzò Ponte-Grattacielo, un’idea in confronto alla quale il Ponte Morandi con i ristoranti di Danilo Toninelli rientra a pieno titolo nei canoni della normalità.
La sua fantasia ha raggiunto l’apice nel 2015, quando l’Antitrust eccepì sul suo passaggio, dopo nove anni, da Commissario di governo e direttore dell’Osservatorio per la Torino-Lione (impagabile organismo governativo di propaganda dell’opera inutile) al vertice della Telt, società costruttrice dell’opera. Era violata la legge 215/2004 (legge Frattini) secondo cui non puoi andare a dirigere una società che operi “prevalentemente” nel settore di cui ti occupavi come incarico di governo.
Lì Virano ha battuto ogni record, argomentando che lui, in fin dei conti, si occupava solo dei 4,4 chilometri di ferrovia tra Bussoleno e l’imbocco del tunnel, pari all’1,6 per cento della Torino-Lione, e quindi Telt si occupava prevalentemente di altro. L’ha fatto scrivere davvero ai suoi avvocati, e di fronte a un’argomentazione così ben tornita non si può far altro che alzarsi in piedi e battere forte le mani. Infatti l’Antitrust l’ha dichiarato incompatibile. Ma lui è ancora lì.
“Il referendum non si può fare, neanche locale”
Il popolo, volenti o nolenti, salta fuori quando meno te l’aspetti: capita così che la bandiera dell’antipopulismo per legittimarsi abbia bisogno di una consultazione popolare. Parliamo di Tav e lo facciamo con Michele Ainis, costituzionalista, membro dell’Autorità garante per l’Antitrust e firma di Repubblica.
Professore, per dirimere la vexatissima quaestio della Tav si evoca un referendum. È la soluzione?
Non credo. La vicenda investe una delle lacune del nostro impianto costituzionale, che prevede il referendum abrogativo, non quello propositivo né quello consultivo. Quest’ultimo era stato proposto dalla Commissione Bozzi all’inizio degli anni Ottanta e anche, pur in maniera embrionale rimandando a una legge di attuazione, anche dalla riforma Renzi-Boschi. Tutte queste riforme però sono rimaste appese al libro dei desideri. A oggi il referendum è impossibile.
Quindi, come si fa?
Si deve cambiare la Costituzione. Ci sarebbe bisogno di una riforma costituzionale, con i tempi e le incertezze che accompagnano le riforme della Carta. Senza dire che ultimamente le riforme costituzionali non portano benissimo a chi le propone.
Quello abrogativo non si può fare, giusto?
No. Perché la materia, parliamo di un accordo internazionale, è esplicitamente sottratta alla competenza dei referendum. Accadde la stessa cosa quando i Radicali volevano indire un referendum sui Patti Lateranensi.
E il consultivo?
Solo con una legge costituzionale. Nel 1989 fu indetto un referendum di questo tipo per conferire il mandato costituente al Parlamento europeo. Per farci andare a votare venne emanata una legge costituzionale, approvata con il procedimento ex articolo 138 della Carta. È l’unico precedente in tema.
Si potrebbe immaginare di indire un referendum con una più agevole legge ordinaria?
La legge ordinaria, secondo me, non basta. Perché abbiamo un precedente in cui si utilizza la procedura ex articolo 138 di cui parlavo. E soprattutto la legge non può istituire fonti concorrenziali rispetto a se stessa. Mi spiego meglio: con una legge non si può inventare un decreto legge. Il decreto legge esiste in virtù della Costituzione.
Ma allora perché non si fa su base regionale?
C’è una questione preliminare di principio: le grandi opere pubbliche si realizzano con il denaro di tutti i contribuenti e sono di interesse nazionale. Mi trovai tanti anni fa ad Annozero con Bersani, all’epoca segretario del Pd, e il futuro direttore del Fatto, Marco Travaglio. Dissi in quell’occasione: ma perché non si fa un referendum? Io sono favorevole. Bersani mi rispose: se si fa un referendum sull’inceneritore X, gli abitanti della zona X saranno sempre contrari. E io risposi proprio questo: il referendum si deve sempre fare su base nazionale, proprio perché si spoglia degli interessi dei pochi.
Tecnicamente si può fare un referendum per ogni singola regione?
No. Può dare un risultato a macchia di leopardo. Come li contiamo? Nella giurisprudenza costituzionale non ci sono statuizioni chiarissime, ma diciamo che una serie d’indizi sono sfavorevoli a questa ipotesi: l’articolo 123, che norma i referendum regionali, è stato interpretato in modo estensivo, ma resta il problema di come farli coincidere. Non si può fare come il campionato di calcio, con anticipi e posticipi… Insomma è una via difficilmente praticabile se non impervia. La Consulta (con la sentenza n. 256 del 1989) ha già escluso l’ipotesi.
Chiamparino però ha annunciato di voler avviare le procedure.
Diciamo che c’è un interesse politico di Pd, Lega e Forza Italia a mettere in difficoltà i 5 Stelle proponendo il referendum: loro hanno nel Dna la democrazia diretta. Il retropensiero è che tanto la maggioranza degli italiani è favorevole al Tav, almeno stando ai sondaggi. In politica ci sta il tornaconto, anche se a volte non porta proprio bene: basta pensare a quante leggi elettorali sono state concepite e votate per fare lo sgambetto all’avversario e hanno mandato ko i proponenti…
A proposito di Regioni: lei è molto critico verso la nuova devolution, già ribattezzata “secessione dei ricchi”.
I principi costituzionali camminano sulle gambe degli uomini, e gli uomini non hanno mai lo stesso passo. In questo caso c’è un principio condivisibile in astratto – l’autonomia differenziata – che può diventare una sciagura in questa stagione della storia. Perché la richiesta di nuovi diritti, o di maggiori poteri, riflette soprattutto gli egoismi della nostra società. Adesso è meglio fermarsi, riparliamone al prossimo giro.
Il paradosso Tav: inquina più farla che restare coi camion
Tav, ovvero il diabetico rimpinzato di dolci. “Prendi un diabetico”, mi racconta il meteorologo Luca Mercalli, “e promettigli che tra dieci anni gli darai l’insulina per farlo stare bene. Nel frattempo, lo rimpinzi di torte. Per dieci anni. Quando arriverà l’insulina sarà morto”.
Che cosa c’entra il diabete con il Tav? Uno dei primi argomenti dei sostenitori della nuova linea Torino-Lione è il beneficio ecologico: sposti le merci trasportate dalla gomma al ferro, dal camion al treno, e ridurrai l’inquinamento. Peccato però che per fare questo cambio (forse) tra 10 o 15 o 20 anni, devi prima scavare un immenso buco nella montagna. La galleria più lunga del mondo. Quindi per 10, 15, 20 anni la supertalpa succhierà megawatt, saranno spostate, lavorate e impiegate tonnellate di cemento, acciaio, rame, saranno smossi migliaia di metri cubi di roccia. Poi, a opera fatta, continuerà a funzionare giorno e notte l’impianto di raffreddamento, perché il tunnel nel cuore della montagna avrà un clima ostile alla vita e la temperatura sarà attorno ai 50 gradi.
Quindi: per diminuire tra 15 anni (forse) le emissioni di Co2 dei camion, per 15 anni innalzeremo a dismisura le emissioni di Co2. Torte al diabetico, con la promessa di dargli prima o poi l’insulina.
Si possono calcolare i costi-benefici delle emissioni? Sì, con quello che viene chiamato il “bilancio del carbonio”: per fare qualunque opera si consuma energia e si provocano emissioni; bisogna fare il confronto tra quanto si inquina subito e quanto (e quando) si migliora la qualità dell’aria dopo. Il “bilancio del carbonio” può essere positivo o negativo. “I ricercatori Jonas Westin e Per Kågeson, del Royal Institute of Technology di Stoccolma”, spiega Mercalli, “nel loro studio Can high speed rail offset its embedded emissions? sostengono che perché il bilancio del carbonio sia favorevole al clima, le linee ferroviarie ad alta velocità ‘non possono contemplare l’uso estensivo di tunnel’”.
Il cuore del Tav è il supertunnel. Conviene? Per non sbagliare, conviene affidarsi non ai dati forniti dai pericolosi No Tav, ma a quelli messi a disposizione dai sostenitori dell’opera. Basta andare a spulciare i Quaderni prodotti dall’Osservatorio Torino-Lione, diretto da Mario Virano, che oggi è il direttore generale di Telt, la società italo-francese che si propone di realizzare la linea. Il Quaderno numero 8, uscito nel 2011 con il titolo Analisi costi-benefici, presenta alcune tabelle assai istruttive. Mostra che durante tutta la costruzione del tunnel le emissioni aumenteranno, a botte di circa 1 milione di tonnellate di Co2 l’anno, accumulando nel tempo oltre 12 milioni di tonnellate. Risultato: l’effetto negativo durerà almeno – ammette l’Osservatorio di Virano – per altri 12 anni dopo la fine dell’opera. Se dunque i lavori inizieranno nel 2020 e dureranno 15 anni (a essere ottimisti), l’apertura del tunnel sarà nel 2035 e poi ci vorranno altri 12 anni prima che si sentano i primi timidi effetti benefici del passaggio (non garantito) dai camion al treno: dunque superinquinamento (garantito) almeno fino al 2047.
Solo da quell’anno il bilancio comincerà a essere positivo, la quantità di Co2 risparmiata sarà maggiore di quella prodotta per realizzare la linea: se davvero il passaggio gomma-ferro avverrà nella misura ipotizzata dai fautori del Tav. Allora il diabetico finirà di essere riempito di torte e avrà finalmente la sua insulina. È un caso evidente di cura peggiore del male. “L’ultimo rapporto dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni unite, dice chiaramente che le emissioni vanno ridotte subito”, spiega Mercalli, “altrimenti nel 2040 avremo già superato la soglia di sicurezza del riscaldamento globale, di 1,5 gradi centigradi”. Lo ha ribadito ieri anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Siamo sull’orlo di una crisi climatica globale per scongiurare la quale occorrono misure concordate”.
Prosegue Mercalli: “Non possiamo più rimandare: invece della cura del ferro che (forse) darà risultati fra 30 anni, possiamo usare i miliardi di euro destinati al Tav per iniziare subito azioni che riducano le emissioni. Azioni con effetti certi e immediati, come collocare più pannelli solari sui tetti degli italiani, cambiare gli infissi alle case colabrodo, aumentare la coibentazione, installare pompe di calore. Tutte azioni che possono dare lavoro a decine di migliaia di artigiani – in tutta Italia e non solo in Valle di Susa – e non ci fanno aspettare 30 anni per ottenere (forse) effetti positivi sull’ambiente”.
Servirebbe un bilancio del carbonio certificato da un ente terzo, conclude Mercalli: “Come l’Istituto superiore di protezione e ricerca ambientale, che mantiene il catasto nazionale delle emissioni climalteranti e potrebbe verificare i costi e i benefici ambientali della Torino-Lione”.
“Ma quale riduzione dell’inquinamento”, aggiunge l’eurodeputato 5stelle Dario Tamburrano, “la linea Tav aggraverà per decenni le condizioni dell’atmosfera”. Per questo ha depositato una interrogazione in cui chiede alla Commissione europea, che finanzia l’opera, se dispone dei calcoli sulle emissioni legate alla realizzazione della linea, e se “non ritenga doveroso abbandonare il progetto per evitare l’aumento delle emissioni, inconciliabile con la necessità di contrastare già nel presente i cambiamenti climatici”.
Ora o Rai più
La scena di un gigante della tv, Freccero, costretto a render conto a una congrega di nani, i politici della commissione parlamentare di Vigilanza, e quella di un direttore generale come Salini convocato come una colf dal vicepremier Salvini la dicono lunga su quello che dovrebbe fare un vero “governo del cambiamento”. Sbaraccare la legge Gasparri-Renzi, che consacra il conflitto d’interessi televisivo dei partiti rendendo i governi azionisti e padroni della Rai. Cancellare la commissione di Vigilanza, dove i partiti vigilano sull’ente radiotelevisivo che dovrebbe vigilare su di loro. E affidare il “servizio pubblico” a un’entità indipendente dalla politica, retta in maggioranza da chi la tv la deve fare e non da chi dovrebbe entrarci solo se invitati, bussando alla porta e chiedendo permesso. I sepolcri imbiancati che criticano la Rai giallo-verde come un fenomeno inedito fingono di dimenticare di aver fatto, fino a 6 mesi fa, ben di peggio.
La Rai berlusconiana epurava Biagi, Luttazzi, Santoro, Freccero, i Guzzanti, Beha, Paolo Rossi, Massimo Fini ecc., spacciava per assoluzioni le prescrizioni di B.&Andreotti e addirittura le condanne per mafia di Dell’Utri. La Rai renziana violava addirittura il sacro principio della lottizzazione (due reti al governo e una all’opposizione), renzizzando tutte le reti e tutti i tg, epurando Gabanelli, Giletti e Giannini e toccando livelli da Pravda nella campagna referendaria, quando il Sì occupava tutti gli spazi e al No toccavano le briciole. Quindi oggi nessuno ha titolo per lamentarsi della lottizzazione giallo-verde, finora peraltro immune da epurazioni. Domenica scorsa, su Rai1, Veltroni dominava il pomeriggio da Mara Venier e Zingaretti la serata da Fabio Fazio, com’è giusto che sia nella totale autonomia dei programmi: ma ve l’immaginate una doppietta Grillo-Di Maio nella Rai1 di B. o di Renzi? Poi, certo, i primi due tg sono insopportabilmente governativi (Rai3 e Tg3 sono rimasti alla “sinistra”). Ed entrambi dalla parte di Salvini (il partito forzaleghista spadroneggia in Rai dal 1994), con puerili e controproducenti concessioni del Tg1 ai 5Stelle (le imbarazzanti cronache dei tracolli in Abruzzo e in Sardegna, trasformati in strepitosi successi). Anche se, va detto, per eguagliare i livelli di servilismo del passato devono ancora lavorare sodo. Minzolingua e Johnny Riotta al Tg1 restano modelli insuperati. Come pure Mazza, il direttore del Tg2 targato An che salutò il V-Day col gesto della pistola, manco fosse un raduno di neobrigatisti (il suo editoriale s’intitolava Grillo e grilletti e fu sbertucciato persino da Fini).
E rivendicò il diritto-dovere di ignorare Il Caimano di Nanni Moretti perché – testuale – “il film è pieno zeppo di allusioni e citazioni riferite o riferibili a Berlusconi. Non essendo annunciato nelle prossime ore nessun film con citazioni o allusioni riferite o riferibili a Prodi, il Tg2 ha deciso di non occuparsi di questo film”. Ora, un “governo del cambiamento” non può accontentarsi di dire che gli altri erano peggio. Dovrebbe proporre qualcosa di meglio. Pretendere che Salvini rinunci a questa potenza di fuoco, è una pia illusione (anche se gli farebbe onore). Gli ex renziani ed ex forzisti Rai convertiti sulla via del Carroccio sono così famelici e rampicanti che il Cazzaro Verde non deve neppure reclutarli: gli basta raccattarli. Ma i 5Stelle in Rai non hanno nessuno: infatti hanno indicato due professionisti indipendenti come Freccero e Salini, più il carneade Carboni al Tg1, che ha paura della sua ombra e si barcamena. Dunque, non avendo nulla da perdere, dovrebbe essere il M5S a fare la prima mossa per una riforma Rai che costringa finalmente i partiti a uscirne con le mani alzate (tutti, non solo gli altri come fece Renzi). E lanciare la sfida ad alleati e oppositori, a cominciare dal Pd di Zingaretti che avrà un’ottima occasione per dimostrarsi nuovo o restare vecchio. Così si vedrà chi vuole un servizio davvero pubblico e chi preferisce i soliti servizietti privati. La riforma è già bell’e scritta: attende soltanto, da 12 anni, che qualcuno la sposi. La preparò nel 2005 un gruppo di giornalisti, artisti e giuristi, fra i quali Tana de Zulueta, Sabina Guzzanti, Michele Gambino, Giovanni Valentini, Curzio Maltese, Carlo Freccero, Giulietto Chiesa e Furio Colombo, in forma di legge di iniziativa popolare, traendo il meglio dai sistemi radiotelevisivi pubblici del resto d’Europa. Le migliaia di firme raccolte furono consegnate nel 2006 al ministro delle Telecomunicazioni (governo Prodi-2), Paolo Gentiloni, che le infilò in un cassetto e le lasciò riposare in pace. Ora quel progetto potrebbe riprenderlo Di Maio, che ha tenuto le Telecomunicazioni, convocandone gli autori (nessuno è “grillino”, anzi) e facendola propria. Il punto di partenza è la creazione di un Consiglio per le Comunicazioni Audiovisive di 24 membri (un terzo designato dai presidenti di Camera e Senato, due terzi da rappresentanti dei territori, del mondo produttivo e sindacale, della cultura e degli operatori radiotelevisivi: Regioni, Comuni, sindacati, imprenditori, consumatori, utenti, editori, autori, artisti, università) in carica per 6 anni (ergo svincolati dalle maggioranze parlamentari). Il Consiglio nomina il Cda Rai, “selezionato mediante concorsi pubblici non in base ad appartenenze politiche, ma a professionalità e indipendenza”, che a sua volta elegge presidente e dg. Anche l’Agcom è nominata dal Consiglio nazionale, con gli stessi criteri di competenza e indipendenza, mentre la Vigilanza è finalmente abolita. Così nessun politicante potrebbe più chiedere nulla a Freccero e, se Salini fosse convocato da Salvini, gli risponderebbe con una pernacchia. Utopia? Può darsi. Ma ogni tanto le utopie si avverano. Basta volerlo.
I texani Beirut raccontano Gallipoli
Partiti in punta di piedi nel 2006, i texani Beirut hanno consolidato in maniera convincente il loro stile unico che unisce l’indie rock alla world music e al folk di matrice balcanica, per via dei fiati e degli ottoni presenti nelle loro pompose orchestrazioni. Da circa un mese è uscito il loro nuovo album, il quinto in studio, e fedeli al loro amore per la toponomastica hanno scelto di intitolarlo Gallipoli. Già, perché, come raccontato in una lettera sul loro sito ufficiale, prende il nome dalla città salentina che hanno visitato durante il periodo in cui ultimavano le registrazioni del nuovo lavoro. Un viaggio da cui hanno tratto grande ispirazione, durante il quale hanno preso parte a una processione religiosa, seguendo la banda di ottoni preceduta dalla statua del santo patrono. Nel tempo, i Beirut sono riusciti a ritagliarsi un loro posto e a trovare una formula originale che li rende riconoscibilissimi e molto imitati. Nonostante i tentativi – apprezzabili – di cambiare le cose, però, Gallipoli suona solo come “un altro disco di Beirut”.
Un mare di jazz: conchiglie, paguri e plastica
Nato come “contributo di amore e di civiltà verso l’uomo e la natura”, Sea Shell – Musica per conchiglie è fotografia della follia dell’uomo moderno che sta uccidendo la forza vitale del mare. Mauro Ottolini per raccontarla utilizza la voce delle conchiglie e i suoni delle lattine gettate sulle spiagge, e ricicla in chiave musicale le bottiglie e i tanti oggetti di plastica che da anni si ammucchiano gli uni sugli altri togliendo ossigeno alla natura.
Il risultato è un’opera – di fatto un concept album – di inaspettata leggerezza, giocosa e policroma, che abbraccia gli stili più diversi: dalla canzone al jazz, alle danze latinoamericane. Con Vanessa Tagliabue Yorke (voce), Vincenzo Vasi (voce, giocattoli sonori rigenerati, plastica e barattoli), Gavino Murgia (voce, pelli, zucche, percussioni sarde e pietre sonanti di Sciola), Rhys Waite (voce, didgeridoo, rombo di tuono), Maurilio Balzanelli (percussioni e strumenti ad acqua), Ottolini (polistrumentista e arrangiatore) e le sue conchiglie realizzano un disco unico, privo com’è di strumenti musicali convenzionale.
Sea Shell mescola, infatti, suoni naturali del mare, del vento, delle cicale, delle pietre sonanti di Pinuccio Sciola, delle lattine raccolte sulle spiagge, i giocattoli sonori, gli strumenti aborigeni e quelli artigianali sardi in armonia perfetta con le percussioni e le voci delle balene o con il rumore dei detriti marini calpestati. E dà vita a una storia che dall’iniziale ouverture Coral Dirge – a Voi siete qui, a Plastic Island, a Black Tide, a Prelude Palude – arriva alle disavventure del paguro, Hermit Crab: costretto a utilizzare un secchiello di plastica come casa nonostante l’aiuto della regina delle conchiglie, La Reina de las Conchas, si racconta in tutta la sua drammaticità ma senza mai appesantirsi. A impreziosire il tutto due piccoli camei: Vinicio Capossela che dà voce a La Madonna delle Conchiglie (a sua firma testo e musica) e il coro di voci bianche, “Le Zucchine”, che rispondendo a What Can I Do For Mother Earth? suggeriscono finali diversi e ancora possibili.
Mitchell & Friends. Omaggio d’autore alla regina del folk
È unanimemente riconosciuta come la più grande songwriter del secolo scorso, l’unica donna capace di competere con i grandi mostri sacri quali Neil Young, Bob Dylan, Johnny Cash e Leonard Cohen. Joni Mitchell (nome d’arte di Roberta Joan Anderson) ha esplorato il folk e il jazz portandoli in dono al rock e al grande pubblico.
Per celebrare il suo 75° compleanno è stato registrato questo disco il 6 e 7 novembre 2018, fedele testimonianza di una festa in suo onore al Music Center di Los Angeles. Ospite d’onore proprio Joni, ormai assente dalle scene in seguito alla sua decisione di lasciare l’industria musicale (e anche per le sue condizioni fisiche, dopo l’aneurisma che l’ha colpita quattro anni fa).
Le scelte delle canzoni proposte celebrano soprattutto l’album Blue – momento cruciale di una carriera brillante –, nel quale l’artista riuscì a essere senza filtri, completamente a nudo. Tra gli ospiti figura Graham Nash – suo ex compagno – con l’unica canzone non firmata da Joni: si tratta di Our House portata al successo da C.S.N. & Y., un ritratto dedicato alla loro storia d’amore.
Dreamland è una esplosione di gioia dei Los Lobos, con i suoi ritmi caraibici e swing; firmano anche una riuscita Nothing Can Be Done, arrangiata ricalcando Nightshift dei Commodores. Diana Krall riproduce quasi fedelmente Amelia con il suo inconfondibile timbro vocale e il pianoforte; Rufus Wainwright esalta il pathos di Blue e All I Want (ricorda la voce di Billy Joel ai tempi di My Life). Help Me cantata da Chaka Khan perde magia rispetto alla versione di k.d. lang contenuta in un precedente album tributo a Joni.
A proposito di altre cover, meritano di essere recuperate The Boho Dance di Björk e Edith And The Kingpin in una versione maiuscola di George Michael. Entrambe le tracce sono tratte da The Hissing Of Summer Lawns, l’album più sperimentale di Joni, con alcuni sample dalle percussioni dei popoli africani (idea poi ripresa in seguito da David Byrne e Damon Albarn).
James Taylor alza l’asticella della qualità con l’intensa River e con la cover di Woodstock, scritta da Joni pur non partecipando di persona al celebre festival. Taylor è una delle punte di diamante del gotha dei musicisti con i quali ha collaborato Joni dalla fine degli anni sessanta: tra i più assidui ci sono stati Jaco Pastorius, Charles Mingus, Herbie Hancock, Pat Metheny, Roger Waters e Peter Gabriel.
Oltre al folk, al country e al jazz, Joni si era innamorata del reggae: l’album Wild Things Run Fast avrebbe dovuto avere la partecipazione dei Police e dei Talking Heads. Chiude l’album l’ensemble degli ospiti con Big Yellow Taxi – campionata nel 1997 da Janet Jackson e tornata in classifica come Got Till’ It’s Gone –, una delle migliori incursioni nel pop di Joni. Il concerto è stato ripreso integralmente dal regista Martyn Atkins per essere proiettato lo scorso mese al cinema e in tv negli Usa, ma potrebbe arrivare presto anche la versione in dvd.
“Via Libia” non è mai una strada innocente
Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Wu Ming 1, pubblicato da “Linus”.
L’Italia detiene molti primati. Una frase che può avere diverse interpretazioni: in effetti, lo Stato italiano tiene in carcere molti esseri umani, che con scimmie e proscimmie fanno parte dell’ordine dei primati. Ma qui per primati intendiamo le primazìe: le volte che un italiano è stato il primo a compiere un’impresa o scoprire qualcosa, o gli ambiti e settori dove l’Italia “primeggia”. […] A noi, qui, interessa una terza categoria: quella dei primati veri ma mai ricordati, e perciò sconosciuti alla grande maggioranza degli italiani. L’Italia ha compiuto il primo bombardamento aereo della storia. Lo ha fatto nei pressi di Tripoli, durante la guerra di Libia, l’1 novembre del 1911. Nel 2011 abbiamo festeggiato il centenario con un remake, partecipando ai bombardamenti Nato contro la Libia.
L’Italia è stata la prima potenza coloniale a innalzare un “muro della vergogna” nel mondo arabo. Ben prima del muro israeliano, o delle barriere di Ceuta. Anche quest’impresa l’abbiamo fatta in Libia, per la precisione nella sua regione orientale, la Cirenaica. […] Nel 1930, a quasi vent’anni dall’invasione, l’Italia occupa quasi solo le città costiere, mentre nell’entroterra, soprattutto in Cirenaica, si scontra con durissime resistenze. I partigiani senussiti, guidati dall’anziano insegnante ‘Omar al-Mukhtar, sono l’incubo del governatore Pietro Badoglio e del vicegovernatore Rodolfo Graziani. ‘Omar ha più di settant’anni e combatte l’Italia fin dalla prima invasione della Libia. La sua abilità strategica, la conoscenza del territorio e l’appoggio della popolazione consentono alle bande armate beduine, i duar, di ridicolizzare il nemico con tattiche mordi-e-fuggi. In cerca della soluzione finale al problema della resistenza, Badoglio e Graziani danno l’ordine di deportare quasi tutta la popolazione civile a centinaia di chilometri di distanza, in sedici campi di concentramento allestiti in fretta e furia. Il fine è isolare i partigiani. Migliaia di persone – donne, vecchi, bambini – muoiono già durante le marce forzate nel deserto. Ancora di più creperanno nei campi, di malattie, di fame, di botte. Gli storici – quelli veri – concorderanno nel definirlo un genocidio. Del resto, in un dispaccio a Graziani, Badoglio lo ha scritto chiaro e tondo (corsivo nostro): “Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”. Ieri e oggi, i campi di concentramento in Libia sono una vera fissazione italiana. Ma nemmeno i campi bastano: per non farsi accerchiare, e per rifornirsi di viveri e armi, i partigiani sconfinano più volte in Egitto. Graziani ordina di chiudere il confine: da lì non deve passare più niente. Si innalzerà una barriera di reticolati, alta un metro e sessanta, larga dieci metri e lunga 270 chilometri. Ecco un’altra fissazione italiana: le “grandi opere”. I lavori partono nell’aprile 1931. Alcune cifre, per capire la scala dell’operazione: 50 milioni di metri di filo spinato; 2000 tonnellate di cemento; 270 milioni di paletti di ferro; 2500 libici presi dai campi e messi ai lavori forzati nel deserto, sorvegliati da oltre mille soldati. Alla fine d’agosto, il confine con l’Egitto è sigillato. […] L’11 settembre, ‘Omar al-Mukhtar viene ferito e fatto prigioniero nei dintorni di Slonta. Lo portano a Bengasi in catene. Una celebre foto lo mostra circondato da pezzi grossi italiani, militari e civili, tronfi e panzuti secondo il dettame “omo de panza, omo de sostanza”. Il processo si tiene pochi giorni dopo, nel Palazzo littorio della città, ed è una farsa. Dura appena tre ore, perché il verdetto è già deciso. Per dare l’esempio, il vecchio comandante viene impiccato nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a trentamila internati.
La sera del 27 settembre 2015, nel giardino pubblico Lorenzo Giusti di Bologna, gli attori della Compagnia Fantasma mettono in scena la cattura e il processo di ‘Omar, mentre il volto del vecchio guerrigliero campeggia su spille e T-shirt vendute per finanziare la serata. È il primo grande evento targato RIC, Resistenze in Cirenaica. Il giardino è gremito e il ricordo di un grande comandante partigiano – perché questo fu ‘Omar – culmina in una lunga ovazione. Si era mai sentito un applauso di italiani omaggiare il “leone del deserto”, terrore delle nostre truppe in Libia? Per giunta, in un rione della prima periferia bolognese chiamato “Cirenaica”. Come altro definirla, se non giustizia poetica? Lo spettacolo conclude una lunga giornata di mobilitazione nel rione. Un serpente di centinaia di persone ne ha affollato le strade, ascoltando dieci ore di musica, canti e storie. […]
Nella tappa più significativa si è ribattezzata “dal basso” via Libia, una delle arterie della periferia orientale di Bologna, coprendo le targhe ufficiali con altre fatte stampare ad hoc. […] Molti si accorgono solo in quel momento che “via Libia” non è un nome neutro né innocente. Le nuove targhe vengono rimosse il giorno dopo, ma il nome di via Libia non è più dato per scontato, e presto segue un nuovo intervento, stavolta nottetempo. Non si copre il nome ufficiale ma, grazie a un adesivo, si aggiunge l’informazione “Luogo di crimini del colonialismo italiano”.
Brexit, May cerca soluzioni per salvare il “suo” accordo
Ridefinire il concetto di in extremis. Quello della premier Theresa May a Strasburgo è stato un ultimo tentativo di salvare l’accordo di dicembre fra Ue e Uk, a poche ore dal voto cruciale con cui, stasera, il Parlamento è chiamato a ratificarlo per la seconda volta, dopo una prima, storica bocciatura. Tutto potrebbe ancora cambiare, ma intanto ecco i possibili scenari.
L’accordo viene ratificato: improbabile. Quello che sarà presentato stasera ai Comuni è un accordo troppo simile a quello sepolto il 15 gennaio. La ratifica salverebbe il negoziato e le parti potrebbero avviare la seconda parte delle trattative sulla Brexit. Ieri mattina circolava il rumour che la May avesse offerto rapide dimissioni in cambio del supporto dei falchi nel suo partito. Offerta rifiutata, ma si scaldano i possibili successori, fra cui il solito Boris Johnson.
L’accordo viene bocciato. In questo caso, come promesso da May, domani il Parlamento voterebbe per decidere se uscire senza accordo, ipotesi a cui i parlamentari sembrano contrari. Con l’eccezione appunto dei falchi Brexiteers, che considerano il no deal non solo l’unica strada per un reale recupero di sovranità, ma anche la più preziosa carta negoziale con l’Ue. Se l’ipotesi no deal viene scongiurata in Parlamento si passa a votare per richiedere all’Ue una estensione dell’articolo 50, che dipende dall’assenso dei 27 Stati membri.