Morti per black-out, guerra di cifre

Cosa sia davvero accaduto e cosa stia accadendo negli ospedali venezuelani in seguito al black-out che da giovedì scorso tiene paralizzato il Venezuela, non è facile riscontrarlo.

L’unica certezza è che anche il collasso della rete elettrica viene usato per alimentare la propaganda contro l’avversario. Il Venezuela è ormai un Paese spaccato tra “maduristi” e “guaidoisti” che non solo scendono in piazza per incoraggiare i propri leader di riferimento, ma usano i social network per sostenere la loro retorica a scapito della verità. Dianela Parra, presidente del Collegio di medici dello Stato di Zulia ha smentito che siano morte 296 persone, fra le quali un’ottantina di neonati, nell’ospedale di Maracaibo, seconda città dopo Caracas. La notizia era stata rilanciata dal senatore repubblicano statunitense Marco Rubio, noto per la durissima posizione contro i regimi socialisti. Anche secondo José Manuel Olivares, deputato oppositore e medico, ci sono stati numerosi decessi, 21 finora, segnalati in varie regioni del Paese, per la mancanza di generatori di emergenza in alcuni nosocomi.

Sabato scorso il direttore della Coalizione di organizzazioni per il diritto alla salute e alla vita (Codevita), Francisco Valencia, aveva dichiarato che 15 pazienti con malattie renali non avevano potuto sottoporsi a dialisi, a causa della mancanza di corrente elettrica, ed erano di conseguenza deceduti. Domenica il leader dell’opposizione, Juan Guaido, autoproclamato presidente ad interim ha confermato che secondo l’ong Medicos por la Salut “15 decessi sono dovuti al blackout”. Ha quindi scritto via Twitter che “15 mila malati renali sono in pericolo se l’elettricità non tornerà, perché senza elettricità non c’è dialisi. Questa è una tragedia senza precedenti”. Il governo invece nega su tutta la linea. Il ministro della Sanità, Carlos Alvarado, ha detto che le informazioni su pazienti morti a causa dello spegnimento dei macchinari che li tenevano in vita “sono assolutamente false”. Alvarado ha sottolineato che dopo un monitoraggio delle strutture sanitarie del paese, il suo dicastero ha potuto stabilire che nel 90% di queste ci sono generatori elettrici funzionanti da almeno due giorni.

Se la mancanza di elettricità è una tragedia per i malati la cui vita dipende dai macchinari, anche per i cittadini in buona salute non è una passeggiata. Durante la notte scorsa è esploso un trasformatore elettrico a Baruta, nella periferia di Caracas, che ha portato a una nuova interruzione dell’erogazione elettrica. Il trasformatore si trova nello stesso quartiere dove, poche ore prima, decine di persone erano state arrestate durante il saccheggio di un centro commerciale.

“Oggi tutto il Venezuela in piazza alle 15”. È il nuovo appello alla mobilitazione lanciato da Juan Guaidò, presidente ad interim durante l’intervento, ieri, davanti ai membri dell’assemblea nazionale. “Il regime cerca di confondere coloro che sono disperati perché vedono i fratelli che muoiono. Non dobbiamo cadere preda della disperazione e della divisione, il successo in questa fase è legato all’unione di tutti i fattori, alla mobilitazione del popolo”, afferma Guaidò. “Dobbiamo rimanere uniti, molto presto avremo la fine dell’usurpazione”.

Bouteflika resa col trucco resta ma non si ricandida

La piazza, da quel 9 febbraio in cui il Fronte di liberazione nazionale lo aveva candidato, non lo voleva e dal 22 erano iniziati i cortei, così come le proteste dei deputati dell’opposizione. Solo l’esercito aveva garantito la sua protezione. Ma il quinto mandato del presidente Abdelaziz Bouteflika, 82 anni, malato e costretto sulla sedia a rotelle, non ci sarà.

Bouteflika resta presidente ma ancora per poco, afferma: “Mi impegno infine, se Dio mi concede vita e assistenza, a rimettere le cariche e prerogative del presidente della Repubblica al successore che il popolo algerino avrà liberamente eletto”.

Nel “messaggio alla Nazione” diramato dall’agenzia Aps, il presidente fa riferimento al suo “stato di salute” affermando che “l’ultimo dovere nei confronti del popolo algerino” è un “contributo alle basi di una nuova Repubblica e un “nuovo sistema algerino” che “saranno nelle mani delle nuove generazioni di algerine e algerini che saranno i principali attori e beneficiari della vita pubblica e dello sviluppo nell’Algeria di domani”.

Il presidente ha nominato premier Noureddine Bedoui, ex ministro degli Interni, accogliendo le dimissioni di Ahmed Ouyahia, ricoverato in ospedale secondo i media. Il vice premier è Ramtane Lamamra.

Bouteflika era tornato ad Algeri il 10 marzo, dopo un ricovero in un ospedale di Ginevra, in Svizzera, iniziato il 24 febbraio e presentato a livello ufficiale come necessario per alcuni controlli “di routine”. Il capo di Stato algerino era stato colpito da un ictus cerebrale nel 2013 e da allora è apparso solo raramente in pubblico; ha difficoltà a parlare e diversi oppositori sostengono che in realtà dalla Svizzera Bouteflika non sia mai tornato vivo. Un tipo di speculazione che passa in secondo piano, almeno oggi, perché chi contestava la sua quinta partecipazione alle elezioni ha vinto, e senza bisogno di ricorrere alle violenze, ma facendo pesare il dissenso popolare.

Ci sarà una reazione a catena perchè la presenza di Bouteflika aveva spinto anche ad una fuga dalle elezioni, previste il 18 aprile e ora posticipate, da diversi personaggi della politica algerina, come il leader del partito Ahd 54, Ali Fawzi Rebaine, che proprio ieri aveva annunciato di non volere più partecipare alla corsa per la presidenza.

Rebaine si lamentava della mancanza di risposte da parte dell’élite al potere dopo tre settimane di proteste. Un altro aspirante candidato, Abdelaziz Belaid, aveva fatto lo stesso. Ora i giochi sono riaperti, almeno in apparenza, e si va verso una “conferenza nazionale inclusiva e indipendente che sarà dotata – secondo il comunicato della presidenza – di tutti i poteri necessari per la discussione, l’elaborazione e l’adozione di tutti i tipi di riforme che dovranno costituire la base del nuovo sistema”.

Nel messaggio alla Nazione Bouteflika – o chi per lui – conferma che la conferenza sarà il primo passo per “un processo di trasformazione del nostro Stato-Nazione, che ritengo essere la mia missione ultima”. La conferenza dovrà “concludere il mandato prima della fine del 2019”, sarà guidata da un “presidente che sarà una figura nazionale indipendente”. Infine, la “bozza di Costituzione definita dalla conferenza sarà sottoposta a referendum popolare” e la “conferenza nazionale fisserà la data delle elezioni a cui non mi candiderò”.

Il Dragone a caccia di mamme

Togli il preservativo, metti il preservativo. Il governo cinese si dimostra sempre più indeciso sulla questione demografica, se non sul lungo, almeno sul breve periodo. Dopo aver messo fine nel 2013 alla politica del figlio unico – durata 35 anni, necessari a diminuire la popolazione quanto è bastato per triplicare la crescita – ora il presidente Xi Jinping è preoccupato dall’arresto delle nascite, cosa che potrebbe far deragliare la seconda economia del mondo, con un impatto globale di vasta portata.

Sarà questo forse il motivo che ha portato Pechino a raccogliere informazioni sulle cittadine “in età fertile”. A scoprire il database è stato Victor Gevers, ricercatore olandese imbattutosi in una cache di informazioni su 1,8 milioni di donne. Divise in colonne, a ognuna di loro è fatto corrispondere sesso, età, istruzione, stato civile, oltre a un campo intitolato “BreedReady”, traduzione maccheronica che sta per “età fertile”. Nonostante la cache sia stata cancellata lunedì, la denuncia del ricercatore ha fatto scattare l’allarme privacy in tutto il paese. E anche qualche domanda. Primo: da dove ha tratto i dati il governo? Secondo: come intende utilizzarli? Al primo quesito in molti hanno risposto chiamando in causa il più grande sito di appuntamenti della Cina, Jiayuan.com, che già qualche tempo fa era stato ritenuto troppo vulnerabile, tanto che un ricercatore era stato in grado di carpire i dati degli iscritti. Fatto sta che le organizzazioni per i diritti umani in Cina gridano alla schedatura mettendola in relazione proprio con le regole di programmazione familiare del governo di Xi Jinping. Ma non è tutto, secondo lo stesso ricercatore olandese, il Partito comunista e l’esecutivo avrebbero messo a punto la tecnica per carpire informazioni attraverso una società di sorveglianza chiamata a monitorare almeno 2,5 milioni di residenti nello Xinjiang. Nella regione vivono minoranze musulmane “schedate” attraverso telecamere a riconoscimento facciale e geolocalizzazione, e in seguito arrestare in un blitz.

Tornando alle donne, il database riunisce notizie su cittadine dai 15 ai 32 anni, di cui l’80% è stato schedato sotto la voce “single” e l’82% come “residente a Pechino”. Nella griglia informativa compaiono voci come “politica” e “in possesso di video”, nonché collegamenti a pagine Facebook, sito vietato in Cina, ma raggiungibile attraverso reti private virtuali. Victor Gevers ha provato a contattare le proprietarie dei profili per capire se avessero dato il consenso per la raccolta delle informazioni, ma per ora il risultato è stata la creazione di forum online in cui a farla da padrone sono preoccupazione e complottismo: alcuni utenti accusano il governo di stare realizzando The Handamaid’s Tale, la serie tv in cui le donne sono costrette e riprodursi. Niente di più facile, visto il deludente tasso di natalità della Cina al minimo storico dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949, con 15,23 milioni di nascite, drammaticamente inferiori ai 21-23 milioni previste dal Partito comunista. Un crinale che entro il 2050 vede un terzo della popolazione composta da persone di età superiore ai 60 anni. Per questo i governi regionali stanno lottando per invertire il trend con sussidi, iniziative di propaganda e nuovi regolamenti sui congedi parentali. A Xiantao, nella provincia di Hubei, gli ospedali si sono offerti di coprire i costi del parto e di dare un sussidio di 500 yuan (66 euro) per il primo figlio e altri 700 (92) per il secondo. A Changsha, nel sud, una campagna pubblicitaria lo scorso anno elencava “I 1001 motivi per avere un bambino”.

Tra il 2016 e il 2017, quasi tutte le province hanno esteso il congedo di maternità. Alcuni temono che tali misure diventino coercitive, simili, anche se opposte, alle multe, aborti forzati e sterilizzazioni degli anni dello stop alle nascite. Sostituite in questo caso con la prevenzione degli aborti selettivi, ad esempio, manovre già evidenti in alcune province; o ostacoli al divorzio, con un periodo di riflessione obbligatorio. L’anno scorso in un articolo del Quotidiano del Popolo, si leggeva: “La nascita di un bambino non è solo una questione di famiglia ma anche un affare di Stato”. Affermazione che farebbe il paio con quanto scritto da un utente nel forum: “A dire il vero, questo tipo di dati è ovunque”.

Omicidio in piazza: ufficiale militare spara e uccide 56enne

Spari improvvisi in piazzale Ferro (La Spezia), nella mattinata di ieri: le pallottole hanno colpito il ristoratore Enzo Daprile (56 anni) davanti agli occhi dei suoi familiari. Il responsabile è già stato individuato: si chiama Francesco Ruggiero, ha 46 anni ed è un sottufficiale dell’Aeronautica militare. Subito dopo aver sparato, ha provato a fuggire ma è stato incastrato dalle dichiarazioni dei molti testimoni presenti sul posto, e a quel punto si è costituito. L’accusa è di omicidio volontario, il movente potrebbe essere passionale: Ruggiero è infatti amico dell’ex compagna della vittima, e in una nota della Forza Armata si legge che le cause di quanto accaduto, “per quanto noto, sono da considerarsi di carattere privato”. Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire i dettagli della vicenda. Per il momento, il corpo di Daprile è stato portato all’ospedale della Spezia, in attesa dell’autopsia. L’Aeronautica Militare ha commentato i fatti esprimendo “sdegno e sgomento”, e si è detta “da subito disponibile per ogni forma di collaborazione e supporto nei confronti dell’autorità giudiziaria inquirente”.

Il test del Dna conferma: “Il figlio è del ragazzino”. La prof interrogata dai pm

Il bambino nato cinque mesi fa è figlio del ragazzo di 15 anni con cui l’insegnante, di vent’anni più grande, avrebbe avuto una relazione sessuale. A confermarlo sono fonti vicine all’inchiesta dopo l’esame del Dna svolto venerdì sul neonato.

L’infermiera di 35 anni indagata per violenza sessuale sul proprio allievo di 15 anni è arrivata in Procura accompagnata dal marito intorno alle 17 di ieri ed è stata sentita dai pm di Prato, Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli, per tutto il pomeriggio e fino a sera inoltrata dopo che i suoi legali avevano manifestato la volontà della donna di parlare con i magistrati che coordinano l’inchiesta. Il marito della donna, invece, avrebbe riconosciuto il bambino come proprio. L’interrogatorio, a cui ha partecipato anche il capo della Squadra mobile Gianluca Aurilia, è stato secretato per tutelare la privacy dei minori protagonisti della vicenda. Il cellulare dell’infermiera è stato sequestrato dai magistrati che così hanno iniziato a visionare anche le chat che proverebbero un rapporto duraturo con il ragazzino di 15 anni, culminato nella gravidanza. “Dove sei?”, “Perché non rispondi?”, “Rispondimi” era il tono dei messaggi che la donna mandava al ragazzino. Nel fine settimana, inoltre, l’infermiera ha più volte chiesto ai propri avvocati di poter “parlare con i genitori” del ragazzino (ma gli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri l’avrebbero dissuasa dal farlo) e avrebbe manifestato la preoccupazione di poter “perdere il figlio” nato 5 mesi fa.

Per adesso quindi resta confermata la versione dei genitori del ragazzo, espressa nella denuncia: l’infermiera, amica della famiglia e insegnante di ripetizione di lingue straniere, non ha mai smentito il rapporto avuto con il ragazzino né la paternità del figlio. Gli investigatori sono arrivati ad attribuire la paternità al 15enne incrociando i test del Dna di quest’ultimo con quelli del neonato nato lo scorso autunno.

Racket alla pizzeria Di Matteo, i proprietari ammettono: “Ai boss cene gratis e pizzo”

Ai giornalidissero che gli spari alla saracinesca nella notte del 24 febbraio non erano un atto intimidatorio “altrimenti lo avremmo denunciato”. Si è poi scoperto che i soci della storica pizzeria Di Matteo, nei Decumani, erano vessati da sempre, facevano cenare gratis gli esponenti del clan, pagavano loro 100 euro a settimana, più 5.000 euro a Natale, Pasqua e Ferragosto, e l’ultima richiesta estorsiva l’avevano subita sabato 2 marzo. Quel giorno si è presentato nel locale Vincenzo Sibillo, ‘o ninn, il padre di Emanuele Sibillo, il “fondatore” della paranza dei bambini ucciso nel 2015 a soli 19 anni, per chiedere 1.500 euro come “regalo extra”. Una fonte confidenziale ha avvertito i carabinieri e il titolare, Salvatore Di Matteo, è stato riconvocato il 6 marzo e ha confermato. Lo si legge nel decreto notificato sabato scorso a Vincenzo Sibillo, Giovanni Ingenito, Giovanni Matteo e Giosuè Napolitano, fermati con accuse di estorsione aggravata. Dopo iniziali reticenze, i proprietari della pizzeria hanno fornito le informazioni per individuare i loro aguzzini. Combaciavano con le intercettazioni ambientali in caserma: i titolari sono stati ascoltati dirsi tra loro “si sa che pagano tutti. .. e nessuno parla…”.

La Corte dei Conti boccia il piano di rientro di Falcomatà. Il Comune rischia la bancarotta

Dopo Catania, anche il Comune di Reggio Calabria rischia di andare in default. Tre delibere emesse nei giorni scorsi dalla Corte dei Conti hanno sospeso il piano di rientro del debito che era stato rimodulato grazie alla legge di Stabilità del 2017. Proprio attraverso questa legge del governo Renzi, infatti, il sindaco Giuseppe Falcomatà (Pd) era riuscito a spalmare in 30 anni gli oltre 87 milioni che il Comune doveva pagare, invece, in 10 anni come era stato stabilito nel febbraio 2013 dai commissari prefettizi.

Questi ultimi, nominati dopo lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, hanno dovuto fare i conti con un contesto ambientale legato alle cosche (come è emerso dalle inchieste della Dda) ma anche con il disastro lasciato dalla “finanza creativa” del centrodestra.

Con Falcomatà, nel 2017, il piano di rientro del debito è stato modificato. Allungando le rate, il Comune pagava 2 milioni e mezzo di euro l’anno. La norma legata alla legge di Stabilità del 2017, però, il mese scorso è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta e quindi, adesso, la Corte dei Conti batte cassa e chiede al Comune di Reggio di rientrare del debito, pagare le rate arretrate e saldare tutto entro il 2023.

Come se non bastasse, al primo gennaio 2015, il “Comune – scrivono i giudici contabili – ha conseguito un risultato di amministrazione pari a 230 milioni di euro”, con un cosiddetto “maggiore disavanzo” pari a 143milioni. Un disastro dai numeri impietosi a cui va aggiunto che l’ente guidato da Falcomatà, nei rendiconti 2015 e 2016, non ha predisposto l’accantonamento per il “fondo perdite per società partecipate” e ha “contenziosi pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria per un importo di 185 milioni di euro”. La Corte dei Conti ha dato 60 giorni di tempo al Comune per chiarire cosa vuole fare. La riunione tecnica, presieduta dal sindaco ieri pomeriggio, ha partorito un viaggio a Roma per chiedere al governo un decreto d’urgenza sulla gestione separata del disavanzo. L’alternativa è che il consiglio comunale dichiari il dissesto.

Colosseo a caro prezzo: il biglietto aumenta del 33%

“Che mattinate felici ho trascorso al Colosseo”. Felici, come scriveva il grande romanziere Stendhal, ma presto anche dispendiose: il biglietto, il cui prezzo era fermo da dieci anni, aumenta del 33%. Dal 1° novembre visitare l’Anfiteatro Flavio (e le altre meraviglie del suo Parco archeologico) costerà 16 euro invece degli attuali 12. “Per adeguarsi agli standard mondiali e combattere il bagarinaggio”, spiega la direttrice. E anche per fare cassa.

Svolta, salasso o novità, questione di punti di vista. Due anni fa il ministero dei Beni culturali, allora diretto da Dario Franceschini, aveva creato il Parco archeologico del Colosseo, con l’obiettivo di rendere il monumento simbolo di Roma più autonomo, incrementare le risorse, valorizzarlo. Ecco dunque la nuova politica di ticketing varata dalla direttrice Alfonsina Russo, dopo l’analisi dei flussi turistici e la comparazione con i costi d’ingresso dei principali siti culturali mondiali.

Il biglietto base, che oltre al Colosseo comprende pure il Foro romano e Palatino, sarà portato a 16 euro. Sempre da novembre arriverà anche il biglietto “Full experience”, che per 22 euro garantisce l’ingresso a tutti i siti per due giorni (invece che uno). La terza novità invece parte da subito ed è già disponibile: col biglietto “Foro Palatino super” con 16 euro si accede al solo Foro romano e Palatino (più i siti speciali), permettendo così l’ingresso nell’area anche nei giorni in cui il Colosseo (più richiesto) ha già raggiunto la capienza massima consentita (di circa 3 mila visitatori).

Biglietti più cari, dunque, ma anche differenziati, per dare ai turisti un’offerta varia e ricca. E fa niente se sarà un po’ più costosa. Per la direttrice Russo, d’altra parte, era il prezzo precedente ad essere basso per il suo valore, non quello nuovo troppo caro. “Il parco è il quarto sito culturale più visitato al mondo ed è il maggiore d’Italia”. Primo per visitatori, ma ultimo (o quasi) quanto al prezzo dell’ingresso: 20 euro per gli Uffizi di Firenze o Piazza San Marco a Venezia, 17 per il Louvre a Parigi, 21 al Natural History di New York. “Vogliamo allineare il prezzo ai confronti e alle aspettative del pubblico – dice la Russo – ma anche frenare tutte le operazioni illegali favorite da un prezzo troppo basso”. Di qui la scelta di un aumento consistente (+33%) per il prezzo che era fermo dal 2008.

Nonostante le buone ragioni della direttrice, le polemiche non si sono fatte attendere. Le prime critiche arrivano dal Codacons, che denuncia “l’incremento tariffario abnorme”: “Ci chiediamo – aggiunge il presidente dell’associazione dei consumatori, Carlo Rienzi – come saranno utilizzati i maggiori proventi”. Non è la prima volta, del resto, che l’aumento dei prezzi di biglietti e musei diventa un caso: proprio a Roma la sindaca Raggi aveva pesantemente criticato la scelta di far diventare a pagamento l’ingresso al Pantheon, decisione presa dall’ex ministro Franceschini e poi ritirata dal suo successore Alberto Bonisoli. Ancora più recente il dibattito sulla riapertura del corridoio del Vasari a Firenze, a caro prezzo per i visitatori: in quel caso addirittura 45 euro in alta stagione. Cosa volete che siano 4 euro in più per la grande bellezza del Colosseo.

Morti 21 membri Guterres: “Volevano un mondo migliore”

Sono almeno 21 i membri delle Nazioni Unite che hanno perso la vita nello schianto del Boeing 737 della compagnia Ethiopian Airlines partito da Addis Abeba, in Etiopia, e diretto a Nairobi, in Kenya. A confermarlo è stato il segretario generale Antonio Guterres (in foto) in una riunione della Commissione sullo stato delle donne a New York, dove è stato osservato un minuto di silenzio e le bandiere sono state tenute a mezz’asta. Per Guterres l’incidente è stato “una tragedia globale”. “le Nazioni Unite sono unite nel dolore”, ha dichiarato, spiegando che “i nostri colleghi avevano tutti una cosa in comune: uno spirito di servire la gente nel mondo e renderlo un posto migliore per tutti”. Intanto ieri l’Assemblea per l’ambiente dell’Onu a Nairobi, si è aperta con la bandiera a mezz’asta e senza il consueto dispiegamento di colorate bandiere nazionali.

Aprendo la plenaria, il presidente dell’Assemblea ambientale Onu e ministro dell’Ambiente estone, Siim Kiisler, ha chiesto ai delegati nella sala, molti dei quali vestiti di nero e in lacrime, di osservare un minuto di silenzio.

B 737 Max: doveva essere un successo, ora è un flop

C’erano tutti i presupposti perché il Boeing 737 Max diventasse nella storia dell’aviazione mondiale un nuovo caso di strepitoso successo in tutte le versioni in cui viene costruito (numero 7, 8, 9 e 10 più il modello 200).

La tragedia di domenica in Etiopia capitata a un aereo della versione 8 in dotazione all’Ethiopian Airlines caduto appena 6 minuti dopo il decollo, che si aggiunge al disastro avvenuto a metà novembre 2018 a un velivolo dello stesso tipo della compagnia indonesiana Lion Air, cambia però il quadro di riferimento. Dai primi accertamenti risulta che le due sciagure abbiano molti elementi in comune; sotto osservazione speciale è un sensore installato nella nuova versione del 737 per aumentarne la sicurezza, ma il cui funzionamento nei due casi specifici sarebbe la causa o almeno una delle cause dello schianto.

Il sensore in questione ha una funzione anti-stallo, cioè avrebbe il compito di impedire che a quote basse l’aereo possa assumere proprio la posizione di stallo e precipiti. Rilevati i dati di rischio e pericolo il sensore impone al velivolo una correzione dell’assetto, cioè gli comanda di abbassare il naso, come dicono in gergo, inclinandosi in avanti per riprendere velocità. Nel caso del jet caduto a novembre sembra che sia entrato in funzione proprio questo sensore e il pilota abbia ritenuto che esso stesse dando una valutazione sbagliata della situazione. Lo stesso pilota avrebbe cercato di forzare senza successo il sensore causando la caduta dell’aereo. Secondo le prime valutazioni sarebbe successo qualcosa di uguale in Etiopia. D’intesa con le autorità mondiali dell’aviazione, la Boeing ha inviato un aggiornamento del manuale operativo per i piloti.

In queste ore, molte compagnie aeree di tutti i continenti si stanno chiedendo quanto sia opportuno confermare gli ordini avviati. La maggior parte delle aziende del trasporto aereo avevano acquistato o stavano opzionando il B 737 Max perché ai loro occhi ha tutte le caratteristiche migliori per entrare in flotta.

Nei cieli volano oltre 250 velivoli Boeing uguali o simili ai due caduti nel giro di 5 mesi. Oltre 100 sono usati da compagnie cinesi: la China Southern, per esempio, ne impiega 24, l’Air China 15, la Shanghai 11, la Hainan 9, la Xiamen 11, la Shenzen 7. Forse è per questa massiccia presenza che le autorità aeree cinesi dopo l’incidente in Etiopia hanno ordinato la sospensione dei voli di B 737 Max, sospensione che però è durata appena 9 ore. In Europa è la low cost Ryanair la miglior cliente del nuovo modello Boeing avendo ordinato 110 B 737 Max e avendone opzionati altri 100. In Italia solo la compagnia Air Italy controllata da Qatar Airlines ha in flotta 3 B 737 Max da maggio dell’anno passato con base a Malpensa e collegamenti di corto e medio raggio con il Mar Rosso, Dakar e all’interno Catania, Palermo, Napoli.

Altri 20 aerei dello stesso tipo sono stati opzionati da Qatar e dovrebbero entrare nella flotta Air Italy entro il 2022. Alitalia non ha in dotazione Boeing 737 Max, ma c’è mancato un soffio che ne ordinasse 140 in base a un’ipotesi di accordo tra il governo italiano e la compagnia statunitense presa in esame ad agosto di un anno fa in un incontro a Roma tra il vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, e il presidente di Boeing International, Mark Allen.

In questo momento sono stati avviati nel mondo circa 5.100 ordini di B 737 Max, il 64 per cento dell’intera produzione Boeing dei prossimi 15 anni, forse la più grande commessa globale mai avvenuta a ritmi così incalzanti.

Entrato in esercizio appena due anni fa, il nuovo velivolo stava imponendosi come il jet di riferimento dell’aviazione commerciale internazionale. Le compagnie aeree lo scelgono soprattutto perché è molto versatile e fa risparmiare. È versatile perché può essere usato indistintamente e con vantaggio sia sulle rotte di corto e medio raggio e anche sul lungo raggio con gli opportuni accorgimenti.

Costa circa 120 milioni di dollari, ma è in grado di accogliere un maggior numero di passeggeri rispetto alle versioni precedenti nei confronti delle quali è anche molto meno rumoroso pur montando motori più potenti di tipo Lip1 al posto dei vecchi Cfm56. Inoltre consuma molto meno facendo risparmiare alle compagnie in media per ogni volo dal 20 al 25 per cento di carburante rispetto alle versioni precedenti.