Al Bano. La “Felicità” che non piace all’Ucraina (quando sei amico di Putin)

 

Gentile redazione, ho appena letto che il ministero della Cultura ucraino ha inserito Al Bano nella black-list delle persone considerate “una minaccia” alla sicurezza nazionale. È uno scherzo o una oculata strategia di propaganda anti-russa?

Loretta Fioroni

 

Al Bano non è l’unico cantante su cui l’Ucraina pone il veto. Nell’elenco degli artisti a cui viene negato il visto di ingresso, pubblicata dal ministero della Cultura dall’agosto del 2015, insieme al cantante italiano, aggiunto lo scorso 6 marzo, compaiono altre 146 persone, tutte colpevoli di aver esternato la propria ammirazione per il presidente russo, Vladimir Putin (e Al Bano lo ha riconfermato proprio ieri). Fra di loro anche l’attore francese Gerard Depardieu e quello americano Steven Seagal. Ma anche Yuliya Samoilova, la cantante russa in sedia a rotelle che era stata candidata da Mosca all’Eurovision 2017, edizione ospitata proprio in Ucraina. Molti degli artisti considerati come minaccia alla sicurezza nazionale ucraina si sono esibiti in Crimea o ne hanno sostenuto l’annessione alla Russia.

La misura, dunque, che certamente mostra lo stato di paranoia cui è soggetto il governo di Kiev, si inscrive in un quadro più ampio di politica anti-russa a cui corrisponde, ovviamente, un’analoga politica da parte di Mosca che, tra l’altro, nel 2014 si è annessa senza colpo ferire la Crimea. In realtà stiamo vivendo una vera e propria “guerra fredda” tra i due Paesi che si materializza, oltreché in episodi guerreggiati, come lo speronamento delle tre navi ucraine nel mare di Azov, per fatti simbolici come quello che riguarda Al Bano.

A fine febbraio, ad esempio, l’Ucraina aveva annunciato la decisione di non partecipare all’Eurovision (che si terrà a maggio in Israele) dopo che la cantante più votata e quindi scelta dal broadcaster nazionale Maruv aveva rifiutato di accogliere le richieste imposte dagli organizzatori, fra cui la cancellazione dei concerti che aveva previsto in Russia. Senza contare la recente “scissione” della Chiesa ortodossa ucraina da quella russa, con la benedizione del patriarca di Costantinopoli. Non a caso, ieri, le truppe russe in Crimea sono state rafforzate “in modo da proteggere il territorio della penisola e gli interessi della Russia nel Mar Nero”, come ha dichiarato il ministro della Difesa russo Serghiei Shoigu. Guerra fredda, ma sempre sul punto di divenire molto calda. E che ieri si è abbattuta sull’incolpevole Al Bano.

Salvatore Cannavò

L’ineffabile Zinga, un supereroe con pochi poteri

Questa rubrica torna a parlare dell’ineffabile Zinga perché lui non è un uomo: lui è un supereroe. Dunque assai affascinante. Confessiamo di amarlo. Sin dal nome, egli ci induce a immaginare qualcosa di trascendentale: “L’ineffabile Zinga” potrebbe essere un rivale di Dylan Dog o magari di Diabolik, anche se il nostro nuovo Gramsci ricorda più che altro Ginko: quello che insegue Diabolik senza beccarlo mai. O magari l’ispettore Rinko, che Boldi interpretava secoli fa in coppia con Teocoli.

Piano però col sarcasmo, a cui voi lettori del Fatto siete abituati poiché grillini, populisti e sovranisti: l’ineffabile Zinga è stato scelto per salvare il mondo, e dunque è per forza di cose un supereroe. Già qui risiede il cortocircuito che lo caratterizza intimamente: gli chiedono di spezzare le reni nondimeno che a Salvini, ma il nuovo segretario del Pd ha piuttosto le fattezze di un salumaio. Te lo immagini proprio, dietro il banco, col cappellino del Vitiano e le unghie un po’ sporche di migliaccio. Saresti portato a chiedergli al massimo tre etti di finocchiona, va da sé tagliata a mano, e invece da lui esigono l’impossibile. Come fosse un Che Guevara sotto mentite spoglie, in grado financo di ridestare un partito catatonico come Nicoletta Braschi ne La tigre e la neve. Oltre a ciò, c’è il paradosso di un uomo oltremodo d’apparato e “nuovo” come il disco di Ligabue (quindi vecchissimo), che assurge però a Salvatore a causa delle devastazioni inferte dai presunti “rottamatori”. Da Renzi – a cui l’ineffabile Zinga ha concesso troppo – fino alle varie Picierno, che vanno pietosamente in tivù a dire che le analisi costi/benefici vanno fatte dopo che le opere sono state costruite: povero Basaglia, quanti sforzi per nulla.

L’ineffabile Zinga vive e lotta per noi, ma forse lo stanno appena appena sopravvalutando. È stato l’unico del Pd a vincere quando tutti gli altri han perso, sì, ma è accaduto perché nel Lazio la candidatura del sindaco di Amatrice ha spaccato il centrodestra. C’è insomma il rischio che l’ineffabile Zinga abbia come qualità migliore l’esser più dotato di nessuno (cioè di Martina e Giachetti) e meno insopportabile di Renzi: così è troppo facile, ci riuscirebbe perfino la Meli (no, la Meli no). Già, ma chi si cela dietro l’ineffabile Zinga? Chi è veramente? Non è laureato. Detesta ormai i 5 Stelle come un Marattin con alopecia meglio vissuta. Fa politica dai tempi di Badoglio e non ha praticamente lavorato mai (non chiamandosi Di Maio, la cosa fa però meno notizia). Odia i congiuntivi come Filini (non chiamandosi Di Maio, la cosa fa però meno notizia). La Sanità, in quel Lazio che continua a governare nei ritagli di tempo (Lui tutto può), non sta messa benissimo. Niente piano rifiuti. Archiviazione per un’indagine legata a Mafia Capitale. Il suo primo atto, come segretario Pd, è stato gridare “O Tav o muerte”: se il buongiorno si vede dal mattino, grandinerà con virulenza. E le Europee? L’ineffabile Zinga, che è poi un Prodi(no) forse fuori tempo massimo, ha le idee chiare: tutti insieme contro il Salvimaio. Wow, che botta di genio e novità. “Le alleanze inclusive 2.0” (cit.). Il Pd, magari senza simbolo (così qualcuno non si accorge di votarlo). La Bonino, con i suoi sette voti in dotazione (Tabacci compreso). I Verdi, che a dispetto delle apparenze esistono ancora. Pizzarotti. E magari Calenda, che tra un cigno scofanato e un Tfr respinto vuole unirsi al coro dei “Santi Democratici” anche se sui migranti ha idee a metà tra Minniti e Salvini (però più di destra). È tutto bellissimo: vinci per noi, ineffabile Zinga!

Crisi e lavoro: il Pd deve ripartire da qui

Tanti hanno partecipato alle primarie sperando di aiutare la ricostruzione di una posizione di sinistra, diroccata da Renzi, che ora tenta di ipotecare la vittoria di Zingaretti. Anche le manifestazioni sindacale e antirazzista di Milano sono state partecipate e importanti. Novità incoraggianti ma insufficienti. Ora la discontinuità del Pd con il passato deve essere netta. La maggioranza giallo-verde finora non ha dovuto fare i conti con una reale alternativa politica. FI e FdI sono subalterni alla Lega, il loro obiettivo è riallacciare con Salvini.

A sinistra un’opposizione confusa e divisa ha attaccato il governo con argomenti contraddittori e senza il coraggio di fare i conti con la sconfitta elettorale. Emblematico il reddito di cittadinanza. Alcune critiche al governo hanno rivendicato il Rei introdotto da Gentiloni, chiedendo di potenziarlo invece di scegliere altre strade, mentre altre critiche hanno ritenuto un errore spendere risorse per alleviare le sofferenze della povertà, raddoppiata in dieci anni, dimenticando che anche gli 80 euro erano destinati ai lavoratori a basso reddito, quindi erano un intervento sulla domanda. Interventi per aiutare i redditi che non bastano per una vita dignitosa sono giusti e necessari di fronte a una crisi che dura da un decennio e non è finita. Il reddito di cittadinanza proposto dal governo ha aspetti criticabili come la confusione tra interventi per l’occupazione e sostegno al reddito delle aree di povertà. L’opposizione di sinistra dovrebbe condividere l’obiettivo e lavorare per correggerne errori e storture, compreso avere ignorato le regioni e i sindacati. Una battaglia si impone ma per correggere in meglio.

Il reddito di cittadinanza non crea occupazione e sono necessari altri interventi che questa maggioranza sembra incapace di fare. Tuttavia reddito di cittadinanza ed altri provvedimenti sono di segno diverso da quelli di Salvini sui migranti e sulla sicurezza.

Zingaretti deve puntare ora a costruire un’alternativa al governo giallo-verde, prima che sia troppo tardi. La precondizione è rompere con la logica renziana del “mai con i 5 Stelle” sconfitta dalle primarie e prima ancora dal referendum costituzionale. Per di più, sulla Costituzione c’è la tentazione nel governo di riscriverne aspetti centrali con troppa faciloneria. La destra non ha i voti in Parlamento, mentre una qualche convergenza tra Pd, sinistra e M5S potrebbe essere un’alternativa. Un confronto tra Pd, sinistra e 5Stelle non è semplice ma – ad esempio – la proposta del salario minimo è una novità a fronte della frantumazione e della svalutazione del lavoro. Questo governo non è in grado di governare l’Italia in crisi, per di più in continuità con Renzi ha ignorato le rappresentanze sociali, sindacati in testa. Ridare ruolo alla rappresentanza sociale è un punto chiave del futuro politico di questo paese. Zingaretti deve assumerlo esplicitamente.

Se il governo arranca, la difficoltà è politica. Se l’Italia non vuole perdere il contatto con il gruppo di testa dell’Europa deve mobilitare le energie politiche, intellettuali e sociali che possono aiutare a fare uscire il Paese da una crisi pericolosa. La risposta deve essere politica e deve valorizzare il contributo delle forze sociali e intellettuali fondamentali di cui l’Italia tuttora dispone. Occorre costruire un progetto di futuro su cui far convergere governo e parti sociali. Il governo propone, le forze sociali fondamentali e l’intellettualità ne discutono e si tenta una sintesi condivisa, con impegni e verifiche precisi. Il punto di partenza deve essere la valorizzazione del lavoro, la sua quantità, la sua qualità, la sua crescita nella considerazione sociale, retribuzioni comprese.

Per un patto credibile occorre un governo affidabile e quello attuale non lo è, quindi il suo superamento è centrale, ora.

Muti (e incompetenti) sul Caravaggio

La religione del fare, il culto del sì alla qualunque, il sipuotismo a prescindere, la retorica dello “sbloccare l’Italia” ha un altro illustrissimo sacerdote: Riccardo Muti, che ieri ha tuonato dalla prima pagina di Repubblica (con lo spazio e l’evidenza che gli competono, e col fragore di una intera sezione di fiati) contro il “danno all’Italia” che sarebbe stato inferto dalla decisione del ministero per i Beni culturali di non consentire il prestito di una pala d’altare di Caravaggio conservata in una chiesa napoletana a una mostra altrettanto napoletana.

Tutto lascia credere che tra breve vedremo il Maestro dirigere una oceanica manifestazione di madamine Sì-Tav: perché identico è il furore ideologico. In entrambi i casi non si entra nel merito, non ci si fanno domande, non si esercita il diritto-dovere del pensiero critico.

Esattamente come in politica la parola “cambiamento” è ormai sinonimo (assai spesso, ahimé, a torto) di “miglioramento”, così nel senso comune di un discorso pubblico senza forma né decenza il Sì – dal referendum costituzionale allo “sblocco dei cantieri” (tutti: come fosse una questione ontologica) – è sempre buono, positivo, virtuoso, generoso, ottimista, aperto al futuro. Laddove il No è sempre cattivo, negativo, ignavo, gretto, pessimista, passatista.

E invece: quanto sarebbe migliore questo Paese se la sua classe dirigente non avesse sempre strisciato sul ventre, sibilando un “sì” a ogni capo, a ogni potente, a ogni corruttore? Quanto più sano l’ambiente e bello il paesaggio se sindaci e assessori avessero saputo dire più “no” al cemento, e alla speculazione che lo ha fatto piovere su terra e mare? Quanto più sana e credibile la politica, se i deputati e i senatori della Repubblica avessero saputo dire “no” ai capibastone dei partiti?

Nulla da fare, in nessun Paese come in Italia è straniero lo scrivano Bartleby, che trovava il coraggio di dire “preferirei di no”. Il conformismo, il servilismo, l’inchino al potere sono i sacramenti della vera religione del bel paese dove il Sì suona a prescindere, osannato dal coro dei tromboni.

Riccardo Muti, naturalmente, non ci spiega perché sarebbe stato vitale prestare quel benedetto Caravaggio, e perché questo mostruoso “no” metterebbe in ginocchio Napoli e l’Italia. Non lo fa, dichiarando: “Non scendo nel merito delle decisioni politiche”. Come si osservò al tempo della “discesa in campo” del B.uonanima, nell’immaginario dell’élite italiana la politica è sempre in basso, qualcosa in cui si “scende”. Come faceva il babbo di Benigni, quando usciva di casa con la carta igienica notificando che “scendeva in campo”, non possedendo un bagno.

In questo caso, oltre al verbo nemmeno l’aggettivo funziona.

Perché forse i solerti amici del suo amico, il direttore di Capodimonte, non hanno avuto modo di spiegare al Maestro che la decisione di non prestare il Caravaggio non è “politica”, ma rigorosamente “tecnico-scientifica”. Una decisione presa in scienza e coscienza, applicando la legge e facendo una valutazione: che naturalmente può essere giusta o sbagliata. Ma che è giusta o sbagliata in base a criteri, elementi oggettivi, saperi di cui Muti non parla, e che anzi egli, del tutto legittimamente, ignora in radice.

E dunque, nonostante l’illusione ottica (anzi, giornalistica) dell’uomo di cultura che parla di cultura, Muti che parla del prestito o non prestito di un Caravaggio vale quanto un fiorista, un fisico nucleare, un formaggiaio.

Fin dal suo sorgere (alla metà degli anni Settanta) il ministero per i Beni culturali ha visto la difficile convivenza di saperi tecnico-scientifici, che erano lì per essere autonomi dalla politica, e di quest’ultima, che contrastava quella vitale autonomia. Negli ultimi anni, la dittatura di un sistema delle mostre puramente fondato sui ricavi economici (di pochi operatori privati, spesso fortemente connessi al sottobosco della politica) ha costretto gli uffici tecnici del Mibac a dire sempre e solo sì alle domande di prestito più folli, sia per i rischi conservativi sia per la nullità culturale delle iniziative.

L’attuale ministro, invece, ha incredibilmente permesso che a rivestire il vertice del potere tecnico ministeriale fosse Gino Famiglietti, noto per obbedire solo alle ragioni della tutela: quelle che lo hanno portato a non consentire che un’opera delicata lasciasse il suo vivo contesto per andare a una mostra uguale ad altre mille, e pensata solo per moltiplicare i biglietti.

La serietà e la responsabilità: ecco il terribile “danno all’Italia” denunciato dal maestro Riccardo Muti.

“Zinga” cambi il Pd ma non per fiction

Per il Pd di Zingaretti la congiuntura potrebbe essere molto favorevole. Ma, come si dice, la Fortuna domina nelle vicende umane e per poterne sostenere l’urto occorre saper comprendere bene la situazione e cogliere le occasioni con grande virtù e quasi al volo. Per Zingaretti il tempo per dare inizio alla costruzione di un nuovo partito è brevissimo, da qui al voto europeo.

Potrebbe anche darsi il caso che il voto, per le ragioni “naturali” che ora esporrò, non vada male, ma se fosse speso male il tempo breve da qui a maggio, la forza d’inerzia porterebbe inevitabilmente a proseguire col vecchio e mai nato Pd. La situazione è favorevole, comunque, al Pd per la sua oggettiva collocazione: mentre la stessa egemonia salviniana sul centrodestra ne definisce l’area impedendone ogni ulteriore allargamento, emerge con sempre maggiore evidenza la fisiologica difficoltà, se non incapacità, a governare del Movimento 5 Stelle, proprio per quella sua natura “perversa e polimorfa”, che ne aveva promosso il successo giovanil-nuovistico. Il Pd, in questa situazione, può “capitalizzare”, da un lato, “valori” tradizionali della sinistra contro nazionalismi xenofobi e regressivi ( “valori” su cui i leader pentastellati debbono ora per forza tacere dopo le penose figure al seguito del peggior Salvini) e, dall’altro, presentarsi come una affidabile forza di governo. Limitandosi a un tale esercizio e svolgendolo con un po’ di diligenza, Zingaretti può portare il Pd a un risultato dignitoso. Primum vivere, certo – ma forse qualcosa di più potrebbe essere virtuosamente spremuto dalla situazione. Per ottenerlo, temo però che il nuovo segretario debba mostrare fin d’ora la sua reale intenzione di rifondare il partito, senza limitarsi a profittare delle rendite che i limiti altrui oggi gli garantiscono.

Guai a opporre alla crisi dei 5Stelle generici europeismi e generici appelli alla responsabilità e governabilità. Delle diatribe interne ai suoi leader non interessa nulla; interessano quei settori di opinione pubblica, diversi tra loro, che hanno creduto di trovare nel Movimento 5 Stelle la possibile risposta a drammatici e reali problemi. È su di essi che il Pd deve avanzare proposte non conservative e proporle, con giusta modestia, al confronto. A partire da reddito e occupazione. Meglio il casino del reddito di cittadinanza degli 80 euro. Ma, cari 5Stelle, manca ancora l’apparato amministrativo che saprà far funzionare il reddito; e manca una politica di bilancio in grado di garantirne la copertura nel tempo (non si potrà finanziare all’infinito aumentando il debito). E poi le infrastrutture e i lavori pubblici. Certo, uno Stato non può funzionare senza un minimo di continuità amministrativa. Ma, vivaddio, bene farla finita con l’ideologia delle Grandi Opere, dei Mose e dei Tav, bene puntare su riassetto idrogeologico, cura e manutenzione del territorio. E non vi pare, tuttavia, che per una vera politica ecologista, senza ideologismi o settarismi infantili, sia necessaria una riforma delle Regioni e degli Enti locali? O pensate che gli interventi sul territorio possano essere decisi a Roma dai Toninelli di turno (o dai Salvini)? E allora come mai, amici dei 5Stelle, non esiste alcuna vostra proposta in materia? Zingaretti, da parte sua, saprà avviare finalmente nel Pd un lavoro serio per rilanciare le riforme amministrative e istituzionali necessarie, dopo il fallimento del referendum renziano? E poi ancora, scuola, formazione, ricerca. Possibile che un movimento nato e cresciuto nel virtuale, nel digitale, nel web, ecc., non apra bocca su tali materie? E il Pd avrà compreso che la ricetta non è certo quella “buona scuola” che gli ha fatto perdere qualche centinaia di migliaia di voti? Europa, infine, madre di tutte le battaglie. Per far comprendere all’elettorato 5Stelle che l’Unione europea è necessaria, occorre che il Pd esprima chiaramente come e con chi sia possibile cambiarne strategia economica e ruolo internazionale. Una forza nata nel web può credere alla potenza degli Staterelli? Il Pd riuscirà a spiegare che la costruzione di una sovranità europea in un contesto federale è l’unico modo di salvare anche un’autentica sovranità nazionale? Se riuscirà a spiegarlo, l’intesa con vasti settori di elettorato giovane dei 5Stelle risulterà naturale.

Ma chi elaborerà questi contenuti e li comunicherà nei prossimi mesi? A ciò dovrebbe essere chiamato il gruppo dirigente del Pd. Se nascesse a imitazione del precedente, o come un pasticcio tra vecchio e nuovo, anche le sue proposte finiranno con l’apparire nel segno della continuità. E non potranno rappresentare alcun nuovo inizio – ciò che solo potrebbe strategicamente mutare gli equilibri politici italiani. Zingaretti non potrà misurare il suo successo soltanto sulla tenuta alle Europee, ma se, ben oltre quella scadenza, avrà mostrato nei fatti di voler costruire un gruppo dirigente nuovo, un partito nuovo con un nuovo statuto, e su questa base e con queste forze un rapporto diverso, positivo con quei corpi sociali, quegli interessi, quelle culture che hanno abbandonato il Pd non perché trasformati da qualche Circe in salviniani o sovranisti, ma per la ragione esattamente opposta: perché populista era diventata la leadership del partito, e incapace di rispondere alla crisi sociale, alle disuguaglianze, alle domande della sua stessa gente.

Tutte le consulenze che portano ad Alpa

Condotte è la terza società di costruzione italiana ed è finita in amministrazione straordinaria nell’agosto del 2018. I tre commissari prescelti dal Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio per portarla in salvo sono Giovanni Bruno, Matteo Uggetti e Alberto Dello Strologo. Bruno è un professore e avvocato che è stato allievo di Guido Alpa, a sua volta professore illustre e notoriamente vicino al presidente Giuseppe Conte. Matteo Uggetti è invece un commercialista giovane ma di chiara fama che proviene dalla società di consulenza Deloitte. Di lui si è parlato nelle cronache locali quando protestò con una lettera per l’arresto del fratello Simone, il sindaco di Lodi, recentemente condannato per la turbativa nello scandalo piscine a 10 mesi in primo grado. Infine c’è, o meglio c’era, Alberto Dello Strologo, commercialista con svariati incarichi che però si è fatto da parte di recente e non ha firmato il piano di risanamento. Il suo addio con conseguente rinuncia a una parcella che potrebbe raggiungere i 3 milioni di euro negli anni a venire, è avvolto nel mistero.

I commissari sono stati nominati dal ministro Luigi Di Maio che però a differenza dei suoi predecessori ha sostanzialmente abdicato in favore della tecnocrazia e della sorte. I commissari delle grandi imprese in crisi non sono stati scelti dal ministro ma con un sorteggio vero. Ciascuno a partire da una rosa di cinque nomi preselezionati da un’apposita commissione di tre componenti nominata a luglio da Di Maio. Il sorteggio agostano che ha portato alla nomina di Uggetti, Bruno e Dello Strologo è stato ripreso dalle videocamere e postato su Youtube proprio per evitare sospetti di sorta.

All’esito di questa procedura lunga e ‘casuale’ alla fine i commissari prescelti dalla sorte hanno optato per consulenti e avvocati che sono stati in passato vicini al presidente del consiglio.

I due commissari hanno presentato il 3 marzo scorso il loro piano di risanamento del gruppo Condotte al Ministero. Entro fine aprile dovrebbe giungere il via libera del Mise ai commissari e lo scoglio più importante è la concessione del prestito ponte da parte delle banche. Quel finanziamento dovrebbe immettere i soldi necessari per far ripartire i cantieri e gli istituti si son detti pronti a finanziare ancora Condotte previa garanzia statale del prestito che dovrebbe essere concessa dal Governo per circa 60 milioni.

L’altra partita fondamentale, e di rilievo pubblico, per la sopravvivenza del gruppo è la cessione delle società controllate da Condotte che sono impegnate nella costruzione del passante dell’alta velocità a Firenze alla RFI, società del gruppo FS, controllato ancora una volta dal Ministero dell’Economia.

I commissari stanno cercando di vendere a Rfi la Ergon (al 70 per cento di Condotte che è a sua volta controllata da Nodavia, società che in passato era di Coopsette e che si è impegnata a realizzare la stazione Foster e il tunnel dell’Alta velocità di Firenze) per poter incassare un po’ di milioni e abbandonare uno dei cantieri più sfortunati della storia d’Italia. La cessione di Ergon a Rfi è vitale per Condotte. La riunione sul tema, organizzata dai commissari di Condotte con i rappresentanti di RFI, alla presenza dei legali di entrambe le parti oltre a vari tecnici non si è tenuta al Ministero o nella sede di RFI o di Condotte. Il luogo prescelto è stato lo studio Alpa in piazza Benedetto Cairoli numero 6 a Roma.

Perché è stata scelta quella sede? Al Fatto risulta che nelle conversazioni tra i commissari di Condotte e i tecnici di RFI si è fatto riferimento a una consulenza in arrivo da parte di Condotte per lo studio del professor Guido Alpa. Al Fatto risulta che l’ammontare della parcella, commisurata all’entità della questione trattata, almeno nelle intenzioni dei commissari, potrebbe essere pari ai “medi di tariffa professionale ridotti del 50 per cento”.

La riunione allo studio Alpa si è svolta il 14 febbraio del 2019 nel pomeriggio nell’ampia sala riunioni che in passato ha frequentato anche il presidente del consiglio Giuseppe Conte quando lavorava come avvocato nello stesso stabile, con la stessa segreteria, con lo stesso numero telefonico di studio Alpa ma – come ha sempre precisato Conte – in un altro appartamento a un piano superiore dello stabile. Il 14 febbraio comunque a studio Alpa non c’era il professor Guido Alpa.

Il Fatto Quotidiano ha chiesto sia a RFI sia a Condotte di spiegare chi e perché abbia scelto quella sede. Abbiamo chiesto anche se Alpa ha ricevuto o riceverà un incarico e per quale ammontare. Non è pervenuta alcuna risposta, nemmeno dal professor Alpa.

Allora abbiamo consultato l’elenco degli incarichi conferiti ufficialmente dai commissari nella sezione ‘trasparenza’ sul sito di Condotte. Abbiamo scoperto così altri incarichi legali ad avvocati di grido ma nessuno a nome di Guido Alpa. C’è però nell’elenco un altro professore avvocato. Si chiama Luca Di Donna, ha 40 anni è professore ordinario di diritto privato alla Sapienza ed è un grande amico di Guido Alpa e Giuseppe Conte. Il suo nome figurava sulla targa posta davanti alla porta dello studio Alpa sotto quelle dello stesso Alpa, di Conte e del professor Claudio Consolo come si può vedere nella foto scattata tempo addietro e pubblicata a gennaio 2019 da Blitz Quotidiano.

Di Donna oggi occupa l’ufficio all’interno 11 del palazzo di proprietà della società Immobiliare Piazza Benedetto Cairoli Srl. Lo stesso ufficio che era occupato da Giuseppe Conte.

Luca Di Donna ha ottenuto dai commissari di Condotte un incarico importante: “Assistenza professionale a supporto della formazione del Progetto di stato passivo”. Il compenso dovrebbe superare i 160 mila euro. Sul sito Condotte c’è scritto infatti che Di Donna guadagnerà “110 euro per domanda tempestiva più 120 euro per ogni domanda tardiva più 150 euro per le domande estere”. Le domande di insinuazione al passivo presentate sono 1.467. Se poi a Luca Di Donna i commissari affidassero anche la verifica delle domande dei creditori alle società controllate ammesse per attrazione nell’amministrazione straordinaria, il compenso potrebbe salire ancora. Al Fatto non risulta che ci sia un legame tra l’incarico certo a Luca Di Donna da parte di Condotte e quello, allo stato incerto visto che non ci è stato confermato né da Alpa né da Condotte, allo studio Alpa.

Inoltre, stando almeno alle targhe degli studi, Luca Di Donna ora ha preso in affitto lo studio al piano superiore dello stesso stabile e quindi non ha nulla a che fare, nemmeno da un punto di vista immobiliare, con Guido Alpa. Anche il professor Luca Di Donna non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Ovviamente il fatto che l’ufficio occupato dal professore sia lo stesso che un tempo occupava Giuseppe Conte però non significa nulla. Si tratterebbe di una pura coincidenza immobiliare: secondo quanto riferiscono da Palazzo Chigi, Conte non avrebbe più messo piede in quello studio. “Il presidente Conte ha disdetto il contratto di locazione dell’appartamento. Poi il proprietario lo ha autonomamente riaffittato. il professor Conte comunque ha sempre avuto attività professionali distinte da quelle dei professori Alpa e Di Donna”.

Tornando a Condotte, l’elenco dei consulenti è lungo. Tra i più attivi c’è sicuramente Giulio Angeloni. Laureato nel 2006 e avvocato dal 2011, Angeloni, stando al sito avrà il compito di “consulenza legale fallimentare” e varie. Il suo compenso è di 18 mila euro lordi al mese. Angeloni fa parte dello studio associato del professor Andrea Zoppini, ex sottosegretario del governo Monti, in ottimi rapporti con Conte ma anche con i figli di due presidenti della Repubblica cioé i professori Giulio Napolitano e Bernardo Giorgio Mattarella. Sempre il solito Angeloni, insieme a un altro avvocato dello studio Zoppini, Vincenzo Di Vilio, ha ottenuto un separato incarico dai commissari per una contesa con Ubae Spa da 12,5 milioni di euro. Il compenso è il solito “medi di tariffa ridotti della metà”.

Tra gli studi legali che sono stati coinvolti dai commissari di Condotte spicca un peso massimo come Delfino e Associati Willkie Far & Gallagher. Sul sito di Condotte c’è scritto che lo studio Delfino si occuperà di “consulenza lavoristica” in varie forme. La tariffa è sempre quella media ridotta ancora della metà. Cliccando sul nome dello studio nella sezione ‘trasparenza’ appare il curriculum dell’avvocato Patrizio Bernardo, socio dello studio, classe 1967, responsabile appunto del dipartimento lavoro.

Però al Fatto risulta che c’è un altro professionista che sta seguendo, come ponte con la filiale americana, un’altra questione delicata: lo stop seguito a un’inchiesta dei magistrati panamensi sulla costruzione di un centro sportivo da parte di un consorzio di cui fa parte Condotte Panama. Il professionista che fa da ponte tra Condotte e la sede americana dello studio Wilkie Far & Gallagher è Stanislao Chimenti.

Anche Chimenti è stato commissario straordinario di grandi imprese in crisi e rimase impigliato in un’inchiesta per un incarico affidato quando era commissario della società tessile molisana Ittierre a Donato Bruno, avvocato e parlamentare di Forza Italia, titolare dello studio che ospitava anche Chimenti. Anche se non era socio dello studio di Bruno, i pm contestarono a Chimenti l’incarico dato al collega. L’avvocato è stato prosciolto dalle accuse più gravi e solo per l’ultima contestazione marginale ha fruito della prescrizione, su consiglio dell’avvocato Grazia Volo.

Conte, secondo la stampa, sarebbe stato padrino del figlio di Chimenti ma l’avvocato, consultato dal Fatto precisa: “Mi sembra assurdo rispondere a queste domande. Non c’entro nulla con l’incarico affidato da Condotte al mio studio. Non è esatta nemmeno la storia del padrino. Mia moglie è amica della ex moglie di Conte che è stata la madrina di mio figlio. Mi creda queste storie non c’entrano nulla: lo studio di cui faccio parte è uno dei più grandi al mondo ed è per questo che è stato selezionato”. E la questione dell’inchiesta panamense sulla costruzione della Città sportiva di David Y Colon? “Se ne occupano i legali americani, non io”, giura Chimenti.

Accanto a questa schiera di professionisti che conosce bene Giuseppe Conte troviamo anche un avvocato che è stato sull’altra parte della barricata rispetto al premier-avvocato. Si chiama Domenico Ielo e ha firmato un parere che andava in senso opposto al parere dell’allora avvocato Giuseppe Conte sulla questione della golden power su Retelit.

L’avvocato Domenico Ielo che ha incrociato la penna con Conte non è omonimo del pm ma è il fratello più piccolo di Paolo, procuratore aggiunto di Roma. Il pm Ielo non si è mai occupato e mai si occuperà di Condotte, fanno sapere fonti bene informate, per evitare qualsiasi fraintendimento. Il fratello del procuratore inoltre vanta un curriculum solido ed è stato partner per dieci anni di studio Erede Pappalardo prima di mettersi in proprio con il collega Giovanni Mangialardi, nello studio milanese in via Bandello. Anche lui è un tipo tosto: “Nessuno, né a Condotte né altrove, tra i miei clienti mi ha mai fatto il nome di mio fratello. Se lo facessero – spiega Domenico Ielo – io rimetterei all’istante il mandato”. Più chiaro di così.

Lo Studio Ielo-Mangialardi insieme ad altri professionisti, ha avuto dai commissari di Condotte un incarico da “251 mila euro per il primo anno con progressive riduzioni del 15% in caso di rinnovo per anni successivi”. L’incarico è importante perché riguarda contese importanti: “Assistenza legale per la gestione giudiziale e stragiudiziale delle riserve. Valore complessivo delle cause: 484 milioni” più “stragiudiziale” per altri 100 milioni di euro.

Sul sito internet è scritto che il gruppo di professionisti che dovrà svolgere l’incarico è composto di ben sette avvocati. Però alla coppia Ielo-Mangialardi (che ha ricevuto la richiesta di presentare l’offerta dai commissari di Condotte e poi ha chiesto un aiuto per svolgere la commessa ai colleghi) andrà l’80% del totale. Più altre parcelle per alcune decine di migliaia di euro per altri incarichi extra conferiti solo allo studio Ielo-Mangialardi. Comunque, tutti gli incarichi legali affidati sono stati preceduti da un beauty contest, cioé una valutazione comparativa di offerte e curriculum, fanno sapere fonti vicine alla società.

Fca, siglato il nuovo contratto (senza Fiom) Riduzione dei premi

Gli stipendi degli 87 mila lavoratori italiani di Fiat Chrysler diventeranno un po’ più alti. I premi, invece, saranno un po’ ridotti. Anche su questo compromesso, ieri è stato trovato l’accordo per il nuovo contratto collettivo di Fca. Pure questa volta, c’è la firma della Fim Cisl e della Uilm, ma non quella della Fiom Cgil. La paga di base, quindi, sarà aumentata del 2% per quattro anni. Complessivamente crescerà dell’8,24% (i sindacati chiedevano il 10%), e diventerà stabile con 144,5 euro al mese. Parte di quanto concesso sul salario Fca potrà recuperarla con una sforbiciata al premio quadriennale: elemento della retribuzione che finora è stato riconosciuto in base ai risultati economici. Finora è stato versato con una quota anticipata e una saldata in seguito. Ora la prima sarà assorbita dal premio di efficienza, la seconda cancellata. Non è facile quantificare il saldo per i lavoratori, ma la Uilm assicura che i lavoratori ci guadagneranno. Secondo il segretario Uilm Rocco Palombella, il contratto “sfida la crisi”. La Fiom, invece, insiste sulla necessità di “un patto per innovazione e occupazione”, visto che diversi stabilimenti usano ancora la cassa integrazione.

Navigator, intesa tra Regioni e governo 3mila invece di 6mila e più autonomia

Non più 6 mila navigator, ma 3 mila. Finalmente si è sciolto il nodo della riforma dei centri per l’impiego, passaggio fondamentale per l’avvio del Reddito di cittadinanza. Dopo settimane di forti scontri, ieri sera è stata raggiunta l’intesa tra il governo e le Regioni, che hanno approvato all’unanimità la proposta presentata dal ministro, Luigi Di Maio.

Sarà dunque dimezzato il numero degli operatori da assumere a livello centrale, attraverso la società pubblica Anpal Servizi che li incaricherà di seguire i percettori del reddito nella ricerca dell’occupazione. I piani originari del governo prevedevano un forte potenziamento di personale addetto ai servizi del lavoro in vista della partenza della nuova misura. Oggi, infatti, nei centri per l’impiego ci sono solo 8 mila dipendenti, troppo pochi per gestire il flusso atteso nei prossimi mesi. La titolarità di queste strutture, però, è delle Regioni alle quali la Costituzione affida la competenza in materia di politiche attive del lavoro. Quindi devono essere le stesse Regioni ad assumere, procedimento che però richiede il passaggio dei concorsi pubblici e rischia di dilatare i tempi. Così Di Maio aveva pensato a un piano per stringere: reclutare 6 mila navigator come collaboratori dell’Anpal Servizi (con contratto di due anni) e spedirli alle Regioni. A queste ultime, invece, era permesso di assumere altri 4 mila dipendenti a tempo indeterminato e 1.600 a tempo determinato per un totale di 11.600. Questa forzatura è stata vista come un’invasione di campo dalle Regioni e la Toscana ha anche presentato un ricorso alla Corte costituzionale per rivendicare le proprie attribuzioni. Perciò è partita la trattativa.

Come anticipato martedì scorso dal Fatto Quotidiano, Di Maio ha suggerito un compromesso: ridurre i 6 mila navigator da far assumere subito all’Anpal Servizi e non mandarli in tutte le Regioni, bensì solo in quelle che ne facessero richiesta. Ferma restando la possibilità per le stesse Regioni di prendere i 5.600 addetti promessi, numero da aumentare ancora dopo il 2021.

La prima ipotesi circolata è stata quella di passare da 6 mila a 4.500 navigator centrali. Poi sono diventati 3.500: ancora troppi per le Regioni. L’ulteriore taglio a 3 mila ha permesso di trovare la quadra. L’accordo raggiunto costituirà un emendamento che finirà nella conversione in legge del Decretone sul Reddito di cittadinanza.

Beffa per gli stranieri: 100 mila perderanno sia Rei che Reddito

“Oggi percepisco il reddito di inclusione, il Rei. Ma che succede se chiedo il Reddito di cittadinanza? Perderò il mio attuale sussidio fino all’arrivo del nuovo?”. In questi giorni, i centri di assistenza fiscale sentono spesso porre questa domanda. I beneficiari dello strumento di lotta alla povertà del governo Gentiloni temono di perdere l’assegnazione nel passaggio alla nuova misura giallo-verde. “Stiano tranquilli – chiarisce Paolo Conti, direttore generale dei Caf Acli –. Continueranno a ricevere la ricarica della carta acquisti Rei fino all’arrivo di quella del reddito di cittadinanza. E anche una volta presa quest’ultima, la card Rei si potrà usare fino all’esaurimento delle somme. Nessuno perderà nulla”.

Il decretone, ora all’esame delle Camere per la conversione, parla chiaro: dal primo marzo non è più possibile chiedere il reddito di inclusione. Chi oggi lo sta prendendo continuerà a riceverlo per tutta la durata prevista, cioè fino alla fine dei 18 mesi, rinnovabili per altri 12. Se fa domanda di reddito di cittadinanza, una volta ottenuto ci sarà una sostituzione. Ma nell’avvicendamento tra uno strumento e l’altro, non resterà a mani vuote. Esempio: una famiglia di quattro persone continuerà a prendere i 461 euro mensili di Rei fino al primo mese di erogazione del nuovo sussidio che diventerà da 1.180 euro. “Ci chiedono anche che succede se la domanda di reddito di cittadinanza viene respinta. Niente, il Rei non si perde. Ribadisco: la richiesta di reddito di cittadinanza, ancorché accolta o respinta, non sospende il caricamento della carta Rei”.

Quella del beneficiario di Rei escluso dal reddito di cittadinanza, invece, sembra un’ipotesi assurda, ma possibile. L’Istituto nazionale di analisi delle politiche pubbliche (Inapp) stima che 116 mila persone (80 mila famiglie), per il 90% stranieri, si troveranno in questa situazione. Il dato è in uno studio firmato dal professor Stefano Sacchi, presidente dell’istituto, e dal ricercatore Giovanni Gallo. Diverse le ragioni. Prima: per il Rei bastavano due anni di residenza in Italia, ora invece ne serviranno dieci. Mentre l’aiuto del governo Gentiloni ha una platea potenziale formata dal 71% di italiani, 8,8% di provenienti da altri Paesi dell’Unione europea e 19,6% di extracomunitari, le nuove proporzioni cambieranno così: 81,9% italiani, 4,3% dall’Ue e 13,9% extra-Ue.

Seconda: con il Rei, dal reddito famigliare venivano sottratte le spese di affitto delle famiglie. Questo favoriva i nuclei che, pur avendo un minimo di entrate, pagano alti canoni di locazione. Il reddito di cittadinanza, invece, non fa sconti di questo tipo; al massimo riconosce un contributo aggiuntivo di 280 euro al mese per chi non vive in casa di proprietà, indipendentemente da quanto si spenda di affitto. Quindi un single che guadagna 6.100 euro all’anno non prenderà il sussidio neanche se paga 500 euro al mese di affitto. Chi invece guadagna 5.900 euro all’anno lo prenderà anche se vive nella propria abitazione. Saranno colpite le famiglie povere delle Regioni settentrionali, dove i prezzi delle case sono più alti. Nel Nord e nel Centro, secondo le stime dell’Inapp, il numero totale di poveri oggi sussidiati con il Rei è più alto rispetto al numero di quanti prenderanno il reddito di cittadinanza. Al Sud, invece, è il contrario: il passaggio alla nuova misura aumenterà la quantità di beneficiari.

L’ultima questione riguarda i progetti per le famiglie. Con il Rei – spiega Roberto Rossini, presidente delle Acli – si decideva caso per caso se affidare la persona ai servizi sociali o avviarla al lavoro. Ora questo dipenderà da criteri oggettivi. Non vorremmo che chi oggi è coinvolto nel progetto di inclusione venisse per questo spedito al centro per l’impiego, anche se non è quello ciò di cui ha bisogno”.

Bentornata compagna Simoni!

Il congresso è finito, l’8 marzo è un fresco ricordo ma insomma, tra le donne del Pd non è che le questioni personali e politiche siano state risolte proprio alla grande. Succede questo: Elisa Simoni, ex deputata bersaniana (e lontana cugina di Matteo Renzi) era fuggita dal partito sullo scadere della passata legislatura per candidarsi nelle non irresistibili truppe di LeU (e infatti non è stata eletta). Ora ha deciso di tornare a casa: “Alle file ai gazebo delle primarie ho visto tanti dei nostri – dice lei – che se ne erano andati due anni fa e che ora vogliono tornare nel Pd. ‘Simoni che si fa, si torna?’ mi hanno chiesto”. Lei non c’ha pensato due volte: ieri ha pubblicato sui social le foto del suo nuovo tesseramento con i dem. Ecco, l’accoglienza non è stata calorosa. Specie da alcune colleghe, non proprio affettuose. La renziana Anna Ascani le ha dato il bentornato così: “Forse la mia ex collega non sa che lo Statuto dice che chi si è candidato contro il Pd non può prendere la tessera per l’anno in corso e quello successivo. Siamo una comunità, non un bus”. Poi c’è Alessia Morani, altrettanto renziana e altrettanto affabile: “Un tram chiamato Pd, la Simoni sale e scende a suo piacimento. Spero che non sia questo il nuovo corso del partito”. Per fortuna che il partito è “accogliente e inclusivo”.