Grillo, ex fondatore per stanchezza (e per le cause)

Il fondatore del Movimento non è più tale, (anche) perché non voleva più avere a che fare con i tribunali, con le cause. Per esempio con quella che avrà luogo oggi a Roma, in cui Gregorio De Falco, il capitano di fregata che Luigi Di Maio e i probiviri hanno fatto scendere dalla nave dei Cinque Stelle, chiede di essere reintegrato. E probabilmente non è un caso se proprio ieri sul Corriere della Sera e poi sulle agenzie sia trapelato l’atto costitutivo della nuova associazione Movimento 5 Stelle, risalente al 20 dicembre 2017 ma finora mai diffuso, in cui Beppe Grillo viene indicato solo come garante e non più fondatore del M5S.

I fondatori, nero su bianco, ora sono “solo” il capo politico Di Maio e Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto. Ed è la certificazione di quello che era evidente da tempo, del passo di lato di Grillo. Per questo i 5Stelle avevano sempre tenuto celato il documento, che conferma il cambio di fase e soprattutto di guida. Un testo troppo di impatto per la base e la vecchia guardia, avranno valutato. Perché, norme alla mano, Di Maio ha anche la facoltà di cambiare e integrare l’atto costitutivo, a patto di “non alterarne il significato sostanziale”, formula che vuol dire tutto e niente. Grillo ha dovuto mandargli una comunicazione scritta per confermare che accetta di restare nell’associazione, come garante. Ma niente più fondatore. Perché era stanco di stare sempre in linea, di dover ascoltare sfoghi e risolvere grane, anche se oggi talvolta ha nostalgia dei vecchi tempi, quelli in cui l’ultima parola su tutto era la sua. Ma l’artista voleva soprattutto sottrarsi alle cause degli ex 5Stelle, e alle richieste di risarcimento. Tante, e costose. E così a fini legali meglio rinunciare a quella carica, che resterà vera nei fatti. Anche se ora il capo è un altro, il vicepremier Di Maio. E anche il Movimento è un’altra cosa. Sempre più diversa, dal M5S fondato da Grillo.

Nazareno addio: la sinistra ha la sindrome del trasloco

Nazareno addio. Uno dei primi atti di Zingaretti al Pd sarà il cambio della sede. A giugno scade il contratto firmato nel 2004 dall’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. Il palazzo fu “prestato” ai dem. Il canone, non modico, è di 600 mila euro l’anno. Resterà alla storia per il “patto del Nazareno”, l’incontro “costituente” tra Renzi e Berlusconi. Zingaretti vuole lasciare il centro di Roma, la nuova sede sarà in una zona semi-periferica (si pensa a Ostiense e Tiburtina) e in un open space di vetro, aperto all’esterno (un po’ come il vecchio “loft” di Veltroni). Sarà l’ennesimo trasloco della sinistra italiana.

La fusione fa salire in Borsa Commerz e Deutsche bank

L’ipotesi di fusione tra Deutsche Bank e Commerz fa volare in Borsa i due colossi bancari tedeschi. A Francoforte la prima è salita del 7% finale a 7,1 euro mentre Deutsche Bank ha chiuso in aumento del 4,9% a quota otto euro. Le pressioni del ministero delle finanze tedesco per una fusione tra i due istituti, da anni le grandi malate del sistema creditizio tedesco sono note da mesi solo che adesso sono diventate così forti che la dirigenza di entrambi gli istituti è pronta a fare un’attenta verifica, ha riferito la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Da circa tre settimane infatti l’amministratore delegato di Deutsche Bank, Christian Sewing, ha ottenuto dai colleghi del consiglio di amministrazione il mandato di condurre dei colloqui informali con Commerzbank, al momento ancora allo stato iniziale. Secondo Handelsblatt, Sewing è tutt’ora contrario al piano, a condizioni che non si riveli vantaggioso sotto il profilo del risparmio. Una fusione di Deutsche Bank con Commerzbank potrebbe portare alla cancellazione di minimo 30.000 posti di lavoro, e questo preoccupa il ministro socialdemocratico delle finanze, Olaf Scholz. La trattativa dovrebbe essere condotta entro le elezioni europee di fine maggio.

“Basta fake news”. Confindustria lancia la crociata per il Sì

Confindustrianon molla sul Tav e a Torino, pur di averla vinta, la Confindustria locale si lancia addirittura in una crociata contro le fake news sui social con il primo di una serie di brevi video del presidente di Confindustria Piemonte, Fabio Ravanelli: “All’Italia la Tav costa 20 miliardi? Palle!” è il tema del suo intervento. Peccato che il video smentisca una fake news che viene auto- generata, visto che 20 miliardi, ed è pacifico, è il costo totale, quindi quello della parte italiana e francese insieme, e nessuno ha mai escluso fosse così. Al massimo si è tenuto conto del fatto che i benefici – e i costi – di un’opera vadano calcolati considerando l’opera intera. Oltre il video, l’offensiva continua con gli economisti del Centro Studi Confindustria che bocciano l’analisi costi-benefici come unica base di decisione: “Appare limitativa”, ci sono “impatti che non coglie”. Un giudizio che per gli industriali che non considera sostenibilità ambientale, competitività, effetti di agglomerazione sulle economie locali, non mette sulla bilancia i “costi di reputazione, danni d’immagine e di credibilità dell’intero sistema Paese”, nè “potenziali danni derivanti da costi diretti” come “risarcimenti e perdita occupazionale”.

“Sblocca cantieri”, il tour di premier e 5S per superare il “buco”. Ma il decreto slitta

Ogni volta che un 5Stelle dice no al Tav, un imprenditore piange o finge di farlo. E allora il capo del Movimento Luigi Di Maio e il presidente del Consiglio con cui è tornata la sintonia, Giuseppe Conte, parlano più di prima di aziende da tutelare, di cantieri da sbloccare e quindi del codice degli appalti da cambiare, di corsa.

Perché il M5S vuole cambiare l’oggetto del discorso (e della guerra, dentro la maggioranza) e “dare tranquillità”, come ha ripetuto Di Maio domenica da Milano. E vuole darla innanzitutto alle imprese, così da non lasciare praterie alla Lega. Un obbligo, con le Europee che sono ormai a un passo. Ma tra gli annunci e i fatti la distanza ad oggi è considerevole, visti i nodi mica facili da risolvere, soprattutto sul fronte delle modifiche alle regole degli appalti. “Siamo ancora in alto mare” ammettono dalla pancia del Movimento. Ergo ci vorranno diversi giorni, prima che si palesi un abbozzo di normativa.

Ovvero un decreto con i primissimi interventi (perché per una riforma complessiva bisognerà aspettare la legge delega, cioè parecchio). “Il lavoro sul decreto è quasi ultimato”, garantisce il premier, ma la realtà è un po’ diversa. Al ministero dei Trasporti lavorano a un testo che al momento è ancora tutto da stilare (l’unica certezza è che riprenderà l’aumento delle soglie per gli appalti da affidare con procedura negoziata saltate dal Dl semplificazioni).

E anche per questo l’avvocato Conte ha promesso un “tour nei cantieri” già venerdì scorso, prima di trovare una scappatoia sul Tav. Perché per dare segnali e cambiare spartito servono gesti visibili. Così la prima tappa del tour sarà oggi in Sicilia, dove il premier e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli andranno “per sbloccare il cantiere della strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta, i cui lavori sono fermi da tempo” ha precisato ieri Conte. Spingendosi oltre: “L’Agrigento-Caltanissetta per gli esperti è più strategica del Tav”.

Ed è la linea che il Movimento spinge da settimane, dire ovunque che i 5Stelle sono favorevoli alle grandi opere, tranne che a “quel buco nella montagna”, per dirla come Toninelli. Insomma, sono tutte più importanti, ripetono. Compresa l’arteria siciliana, “fondamentale per i collegamenti nel centro dell’isola”. Per questo oggi Conte e Toninelli andranno a celebrare la ripresa del secondo lotto di lavori, partita a fine febbraio dopo la crisi del colosso coop delle costruzioni Cmc. Ma il Movimento e il premier di cantieri da visitare ne dovranno trovare altri. E non pare così semplice. Perché è vero, si parla già di un nuova visita a un altro cantiere entro i prossimi due giorni. Ma non ci sono certezze luogo e tempistica. Ergo, il rischio è di restare appesi a una ammuina elettorale.

Per questo servono opere da rilanciare. Come il quadrilatero Marche-Umbria. O come “diversi ponti sul Po” come dicono fonti di governo. E in generale si pensa a lavori di rifacimento o manutenzione per arterie come la strada statale Jonica, la 106. Tutte inserite in una lista fornita dal Mit a Palazzo Chigi. Intanto c’è il vicepremier che è anche ministro dello Sviluppo economico, Di Maio che oggi a Roma presenterà un piano di incentivi per le aziende assieme all’amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Fabrizio Palermo e all’ad di Invitalia Domenico Arcuri. Poi nel pomeriggio incontrerà le associazioni imprenditoriali. I rapporti con le imprese sono quasi un’ossessione per il ministro, che vuole dare una struttura al Movimento con referenti territoriali anche per creare una rete con le aziende. Al M5S sarebbe utile soprattutto in quel Nord dove non ha mai sfondato.

Così sarà importante l’appuntamento del 29 marzo a Padova a cui sta lavorando Jacopo Berti, capogruppo del M5S in Veneto e dimaiano di ferro (nonché membro del collegio dei probiviri). Un incontro in cui verrà spiegato ad aziende e imprendori influenti come potranno accedere a incentivi e finanziamenti. E in generale, cosa promette di fare il governo per loro. E potrebbe esserci Di Maio, che non parlerà di Tav. O almeno ci proverà.

L’Italia paga troppo e Parigi fa la furba: ecco la linea Conte

Partita la fase uno dei bandi Tav, ora la palla passa al presidente del Consiglio italiano: riuscirà Giuseppe Conte a bloccare la fase due, quella che fra sei mesi darà il via ai primi appalti per il grande buco nella montagna? Intanto ha annunciato che incontrerà il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Che cosa dirà a Macron? Ha già accennato alla asimmetria dei finanziamenti tra Italia e Francia. Una sproporzione ben documentata anche dalla “Relazione tecnico-giuridica” dell’11 febbraio 2019, firmata dall’avvocato dello Stato Pasquale Pucciariello.

A pagina 39, la “Relazione” riporta due tabelle molto istruttive. La prima dà conto della “ripartizione dei costi prevista dall’Accordo del 2012”, cioè il trattato sul Tav tra Italia e Francia che rinnova e completa (senza abrogarli) i trattati precedenti, a partire da quello firmato nel 1996 a Parigi. Il “costo complessivo dell’intervento”, cioè il tunnel di base che è il cuore del Tav, è di 9,63 miliardi di euro. Così ripartiti, mostra la tabella: 5,57 pagati dall’Italia, 4,05 dalla Francia. L’Italia si ritrova dunque a pagare il 58 per cento del tunnel di 57,5 chilometri, che però è solo per il 21 per cento (12,5 chilometri) in territorio italiano, mentre è per il 79 per cento (45 chilometri) in territorio francese. Risultato: l’Italia paga la galleria 280 milioni a chilometro, la Francia soltanto 60 milioni.

L’asimmetria è confermata anche nella ripartizione delle spese per comprare ed espropriare i terreni e rimuovere le interferenze. La tabella riportata nella “Relazione” cita dati del Cipe: la quota dell’Italia è di 172,24 milioni di euro, quella della Francia di soli 136,72 milioni. Se si considera che il Cipe nel 2017 ha autorizzato altri 57,26 milioni, il totale dell’Italia tocca quota 229,50.

Non è che i francesi non si siano accorti del regalo. Lo hanno rilevato nella Enquete d’utilité publique, procedura che analizza i lavori pubblici e valuta la loro utilità (una sorta di analisi costi-benefici). Ebbene, sul Tav conclude esprimendo perplessità sull’utilità dell’opera, ma valuta infine che possa comunque valere la pena di farla, perché tanto paga l’Italia: “L’operazione è positiva per la Francia, in ragione del fatto che l’Italia si accolla la maggior parte dei costi”. Da dove nasce questa disparità? Quando si trattò di definire le quote, l’Italia accettò un maggior impegno nel tunnel base, perché i francesi hanno – anzi avevano – molte più spese per il loro tratto nazionale, dallo sbocco del tunnel di base fino a Lione, che comprende anche due costosi tunnel a due canne, quello di Belledonne e quello di Glandon. Avevano: perché nel gennaio 2018 è stata presa in Francia una decisione che ribalta gli accordi: il Coi (Conseil d’orientation des infrastructures) ha deciso di rimandare le opere del tratto francese a dopo il 2038. È scritto a pagina 77 del rapporto sulla mobilità francese: “Non è stata dimostrata l’urgenza di intraprendere questi interventi, le cui caratteristiche socioeconomiche appaiono chiaramente sfavorevoli in questa fase. Sembra improbabile che prima di dieci anni vi sia alcun motivo per continuare gli studi relativi a questi lavori che, nel migliore dei casi, saranno intrapresi dopo il 2038”. Un rinvio alle idi di marzo, o alle calende francesi. Intanto l’Italia paga subito di più il tunnel di base, facendo così da banca alla Francia, che restituirà la cortesia – forse – facendo i suoi lavori compensativi dopo il 2038. “Nel migliore dei casi”.

A questi argomenti, nella trattativa con la Francia, Conte potrà aggiungere quello della violazione da parte di Parigi dell’articolo 16 del Trattato del 2012. Dice che “la disponibilità del finanziamento sarà una condizione preliminare per l’avvio dei lavori delle varie fasi della parte comune italo-francese della sezione internazionale”. Ebbene, questa “condizione preliminare” non è soddisfatta, perché la Francia non ha reso finora disponibile neppure un centesimo per la fase iniziata ieri, 11 marzo, con il lancio degli avvisi per il tunnel. L’Italia ha già messo sul piatto 2,63 miliardi, assegnati dalla legge di stabilità 2013 (governo Monti) e approvvigionati in quote annuali nel bilancio dello Stato tra il 2015 e il 2027. L’Unione europea per il tunnel ha messo a disposizione 0,57 miliardi. La Francia zero: non ha ancora deciso alcuna programmazione futura su base pluriennale per i finanziamenti del traforo, neppure attraverso l’agenzia pubblica Afitf (Agence de financement des infrastructures de transport de France).

Il ministro dei trasporti Elisabeth Borne ripete che gli stanziamenti ci sono. Ma proprio non si vedono: la legge di finanziamento ora in discussione nel Parlamento francese fa riferimento a opere pubbliche in generale e non ha cifre stanziate espressamente per la Torino-Lione, che anzi nella relazione del Coi è qualificata come “opera non prioritaria”. Strano sovranismo quello di casa nostra, che reclama sovranità in generale, ma poi non riesce a chiedere conto alla Francia dei conti del Tav, tutti sbilanciati.

La Telt lancia gli avvisi Tav, l’Ue preme per il sì all’opera

In videoconferenza tra Roma e Parigi, i dieci membri del consiglio d’amministrazione di Telt (la società pubblica italo-francese che ha il compito di realizzare la nuova linea Torino-Lione) hanno dato il via libera alla pubblicazione degli “avis de marchés”, gli inviti a presentare candidature per la realizzazione della parte francese del tunnel di base. Si sono pronunciati all’unanimità, i cinque nominati dal governo italiano e i cinque indicati da quello francese.

Parte così, dopo molte polemiche, la prima fase della gara Tav da 2,3 miliardi di euro. Non andrà perso il finanziamento europeo di 300 milioni che l’Unione europea aveva minacciato di sospendere se la procedura non fosse partita entro il 31 marzo.

La seconda fase, con i capitolati dell’appalto, partirà tra sei mesi, solo dopo che i governi italiano e francese avranno confermato l’impegno a realizzare l’opera. Se la conferma italiana non arriverà, la procedura potrà essere bloccata, ha avvisato ieri in una nota la società.

Il blocco, secondo il codice degli appalti francese, è possibile per qualunque gara, purché sia però motivato in nome dell’“interesse generale”. In questo caso per l’Italia sarebbe stato arduo, se non impossibile, dimostrare unilateralmente l’“interesse generale”.

Per questo il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha ottenuto che l’interruzione della gara possa eventualmente avvenire senza necessità di motivazione. E che l’Italia possa “non dare seguito in ogni momento alla procedura, senza che ciò generi oneri per la stessa stazione appaltante”, cioè Telt, “né per i due Stati”, Italia e Francia. Intanto Conte si è impegnato a ridiscutere il progetto con la Francia e con l’Unione europea.

“Spero che i nostri amici italiani valutino il progetto Tav e restino impegnati”, ha detto il commissario agli affari economici Pierre Moscovici. “Dire che questo progetto è negativo è un errore, è un grande progetto strutturale, importante per la Unione europea, per la Francia e per l’Italia, motivo per cui sono stati decisi importanti finanziamenti europei”.

Gli fa eco il ministro dei trasporti francese, Elisabeth Borne: “Come la Francia aveva auspicato, il consiglio d’amministrazione di Telt ha lanciato gli avvisi di richiesta delle candidature, necessari per il proseguimento del cantiere. È una tappa positiva nell’interesse del progetto Torino-Lione. Il lancio permette la prosecuzione del progetto, la conservazione dei finanziamenti europei e garantisce il rispetto del tempo di riflessione chiesto dal governo italiano”.

Il ministro delle infrastrutture italiano, Danilo Toninelli, ha ribadito invece che è un’opera “che i tecnici, senza alcun pregiudizio, dicono essere fortemente negativa. È una scelta fatta tanti anni fa, una scelta politica sbagliata, perché l’opera ci costa più dei benefici che potrà dare”. Tutt’altra lettura della decisione per Matteo Salvini: “La Tav andrà avanti, i bandi partono”.

Quello di ieri è l’atto finale di un braccio di ferro iniziato negli ultimi mesi del 2018. Il direttore generale di Telt sas (Tunnel Euralpin Lyon-Turin), Mario Virano, era già allora pronto a lanciare le gare. Una lettera del 3 dicembre 2018, firmata da Toninelli e Borne, gli chiedeva di aspettare la pubblicazione dell’analisi costi-benefici. Resa pubblica l’analisi del gruppo guidato dal professor Marco Ponti, Virano ha fissato il consiglio d’amministrazione di Telt per il 19 febbraio 2019.

Toninelli è riuscito in quella data a fermare il lancio dei bandi, mentre l’Unione europea minacciava l’Italia di togliere parte dei finanziamenti se le gare non fossero partite entro il 31 marzo. Ieri, riconvocato il consiglio d’amministrazione, Telt ha avviato la prima fase della gara.

Barra Caracciolo orfano di savona

Un po’, va detto, per fortuna che capitano queste cose, nelle aule austere e pure deserte. Ieri i banchi di Montecitorio erano quasi del tutto vuoti, era lunedì, il giorno per ammortizzare il fine settimane dei parlamentari. A un certo punto, in rappresentanza del governo, è arrivato Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario alle Politiche europee anche se il ministero non esiste più perché Paolo Savona è stato nominato alla Consob. Barra Caracciolo si è scusato del ritardo e ha condiviso con i pochi presenti il suo dubbio amletico: “Perdonate il mio ritardo, ma in realtà – è una questione preliminare, che mi tocca porre e che mi riguarda – poco prima di venire qui, gli uffici del segretario generale di Palazzo Chigi mi hanno comunicato che mi considerano senza delega e, di fatto, anche senza nomina, a seguito delle dimissioni di Savona, che, a mio parere, sono del tutto autonome dalla mia posizione. Sono o non sono sottosegretario di questo governo?”. Ettore Rosato del Pd, presidente di turno della Camera, l’ha rassicurato: “Grazie, signor sottosegretario. Le do una buona notizia, e cioè il governo ha delegato lei a seguire questo provvedimento, quindi evidentemente la considerano ancora in carica”. Così la settimana comincia in discesa.

L’euroscettico Zanni (ex M5S) nominato responsabile Esteri

L’ultimo consiglio federale della Lega, celebrato ieri pomeriggio in via Bellerio, ha ufficializzato una nomina significativa nel Carroccio: Marco Zanni è il nuovo responsabile degli Esteri del partito. Zanni è un eurodeputato eletto nel 2014 nelle file del Movimento 5 Stelle e passato alla Lega tre anni dopo (lasciando contestualmente il gruppo europeo a cui aveva aderito, l’Efdd, per il gruppo dei partiti nazionalisti Enl).

È l’uomo a cui Matteo Salvini aveva affidato la responsabilità di lavorare “all’asse euroscettico”, parole dello stesso Zanni, “un soggetto a destra che raccolga grandi partiti di grandi Paesi, con l’obiettivo di incidere nelle istituzioni della Ue”. Con Claudio Borghi e Alberto Bagnai, Zanni è uno degli esponenti del Carroccio con le posizioni più apertamente critiche sull’euro. Le altre decisioni del consiglio federale di ieri sono nella continuità: Luca Morisi è stato confermato responsabile per la comunicazione, Alessandro Morelli – ex direttore di Radio Padania e attuale direttore del Populista – è nominato responsabile per l’editoria.

Trump avvisa Merkel: Huawei va esclusa dall’asta per le reti 5G

La Casa Biancalo ha fatto mettere nero su bianco dall’ambasciatore Usa a Berlino Richard Grenell in una lettera consegnata al ministero dell’Economia tedesco: se aprite le porte a Huawei per la realizzazione delle reti 5G, gli Stati Uniti sono pronti a limitare la loro collaborazione con la Germania nel campo dell’intelligence. Scrive l’ambasciatore statunitense – secondo quanto rivela il Wall Street Journal – che le società controllate da Pechino come Huawei o Zte potrebbero compromettere gli scambi di informazioni segrete e confidenziali tra i Paesi alleati e quindi gli Usa prenderebbero contromisure per limitare la cooperazione con la Germania nel campo della difesa e dell’intelligence, compresa quella all’interno della Nato. La lettera è arrivata venerdì scorso, poche ore dopo che Huawei aveva ufficializzato il lancio di un’azione legale contro gli Stati Uniti per la legge voluta da Donald Trump che vieta a tutte le agenzie federali e governative di utilizzare dispositivi del produttore cinese. La Germania, infatti, si appresta a lanciare in primavera l’asta per la costruzione delle reti di telecomunicazioni 5G: Huawei ha intenzione di partecipare, ora non è detto che le sarà consentito.