“È come la nascita delle Nazioni Unite, solo che stavolta la guida sarà asiatica”

Quando nel 2100 ripenseremo all’anno in cui è stata posta la pietra angolare di un nuovo ordine mondiale a trazione asiatica, sarà il 2017. Nel maggio di quell’anno, sessantotto Paesi che comprendono i due terzi della popolazione e la metà del Pil mondiale si sono riuniti a Pechino per il primo vertice della Belt and Road Initiative. Per capire cosa sta succedendo a proposito della “Via della Seta”, dovete leggere il nuovo libro di Paragh Khanna, Il secolo asiatico. Indiano di origine, 41 anni, studi alla Georgetown University di Washington e alla London School of Economics, dieci anni fa spiegava la geopolitica ai democratici americani, ora vive a Singapore e guarda alla globalizzazione con una prospettiva asiatica.

L’Italia ha finalmente scoperto la Cina?

La Belt and Road Initiative è il progetto diplomatico più significativo del XXI secolo, l’equivalente di ciò che la creazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e del Piano Marshall ha rappresentato per il XX secolo. Con una differenza cruciale: la Bri è stata concepita e lanciata in Asia e sarà guidata dagli asiatici. E in Italia in tanti ne sono consapevoli, da tempo. Quando mi è capitato di incontrare i vostri imprenditori del Nord, in Veneto e non solo, ho notato che sono tutti ben consapevoli della “asianizzazione” del mondo in corso.

È una forma di colonialismo contemporaneo?

Gli imperi hanno sempre investito nelle colonie che poi hanno sfruttato quegli stessi investimenti per costruire una nuova indipendenza: la Gran Bretagna ha costruito infrastrutture e istituzioni in India, a un certo punto gli indiani hanno fatto leva su quell’eredità per ribellarsi e conquistare libertà.

Succederà lo stesso con la Cina?

Gli imperi europei ci hanno messo 300 anni a capire che le popolazioni locali avevano diritto di parola. I cinesi ci hanno messo tre anni. Stanno imparando che quando i Paesi in cui investono chiedono di ridiscutere i rapporti, non si può risolvere la questione con gli eserciti.

A preoccupare non è tanto il rischio di una conquista militare, ma il fatto che la Cina non sia una democrazia.

La misura della stabilità di un Paese non è il tasso di democrazia, ma la capacità del governo di gestire i cambiamenti. La democrazia non è in crisi, ma la governance sì. Tutti vogliono vivere in Paesi democratici, in cui gli elettori scelgono i loro leader. Il problema è come tradurre la volontà popolare in scelte amministrative che producano conseguenze tangibili. In Inghilterra Margaret Thatcher ha smantellato l’amministrazione pubblica, in nome della deregulation, e quando David Cameron e Theresa May si sono trovati a dover gestire l’uscita dall’Ue, hanno scoperto di non avere più la burocrazia sufficiente per gestire il Paese. È un problema di governance, non di democrazia.

E qual è la lezione asiatica su questo punto?

Gli Stati meglio amministrati dell’Asia sono tutti democrazie: Taiwan, il Giappone, la Corea del Sud. La democrazia non è incompatibile con l’efficacia amministrativa in versione asiatica. Negli Stati Uniti Barack Obama ha approvato una riforma dell’assistenza sanitaria e due anni dopo Donald Trump ha iniziato a provare a smontarla. Questo è inconcepibile nella visione asiatica della democrazia. Una volta che si prende una decisione, poi si attua.

Quali sono le conseguenze della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina?

La Cina sta trovando nuovi fornitori per i beni che importava dagli Stati Uniti, quindi a pagare il conto sono le aziende americane. Tutto quello che la Cina compra dagli Stati Uniti, può comprarlo anche altrove. E perfino l’Unione europea è un partner commerciale più rilevante degli Stati Uniti.

Porti, strade, ponti ed energia: la firma a Roma il 22 marzo

Una volta, quando nella Lega regnava Umberto Bossi, la Cina era il nemico, il territorio lontano da cui arrivavano i prodotti a basso costo che mettevano fuori gioco le piccole imprese del lombardo-veneto. Ora la Cina è il traffico commerciale da cui l’Italia non può restare fuori. I numeri li ha dati molto sinteticamente, ma efficacemente, il sottosegretario leghista allo Sviluppo economico, Michele Geraci, intervenendo al festival di Limes a Genova: “L’export dell’Italia verso la Cina è di 13 miliardi, quello della Germania di 90. La Cina investe in Italia 13 miliardi, in Svizzera 41, in Gran Bretagna 80 e negli Stati Uniti 180”. Non basta: “L’export del vino francese in Cina è di sette volte quello italiano e nel campo del food la Francia esporta un miliardo mentre l’Italia solo 160 milioni”.

L’importanza della Via della Seta si coglie perfettamente nell’ultimo rapporto reso disponibile dalla Fondazione Italia-Cina, organismo che riunisce imprese pubbliche e private, cinesi comprese, e presieduto dall’industriale bergamasco Alberto Bombassei. “Quello che più conta”, si legge, è che “tramite la Belt and Road Initiative, la Cina sta promuovendo una propria versione di globalizzazione, con l’obiettivo di sostenere la produttività interna”. Una globalizzazione 2.0, dopo quella di fine anni 90 a guida statunitense.

Non che le infrastrutture non siano importanti. Quando nel maggio 2017 si è tenuto a Pechino il Forum per la Bri, presente anche Paolo Gentiloni, furono chiaramente tracciati i corridoi economici che dovrebbero legare la Cina all’Europa, via terra e via mare. Si tratta di circa 70 Paesi ormai coinvolti nella costruzione di porti, ferrovie, strade, snodi ferroviari, infrastrutture, progetti energetici e di telecomunicazione. La via terrestre punta ad attraversare il cuore dell’Asia e fa sì, ad esempio, che un centro sconosciuto come Khorgos, tra Kazakistan e la provincia nord-occidentale della Cina, lo Xinjang, stia per diventare uno degli snodi ferroviari più importanti. La “via del mare”, quella che dovrebbe consentire di reggere all’egemonia statunitense sulle vie marittime, dopo lo Stretto delle Molucche e le coste indiane e pachistane – a partire dallo strategico porto di Gwadar – passa per il Golfo di Aden, tra il Corno d’Africa e lo Yemen, dove c’è l’avamposto militare cinese più importante in Africa, quello di Gibuti, e dopo aver attraversato il Canale di Suez, sfocia nel Mediterraneo, porta di accesso all’Europa.

Da qui l’ingresso cinese nel porto del Pireo, in Grecia, e i progetti di investimento sul porto di Trieste e su quello di Genova. Come spiegava Alessandro Panaro, del centro studi Srm, al festival di Limes, “il 70% degli scambi cinesi avvengono via mare” e la Cina è “il primo cliente del Canale di Suez” dove la sua conglomerata Cosco, la compagnia di spedizione e logistica, controlla il 20% del Terminal situato a Port Said, proprio all’imbocco mediterraneo del Canale.

A Port Said la Cina ha già associato il porto di Tangeri, in Marocco, dove ha investito 10 miliardi di dollari per rafforzare la sua presenza, tra l’altro contribuendo a depotenziare il porto di Gioia Tauro in Calabria. E dopo che Cosco ha acquisito la maggioranza del porto del Pireo, Trieste e Genova sono le tappe successive. Il traffico cinese nel Mediterraneo è cresciuto del 27% tra il 2012 e il 2017 e attorno ai porti si gioca una partita decisiva.

Ma non sarà solo di porti che parleranno il presidente cinese Xi Jinping e il governo italiano nel corso della visita prevista per il 22 marzo, anche se nella bozza di Memorandum sono citati gli investimenti nel porto di Trieste. La bozza parla di un generico
sviluppo di “strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia e telecomunicazioni”. E oltre ai già avviati progetti di collaborazione tra la State Grid Corporation of China e Terna (partecipata dalla Grid via Cdp Reti) e la creazione di joint venture tra Leonardo (ex Finmeccanica) e non meglio precisate aziende cinesi, il punto dolente sembra essere la tecnologia 5G per la banda super-veloce. Tasto sensibile sul quale si gioca il vero scontro tra Usa e Cina e che ha portato Donald Trump a presagire i nuovi dazi contro Pechino. Il ministero dello Sviluppo di Luigi Di Maio ha assicurato ieri sera che “il Memorandum of Understanding tra Italia e Cina non comprende alcun accordo inerente la tecnologia del 5G”. Gli accordi in realtà stanno andando avanti da tempo. Il progetto sperimentale per la 5G a Bari e Matera è andato nel 2017 alla Joint venture tra Huawei, Fastweb e Telecom; un accordo analogo è stato siglato dall’Acea di Roma e la compagnia cinese, mentre dal 2016 è operativo l’Intelligence Operation Center a Palu, in Sardegna, frutto di un accordo tra la Regione e Huawei. Talmente importante che il presidente Xi Jinping, per visitarlo, vi fece appositamente scalo. A fare gli onori di casa, l’allora premier Matteo Renzi. Quando la Cina piaceva anche al Pd.

Salvini vuol fare l’amerikano e la Lega si spacca sulla Cina

Un altro voto parlamentare per risolvere l’ennesima spaccatura nel governo gialloverde è all’orizzonte. Stavolta, la materia del contendere è il Memorandum d’Intesa sulla Via della Seta con la Cina, che il governo italiano dovrebbe firmare il 22 marzo con il presidente Xi Jinping, in visita in Italia. Con i Cinque Stelle nettamente a favore e la Lega tentata dal no, con qualche divisione al suo interno.

Pareva cosa fatta, con il nostro Paese che si candidava a essere il primo del G7 a siglare l’accordo. Ci ha lavorato il ministero dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio in primis, durante la sua visita in Cina. E a Palazzo Chigi stanno finalizzando il negoziato, dopo che il premier Giuseppe Conte ha annunciato che anche lui sarà a Pechino al secondo summit sulla Via della Seta. Ma la Lega appare più sensibile ai richiami degli States e di Donald Trump, che – attraverso il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, Garrett Marquis – hanno dato un vero altolà all’Italia. A quel punto, si è mobilitato prima di tutto Giancarlo Giorgetti, che è appena tornato dagli Usa. E ha iniziato un lavoro di relazione e di persuasione dentro il Carroccio, per spiegare che un accordo bilaterale con la Cina potrebbe essere più dannoso che utile. Per dire, sarebbe stato lui a ispirare il tweet di domenica del sottosegretario leghista alla Difesa, Raffaele Volpi: “Vanno privilegiati, dando stabilità e continuità, i rapporti con gli alleati storici condividendo amichevoli prospettive e opzioni @GMarquis45”.

Ieri il sottosegretario a Palazzo Chigi, dopo il Consiglio federale del partito, ha detto: “Il Memorandum dovrà sicuramente contenere nobili intenti per migliorare relazioni economiche e commerciali tra Italia e Cina, ma non impegni che possano creare interferenze di ordine strategico per il consolidato posizionamento del Paese”. Dichiarazione in stile giorgettiano, che però lascia trapelare tutte le perplessità del sottosegretario. Un altro che sta seguendo attentamente il lavoro sul dossier è Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Esteri, ma anche uno dei “ponti” storici tra Lega e Usa. Anche per lui un tweet prudente, ma esplicito: “Ogni decisione di politica commerciale è una decisione di politica estera. Questo è ancor più vero per #MoUwithChina. Cautela e approfondimento prima di tutto. Timeo danaos et dona ferentes”.

Matteo Salvini, in origine su posizioni più laiche, ieri alla fine ha fatto una dichiarazione in linea: “Se si tratta di aiutare imprese italiane a investire all’estero, noi siamo disponibili a ragionare con chiunque. Se si tratta di colonizzare l’Italia e le sue imprese da parte di potenze straniere, evidentemente no”. Il timore è che l’accordo serva in realtà a consegnare l’Italia alla Cina, sotto forma di privilegi commerciali dubbi. Si prende tempo. E i Cinque Stelle hanno buon gioco a far notare che la Lega è divisa. A dirlo è Stefano Buffagni all’Huffington Post: “Sulla Via della Seta è la Lega a spaccarsi. È stato un loro sottosegretario, Geraci, a essere tra gli attori principali dell’intesa. Possibile che non abbia informato i vertici di quel che si stava scrivendo?”. Michele Geraci è sottosegretario allo Sviluppo economico ma anche Edoardo Rixi, viceministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, è favorevole.

Ora si tratta di capire quale sarà il punto di caduta. In particolare, la polemica politica riguarda il 5G. E se il Mise assicura che non fa parte del Memorandum, ai piani alti della Lega chi l’ha letto fa notare che anche le “telecomunicazioni” sono comprese tra le materie di cui tratta.

Fonti di Palazzo Chigi assicurano che viceversa il 5G non fa parte dell’accordo e ci tengono a dire che il negoziato si pone all’interno della normativa Ue e delle linee della strategia Ue-Cina. L’iniziativa “non vale a ridisegnare il quadro dei rapporti politici e la collocazione euro atlantica del nostro Paese”, si chiarisce ma “il governo italiano è interessato a tutte le iniziative dirette a sviluppare infrastrutture per la connettività euro-asiatica, quale volano per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile”.

Oggi Conte è atteso al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, il Copasir, per parlare della Rete 5G. Con ogni probabilità, verrà dunque affrontato il tema della sicurezza delle telecomunicazioni anche alla luce dei timori espressi dagli Stati Uniti sui colossi cinesi delle telecomunicazioni – Huawei e Zte – scesi in campo per lo sviluppo delle infrastrutture su cui viaggerà la tecnologia 5G.

Poltrone e sofà

Ma i partiti e i loro giornaloni lo sanno in che Paese vivono? La risposta è scontata, visto che non ne azzeccano una nemmeno per sbaglio. Ma la domanda resta cruciale per capire quel che accade in Italia, se si leggono i dati dei primi cinque giorni di domande per il reddito di cittadinanza. Le prime due regioni per numero di richieste sono la Lombardia e la Campania (o viceversa), praticamente appaiate a quota 16 mila. Si dirà: ma la Lombardia ha 10 milioni di abitanti e la Campania poco meno di 6. Vero, ma la Lombardia è anche la regione più ricca d’Italia, mentre la Campania è una delle più povere d’Europa. E poi c’è il Piemonte, che se la batte col Lazio per la quinta posizione (in mezzo c’è la Sicilia). E il Piemonte di abitanti ne ha 4,3 milioni contro i 5,9 del Lazio. Eppure da un anno, cioè da quando i 5Stelle vinsero le elezioni anche per la promessa del reddito di cittadinanza, quella misura minima di equità e redistribuzione sociale raccoglie una tale unanimità di dissensi, anzi di ostilità, anzi di insulti che non si era mai vista neppure per le peggiori leggi vergogna del ventennio berlusconiano (scritte non per milioni di famiglie in difficoltà, ma per un solo miliardario). Eppure il Rdc costa appena 6-7 miliardi all’anno, la metà di quelli che si vorrebbero buttare per l’inutile Tav. E serve a dare un po’ di ossigeno a 5 milioni di italiani nullatenenti o quasi, mentre il Tav darebbe lavoro a 450 persone.

Ma la “narrazione” imposta da tutti i partiti, le associazioni imprenditoriali, persino i vescovi italiani e i giornali al seguito (salvo un paio) è quella di una vergognosa misura assistenzial-elettorale per comprare i voti nel Sud dei fannulloni da divano, fancazzisti sofà e delinquenti, mentre il Nord è popolato esclusivamente da top manager integerrimi con la sudata Porsche, la Jacuzzi e il troione incorporato che spasimano per il Partito del Pil e non vedono l’ora di montare sul Tav per raggiungere l’agognata Lione su un treno merci a velocità supersonica. Chi dipinge il Rdc come un voto di scambio dei 5Stelle per comprare voti in vista delle Europee non spiega come mai i 5Stelle calano nei sondaggi e perdono ovunque, dall’Abruzzo alla Sardegna (regioni non proprio ricchissime). Ma questi son dettagli. Chissà quali antenne, indicatori, chiavi di lettura usano questi scienziati della politica, dell’impresa, del sindacato, della Chiesa e del giornalismo per non vedere la drammatica emergenza sociale che affligge anche il Nord Italia. Eppure non passa giorno senza che gli istituti di ricerca squadernino la radiografia di un Paese immiserito e dunque (ci mancherebbe) incattivito.

Un Paese con 5 milioni di poveri assoluti, 3 milioni di precari, 7 milioni di salariati sotto i mille euro, 4 milioni di malati costretti a rinunciare alle cure, 150 miliardi di euro di evasione fiscale (di cui 6-7, la stessa cifra del Rdc, ingoiati dai paradisi fiscali europei tipo Olanda, Irlanda e Lussemburgo) e 50-60 di corruzione. Un giornalista di sinistra solitamente illuminato come Ezio Mauro scrive su Repubblica che i 5Stelle sono uniti alla Lega “soltanto dal comune e sordo istinto di destra, che punta alla distruzione dell’ordine politico costituito” per “trasformare in antipolitica il risentimento sociale dopo averlo suscitato e alimentato”. Ma se i 5Stelle, pasticcioni finché si vuole, varano il maggior investimento mai visto per alleviare la povertà di disoccupati e pensionati, propongono il reddito minimo per i lavoratori sottopagati e impongono una legge Anticorruzione che le autorità europee giudicano fra le migliori mai viste, in che senso sarebbero “di destra”? E siamo sicuri che il risentimento sociale l’abbiano suscitato e alimentato Di Maio e Salvini, e non piuttosto chi ha governato nell’ultimo quarto di secolo con una politica (la vera “antipolitica”) che ha mostruosamente aggravato le diseguaglianze sociali? E perché mai dovremmo – in nome della “sinistra”! – rimpiangere, o puntellare, o restaurare, o salvare un “ordine costituito” che ha lasciato indietro e abbandonato a se stesse milioni di persone? Infatti gli unici argomenti che lorsignori riescono a opporre al Rdc sono questioni burocratiche, come la guerra fra governo e regioni sull’assunzione dei “navigator”, e demagogiche, come l’avvistamento agli uffici postali di un membro del clan Spada, di un ex brigatista o di qualche rom (accomunato a prescindere ai delinquenti). Come se una misura di Welfare che coinvolge milioni di persone potesse impedire a qualche pregiudicato o truffatore di approfittarne, visti i nostri tassi di illegalità.
Con la stessa illogica e gli stessi sragionamenti, bisognerebbe abolire le pensioni di invalidità perché ci sono migliaia di falsi invalidi, il sussidio di disoccupazione e la cassa integrazione perché molti li ricevono pur lavorando in nero, gli 80 euro riservati a chi guadagna meno di 1.500 euro al mese (o prende di più e non lo dichiara), le detrazioni scolastiche, universitarie e sanitarie per i meno abbienti (e abbienti evasori). Cioè cancellare lo Stato sociale. Compreso il Reddito di inclusione (Rei), introdotto dal centrosinistra e ovviamente finito in tasca anche a chi non ne aveva diritto. Per fortuna l’obiezione di chi fa il furbo è riservata al Rdc e basta, dunque gli altri istituti del Welfare sono al riparo. Resta da capire il perché di tanto accanimento: i poveri e il Welfare non fregano niente a nessuno, ma tutti attaccano il Rdc perché ce l’hanno con i 5Stelle. E non per i loro tanti demeriti, ma per i loro pochi meriti. Ormai quest’odio inestinguibile ha accecato l’intera classe dirigente, che ora brancola nel buio e non riesce più a vedere e capire quel che accade. Poi, ogni tanto, qualche genio si sveglia la mattina, scopre che i lombardi chiedono il reddito di cittadinanza più dei meridionali, e casca dal divano.

Facce di casta

 

Bocciati

Il Medioevo all’improvviso. In occasione della festa della donna i giovani della Lega di Crotone hanno diffuso un volantino con cui hanno testimoniato la moderna concezione del genere femminile che alberga in parte del Carroccio, concezione che s’inserisce con grande sintonia, del resto, nella visione complessiva sui diritti civili del partito di Simone Pillon. In cima al volantino campeggia la domanda: “Chi offende la dignità della donna?”. Queste sono due delle risposte offerte: “Chi contrasta culturalmente il ruolo naturale della donna volto alla promozione e al sostegno della vita e della famiglia” e “chi sostiene una cultura politica che rivendica una sempre più marcata e assoluta autodeterminazione della donna suscitando un atteggiamento rancoroso nei confronti dell’uomo”. E poi ci si chiede perché abbia funzionato tanto la fiction su “Il nome della rosa”: l’ambientazione storica parla di noi.

2

 

Promossi

IL BUONSENSO NON HA PARTITO. Se il post-ideologico esiste davvero, è in occasioni come questa che dovrebbe cogliere la palla al balzo per manifestarsi: la proposta di legge che equipara single e coniugi in materia d’adozioni, invece, è ferma alla Camera da quasi tre anni, e sembra non beneficiare in alcun modo del tanto declamato superamento delle ideologie. Laura Ravetto, che ha depositato alla Camera due proposte di legge sulla questione, sottolinea l’ipocrisia delle obiezioni che vengono poste dai detrattori dell’iniziativa, i quali individuano nelle adozioni per single il cavallo di Troia per l’apertura agli omosessuali, i quali tra l’altro, attraverso sentenze, sono già in condizione di adottare: “Siamo arrivati al paradosso per cui ciò che conta è essere in due: abbiamo fatto il salto culturale dagli etero agli omo, discriminando del tutto i single, di cui sinceramente non interessa l’orientamento sessuale, ma se siano o meno in grado di crescere un bimbo. Non capisco le resistenze legate alla cosiddetta sensibilità cattolica: cosa c’è di cattolico nel tenere un bambino in comunità piuttosto che affidarlo a un single?”. E dire che il buonsenso sarebbe una cosa così semplice, se obsoleti pregiudizi mascherati da dottrina non si mettessero di mezzo. Forza Ravetto, che prima o poi la ragionevolezza la trionferà.

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BUONI CONSIGLI. Con lo sguardo libero di chi non è costretto ai paraocchi per esigenze di compromessi politici, Enrico Letta continua a fornire spunti di riflessione alla sinistra, che se fosse intelligente dovrebbe provare ad ascoltarlo: “Girando l’Italia per presentare il mio libro mi sono reso conto che in questo momento il tema delle disuguaglianze è il più sentito. C’è bisogno di una leadership che non abbia paura di proporre contenuti radicali e di una voce chiaramente di sinistra. E lo dico io, che pure provengo da una formazione diversa”. Chi ha orecchie per intendere intenda.

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La settimana incom

Bocciati

Donne/1. Campagna di Trenitalia (poi ritirata): “In occasione della Festa della Donna, il prossimo 8 marzo sui treni Frecciarossa e Frecciarossa 1000, se sei una cliente e viaggi in Executive, o se acquisti un Menù Easy Gourmet o usufruisci del servizio Bar o del Ristorante, riceverai in omaggio una caramella gelée Caffarel al limone. Offerta valida l’8 marzo 2019, salvo esaurimento scorte”. Non sarà troppo?

Donne/2. Diletta Leotta attaccata da Paola Ferrari. Dopo averla criticata in un’intervista a “Oggi”, dichiarando di considerare “diseducativo che una ragazza decida di rifarsi il seno e il lato B” e aggiungendo che “forse senza quei ritocchi ci avrebbe messo più tempo per arrivare al successo, chissà…”, la giornalista è tornata a parlare della collega a “Storie italiane” su Rai1: “Dal mio punto di vista è sbagliato che una ragazza a vent’anni, per essere bella, ricorra alla chirurgia estetica, non per correggere un difetto, ma per rendersi più appetibile dal punto di vista sensuale ed erotico: io non concordo con questa scelta”. Diletta ha negato di essersi rifatta (“nessuno assomiglia a quando aveva 13 anni”, ma speriamo le foto di Miss Italia siano successive) e di non seguire Paola Ferrari. Niente, un dibattito da 8 marzo del 1950.

Storie di noi brava gente. Non si sa se il governo sia in bilico, ma l’Isola dei Famosi lo è di certo, non potendo reggere l’urto dell’umiliazione inflitta a Riccardo Fogli da Fabrizio Corona, che insinua che la giovane moglie lo tradisca. È successo di tutto, tanto che sui giornali se ne sono occupati anche fior di opinionisti, indignati per il livello basso della tv. Ma va?

 

Non classificato

Ciao Dylan. Se n’è andato a soli 52 anni Luke Perry, una delle star di “Beverly Hills 90210”, serie degli Anni 90. La sua scomparsa ha addolorato molto, com’è naturale, amici, familiari e colleghi. E anche di moltissimi ex giovani fan della serie che hanno scritto sui social: con te se ne va la mia giovinezza. Il dolore a volte fa sragionare.

 

Promossi

Io sono leggenda. “Con Mick e i ragazzi stiamo registrando molte cose, molto blues, e siamo soddisfatti di come sta andando il lavoro. Poi ci sarà un nuovo tour. Poi molto dipende anche da come andrà la riedizione di Talk is cheap, dalla risposta della gente. Certo è già incredibile l’interesse che ha scatenato prima di essere pubblicato…”. Ha intenzione di appendere la chitarra al chiodo? “No, la musica resta la cosa più importante, è un motivo costante di gioia, è quello che aggiusta tutto. Non va bene nulla? Suoni e tutto si aggiusta. Sei arrabbiato? Sei annoiato? Suoni e le cose cambiano verso. Per me è esattamente come respirare, non ne posso fare a meno. E l’età non è un problema, ho anche imparato a essere nonno”. Nonno Keith Richards.

Il “fascista è chi lo dice” dell’Italia e l’analisi che arriva dagli Usa

Se parliamo dell’Italia, il segno che il fascismo è tornato e sta facendo sentire con forza il suo alito cattivo non più, non solo in gruppi locali e aggressivi, ma anche in situazioni di potere, prontamente usate come dominio, fate questa piccola prova: ditelo in pubblico, a voce o per iscritto. Seguirà una filastrocca di prese in giro e di accuse di mania del “politicamente corretto”, seguito dal tentativo di rilanciare un vecchio gioco per bambini. Ricordate la scritta “asino chi legge?” Nell’Italia di questa fase non lieta della nostra storia è diventato “fascista è chi lo dice”.

Del resto siamo anche un Paese che non è affatto razzista come ci viene detto con incredibile faccia tosta, ogni volta che qualcuno osa presentare la lunga lista di violazioni, dal caso Diciotti agli sgomberi di intere baraccopoli, senza altra destinazione conosciuta. Di Paesi razzisti o inquinati di fascismo come l’Italia ce ne sono molti, pensate a Polonia e Ungheria. Qual è la differenza? È che Orban e Kazcinsky sono orgogliosi di essere quello che sono.

Noi lo neghiamo. E giuriamo, insieme, a un bel pò di antifascisti gentili, che qui il razzismo non c’è. Prendete gli Stati Uniti. Sono usciti quasi insieme, in traduzione Italiana, due libri americani esemplari per chiarezza e coraggio, data l’autorevolezza degli autori. Il primo è Fascismo, un avvertimento di Madeleine Albright, editore Chiarelettere. Madeleine Albright è stata ambasciatrice alle Nazioni Unite degli Usa e segretario di Stato con il presidente Bill Clinton. La Albright, invece di ripeterci ciò che sappiamo e apprezziamo sulla democrazia americana, ci dice ciò che succede oggi negli Stati Uniti con queste parole: “Perchè molti centri di potere cercano di minare la fiducia dell’opinione pubblica nel voto, nella giustizia, nei media e, fatto fondamentale per il nostro futuro, nella scienza? Perchè a questo punto del Ventunesimo secolo si è tornati a parlare di fascismo? Se si immagina il fascismo come una vecchia ferita ormai quasi rimarginata, eleggere Trump alla casa Bianca è stato come strappare la benda e gettare via la crosta”.

Il secondo libro altrettanto coraggioso e attento alla realtà, senza le finzioni del buonismo rovesciato all’italiana (“non si deve accusare di fascismo chi la pensa diversamente” ) è Noi contro loro. Come funziona il fascismo di Jason Stanley, filosofo e linguista, professore a Mit e a Yale (Solferino Editore). Ecco la sua limpida diagnosi di un Paese che ama, e per cui teme: “Le politiche fasciste cercano di minare il dibattito pubblico, attaccando e sminuendo l’istruzione, la competenza, il linguaggio”. Questi due libri ci servono per fronteggiare ciò che il fascismo italiano di ritorno (molto insediato nel governo) ci sta preparando.

La magia di Pulce che trasforma l’arcobaleno in un’altalena

A mille ce n’è di storie e di fiabe da narrar. Questo è il fatto di tutti i fatti e quando il vento perde il senso dell’orientamento – ecco! – è Pulce che glielo trova. Lei stessa, infatti – si parla di Pulce, una bimba di sette anni – somiglia a ciò che ognuno va a cercare. E così Pulce fa ritrovare l’incarnato di luce della vita che fu, all’ombra di un suicida. Anche al sasso sul greto del fiume – anche a lui! – Pulce restituisce ciò che non ha più. E così a qualunque tasca, la piccina restituisce – prendendone forma – qualsiasi cosa perduta.

La prodigiosa metamorfosi in chiunque e in qualsiasi cosa, è quella di Pulce. Nel solco del canone di Ovidio ma nella disciplina della “cura”, Pulce che si prende i rimproveri di mamma e papà, è sollecita verso l’altro, gli altri e con se stessa – alfine – nel “ritrovarsi”.

Pulce è la protagonista della nuova opera di Sergio Claudio Perroni in libreria con La Bambina che somigliava alle cose scomparse (la Nave di Teseo, disegni di Leila Marzocchi), un gioiello tutto di emozionante magia, quella propria dei bimbi che ci seducono sempre in virtù della loro irresistibile stupefacente innocenza. Chiunque e a qualunque cosa somiglia lei. Al sasso smarrito da chissà chi – forse dal cosmo stesso che di quella pietruzza se n’è liberato lasciandola all’illusione del tutto che se ne scorre – Pulce offre l’esatto contrario, anzi, tutta un’altra cosa: la carezza infinita del ruscello alla pietra.

Un senso di esistenza se non proprio di direzione. Ed è come quando qualcuno ritrova se stesso nell’altro. Al modo dei timidi che quando riescono a guardare qualcuno negli occhi si aggrappano allo sguardo e non riescono a distoglierlo (e chissà, se per un senso di liberazione, ma proprio no, è sempre perché si “ritrovano”…) questa di Pulce è la maniera più autentica per stupirsi di gioia, immaginazione e divertimento.

Parliamo chiaro: ogni volta che vede un arcobaleno lei lo muta in un’altalena. Ed è questo l’unico modo e l’unica maniera d’ironia e di brio per evitare – con tutto intorno perduto – di restarsene da soli a vivere l’intero mondo.

Nel trasformarsi, questo è il senso, ci si ritrova. Quella di Pulce è la storia di una bambina più che un racconto per l’infanzia, e questa non è una recensione, piuttosto il resoconto di ciò che capita dopo aver letto Perroni – l’artista ineguagliabile nel modellare la lingua italiana – succede che l’immaginazione, con le sue conseguenze immediate, corre. Pulce fa quello che fa Sant’Antonino da Padova: fa ritrovare le cose. Fa al modo di Hermes, sta dappertutto. Al modo suo, disperde i mille rivoli della giornata del tutto. E fa che tutto si specchi nella sua pupilla limpida e dolce, spoglia di qualsiasi inganno.

Si piglia Pulce, dunque, con chi si rassomiglia ma per spontanea gemmazione di riguardo. L’eccedenza di sé, nella vita di tutti, straripa nella sempiterna cerca del senso e Perroni, con questo suo sortilegio fiabesco, impasta “con divina semenza” il principio di un mondo migliore: è “ germe del cielo insieme a cui – scrive Ovidio ne Le Metamorfosi – la terra era nata”. Quando si perde, Pulce, comincia a somigliare a se stessa. E un giorno ci sarà Pulce al Teatro greco di Siracusa. A fare quello che ha fatto lunedì scorso su Rai1 Andrea Camilleri con Tiresia. A trasformandosi in serpente, poi in una donna, quindi in un uomo, e in un cieco e in una voce, ci sarà lui – Perroni – anzi, lei: Pulce.

Tra diavoli e vecchi computer, su Sky torna D’Agostino

Roberto D’Agostino che ha creato col suo sito – Dagospia – il più aguzzo tra i tizzoni nell’altoforno dell’informazione italiana, nel quarto anno del suo Dago in the Sky dimostra di farla sempre meglio la sua televisione. Ancora una volta scritto con Anna Cerofolini, in onda tutti i giovedì alle 21.15 su Sky Arte fino al 9 maggio, c’è il racconto della contemporaneità attraverso la strabiliante diavoleria del caleidoscopio di D’Agostino.

L’unica enciclopedia possibile, tutta da consumare, va da sé, nello scorrere di segni, vibrazioni e tecné. Ma anche tutta da aggiornare, tanto ne risulta spontanea la serialità. Non c’è altra tivù che la teoretica del geometrico Timeo platonico dei solidi e dopo la A, allora, non c’è la B o la C, bensì la sola D. All’analogico, infatti, fa seguito il digitale. Se il lettore ci perdona la frase che qui ci azzardiamo a scrivere – l’imaginale si fa cosalità per mezzo dell’elettronica – ci si può avventurare nell’ulteriore rifiorire di significati e connessioni perché tra la A di Analogico e la D di digitale vi viaggia in mezzo quel che incautamente molti pensano sia solo un passatempo. Per esempio il gioco, il videogame specificatamente – è stato l’argomento della prima puntata, in onda la settimana scorsa – la cui disarticolazione è certamente fondata sulle emozioni. A cominciare dai primi ominidi nei Commodore collegati ai televisori – le silhouette di ominidi simili a ragnetti – sui cui bip la generazione cibernetica del mondo ha dissolto il deposito di adrenalina.

C’è stato tutto un far passi nel delirio di una meta via via più raffinata per gettarsi alle spalle il richiamo del preesistente. Come le prime automobili quando volevano assomigliare alle carrozze a cavalli e basta e non – ma più avanti succederà, anche grazie a Filippo Tomaso Marinetti e al design – ai missili, alle astronavi e ai videogame, infine, dove ogni file è volontà di superamento e quindi, manco a farlo apposta, Volontà di Potenza.

Non è per caso che faccia capolino, a questo punto, la zampina sghemba del Negatore. La prossima puntata, infatti, avrà per tema Simpatia per il diavolo con don Filippo Di Giacomo – raffinatissimo teologo – tra gli ospiti.

L’attuale epoca dove il “Dio è morto” non è una professione d’ateismo bensì l’evento di storicità ontologica del mondo ormai disincantato. Il Demonio – beniamino degli artisti, titolare della Mela in tutti i sensi – rischia di ritrovarsi buttato via col famoso bambino dell’ancora più famosa acqua sporca della modernità. Se Dio “è morto”, non gode di buona salute il suo Avversario relegato al ruolo di simbolo ma Dago, demiurgo dotato di ottimo smalto, ne fa show rinascimentale.

Innamorato del futuro, Roberto D’Agostino, non ha soggezione del passato. In una delle puntate che verrà – Il Regime dell’Arte – porrà una domanda: “Come mai le migliori menti dell’Italia fascista hanno realizzato opere eccezionali?” Nella risposta di Giampiero Mughini, lo sgretolarsi del tabù.

“Il Quarto Stato” che ci mancava ricchi & belli di Dolce & Gabbana

Avanza la folla compatta dei lavoratori in lotta per un giusto salario verso il fronte del quadro, pronta a prendersi la scena. Lenta, ma inesorabile ascesa degli ultimi a rivendicare i propri diritti. A capo del corteo un uomo anziano, un giovane e una donna con in braccio il suo bambino.

Della loro condizione sociale parlano anche gli abiti, poveri e dignitosi. Il più giovane degli uomini azzarda una camicia con un gilet e una giacca portata in spalla con una certa eleganza, mentre con l’altra mano in tasca ostenta calma e determinazione. Non si può dire lo stesso della donna, che sembra rincorrerlo a piedi nudi, pregandolo di mettere fine a quella scellarata lotta finché è in tempo. C’è un bambino di mezzo, nudo, trascinato dalla disperazione della madre, ma in carne, speranza di un futuro più prospero. Dietro, la folla che segue è una multitudine a specchio che procede compatta. Esce dal buio per procedere verso “il sol dell’avvenire”. È il quadro Il Quarto Stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo, che nel 1901 rende eterne le rivendicazioni dei lavoratori.

Anzi. No. La folla sfila gioconda e rubiconda e nient’affatto compatta per un obolo da comparsa o poco più. Guidano due donne e due uomini, uno dei quali porta in braccio il suo bambino. Del loro status parlano anche i loro abiti. L’uomo più giovane indossa una camicia, sopra una giacca di lamé, elegante si direbbe. L’altro, senza giacca, veste un abito damascato nero, da sera, da giorno, chi può dirlo, ma soprattutto, chi può permetterselo. Prezzo al pubblico 2.800 euro. Il bambino biondo e altrettanto rubicondo in braccio al padre si agita verso un futuro già palese (il completo t-shirt e bermuda costa quanto mezzo salario di un operaio).

Accanto, la madre, giammai svestita, guarda fiera e impettita i suoi, attenta a non far oscillare la corona che indossa, come ogni neo-mamma reale che si rispetti, avvolta in uno spolverino di rose da 2.700 euro. L’altra donna non fa testo. È la capo-famiglia, Isabella Rossellini, attrice e figlia di cotanto padre Roberto, il cui nome ora porta suo figlio, quello in giacca di lamé, fratello della incoronata a fiori come Madonna, nonché moglie dell’uomo in damascato.

Dietro, una folla finto-povera, jeans e t-shirt strappati esce dalla luminosa Galleria Vittorio Emanuele II di Milano verso la luce di Piazza Duomo. È la nuova campagna pubblicitaria di Dolce&Gabbana che pensano di aver rivestito il Quarto Stato.