Quando nel 2100 ripenseremo all’anno in cui è stata posta la pietra angolare di un nuovo ordine mondiale a trazione asiatica, sarà il 2017. Nel maggio di quell’anno, sessantotto Paesi che comprendono i due terzi della popolazione e la metà del Pil mondiale si sono riuniti a Pechino per il primo vertice della Belt and Road Initiative. Per capire cosa sta succedendo a proposito della “Via della Seta”, dovete leggere il nuovo libro di Paragh Khanna, Il secolo asiatico. Indiano di origine, 41 anni, studi alla Georgetown University di Washington e alla London School of Economics, dieci anni fa spiegava la geopolitica ai democratici americani, ora vive a Singapore e guarda alla globalizzazione con una prospettiva asiatica.
L’Italia ha finalmente scoperto la Cina?
La Belt and Road Initiative è il progetto diplomatico più significativo del XXI secolo, l’equivalente di ciò che la creazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e del Piano Marshall ha rappresentato per il XX secolo. Con una differenza cruciale: la Bri è stata concepita e lanciata in Asia e sarà guidata dagli asiatici. E in Italia in tanti ne sono consapevoli, da tempo. Quando mi è capitato di incontrare i vostri imprenditori del Nord, in Veneto e non solo, ho notato che sono tutti ben consapevoli della “asianizzazione” del mondo in corso.
È una forma di colonialismo contemporaneo?
Gli imperi hanno sempre investito nelle colonie che poi hanno sfruttato quegli stessi investimenti per costruire una nuova indipendenza: la Gran Bretagna ha costruito infrastrutture e istituzioni in India, a un certo punto gli indiani hanno fatto leva su quell’eredità per ribellarsi e conquistare libertà.
Succederà lo stesso con la Cina?
Gli imperi europei ci hanno messo 300 anni a capire che le popolazioni locali avevano diritto di parola. I cinesi ci hanno messo tre anni. Stanno imparando che quando i Paesi in cui investono chiedono di ridiscutere i rapporti, non si può risolvere la questione con gli eserciti.
A preoccupare non è tanto il rischio di una conquista militare, ma il fatto che la Cina non sia una democrazia.
La misura della stabilità di un Paese non è il tasso di democrazia, ma la capacità del governo di gestire i cambiamenti. La democrazia non è in crisi, ma la governance sì. Tutti vogliono vivere in Paesi democratici, in cui gli elettori scelgono i loro leader. Il problema è come tradurre la volontà popolare in scelte amministrative che producano conseguenze tangibili. In Inghilterra Margaret Thatcher ha smantellato l’amministrazione pubblica, in nome della deregulation, e quando David Cameron e Theresa May si sono trovati a dover gestire l’uscita dall’Ue, hanno scoperto di non avere più la burocrazia sufficiente per gestire il Paese. È un problema di governance, non di democrazia.
E qual è la lezione asiatica su questo punto?
Gli Stati meglio amministrati dell’Asia sono tutti democrazie: Taiwan, il Giappone, la Corea del Sud. La democrazia non è incompatibile con l’efficacia amministrativa in versione asiatica. Negli Stati Uniti Barack Obama ha approvato una riforma dell’assistenza sanitaria e due anni dopo Donald Trump ha iniziato a provare a smontarla. Questo è inconcepibile nella visione asiatica della democrazia. Una volta che si prende una decisione, poi si attua.
Quali sono le conseguenze della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina?
La Cina sta trovando nuovi fornitori per i beni che importava dagli Stati Uniti, quindi a pagare il conto sono le aziende americane. Tutto quello che la Cina compra dagli Stati Uniti, può comprarlo anche altrove. E perfino l’Unione europea è un partner commerciale più rilevante degli Stati Uniti.