Il saluto e la salute condominiali

Non so in quanti l’abbiano visto, ma l’altra sera al cinema eravamo in diversi a vedere il film “Condominio” di Felice Farina. Un bel film dove recita Carlo delle Piane nel ruolo di un amministratore eroe, e soprattutto giganteggia Ciccio Ingrassia. Il condominio del film è differente da quello in cui vivo io, soprattutto per Ugo, che meriterebbe un film tutto per sé. Felice chi è diverso, essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune. Nel film del mio condominio c’è la famiglia che litiga, i festaioli, gli impiccioni, i bambini pestiferi, e poi c’è Ugo, un signore di 60 anni. Lui è un diverso, ma un diverso felice. Con il suo boxer rosso scorrazza tutto il giorno avanti e indietro per i vicoli del comprensorio a salutare chiunque incroci; ti dice buongiorno 10, 20, anche 30 volte al giorno, e ogni volta sorride. Per Ugo il sole non tramonta mai, ti dice buongiorno anche col buio. A Santino, il portiere, il più esposto ai saluti, la cosa non disturba, ma una volta s’è spazientito e l’ha trattato male. Per giorni Ugo non è uscito più di casa e il suo boxer è rimasto parcheggiato in garage. Non so cosa sia successo, forse è sparito perché gli hanno impedito di esercitare quel saluto quotidiano che era il senso della sua vita. La cosa strana è che anche tra noi, tra gli altri, i cosiddetti normali, abbiamo smesso di salutarci, giusto un cenno, ma più per decenza che per autentico afflato. Allora ho chiamato Santino e l’ho costretto a salire da Ugo per scusarsi. Abbiamo suonato il campanello: silenzio! L’abbiamo chiamato a voce, al telefono, niente. Senza pensarci ho cominciato a scandire ad alta voce dal pianerottolo la parola buongiorno, cosi come la pronunciava lui. Ugo si è scaraventato fuori raggiante, ci ha salutati ed è sceso a salutare chiunque, come sempre, in sella al suo Boxer.

 

Cina chiama Italia, la via della seta da Cesare a Trump

La Cina, il paese della ser, cioè della seta, era conosciuta dai Romani grazie all’esotico tessuto sin dai tempi del primo triumvirato, quello Cesare, Pompeo e Crasso. Cesare stesso ne faceva uso e l’opinione pubblica restò impressionata quando per il suo trionfo fece tendere stoffe di seta sopra gli spettatori. Il prezioso tessuto, sovente associato all’oro, penetrò così rapidamente e profondamente nella società romana da diventare un simbolo stesso del lusso, tanto da andare incontro ad aspre critiche moralisteggianti. Nel 14 d.C., pochi mesi prima della morte di Augusto, il senato romano addirittura introdusse il divieto per gli uomini di indossare indumenti di seta in quanto disonorevole, riservandolo però alle donne. Sericum, sericeus, seres, sericatus, sericarius, furono neologismi latini legati alla seta e alla Cina, suo paese produttore. Nonostante sia opinione contrastata, numerosi e per certi versi incontrovertibili, oltre alla seta, sono gli elementi che documentano i rapporti tra l’impero romano e quello cinese. Perciò, uno dei temi più caldi e intriganti dell’attuale politica internazionale è il coinvolgimento dell’Italia nel grande e visionario progetto del One Belt One Road, il grande piano di integrazione economica infrastrutturale e commerciale, costruito dalla Cina di Xi Jinping, che riprende le antiche rotte della Via della Seta (Samarcanda, Bukhara, Chang’an). Avviata da Gentiloni, l’adesione dell’Italia alla nuova Via della Seta sembrerebbe confermata dal governo Conte. Rinnovata collaborazione tra Italia e Cina, nuovi rapporti diplomatici e commerciali sembrano allora costituire una positiva novità sul solco di una tradizione millenaria, con buona pace di Donald Trump.

“Prospettiva famiglia”, professori e genitori animano le periferie

E chi l’avrebbe detto una volta? Signore e signori, la buona educazione è progressista. Ma quale anticonformismo, quale trasgressione, quale rottura delle convenzioni. Tutti alibi per prepotenti e cialtroni organizzati. Questo ho pensato quando Paolo Mercato, funzionario di banca veronese, mi ha abbracciato di primo mattino alla stazione della sua città. Per mezz’ora mi aveva fatto compagnia sui binari raccontandomi l’associazione che ha fondato con un gruppo di insegnanti e genitori, “Prospettiva famiglia”. Lo confesso: quando avevo ricevuto il loro primo invito mi ero immaginato, potenza delle parole, qualcosa di educatamente conservatore. E invece, visto che i tempi contano pur qualcosa, ho scoperto una delle cose più rivoluzionarie che si possano concepire.

Una ventina di genitori e insegnanti hanno fatto gruppo. Un’alleanza per aiutare i ragazzi a crescere, a innamorarsi di lettere e cultura civile. Con lui, tra i protagonisti, una professoressa, Daniela Galletta, la coordinatrice, garbatissima mastina, e un attivissimo ex preside, Andrea Salandra. O Ilaria Rodella, donna di lettere e letture. Poi hanno unito intorno a sé associazioni sportive, oratori, librerie. Stretto una convenzione con una rete di quarantasette scuole. E si sono messi a organizzare cultura per Verona, valorizzando anche le sue periferie.

“Qui non corre un euro”, spiega Mercato, “Nessuno di noi prende niente, nessun iscritto ai nostri corsi paga niente, nessun relatore prende niente. Se viene è solo perché ci crede. Quando un noto psicologo ci chiese un cachet, rispondemmo ‘molto gentile’ e chiudemmo lì”. Spiega che tra il comune e una impresa municipalizzata prendono 3500 euro l’anno e con quelli promuovono un’ottantina di eventi. Campagne annuali, sulla bellezza, sul viaggio. Seminari sull’educazione civica o sull’immigrazione, che Gherardo Colombo tiene da qualche anno. Massimo Recalcati o Umberto Galimberti, Gustavo Zagrebelsky o Dacia Maraini, Gian Carlo Caselli o Piercamillo Davigo, Agnese Moro o Vittorino Andreoli. Testimonianze di giovani immigrati scampati per miracolo (i soccorsi …) ai flutti del Mediterraneo. Campagne di solidarietà, che hanno partorito il loro gioiello quando un giovane ha offerto il suo midollo osseo a una persona compatibile. Borse di studio, una in ricordo di un ragazzo, Nicola Tommasoli, ucciso per sport da una banda “trasgressiva” in odor di destra estrema che lo massacrò all’uscita di una birreria per una sigaretta che non aveva. Era il 2008, Verona restò di sasso e dovette riflettere su di sé e sulla fine di quel giovane. I suoi genitori collaborano, non per caso, con l’associazione. “Che cosa è successo? Davvero noi genitori non c’entriamo niente?”.

Il mio interlocutore procede con una logica semplice, serrata, che tradisce un’educazione con le stellette, un padre appuntato dei carabinieri. “Ognuno l’educazione la respira in famiglia. Un genitore si deve pur domandare se con i suoi figli usa dire grazie e per favore, se li saluta quando arriva a casa o quando ne esce, o se mostra loro una passione per le cose belle. Quando uno è abituato da piccolo a dire scusa, anche per degli sgarbi involontari, è difficile che ne venga fuori un manigoldo”. Retorica, si dirà. E invece io rivedo una insegnante dei vicoli napoletani che mi dice un giorno, indicandomi i suoi alunni: “Fino alle due ci siamo noi, poi ci sono le loro famiglie con la televisione. E il mattino dopo la sfida ricomincia”. Racconta, Paolo Mercato, che i loro incontri sono sempre pieni, che il pubblico viene anche dai paesi fuori Verona, che non è vero che i giovani non sono interessati a niente. “Certo bisogna seminare. Poi non è detto che ne verranno sempre frutti copiosi. A volte c’è la grandine.

Ma se non si semina niente non viene fuori niente, questo è certo”. L’associazione ha rapporti con “Le regole” di Gherardo Colombo, ha rapporti con Libera, il professore Claudio Ferrari ci lavora tutto l’anno, e giovedì una scuola della rete, la “Pasoli”, ospiterà don Ciotti in vista della manifestazione della memoria di ogni primo giorno di primavera, che quest’anno sarà a Padova. Si respira, ascoltandoli, un’aria di attenzione e di impegno, di rispetto e di responsabilità, e si vorrebbe vivere in un paese così. L’unico slogan che gira, senza che nessuno lo pronunci, è “ognuno faccia quel che può e che deve”. È la cultura veneta del non piangersi addosso. Niente alibi, niente bersagli, dare e costruire. Coltivando la buona educazione, anche se altrove tira vento di trivio.

Donne che disprezzano “Sono ricco e intelligente, ma le femmine mi evitano”

Cara Selvaggia, ancora una volta “i bravi ragazzi finiscono in coda”, come ricordava un giovane Jim Carrey nel cult “The Mask”, ormai 25 anni fa. Ben poco sembra essere cambiato. Sono un analista finanziario, statistico e scrittore di romanzi di narrativa, laureato in finanza col massimo dei voti, parlo bene tre lingue europee oltre alla madrelingua, mi piace la musica, lo sport, viaggiare, la buona cucina (sì, sono un uomo e la mia Parmigiana è una cannonata: venghino siore, venghino). Eppure non è questo ciò che interessano al gentil sesso. Ho notato che le donne sono attratte da un carattere sicuro, non importa quanto brutto tu sia: importa come ti poni (in generale se sei un drogato, analfabeta, violento, razzista e misogino stalker, hai ottimo sex appeal), quanto riesci a suscitare interesse (per dirla come un’amica, il ‘suscitino’). Insomma, sei tanto più bravo con le donne, quanto più riesci a ‘fregarle’ psicologicamente. Certo salterà fuori l’eccezione che mi dirà: “Ma che donne frequenti?”. Ci saranno pure le sante come te, cara avvocatessa del diavolo che mi farà questa domanda, ma siete in infima minoranza. Circa l’80% delle donne che conosco hanno una relazione (o ne hanno avuto almeno una) con i suddetti animali, tanto virili e machi, quanto vuoti di cervello e cuore. Io credo perché le nostre partner vogliano sempre (ripeto: SEMPRE) cambiarti in meglio. Sono stato corretto con le donne che ho avuto, “non proprio eccitante, ma devoto”, come diceva Diane Keaton in “Amore e Guerra” di Woody Allen – anche se evito un bilancio imparziale del mio aspetto. Ma la devozione non bastava. A 14 anni avevo una relazione a distanza con una ragazza, G., durata finché ho scoperto che l’unico che non aveva ancora colto il suo frutto proibito ero io. Pazienza per i soldi spesi (sono genovese, quindi tirchio per definizione), pazienza per il tempo ‘perso’ a farmi centinaia di chilometri la domenica mattina. A 18 anni mi misi con A.: il mio migliore amico me l’ha presentata perché credeva che tra me e lei potesse funzionare, salvo poi mettersi con lei dopo un paio di mesi che io e A. stavamo insieme. Di nuovo, qualcun altro colse la mela. La donna dal carattere forte arrivò l’anno dopo, quando mi misi con M., sorriso radioso e dalla rara intelligenza. Ci mettemmo assieme quando avvenne la tragica alluvione del Fereggiano (ironia della sorte?) nel 2011. Nel giro di due giorni volle troncare: va bene, può succedere, fin qua tutto bene. Salvo voler tornare con me dopo altri due mesi e di mollarmi ulteriormente dopo altri tre mesi senza motivo apparente. Dopo qualche tempo, a 21 anni, arrivò nella mia vita C., con la quale rimasi per oltre tre anni. A. tornò a farsi sentire per interposta persona, dicendo che voleva tornare con me, dopo essere stata per un bel po’ con R., ma io le dissi che mi aveva tradito col mio migliore amico e che ora ero molto impegnato con C. (errore madornale). C. ed io ne passammo di cotte e di crude insieme, superammo sia esperienze liete che molto molti tristi. Ora sta con un mio amico, L., da sei mesi prima che io e lei ci lasciassimo (L. lo abbiamo conosciuto insieme due anni prima di lasciarci). Io sono schifato dalle donne o spaventato nel pensare ancora una volta: “Lei è diversa, me lo sento”. E questo va ben oltre la sfiga di aver incontrato nella mia vita solo donne insensibili e figlie delle suddette madri ignote (essi).

Isaac

 

Caro Isaac, ad occhio, io ti consiglio di abolire gli aggettivi “tirchio” e “devoto” dal tuo vocabolario sentimentale, di cogliere qualche frutto proibito in più e di presentare qualche amico in meno alle tue prossime fidanzate.

Selvaggia Lucarelli

 

Il dilemma: meglio Dylan o Brandon di “Beverly Hills”?

Ciao Selvaggia, oggi è stato un giorno triste per me che sono nata nel ’75. Un mito della mia adolescenza se ne è andato e a parte la triste consapevolezza che il tempo passa inesorabilmente, ho fatto questa riflessione che vorrei condividere con te. Giorni fa mezza Italia si è indignata (giustamente) per il sussidiario che in maniera molto stereotipata collegava la figura della mamma ai verbi lavare e stirare. Ora è morto Luke Perry, il Dylan di “Beverly Hills” 90210 e in molti commenti di signore che all’epoca erano delle adolescenti come me ricorre lo stereotipo “bello e dannato”. Mi domando perché ci indigniamo tanto se ci dipingono come delle casalinghe anni ’50 se poi, ampiamente superata l’età della scemenza, siamo ancora convinte che l’uomo bello, dannato, complicato e traditore con un passato difficile sia il nostro uomo ideale. Sia quello per struggersi e guardare schifate i nostri rassicuranti, noiosi, prevedibili mariti. Non è anche questo un pericolosissimo stereotipo da contrastare? Quante donne con lo spirito da crocerossina si sono ritrovate ad affrontare mostri che nulla avevano di affascinante?

Mirta

 

Cara Mirta, Dylan era contorto e tenebroso, ma certo nella serie non è mai stato violento e Bevery Hills 90210 non si è concluso col femminicidio di Brenda. Non esageriamo. In effetti però c’è da dire che lui e Brandon erano esattamente due stereotipi maschili perfetti: Dylan sfuggente, inaffidabile e introverso. Brandon affidabile, solido, rassicurante. Tutte noi, tra i due, avevamo il nostro preferito e il nostro preferito tradiva qualcosa del nostro modo di intendere l’amore. E a me, appunto, piaceva Brandon perché mi dava l’idea di potergli dire “stirami la gonna che tra mezz’ora devo uscire”. Dylan, il ferro da stiro, in effetti me lo avrebbe tirato dietro.

Selvaggia Lucarelli

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2; selvaggialucarelli @gmail.com

Chi ci pulisce il bagno è una madre che lotta per i propri figli

La signora che mi aiuta nelle faccende di casa ha un contratto, uno stipendio regolare e un reddito annuale più o meno pari a quello che metto insieme io a spizzichi e bocconi (l’ultimo mio impiego a tempo indeterminato si è interrotto nel 1996 con la chiusura di Cuore). Ed è giusto così, perché è brava nelle faccende almeno quanto io nella scrittura, e migliora quotidianamente la vita di sei persone, cosa che non sono sicura di aver fatto io in quasi trent’anni di lavoro giornalistico. Eppure il mio lavoro è considerato più “nobile” del suo. E tutti i lavori manuali, specie se hanno a che fare con il corpo e le sue miserie, sono considerati “umili”, e quindi affidati alla classe e al genere più sfruttato e sfruttabile; sfruttamento che giustifichiamo a noi stessi degradando ulteriormente le persone che li fanno. Per questo tante donne trattano male le loro collaboratrici domestiche e le accusano ingiustamente di disonestà o trascuratezza: se riconoscessero in loro persone degne di rispetto, non riuscirebbero a lasciargli cumuli di biancheria sporca e cessi da pulire in cambio di un salario inadeguato e magari senza contributi. Aggiungiamoci pure il senso di colpa di tante donne per affrancarsi dai doveri secolari del lava-stira-pulisci a spese di una propria simile, e, anziché gratitudine, provano per lei risentimento, quasi fosse uno specchio deformante del “destino” biologico di angelo del focolare cui stanno tentando di sfuggire. Dobbiamo impararlo da un best sellerUsa che la donna che ci lava i pavimenti è quasi sempre una madre che sta lottando per la sopravvivenza e il futuro dei suoi figli? Ma ci riesce più facile sfogliare un libro alla moda che fare due chiacchiere davanti a un caffè con la nostra colf e chiederle della sua vita. Col rischio di scoprirci amiche, davanti a un mucchio di biancheria che via, si può stirare anche domani.

Accusate di furti, malpagate: donne contro donne (delle pulizie)

Si aggirano silenziose, straccio in mano, nei nostri uffici. Si chinano, mute, sui nostri water macchiati. Eppure di loro non sappiamo quasi nulla, come scrive la giornalista Barbara Ehrenreich nell’introduzione al romanzo autobiografico di Stephanie Land, Donna delle pulizie(ed. Astoria), divenuto best sellernegli Stati Uniti. Il libro della Land ci fa entrare in un mondo di donne, spesso madri – in questo caso statunitensi, ma l’Italia non è lontana – che non possono permettersi un MacDonald, che soffrono sempre di disturbi alla schiena o alle gambe, che faticano ad ottenere dallo Stato qualche straccio di sussidio. Ma le donne delle pulizie, che hanno a che fare “con i nostri panni sporchi, letteralmente e metaforicamente”, scrive Ehrenreich, raccontano molto di noi: di come nella nostra cultura la pulizia dello sporco continui ad essere associata alle donne (infatti la dicitura “uomo delle pulizie” non esiste), così come anche della nostra convinzione che le pulizie siano un lavoro “basso” da retribuire poco (provate voi a pulire una casa come il proprietario si aspetta). Su questo fronte, poi, le donne sono le peggiori nemiche delle donne. Si lamentano che “nascondano” o chissà rubino, le cose (quando nel cento per cento dei casi le hanno perse loro), passano ore a discettare sulle chat sul diritto alla sigaretta o ad andare in bagno. Insomma le donne delle pulizie sono le più sfortunate tra le donne, perché devono subire sia l’indifferenza maschile sia una certa ottusa, e disumana, pignoleria femminile. All’indomani dell’8 marzo, vale la pena di ricordare il loro doppio lavoro- scrostare i nostri lavandini, sopportare il nostro ingiustificato disprezzo – magari per cominciare a guardarle per quello che sono: e cioè donne, madri, figlie, esseri umani degni di rispetto (e di una retribuzione sicuramente maggiore).

Juve: Allegri rischia se esce con l’Atletico

Il Getsemani di Massimiliano Allegri. Dopo l’ultima cena consumata (dicono i vangeli) in compagnia di Andrea Agnelli e l’ultimo giorno trascorso in ritiro, in preghiera, in attesa di scoprire se domani qualcuno dei suoi lo tradirà. Di certo sarà una Via Crucis, per l’allenatore livornese, la sfida Juventus-Atletico Madrid, domani a Torino. La scalata è ripida (0-2 da rimontare) e persino gli juventini sembrano ormai sul punto di abiurarlo. Con CR7 in squadra, questo doveva essere l’anno del paradiso: invece si profila l’inferno. E un perdono impossibile, se Max non farà il miracolo.

MISSION. “Dal sogno dobbiamo passare all’obiettivo: l’obiettivo dev’essere la Champions League quest’anno”. Così parlò (12/08/18, Villar Perosa) Sua Maestà Andrea Agnelli. Che prima ci aveva provato ingaggiando il campionissimo, Higuain. Poi ci ha riprovato ingaggiando il n. 1 al mondo, il 5 volte trionfatore Cristiano Ronaldo. Se nemmeno con lui Max ce la farà, la Juve cambierà strada: e cercherà il fuoriclasse degli allenatori. Non Allegri, quindi.

REMUNTADA. L’Ajax che rimonta ed elimina il Real Madrid (4-1), il Manchester che rimonta ed elimina il PSG (3-1). Ingoiato il boccone amaro dello 0-2 al Wanda Metropolitano, ora i tifosi bianconeri esigono l’impresa anche dalla Juventus, domani, contro l’Atletico. Non come per il 2-0 diventato 2-4 in casa del Bayern (con Morata tolto dal campo sul 2-0, marzo 2016), non come per il 3-0 diventato 3-1 in casa del Real (aprile 2018). Rimontare si può. Ci sono riusciti i bambini di Ten Hag e le riserve di Solskjaer, possono farlo anche i campioni (strapagati) di Allegri.

CONFRONTO. Sempre critico con i predicatori del Bel Calcio (leggi Tiqui-Taca), ritenuto esibizione da circo, il destino ha voluto che la sfida della vita per Allegri avvenisse col profeta della massima concretezza, Diego Simeone. Che non ha i campioni di Allegri ma un’impronta al calcio è riuscito a darlo: e che impronta! L’Atletico lo paga 24 milioni netti l’anno, tre volte e mezzo lo stipendio di Max: conti che tornano, se il Cholo si mangerà domani il tenero Max.

PALMARES. La Juve non vince una Champions da 23 anni durante i quali è andata in finale 5 volte, perdendone tre con Lippi in panchina e due con Allegri. Il tutto mentre Ancelotti vinceva due coppe col Milan e una col Real, Zidane tre consecutive con i Galacticos, Guardiola due con il Barcellona, Del Bosque due col Real, Heynckes una col Real e una col Bayern. Se è vero che non si vince solo per fortuna, forse Lippi non era un genio. E Allegri nemmeno.

FORT APACHE. Con Buffon era la BBBC (Buffon-Barzagli-Bonucci-Chiellini); ora si parla di BBC (Gigi se n’è andato), se non proprio di BC, visto che Barzagli va per i 38 (ehm…). Parliamo della muraglia difensiva come marchio di fabbrica della Juve: inespugnabile a casa nostra, meno in Europa visto che Buffon, nelle due finali con Barça e Real, ha raccolto 7 palloni dalla sua porta mentre in altri luoghi Messi e Ronaldinho, Eto’o e Inzaghi, Drogba e Lewandowski, Bale e CR7 (il CR7 in camiseta blanca) regalavano al mondo i loro fuochi d’artificio. Circo? No, Disneyland.

L’accoglienza dipende dal cuore: l’esperienza del Centro Balducci

La Chiesa dell’accoglienza, in un piccolo paese in provincia di Udine. E un prete che aderisce con tutto il suo “piccolo” cuore al Vangelo: “L’accoglienza mi attraversa, mi riempie tanto che mi pare di avere un cuore troppo piccolo perché tutte le persone e le situazioni possano entrarvi, mi arricchisce e mi tormenta, mi provoca e mi affatica, continua ad alimentarsi e a farsi ulteriore accoglienza. Non in modo astratto, teorico, in un discorso sull’accoglienza, ma in modo pratico nell’attenzione, negli incontri, nell’ascolto, nel coinvolgimento in momenti positivi, progettuali, tribolati e dolorosi”. Questo prete si chiama Pierluigi Di Piazza e nel 1988 ha fondato a Zugliano il Centro di accoglienza per stranieri e di promozione culturale “Ernesto Balducci”. L’apertura di don Piazza, sacerdote dal 1975, è totale, come racconta nel suo ultimo, intenso libretto Non girarti dall’altra parte. Le sfide dell’accoglienza (nuovadimensione, 109 pagine, 13,50), in cui è decisiva anche la lezione culturale di Antonio Gramsci: “Ha cultura chi ha coscienza del sé e del tutto, chi sente la relazione con gli altri esseri”. Una coscienza e una relazione che sembrano ormai mancare del tutto in quest’Italia sempre più egoista, cupa e salviniana. L’odio e il rifiuto al posto dell’amore e dell’accoglienza.

Don di Piazza, nel suo centro di Zugliano, non si è negato a nessuno: “Bambini, adolescenti, giovani, donne e uomini anziani, eterosessuali, omosessuali e transessuali; celibi e sposati; separati e divorziati; sani e ammalati; disabili, sofferenti psichici, dipendenti da alcol e da gioco, carcerati, nomadi, immigrati e forse altri ancora”. È la Chiesa che vuole papa Francesco, non vuota istituzione di potere, in cui Cristo rivela la sua vera essenza di accoglienza e compassione e che “abbatte le separazioni fra sacro e profano, puro e impuro”.

Il libro è impreziosito da gli interventi di Gianfranco Schiavone (decreto sicurezza) e Paolo Tomasin (sui migranti). Una boccata d’aria fresca, in questi tempi tristi di chiusura all’altro.

Le prove di Grande Fratello in Cina: governare coi big data

Se viaggiate sul treno Pechino-Shanghai potreste sentire un annuncio di questo tipo: “Ricordiamo che le persone senza biglietto saranno sanzionate e che il comportamento sarà registrato nel sistema di informazione sul loro credito individuale”. É il modo in cui in Cina si stanno preparando alla societá dei big datai. Si chiama Credito sociale ed é un grande progetto del governo cinese, diretto dal “piccolo gruppo centrale di guida per l’approfondimento delle riforme”, guidato dallo stesso leader, Xi Jinping.

I media occidentali lo raccontano spesso come la versione cinese del Grande Fratello. E in effetti evoca lo spettro di un sistema di sorveglianza che monitora ogni comportamento, integrando in questo apparato di controllo, Stato, imprese private e la panoplia di dati raccolti da apparati e sensori sempre piú ubiqui. In aggiunta, un sistema di sanzioni (o incentivi) semiautomatizzato: quindi economico, efficiente, e spietato, che avrebbe cosí un effetto preventivo e dissuasivo.

Il programma sperimentale é stato lanciato nel 2014, con una serie di progetti pilota, e dovrebbe cominciare a diventare operativo a livello nazionale nel 2020 con la creazione di un sistema centralizzato di raccolta delle informazioni sulle persone guiridiche e fisiche. L’obiettivo “ideologico” del sistema é incrementare l’”affidabilitá” di istituzioni, imprese, organizzazioni sociali, persone, e di rafforzare la “credibilitá del sistema giudiziario”. Costruire una societá, in sintesi, “in cui l’affidabilità è onorata e l’inaffidabilità è vergognosa”. Il metodo é monitorare e disciplinare i comportamenti attraverso un sistema di punizioni e incentivi, e si fonda sulla creazione di liste nere (o “rosse”, per i meritevoli). Si può finire in una lista nera, nei progetti pilota, per effetto di una condanna giudiziaria – relativa, per esempio al pagamento di risarcimenti, multe, tasse – e che il condannato non rispetta. Se a commettere la violazione è un’impresa, gli effetti ricadono sugli amministratori. Chi é in una lista nera non puó viaggiare in aereo, in treni ad alta velocitá o iscrivere i figli in scuole private.

Oltre al programma nazionale, ci sono molti altri programmi sperimentali, a piú ampia portata, in numerose amministrazioni locali. Altri esperimenti li stanno seguendo i giganti del web cinesi, sotto la vigilanza della Banca centrale. In questo caso, l’obiettivo ufficiale é la sperimentazione di nuovi sistemi di rating per il credito per migliorare il sistema di valutazione del merito di credito e per arrivare a una platea oggi esclusa per assenza di requisiti (conti correnti, patrimonio, etc.) dal sistema bancario. Il piú famoso di questi sistemi é il “Sesame credit” di Alibaba, che non é granché diverso dai sistemi reputazionali, che si stanno sperimentando un po’ in tutte le reti sociali. Anche se sono spesso confusi con il programma governativo del Credito sociale, questi programmi sono volontari e non sono riconosciuti dalle autoritá, che li hanno considerati viziati da conflitti d’interesse e poco attendibili.

Secondo un recente rapporto del governo cinese, quasi 13 milioni di organizzazioni sono state sanzionate con il sistema del Credito sociale: oltre 20 milioni di viaggi sono stati proibiti.

Nonostante questi numeri, il sistema é ancora molto rudimentale. Uno dei problemi con cui si scontra è la qualitá e la omogeneità dei dati, che si vorrebbero integrare e processare. Anche se la Cina è ben attrezzata per superare queste sfide, il cammino si prospetta lungo. Un’altra difficoltá é la costruzione di “indicatori sintetici”. Sembra difficile che si possa arrivare a una sorta di indicatore unico, che quantifichi la conformitá o la reputazione di organizzazioni o individui. Si stanno quindi studiando sistemi di valutazione per settori specifici, per esempio, con le associazioni industriali.

Il Credito sociale é stato pensato anche come uno strumento di governo delle imprese, come osserva Merics, un istituto tedesco specializzato in studi sulla Cina. Visto con questa ottica, il Credito sociale, lascia intravedere un sistema di regolamentazione del mercato basata sull’analisi semiautomatizzata di grandi quantitá di dati. Si puó immaginare, per esempio, l’uso di sensori che misurano le emissioni e la loro conformitá con i regolamenti, integrati in un sistema sanzionatorio pressoché automatico. Un sistema di questo genere, in teoria, potrebbe portare a una riduzione drastica degli interventi di supervisione degli enti governativi, che si limiterebbero a definire regole e algoritmi. Mentre le imprese sarebbero costrette a internalizzare nel calcolo costi-benefici quelle esternalitá, che si cerca di proteggere con la regolamentazione.

Il sistema si basa su una grande fiducia nella capacitá dello Stato di guidare l’economia verso sentieri di sviluppo economico, industriale e tecnologico. Ma soprattutto all’inizio è lecito aspettarsi che il sistema sará propenso a errori che potrebbero avere effetti molto pesanti. O da incubo.

Giovani debuttanti i prototipi retrò

Al gran ballo di Ginevra non sono poche le debuttanti elettriche presenti negli stand. Ma se da un lato il concetto di emissioni zero è già di per sé futuristico per la mobilità odierna, dall’altro i carrozzieri – coprotagonisti della kermesse ginevrina – sembrano talvolta volersi aggrappare agli anni che furono, come a dire “va bene cedere alle batterie, ma lasciateci almeno le linee”.

È in questa chiave che sono state presentate concept come Carmen, la supercar elettrica con scocca in carbonio del marchio Hispano Suiza, dichiaratamente ispirata alla H6 Dubonnet Xenia del 1938. Della concept ispanica però, a parte il design retrò coi passaruota posteriori decisamente più grandi rispetto a quelli anteriori, non si sa altro.

Vanta geni nobili la Mark Zero di Anton Piëch, figlio di quel Ferdinand discendente della dinastia Porsche. Il prototipo, amarcord delle sportive Anni 60, ha ben tre elettromotori per un totale di 612 CV di potenza; la batteria si ricarica all’80% in 5 minuti e ha un’autonomia di 500 km. Un coupé sinuoso, elegante e dal pianale estremamente versatile, che consentirebbe un’alimentazione a idrogeno, ibrida e a benzina.

Di gusto retrò anche la Volkswagen E-Buggy , inedito prototipo green che la Casa svela in Svizzera (in attesa di sfoggiare Golf e I.D. a Francoforte): fa tornare alla mente quei simpatici Dune Buggy da spiaggia degli Anni 70. Tuttavia, non è un’operazione nostalgia quanto una dimostrazione della modularità della piattaforma elettrica Meb. Per salire a bordo della E-Buggy basta saltarci dentro, poiché priva di tetto e porte: l’abitacolo è hi-tech e la carrozzeria pure, un mix di alluminio, plastica e acciaio.

Dal Giappone (con furore) arriva la prima EV by Honda, la e-Prototype: in realtà ha ben poco di prototipale, visto che sarà in commercio già dal 2020. Il modello di serie avrà 5 porte, un motore collegato alle ruote posteriori e la batteria che lo alimenta sotto al pianale. Una citycar a tutti gli effetti, viste le dimensioni compatte, 4 metri di lunghezza e l’autonomia di circa 200 km. E se le linee sono un’eco ai modelli retrò, la tecnologia dell’allestimento interno parla un linguaggio ultramoderno, espresso da un infotainment “spalmato” su più schermi, lungo la plancia a partire dal quadro strumenti; e gli specchietti retrovisori diventano telecamere integrate nel ponte di comando.

Audi, invece, con le sperimentazioni elettriche non ha nulla da dimostrare e con la Q4 E-tron sale già a quota 5 modelli nella gamma EV. Anticipa un suv compatto che dispone di due motori elettrici da circa 306 CV totali; a separare i due propulsori, una batteria da 82 kWh per un’autonomia di circa 450 km. Interno fra lusso e tecnologia, con rivestimenti in Alcantara e materiale riciclato e un touchscreen da 12,3 pollici che si inserisce in una plancia dalle forme piuttosto spigolose. Il concept ha la carrozzeria intelligente, dotata della particolare verniciatura “Solar Sky” che riflette i raggi del sole ed evita il surriscaldamento dell’abitacolo, così da ridurre l’uso del climatizzatore e abbattere il dispendio di energia.

Il gruppo Volkswagen non ha lasciato indietro nessuno dei suoi marchi sull’elettrificazione: Seat, perciò, ha portato la el-Born, una sorta di fusione tra berlina e suv, con tecnologia 100% elettrica. Attesa per il 2020, l’auto avrà un’autonomia di circa 420 km, giusto qualcosina in più rispetto ai 100 km della Minimò, il prototipo dedicato alla micromobilità.

A Ginevra c’è anche una diretta (e degna) rivale della Tesla Model 3, la Polestar 2. Rivale a partire dal prezzo: 39 mila euro.

Ma il “gran ballo” non potrebbe mai fare a meno di ospitare le bellezze dei carrozzieri italiani, che come Pininfarina fanno adagiare una Battista in fibra di carbonio su 1.900 Cv di potenza erogati da quattro propulsori elettrici, per 2.300 Nm di coppia. E se Giugiaro impressiona tutti con la sua GFG Kangaroo ultra-futuristica, la DaVinci di Italdesign omaggia il genio di Leonardo fissato a china sui celebri bozzetti, traendo spunto da pieni e vuoti delle forme naturali.