Il risiko delle alleanze per poter sopravvivere

Atmosfera strana quest’anno a Ginevra. L’evento che avrebbe dovuto sancire la svolta definitiva dell’elettrificazione, pare invece ne subisca il peso e la sopporti a malapena, nonostante i sorrisi di circostanza dei top manager accorsi a rilasciare dichiarazioni baldanzose. Il perché non è difficile da capire: i soldi spesi finora (e quelli che lo saranno in futuro) sono certi, i guadagni no. Gli investimenti sulla tecnologia delle batterie incidono profondamente sui bilanci dei costruttori, a fronte di utili tutti da verificare, visto che come ha ricordato lo stesso numero uno di Fca Mike Manley “le auto a emissioni zero oggi valgono circa il 2% del mercato europeo”, anche se le previsioni le accreditano per un 30% nel 2025.

Bisogna comunque prepararsi per tempo, anche se questo ribalta la prospettiva tradizionale con cui si approccia il business: l’offerta non soddisfa più una domanda certa ma potenziale, visto che è tutto da dimostrare il fatto che i consumatori comincino a comprare auto a batteria. Lo stesso Manley si è detto incerto riguardo alla loro effettiva volontà. Si tratta dunque di un salto nel buio, sia concettuale che pratico, da cui ci sarebbe molto da perdere. Ma che stanno facendo tutti, perché lo impongono i limiti sempre più stringenti sulle emissioni, il cui primo step è fissato al 2021: 95 grammi di anidride carbonica per chilometro, di media. “Se non li rispetti ci sono le multe, da centinaia di milioni di euro. Il primo anno magari le paghi, ma poi? Non si può continuare all’infinito, ecco perché abbiamo dovuto per forza virare sull’elettrico”, la sincerità del numero uno del marchio Peugeot Jean Philippe Imparato suona quasi come rassegnazione.

Viceversa l’impatto non sarebbe certo da poco, visto che una recente studio di Pa Consulting ha quantificato in poco meno di 4 miliardi di euro gli addebiti ai costruttori meno virtuosi. Anche qui bisognerebbe chiedersi perché il legislatore europeo, dopo essere andato per lustri a braccetto con l’industria dell’auto, sia improvvisamente diventato così severo nei suoi confronti. E magari non azzardare pensando che la risposta si chiami Dieselgate, nel senso più estensivo del termine (ovvero tutti quelli che hanno fatto i furbi coi motori a gasolio, non solo il gruppo Vw): una roba devastante che ha minato qualsiasi tipo di fiducia tra istituzioni e industria, condannando alla progressiva estinzione una tecnologia, quella del diesel, che allo stato dell’arte (leggi i nuovi Euro 6 D-Temp) rappresenta ancora una valida soluzione contro l’inquinamento. In questo contesto, sono diventate fondamentali le alleanze. Condividere costi, architetture e tecnologie è una condizione imprescindibile per sopravvivere. La potente associazione dei costruttori tedeschi (Vda) ha appena annunciato che la Germania investirà qualcosa come 58 miliardi di euro in elettrificazione (40 miliardi), guida autonoma e connettività (18 miliardi). Con marchi come Bmw e Mercedes che una volta erano come cane e gatto mentre ora si ritrovano insieme su progetti di car sharing (ShareNow) e dal 2025 potrebbero produrre vetture compatte su una piattaforma comune. Un esempio, come se ne potrebbero fare molti altri, che ben fotografa la situazione attuale. E se la Germania si organizza, Italia e Francia hanno provato a rispondere proprio a Ginevra. In maniera abbastanza inaspettata Fca e forse più attesa Psa. L’azienda italo-americana ha dimostrato come in fondo le parole di Marchionne di circa un anno fa (“Abbiamo la tecnologia elettrica, aspettiamo il momento giusto per tirarla fuori”) non fossero del tutto peregrine: Alfa Romeo Tonale, Fiat Centoventi e le versioni ibride di Jeep Renegade e Compass ne sono testimoni. Così come la scena rubata alla più grande kermesse europea, cosa che non succedeva da (troppo) tempo. Si diceva poi di Psa: la nuova 208 segna uno spartiacque: verrà offerta in contemporanea in versione tradizionale ed elettrica. Citycar che vediamo sulle strade di tutti i giorni che cambiano pelle: il grimaldello della mobilità a elettroni potrebbe essere proprio questo.

Scontro francese sulle citycar

Un duello a lume di luci a led, motori elettrificati che ora si misurano in kw e piattaforme meccaniche evolute che imprimono una accelerazione alla spina dorsale del mercato della mobilità sul continente europeo. Mai nella storia di uno stesso Salone internazionale dell’auto abbiamo assistito a un debutto contemporaneo di due citycar così importanti, entrambe due spanne avanti dal punto di vista tecnologico rispetto alle rispettive generazioni precedenti. Mai avremmo immaginato poi che un simile scontro ravvicinato fosse del tutto francese. Politico ed economico, oltre che industriale.

Da un lato del ring di Ginevra 2019 c’è Peugeot 208, la nuova catapulta di un Gruppo Psa in salute di spirito e tecnologia che, dopo l’acquisizione di Opel, deve amministrare e giustificare all’Eliseo e a Berlino il nuovo ruolo da unico competitor possibile di Volkswagen, ovvero della Germania automobilistica rimasta nei suoi confini e che funziona. Incrocerà i guantoni con Renault Clio, figlia prediletta di un marchio che deve mettere a frutto col miglior profitto possibile le sinergie tecniche con Nissan, ma contemporaneamente guadagnarsi un maggior peso nelle vendite per tenere in piedi quella Alleanza che il caso Ghosn ha messo in dubbio, almeno per il lato giapponese.

Peugeot e Renault si sono trovate nell’obbligo di accelerare nello stesso momento, giocando rispettivamente la carta dell’elettrico e dell’ibrido in una fascia di mercato dove era presente di fatto solo Toyota, e poi elevando il tasso tecnico di 208 e Clio attingendo al sistema di piattaforme modulari, da cui si può ricavare una intera famiglia di vetture, quell’invenzione che solo Volkswagen aveva osato trasportare tra le citycar mutuandola dalle auto di categoria superiore. Un cambio di passo tra modelli destinati a grandi numeri, che da solo è una notizia, che costringe la concorrenza a ragionare e investire di conseguenza. Perché, ad esempio, Peugeot 208 non fa sconti. È destinata a raccogliere per prima il nuovo corso di design inaugurato con la ammiraglia 508.

Sportivissima, ma soprattutto ambiziosa, cioè sviluppata sulla piattaforma Cmp che Psa definisce “multi-energia” perché permette di collocare gli organi meccanici in modo razionale sia per varianti con motorizzazione tradizionale che elettrica. Ed è così, fin da subito. Sarà offerta con un motore a benzina e diesel da 75 cv a 130 cv, ma per chiarire che non si scherza più, la variante più potente che è proprio l’elettrica, ovvero 340 km di autonomia per 136 cv. E zero compromessi sulla citycar evoluta. Pensiero stupendo anche per Renault, che ha preteso all’interno dell’Alleanza con Nissan il diritto di portare al debutto assoluto con Clio la piattaforma modulare Cmf-b.

Misure più compatte per una quinta generazione più leggera, dal design lineare e con interni digitalizzati. E poi motori benzina o Diesel da 65 a 130 Cv, ma soprattutto la novità del sistema ibrido E-Tech con un 1.6 benzina abbinato a due motori elettrici. Oltre Renault Clio e Peugeot, in autunno vedremo Opel Corsa, che proprio con 208 condivide progetto e base meccanica, ma resterà il vuoto nella gamma del gruppo Fca, da tempo uscito da questo ring e che non risulta voler investire nell’erede di Uno e Punto. Una assenza di strategia, e non strategica che non può certo colmare l’eventuale realizzazione del concept Fiat Centoventi. Le Citycar evolute rappresentano la strada più diretta per i nuovi consumi di mobilità pulita e condivisa, verso il business dei servizi disponibili su reti cellulari mobili ad alta velocità, hanno una soglia di costo che permette di sviluppare una economia del possesso e del noleggio piuttosto che della proprietà. A verbale poi anche gli esercizi di stile Anni 60 di Honda E Prototype. Avrà entro l’anno un futuro da vettura di serie al 100% elettrica, con linee pulite, dettagli curati, interni dominati dall’elettronica in salsa retrò. Avrà spazio anche l’electro-vintage, ma sono altri ad aver spalancato questa nuova primavera da citycar a forza di politica e muscoli.

Il risveglio di Fca

Un colpo di reni sorprendente. Tanto da rubare gran parte della scena agli altri convitati della kermesse ginevrina: è il riscatto di Fca, lungamente sperato e tante volte disatteso. Nuovi modelli strategici ed elettrificazione a 360° per un cocktail che ha il sapore del futuro. Un futuro affidato alle novità a marchio Alfa Romeo, Jeep e Fiat, che hanno presentato prototipi più o meno pronti a imboccare la via della produzione.

“C’è chi pensa che Fca sia scettica sull’elettrificazione. Non c’è niente di più lontano dalla realtà come testimoniano i veicoli che abbiamo presentato”, spiega l’ad del Gruppo, Mike Manley: “Ora è il momento giusto per andare verso questa tecnologia: i costi sono sostenibili e c’è la richiesta della clientela”.

Il primo fuoco pirotecnico è la show car Alfa Romeo Tonale: anticipa forme e contenuti di un inedito suv di taglia compatta, fratello minore del più grande Stelvio, di cui mantiene la coerenza toponomastica ispirata ai passi alpini. La sua meccanica ibrida plug-in e, promette Alfa, doti stradali di riferimento, sono il bigliettino da visita di un veicolo che dovrà vedersela con una concorrenza agguerritissima e in costante crescita. Scudetto anteriore più in risalto che mai, sguardo aggressivo e forme atletiche, levigate: lo stile è dalla sua, non c’è che dire, e si sposa bene con le sembianze da sport utility di taglia urbana.

Il salto avanti è concreto pure all’interno, dove figura una ponte di comando orientato al guidatore, digitalizzato e connesso alla rete. E, per una volta, il prodotto italiano sembra arrivare puntuale all’appuntamento col mercato: “Il segmento delle suv compatte è tra quelli in più forte crescita al mondo e presto sarà fortemente elettrificato”, ribadisce Tim Kuniskis, capo di Alfa Romeo: “Attualmente i powertrain ibridi ne rappresentano il 3% del totale, ma nel 2024 arriveranno al 76%, con un picco superiore all’80% in Europa”. Non resta che centrare le tempistiche di produzione, calendarizzate ai primi mesi del 2020, presso l’impianto di Pomigliano.

Ancora più innovativa la Centoventi, intitolata al 120° anniversario di Fiat e ghiotto antipasto della ventura Panda a trazione elettrica. “Rappresenta la Fiat che si guarda allo specchio alla ricerca dei valori fondanti del marchio, come l’approccio democratico alla mobilità”, spiega Olivier Francois, numero uno della marca: “L’obiettivo è rendere la tecnologia elettrica accessibile a tutti”. Una show car trasformista, che permette all’utente di adattarla finemente alle necessità individuali.

Non è solo questione di colori: ci sono 120 accessori studiati ad hoc tra parti della carrozzeria (come il tetto che fa da panello solare), sistemi audio, vani portaoggetti e gadget vari, alcuni dei quali fabbricabili mediante una stampate 3D, direttamente dall’utente o dal concessionario. La plancia prevede un sistema brevettato per l’ancoraggio dei componenti aggiuntivi, che ricorda i famosi mattoncini Lego.

Mentre la strumentazione è integrabile col cellulare/tablet o col display della Casa da 20 pollici, dal nome evocativo: Lingotto. Infine, il battery pack modulare, con accumulatori aggiuntivi acquistabili o noleggiabili e raggio d’azione compreso fra 100 e 500 km. Il tutto per 3,68 metri di lunghezza.

La terza stoccata, per mano di Jeep, è anche la più concreta: è l’esordio delle nuove Renegade e Compass con tecnologia ibrida plug-in, con batterie ricaricabili sia mediante il motore endotermico che attraverso cavo di ricarica a una presa di corrente esterna. Modelli che andranno in produzione a Melfi tra fine anno e inizio 2020: assicurano circa 50 chilometri di autonomia a zero emissioni a una velocità massima di circa 130 km/h. Dopo tale soglia si attiva pure il quattro cilindri turbobenzina da 1,3 litri di cilindrata.

Le potenze di sistema sono comprese tra 190 e 240 CV, a fronte di emissioni di CO2 omologate inferiori ai 50 g/km. La trazione all’assale posteriore non viene fornita dal tradizionale albero di trasmissione ma dal motore elettrico dedicato, permettendo di gestire la coppia motrice erogata in maniera indipendente fra le ruote anteriori e quelle posteriori.

È il rilancio di quella Fca partorita dalla mente del compianto Sergio Marchionne, a cui il manager abruzzese ha costruito solide fondamenta finanziarie. A Ginevra è mancato il suo celebre maglione scuro e qualcuna delle sue battute pungenti (e talvolta irriverenti). Tuttavia, a prendersi gli applausi sul palcoscenico c’era idealmente anche lui, insignito del premio World Car Person of the Year, assegnato da 86 giornalisti di 24 Paesi e ritirato dal suo successore, Manley.

F8 Tributo, l’ultimo baluardo della tradizione

In un salone che accoglie e sposa l’elettrificazione, almeno le supercar (ma non tutte) possono permettersi il lusso di riproporre il caro vecchio motore a combustione. È il caso della Ferrari F8 Tributo, che manda in pensione la 488 GTB e può contare su un propulsore 3.9 V8 biturbo da ben 720 cavalli di potenza e 770 Newtonmetri di coppia, abbinato ad un cambio doppia frizione a sette marce e alla trazione posteriore. Per la casa di Maranello è in pratica il canto del cigno dell’endotermico, destinato nei prossimi anni a cedere il passo a ibrido ed elettrico, anche nel comparto delle vetture più prestazionali. Ma per il momento godiamoci ancora quelle tradizionali, di prestazioni, che la nuova nata non lesina di certo: scatto da zero a cento orari in 2,9 secondi, allungo fino a 200 in 7,8 secondi e velocità massima che raggiunge i 340 km/h. L’estetica poi, curata dal capo del centro design Flavio Manzoni, in alcuni dettagli è un tributo alle Rosse del passato: il lunotto posteriore in Lexan è una rivisitazione di quello della F40, mentre il fanale di coda è doppio come nel caso della 308 GTB e di modelli successivi. Il futuro delle vetture di produzione, infine, come ha spiegato l’ad Camilleri è nella prima Ferrari ibrida che arriverà a maggio e sarà in vendita nel 2020. Più in là, nel 2022, toccherà al suv Purosangue. Anche questa, una prima assoluta.

Repressione: il registro del regime iraniano

Un registro confidenziale della giustizia iraniana, reso noto da “informatori” locali, ha rivelato il numero totale degli arresti effettuati in trent’anni nell’area di Teheran, rappresentando una testimonianza della repressione importante portata avanti soprattutto contro gli oppositori politici del regime.

La Repubblica islamica d’Iran ha conosciuto quattro ondate di repressione. La prima all’inizio degli anni 80, dopo il trionfo della Rivoluzione e in particolare dopo la caduta del governo islamico-liberale di Abolhassan Bani Sadr, da cui è scaturita una vasta campagna d’epurazione. La seconda nel 1988, quando 4 mila prigionieri, essenzialmente mujaheddin de popolo (una formazione armata islamico-leninista) e militanti di sinistra, furono giustiziati a luglio, agosto e settembre nelle prigioni, provocando un scisma all’interno del regime: l’ayatollah Hossein-Ali Montazeri, erede designato di Khomeini, denunciò questa politica, ma il gesto gli fece perdere il titolo di “promessa dell’imam”, come si diceva nella più bella lingua persiana.

La terza fu negli anni 2009-2010, durante e dopo la “rivoluzione verde”, la grande sollevazione popolare che seguì la rielezione, segnata dalle frodi di massa, di Mahmud Ahmadinejad.

L’ultima ondata di repressioni si è verificata al momento dei moti dell’inverno 2017-2018 che coinvolsero più di un centinaio di città: quattro manifestanti uccisi e circa 7 mila arresti, secondo il bilancio di Amnesty International.

Tra le ombre e il silenzio dell’occidente

A di là di questi episodi spettacolari, la repressione in Iran resta poco visibile. E questo per una moltitudine di ragioni: la volontà del regime di occultarla, l’assenza flagrante di organizzazioni iraniane d’opposizione che siano un minimo credibili, una diaspora iraniana ampiamente egocentrica, il silenzio dei paesi occidentali per non infastidire i dirigenti del regime iraniano favorevoli all’apertura, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani prima e Mohammad Khatami poi. Eppure, anche durante i mandati di questi due presidenti pragmatici o riformatori, la repressione, anche extragiudiziaria, era presente. Almeno quattro intellettuali furono assassinati sotto Khatami. Secondo il giornalista riformatore Akbar Ganji, Rafsanjani, di cui oggi in Iran si celebra più che volentieri la memoria per la sua volontà moderatrice, fu persino “l’eminenza grigia” di una serie di esecuzioni di intellettuali e oppositori, rivelazioni che costarono al giornalista un lungo periodo di detenzione. Poiché la repressione quotidiana in Iran è poco visibile, essa resta poco documentata.

Il registro segreto delle detenzioni

Oggi lo è un po’ di più grazie agli informatori iraniani che sono riusciti a ottenere un registro segreto del ministero della Giustizia iraniano, in cui sono indicati in dettaglio tutti gli arresti, le detenzioni e le esecuzioni per la sola area di Teheran tra il 1979 e il 2009. In questo registro, che Reporter senza Frontiere (Rsf) ha potuto consultare, sono registrate circa 1,7 milioni di procedure. Per ogni persona è indicata la matricola e si precisano il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso, la nazionalità, l’eventuale data dell’arresto e le autorità giudiziarie responsabili della procedura. Spesso sono indicati anche i capi d’accusa, la camera del tribunale, la data del giudizio e la condanna. Invece non è indicato lo statuto dell’imputato, né la sua funzione. Non si sa dunque se si tratta di un reato comune o di un delitto di opinione, come nel caso, per esempio, di un giornalista: cosa che permette al regime di affermare che non esistono detenuti politici o dissidenti religiosi in Iran.

Le esecuzioni della minoranza “eretica”

Se è dunque noto che i bahá’í, seguaci di una credenza religiosa molto minoritaria nata in Iran nel XIX secolo e considerata eretica, sono nel mirino del regime, il registro rivela per la prima volta la portata della persecuzione da loro subita. Almeno 5.760 bahá’í sono stati arrestati, imprigionati e in alcuni casi giustiziati, sempre nella regione di Teheran nello stesso periodo.

“Per quarant’anni, il regime ha negato i fatti, affermando che se i bahá’í si trovavano in prigione non era a causa della loro religione ma delle loro attività ‘anti-nazionali’ o per ‘propaganda’. Ma nel registro si vede chiaramente che sono stati arrestati per il solo fatto che sono bahá’í. Poi il tribunale inventa delle accuse per nascondere la verità e così, nelle riunioni internazionali, la Repubblica islamica può annunciare che nessuno in Iran è in prigione per ragioni religiose”, insiste Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003 e premio Sakharov nel 2012, che ha lei stessa difeso, in quanto avvocato, sette fedeli di questa confessione ed è presidente del Comitato per l’osservazione e l’utilizzazione dei dati sulla giustizia iraniani, creato di recente su iniziativa di Rsf.

Membro di questo comitato, Monireh Baradam, ex prigioniera politica negli anni 80 e autrice di diversi volumi sulla giustizia iraniana, ha trovato il suo nome nel registro. “Invece il regime aveva sempre negato la mia testimonianza. È un documento molto importante – ha spiegato –. Vi figurano molte persone che sono state imprigionate ma i cui nomi finora non comparivano da nessuna parte”. Iraj Mesdaghi, anche lui ex prigioniero politico, è dello stesso parere: “È un registro completo. Vi ho trovato decine di nomi di persone che conoscevo personalmente”.

Migliaia di manifestanti finiti in prigione

Sui fatti del 2009, il documento indica che 6.048 persone sono state arrestate per aver partecipato alle manifestazioni, un numero che era stato impossibile stabilire finora perché il regime ha sempre negato di aver fermato dei manifestanti. Sono presenti anche informazioni sui 61.940 prigionieri politici che contava la regione di Teheran tra il 1979 e il 2009, in particolare la loro età: di questi, 520 avevano tra i 15 e i 18 anni al momento dell’arresto.

Sul libro nero quattro giornalisti assassinati

Riguardo ai giornalisti iraniani, sono stati registrati almeno 860 nomi di giornalisti arrestati, imprigionati o in alcuni casi giustiziati (figurano quattro nomi tra i decessi), sempre per la sola area di Teheran e lo stesso periodo. Di questi, 57 sono stati arrestati con accuse particolarmente gravi: “spionaggio”, “collaborazione con lo straniero”, “azione contro la sicurezza interna”, “insulti contro la guida suprema” o “insulti contro il sacro e l’islam”.

Sulle 218 donne giornaliste arrestate, si può constatare che alcune di loro sono state vittime di un vero e proprio accanimento giudiziario. Come nel caso di Jila Banu Yaghoob, militante per i diritti delle donne molto nota e responsabile del sito Kanoon Zanan Iran (Centro delle donne iraniane). Questo accanimento è andato avanti anche dopo il 2009. Nel 2010, la militante è stata di nuovo condannata a un anno di prigione e 30 anni di interdizione all’attività professionale da un tribunale di Teheran con l’accusa di “propaganda” contro il sistema e “insulti al presidente”.

Picchiata e uccisa perchè fotografava i detenuti

Nel registro figura anche il nome di Zahra Kazemi, una giornalista iraniana-canadese, arrestata il 23 giugno 2003 mentre fotografava dei detenuti davanti alla prigione di Evin, picchiata durante il fermo e morta per le ferite riportate, il 10 luglio. Reso pubblico alcuni giorni dopo, il rapporto d’inchiesta non precisava le cause del decesso. Il registro non fornisce nessun’altra informazione su di lei, ma si scopre che la data del suo arresto è stata modificata di una settimana e che, stranamente, il nome riappare sei mesi dopo la sua morte nello stesso registro con un’altra matricola e l’accusa di “azione contro la sicurezza nazionale”.

Con questo registro, Shirin Ebadi e Reporter senza Frontiere hanno presentato un ricorso all’attuale alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet. Ma il documento, per quanto riveli la portata della repressione in Iran, rischia di presentare ancora troppe lacune per servire come base per l’apertura di una procedura speciale.

 

L’idea modenese che piace in tutto il mondo (e a Cdb)

Figurine d’oro. Prima di Giuseppe Panini, da Modena, a nessuno era venuto in mente di vendere figurine da attaccare su un album. Esistevano le figurine adesive, ma solo come pubblicità di altri prodotti. Panini invece porta a casa un utile da 30 milioni di lire grazie al primo album Calciatori 1961-62. L’idea gli viene in mente nel 1960, quando compra un lotto di figurine dei calciatori dall’azienda milanese Nannina. Le mette in bustine da 5 figurine l’una; ne vende 3 milioni e incassa 10 milioni di lire. Con quei soldi, nel 1961, lancia l’album Panini. Le foto dei calciatori le acquista dall’agenzia Olympia (che lavorava per la Gazzetta dello Sport). Il successo è enorme. Nel ‘69 l’azienda sbarca all’estero, con le raccolte dei calciatori di altri campionati. In pochi anni apre filiali in tutto il mondo: negli anni Ottanta controlla il 70% del mercato globale delle figurine. Nel 1986 Carlo De Benedetti acquisisce una piccola partecipazione

Il caso a costo zero: la storia della sforbiciata più famosa

C’è rovesciata e rovesciata. Quella pur sublime di Cristiano Ronaldo (Cr7), in teoria, non è nemmeno avvicinabile a quella di Cp5. Nell’epoca dei diritti di immagine, pagati a peso d’oro, chissà quanti milioni vale e quanti ne avrà fruttati, l’immagine per antonomasia del calcio italiano: la sforbiciata di Carlo Parola, stopper juventino degli anni ’50, disegnata da decenni su album e bustine della Panini. Dite una cifra a caso e sarà sicuramente eccessiva.
Questa è una storia a costo zero. Quella celebre “rovesciata”, lo fu anche nel suo senso ultimo. Per capirci: se oggi la Panini volesse sostituirla con un’altra super rovesciata, tipo quella di Cristiano Ronaldo allo Stadium con la maglia del Real Madrid, difficilmente potrebbe farlo gratis.

Con la “rovesciata” simbolo della Panini, invece – pur essendo un “marchio” riconoscibile, subito dopo la Coca Cola – nessuno ci ha guadagnato un centesimo: non il calciatore che la fece (Carlo Parola morì povero e solo, l’unico che fece visita al defunto, mettendogli una cravatta bianconera, fu l’ex compagno di squadra Giampiero Boniperti), non il fotografo che scattò la foto (Corrado Banchi), né il disegnatore che stilizzò l’immagine definitiva (Wainer Vaccari). Altre curiosità e differenze. Al contrario di quella di Cr7, quella di Cp5 non era una conclusione in porta, ma un modo spiccio per spazzare l’area. E non in un quarto di finale di Champions League, ma in una noiosa e fredda domenica di campionato.

Quindici gennaio 1950, Fiorentina-Juventus, i bianconeri primi in classifica e i viola quarti, ad 11 punti di distanza (la vittoria ne valeva due). Unica emozione a cinque minuti dal termine, quando l’arbitro, il signor Bernardi da Bologna, concede un rigore ai padroni di casa. Sul dischetto va il terzino Cervato che spedisce fuori: finirà 0-0.

Ma intorno all’80° c’è una mischia nell’area juventina e Parola d’istinto si coordina in quel modo perfetto e rinvia lontano. Del gesto tecnico non c’è traccia nelle cronache dei giornali. Ora spostiamoci qualche metro più in là, appena dietro la porta, dove sono appollaiati cinque o sei fotografi infreddoliti e vicini. Uno azzecca lo scatto che diventerà storia (ma non lo sa ancora, deve ancora sviluppare il rullino, e comunque non lo saprà per anni), gli altri no. È il destino, si dice. Si chiama Corrado Banchi, fotoreporter, collaboratore dell’agenzia Foto Florenza, in via del Proconsole, dietro piazza del Duomo a Firenze.

Matteo Cecchi è il nipote di uno dei due soci dell’agenzia: “A quei tempi non c’erano trasmissioni televisive né i giornali abbondavano di foto. Così, i tifosi della Fiorentina, erano soliti fermarsi davanti alla vetrina dell’agenzia o al Chiosco degli sportivi dove, fin dal lunedì, si potevano ammirare gli scatti del racconto della partita”.

A dire il vero, alcune immagini di quella gara vennero pubblicate, la settimana seguente, da Sport illustrato, la Bibbia dei calciofili negli anni ’50. Che mise sì Parola, ma impegnato in un colpo di testa. La foto, insomma, non ebbe da subito le stimmate del successo.

Per trovarle, bisogna allungarsi ancora qualche chilometro più a nord, a Modena. I fratelli Panini, che acquistavano le foto a stock, questa la tengono nel cassetto per anni, anonima, insieme ad altre migliaia. Un giorno, scorrendole con lo sguardo, Franco Panini rimane colpito da quella sforbiciata. Percorre 50 metri, bussa all’ufficio grafico, due persone più un operaio Wainer Vaccari – oggi pittore, scultore e illustratore – ma all’epoca diciassettenne, impiegato al reparto sacchettificio: “L’azienda era pionieristica. Avevo la passione per il disegno e capitava che, a fine turno, salissi allo studio grafico e passavo ore con loro, senza essere retribuito. Apprendistato”.

Gli album Panini uscivano dal 1961, con in copertina stilizzato prima un colpo di testa del milanista Niels Liedholm, poi una specie di rovesciata del fiorentino Ardico Magnini.

Dal 1966 ad infinitum, invece, c’è la rovesciata di Parola. Vaccari: “Ancora rivedo Franco Panini con in mano la foto famosa. Chiede chi vuol provare a fare un restyling corposo, ci guardammo troppo a lungo e allora decide lui: la fai tu, Wainer. Fin lì, l’immagine aveva un tratto simile a quello di un fumetto, con luci ed ombre, le diedi un aspetto pittorico”.

Il problema maggiore: far sì che ogni squadra, si potesse riconoscere nel disegno: “Alla fine scelsi maglia amaranto, calzoncini bianchi, calzettoni neri con striscia gialla”.

Risultato: immagine stampata in qualche centinaio di milioni di copie, passata dalle mani e dagli occhi di generazioni di italiani. Guadagno? “Al massimo pensavo potesse avere una diffusione locale, diciamo Modena e dintorni, invece andò diversamente. Guadagno: zero lire. Ero un dipendente, legato all’azienda e già orgoglioso di essere stato messo alla prova dal mio titolare. Non mi spettava né mi spetta nulla, apprendi… stato”.

Il dopo sisma in Emilia

Demolizioni di futuro. È questa la perfetta definizione di ciò che continua ad accadere in Emilia, a quasi sette anni dal terremoto del maggio 2012. Edifici storici, tutelati dalla legge e ricchissimi di significati vengono fatti brillare perché fortemente lesionati: una sorta di colpo di pistola alla testa ad organismi fiaccati, ma che sarebbe perfettamente possibile salvare. Una pulizia etnica del passato dovuta non alla povertà, ma alla ricchezza senza cultura di una regione che pensa già a nuovi capannoni e si prepara alla “secessione dei ricchi”, insieme a Veneto e Lombardia,

Nell’immediato dopo terremoto a saltare in aria furono i campanili (indimenticabili le immagini dell’esplosione di quello di Poggio Renatico), municipi (come quello di Sant’Agostino, nel Ferrarese, anch’esso minato con la dinamite), case antiche (a Mirandola, per esempio): uno scempio che trovò poi una giustificazione ideologica negli stands del ministero per i Beni Culturali al Salone di Ferrara nel marzo 2013. Il loro titolo, stampato a caratteri di scatola, era: “Dov’era ma non com’era”. Una provocazione, rincarata dalla presentazione stampata sui pannelli, in cui il vertice del sistema italiano di tutela del patrimonio culturale affermava: “Di considerare questo evento drammatico come un’opportunità. L’opportunità di affermare una cultura architettonica della ricostruzione capace di prendere le mosse dalla reale situazione e consentire la coesistenza tra le preesistenze e gli edifici contemporanei, l’attualizzazione del bene culturale laddove era, dando ad esso nuovi significati vitali”. Una serie impressionante di bozzetti architettonici, culminante nell’idea di un campanile formato da monumentali forme di parmigiano, chiariva cosa si dovesse intendere per “attualizzazione”. Come ha notato l’urbanista Ilaria Agostini, “il ‘dov’era, ma non com’era’ ha assunto, nella ricostruzione del post-terremoto, grande forza mediatica con il sostegno normativo della legge della Regione Emilia Romagna n. 16/2012, che svincola la pianificazione comunale dalla tutela dei tessuti urbani e degli edifici storici. Dalla legge – prosegue Agostini -, secondo il consiglio regionale di Italia Nostra, ‘scompare, definitivamente cancellata, la nozione stessa di centro storico, costituito dall’intero tessuto degli edifici che il tempo ha stratificato nella parte antica della città, creando un unicum fatto di edifici, monumenti, palazzi, spazi pubblici, piazze, del quale a malapena si vogliono salvare i pochi edifici vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ritornando ad una concezione superata da decenni, secondo cui sono i soli monumenti ad avere il diritto ad essere conservati’”.

E, d’altra parte, cos’è un monumento? L’ex biscottificio Bagnoli, anche detto Caffè Mimì (in via Guardia Nazionale a San Giovanni in Persiceto), raso completamente al suolo nel 2017, o l’albergo la Posta (in Circonvallazione Dante dello stesso centro emiliano), sorto all’inizio del ‘900 e abbattuto nemmeno un mese fa, erano degni o no di sopravvivere? Nel dibattito alla Costituente che portò all’articolo 9 della Costituzione (che al secondo comma dice che “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”), Concetto Marchesi spiegò che “il monumento è una testimonianza di qualche cosa, è un ricordo, una memoria”. Ecco cosa perdiamo continuando a far esplodere questi umilissimi monumenti: la nostra memoria. Condannandoci ad un alzheimer collettivo.

La professoressa Rossella Ariuli, che insegna storia dell’arte in un liceo artistico, è tra quei cittadini che non si rassegna, e continua a denunciare le demolizioni, e gli abbandoni che culmineranno, tra mesi o anni, in altri abbattimenti. Le sue proteste hanno ottenuto il pronunciamento del Segretariato Regionale del ministero per i Beni Culturali, che pochi giorni fa ha scritto al comune di San Giovanni in Persiceto, raccomandando di “preservare” anche “il patrimonio considerato ‘minore’, che costituisce parte irrinunciabile della memoria e dell’identità di ogni collettività”. Parole che rischiano di esser dette al vento, data l’attuale, straziante debolezza degli organi di tutela: senza mezzi e senza personale.

Eppure salvare quella villa, quell’alberghetto, quella fabbrica avrebbe un valore immenso: perché, è vero, “è un’umile cosa, e non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte, d’autore, stupende, della tradizione italiana. Eppure io penso che questo (edificio, ndr) da niente, così umile, sia da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore, con cui si difende l’opera d’arte di un grande autore. (…) Voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città, di un’infinità di uomini senza nome che però hanno lavorato all’interno di un’epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi e più assoluti nelle opere d’arte e d’autore”. Sono parole di Pier Paolo Pasolini, parole in difesa di un umilissimo selciato di Orte, tratte dal suo struggente documentario sulla Forma della città, del 1973.

Quando avrà cancellato tutti questi umili serbatoi di memoria, come rimarrà umana la ricca Emilia?

Il Tav d’Abruzzo: milioni e trucchi per il mega-porto

Un’opera faraonica e forse inutile, centinaia di migliaia di tonnellate di cemento alla foce del fiume: nasce così, pezzo dopo pezzo e sotto falso nome, il nuovo porto di Pescara. Nasce parecchio tempo fa e grazie a una serie di piroette riesce ad evitare la Valutazione di impatto ambientale (Via): a decidere è sempre la Regione, che fa solo uno screening preliminare mentre il ministero dell’Ambiente resta fuori, grazie alla tecnica dei progetti a singhiozzo. Che di volta in volta vengono chiamati “interventi per il miglioramento delle acque” o “progetti per la difesa della costa”. La parola “porto” è bandita, proprio per aggirare la Via. È la garanzia per arrivare dritti alla meta: il nuovo porto da 103 milioni di euro nascerà col timbro di Comune & Regione, adattato ai desiderata degli armatori, ampliato e poi ristretto come un abito taglia 48 dopo la dieta dimagrante, e che per funzionare dovrebbe demolire il nuovo ponte ciclo-pedonale, immagine da cartolina dello skyline pescarese, voluto dall’ex governatore Luciano D’Alfonso.

È una specie di Tav in salsa abruzzese. Che ha una storia lunga, basata su un’analisi costi-benefici molto approssimativa: per funzionare, il nuovo porto di Pescara dovrebbe movimentare 2 milioni di tonnellate di merci l’anno, con un traffico di 258 camion al giorno in una città di 130 mila abitanti che ha già problemi di qualità dell’aria, una follia. Tra le sue ambizioni, Pescara mette anche 219 mila croceristi l’anno con 183 arrivi di navi da crociera e 439 mila veicoli che scendono e salgono dai traghetti. Se si considera che Ancona movimenta il doppio delle merci, e cioè poco più di 4 milioni di tonnellate e che Ortona (il vero porto commerciale abruzzese), ne movimenta 500 mila, si capisce che sono previsioni campate per aria. Basta leggere cosa scriveva nel 2008 l Ecosfera, società alla quale viene affidata la prima valutazione costi-benefici: il porto di Pescara non avrebbe potuto prevedere, soprattutto per scarsità di aree di banchina, uno sviluppo consistente del traffico merci e anzi, sarebbe stato opportuno “trovare un po’ di traffico in partenza per ottimizzare i costi di trasporto per le navi che ripartirebbero almeno meno vuote”. Sui croceristi ancora peggio: Ecosfera prevedeva al massimo 39 mila presenze all’anno. E d’altronde i vacanzieri delle grandi navi ad Ancona sono scesi dai 144.000 del 2011 ai 52.000 del 2017.

La storia di questa Tav in riva al mare comincia lontano, a causa di costi di dragaggio elevati, di difficoltà nello stoccaggio dei sedimenti, di un accesso impossibile per i pescherecci. Nasce con due buoni intenti: riconsegnare il porto ai pescatori e risolvere i problemi di dragaggio. “Problemi diventati insostenibili con la realizzazione negli anni ’90 di uno dei tanti errori madornali del porto: la grande diga foranea che fa da tappo all’acqua del fiume riempiendo il porto di sedimenti – commenta l’ambientalista Augusto De Sanctis, del Forum H2o – Opera che oggi sappiamo essere stata fatta in difformità rispetto al progetto e senza essere assoggettata alla Via. Quell’errore dovrebbe consigliare di non vedere questa procedura come un inutile orpello; invece si persevera”.

E così, invece di risolvere gli annosi problemi con interventi a misura di città, nel 2016 viene approvato il nuovo Piano regolatore portuale di Pescara col faraonico porto, tonnellate di cemento che si spingono ben oltre la vecchia diga foranea: la darsena per i pescherecci viene spostata a nord del porto canale e quindi in acqua di mare, per i pescatori significa costi elevati per la manutenzione delle barche. Il lato sud-orientale verrebbe invece dedicato all’attracco di traghetti e navi. Il porto canale terminale, almeno sulla carta, allargato da 44 a 60 metri. E il dragaggio? “Tra le tante integrazioni richieste dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici – dice De Sanctis -, c’erano anche gli studi sulla sedimentazione che dicevano che alla nuova foce si formerebbe una barra di sedimenti ad ogni mareggiata. Nessun problema, nell’analisi costi-benefici del 2015 si mette in conto che i pescherecci non dovranno più rientrare dalla foce”. Qui viene il bello: alcuni degli interventi iniziano almeno un anno prima che venga approvato il nuovo Prg portuale.

È novembre 2015, alla Regione si è insediato da un anno Luciano D’Alfonso (Pd) e a Pescara il suo pupillo Marco Alessandrini (come anello di congiunzione il vice sindaco Enzo Del Vecchio che dopo poco diventerà segretario del governatore e poi suo referente all’Autorità Portuale di Ancona), quando viene appaltata, prima ancora dell’ok della Via regionale, la prima tranche del progetto che prevede il buco della diga foranea e la realizzazione di una barriera “soffolta” per 4,5 milioni di euro. Sono “interventi per il miglioramento delle acque”, perché in effetti il buco della diga foranea dovrebbe aiutarne il deflusso. A dispetto di tutto però l’inquinamento resta tale e quale. D’altronde al Via c’è Luciano Di Biase (anche se per delicatezza si assenta quando si esaminano i due progetti), che è anche commissario dell’Autorità di bacino, co-autore del nuovo Prg portuale e quello a cui viene affidata la progettazione del taglio della diga.

A settembre 2018 viene presentato il secondo lotto di lavori per 15 milioni di euro, finanziato col Masterplan, che viene presentato come la realizzazione del nuovo molo nord ma nel parere guai a nominare la parola “porto”: anche questa è un’ “opera di difesa della costa”. Ma si verifica un imprevisto: per accontentare i pescatori, la loro darsena viene di nuovo spostata, senza una variante, questa volta nell’alveo della foce attuale che viene allargata a 60 metri. Così facendo però si dovrebbe abbattere il bellissimo Ponte del mare. E allora dietrofront, si torna ai 44 metri.

Anche il secondo lotto bypassa la Via nazionale ma trova la sorpresa: la procedura viene approvata col no dell’Agenzia ambientale secondo la quale queste opere aumentano l’erosione, quindi devono andare dritte alla Via. Tutti fanno orecchie da mercante: tanto, il nuovo soggetto attuatore è l’Arap, l’azienda regionale per le attività produttive, commissario Giampiero Leombroni, nominato da D’Alfonso. E così il nuovo porto viaggia spedito verso la meta, basta che il ministero non se ne accorga. Non per niente, nel 2011, l’unica volta che si espresse sull’iter di approvazione del Prg, aveva scritto che bisognava sottoporre alla Via nazionale “le opere puntuali di progetto”. Perché i porti, in genere, seguono questa Via. Tutti i porti, tranne Pescara.

“I giovani salveranno il clima. Ora sogno un Paese-Parco”

Un sogno: fare in modo che chi vive, lavora o risiede in un parco naturale abbia una serie di vantaggi. Infrastrutturali, burocratici, fiscali. È l’obiettivo massimo del ministro dell’Ambiente Sergio Costa: fare in modo che per i comuni e i cittadini sia desiderabile rientrare nel perimetro di un’area tutelata. “In questo modo tutta l’Italia potrebbe gradualmente diventare un parco, che significa meno trivellazioni, meno consumo di suolo e meno cemento”.

Ministro Costa, che tipi di incentivi immagina?

Dalle riduzioni Irpef per il fotovoltaico, al supporto alla mobilità sostenibile, passando per i bandi per le scuole, crediti di imposta per iniziative ecocompatibili, l’agricoltura biologica senza pesticidi o attività con certificazioni verdi. Chi vive e lavora nei parchi sarà un attrattore di green economy. L’ambiente è una risorsa, il futuro.

E a tal proposito, il 15 marzo è la giornata di mobilitazioni di giovani e studenti contro il cambiamento climatico.

Il pianeta si sta surriscaldando oltre il dovuto. Lo hanno certificato a ottobre le Nazioni Unite, ma basta guardarsi intorno: l’inverno somiglia alla primavera e di colpo ci troviamo tra un uragano inaspettato, una tromba d’aria o precipitazioni fuori norma. I giovani lo hanno percepito prima di tutti, sono il vero stimolo. All’ultima conferenza Onu sul clima (Cop24, ndr) ho proposto l’istituzione di una Children Cop, una Cop per i bambini, per dare dignità istituzionale a questo movimento, inserirlo ufficialmente dove si decide il futuro del pianeta.

I giovani sono trainanti sui temi ambientali?

Sì. Quando ero bambino, in pieno boom economico, non si parlava mai di ambiente. Nessuno credeva che l’auto inquinasse, né che lo sviluppo industriale dovesse andare di pari passo con la tutela dell’atmosfera: erano concetti che non appartenevano al dibattito. Ora, invece, la sensibilità ambientale aumenta. I giovani sono meno strutturati degli adulti, si rendono conto della realtà, vedono e capiscono. Arrivano prima sulle cose. Vanno ascoltati e per farlo gli si deve dare voce.

In Italia, com’è la sensibilità ambientale?

È cresciuta tantissimo, soprattutto nei nuclei familiari che hanno intercettato i problemi prima delle istituzioni. Aumenta l’attenzione al rapporto tra ambiente e salute. Nei comitati spontanei, nell’associazionismo, si lega la costruzione del proprio futuro con quello ambientale. Ora le istituzioni devono fare la loro parte

Come?

Con leggi nuove e innovative, ma anche con il miglioramentoi della prassi. Spesso ci sono ottime norme ma applicate male, bloccate nei gangli della burocrazia amministrativa. Abbiamo costituito una commissione di sburocratizzazione ambientale, metà attori della Pa e metà del privato. È venuto fuori che per i siti di interesse nazionale – quindi bonifiche e messe in sicurezza – sono state fatte, in questi anni, oltre 1.600 conferenze dei servizi interlocutorie. Una media di 6-7 anni per ogni sito. Assurdo.

E fuori dall’Italia com’è la situazione?

In Ue, nel consiglio dei ministri dell’Ambiente l’Italia ha assunto una leadership molto forte. A ottobre abbiamo posto sul tavolo il taglio del 40 % delle emissioni di C02 dei veicoli, mentre l’accordo di Parigi parla del 30% e i paesi dell’ex cortina di ferro del 22. Siamo riusciti a fare blocco con la Francia, abbiamo convinto la Spagna e dopo 16 ore di trattative abbiamo ottenuto di chiudere al 35. È questa la direzione per il cambiamento, alzare l’asticella senza paura.

Non teme ricadute industriali?

No. Abbiamo tecnologie ambientali avanzatissime, siamo il Paese che esporta la maggiore e migliore tecnologia ambientale a livello planetario. Non dobbiamo quindi temere il cambiamento. Penso solo alla bioplastica: è nostra, è la migliore al mondo e dobbiamo tutelarla.

Parliamo delle trivelle. Come va oggi? Crisi passata?

È stato tutto metabolizzato. Mi assicurerò che la moratoria serva per il piano di gestione e per tutelare tutte le fragilità del Paese. Inoltre ho emesso una direttiva ministeriale per le Valutazioni ambientali che prevede, prima delle autorizzazioni, che si comunichi dove vanno a finire i rifiuti, come saranno trattati e quanti siano insieme ai dettagli del piano di dismissione dei pozzi e delle trivelle. Garanzie ambientali anticipate indispensabili.

Nei giorni scorsi c’è stata polemica anche sull’Ilva tra proteste, inquinamento e per la possibilità che l’immunità penale scada a fine marzo..

L’avvocatura generale dello Stato ha già escluso sia automatica, tanto che il gip di Taranto ha sollevato una questione di costituzionalità sulla norma. In questa incertezza, abbiamo scritto una legge che presenterà il Mise e che tra qualche settimana dovrebbe arrivare in consiglio dei Ministri. Prevede la cancellazione dell’immunità e crea il più grande sito di interesse nazionale attorno a Taranto: unico, che dialoghi con il governo e che fornisca dati univoci e monitoraggi precisi. Per il resto, non potendo cambiare il contratto stipulato con Calenda, abbiamo previsto un addendum ambientale che anticipa la copertura dei parchi minerari per il 50% al 30 aprile 2019, il resto a fine anno. E abbiamo stabilito che quando hanno attività produttiva supplementare, non aumentino anche le emissioni. C’è massimo monitoraggio e attenzione. E anche per Taranto ho un sogno.


Quale?

La nascita di un santuario dei cetacei nel Golfo di Taranto.