Sorpresa: l’“assistenzialismo” piace parecchio pure al Nord

C’è un fantasma che s’aggira per l’Italia: è la realtà e, nel nostro caso, la realtà di una crisi nazionale che vede il Pil ancora 5 punti più in basso e 1,8 miliardi di ore lavorate (e quindi pagate) in meno rispetto al 2008; che conta cinque milioni di “poveri assoluti” e 9,3 milioni di “poveri relativi” (Istat). La realtà, dicevamo, ha questa brutta abitudine di ripresentarsi ogni tanto e lo ha fatto in questo fine settimana, quando s’è scoperto che Lombardia e Piemonte sono tra le prime cinque regioni per richieste di reddito di cittadinanza dopo pochi giorni dal suo lancio.

Eppure sono mesi che leggiamo di questo benedetto “partito del Nord” o “della crescita” o “del Pil” – e comunque sempre del Nord – che si ribella, stanco di politiche assistenziali, auscultato e solleticato dai meglio media e dal loro relativo circo: un fronte trasversale che impazzisce dal desiderio del tunnel in Val di Susa e si sente male solo a pensare che qualcuno voglia percepire un sussidio dallo Stato. È “il popolo del sofà” già irriso dal leghista old fashioned Luca Zaia e dal suo collega Attilio Fontana, che teme che il reddito di cittadinanza possa “determinare uno stile di vita”, ovviamente nel Sud che non intraprende e aspetta l’elemosina pubblica. Ma non sono solo i governatori nordisti a irridere “i divanisti” solleticando l’orgoglio dell’operoso Nord vessato dai fannulloni: politici (pure soi-disant di sinistra), commentatori, imprenditori, vescovi. Come ha riassunto Libero qualche giorno fa: “Risorse dimezzate per il Settentrione, il Sud si pappa tutto”

E poi c’è la realtà della crisi più lunga e intensa mai vissuta dal Paese, tutto, in tempo di pace. E i numeri non possono che raccontarla: sono quasi 122 mila le domande di reddito di cittadinanza pervenute a Poste italiane dal 6 marzo a sabato e le prime cinque regioni per numero di richieste sono la Campania con 16.112, la Lombardia con 16.015, la Sicilia con 13.873, il Lazio con 11.644 e il Piemonte con 11.244. Il dato è atteso al punto che la previsione è già contenuta nelle stime del ministero sugli effetti del decreto e in parte “giustificata” dal fatto che al Nord vive il 47% dei residenti in Italia, assai più che al Centro e al Sud.

Com’è noto, la previsione “bollinata” dalla Ragioneria generale prevede che la platea dei beneficiari (calcolata all’85% degli aventi diritto) sarà composta da circa 1,3 milioni di nuclei familiari (compresi i single) e circa 4 milioni di persone interessate. Ovviamente il Mezzogiorno – che ha più alte percentuali di aventi diritto al reddito di cittadinanza sul totale della popolazione – riceverà percentualmente più benefici dalla misura, ma la stima del ministero prevede comunque che Lombardia e Piemonte restino tra le prime sei regioni per numero di richieste anche a regime e che, in generale, circa metà delle persone aiutate siano residenti al Centro e, soprattutto, al Nord: parliamo di quasi due milioni di persone che vivono – non si sa se ignorate o tollerate – spalla a spalla col “partito del Nord”, che peraltro visto da vicino sembra più che altro il partito dei ricchi.

È bene ricordare che qui parliamo di richieste, la cui accettazione andrà verificata alla luce del meccanismo infernale di condizionalità (i famosi paletti) messe alla concreta applicazione della misura. A consuntivo, probabilmente, si scoprirà che il cosiddetto “reddito di cittadinanza” (che non è un reddito di cittadinanza) finirà in discreta parte alle imprese sotto forma di sgravio sulle assunzioni di percettori del sussidio. E a quel punto assisteremo alla giravolta mediatica del partito del Nord, che applaudiva mentre si regalavano 10 miliardi a chi guadagna tra 18 e 24mila euro senza paletti di reddito familiare e patrimonio e oggi si strappa le vesti perché 7 miliardi vanno a gente che guadagna zero o giù di lì. La famosa “pacchia per immigrati e rom” di cui Il Giornale di Berlusconi.

Ma mi faccia il piacere

Chi può e chi non può. “Salvini festeggia, Di Maio rosica. Matteo brinda a Milano e spegne 46 candeline, Gigino è già spento” (Libero, 10.3). Quello sfigato di Di Maio gli anni non li compie mai, tiè.

La Repubblica di Salvini. “É la Lega a comandare”, “Tav, escamotage di Conte ma i bandi partono domani”, “Di Maio perde, Salvini non vince: il leader M5S non ottiene nessun rinvio, ma solo la promessa di rivedere l’opera. Il leghista è costretto a non infierire”, “Fontana: ‘La Tav si farà’”, “Dopo felpa e divise Salvini mette la giacca per proporsi statista. Prima l’uomo del popolo, poi quello delle istituzioni”, “Giorgetti detta la linea sulla Tav: ‘Per bloccare l’opera serve un voto del Parlamento’” (Repubblica e repubblica.it, 10.3). Signore e signori, riecco a voi in edicola La Padania.

8 Marcio. “‘Una doverosa azione di riscatto’, così il collettivo ‘Non una di Meno’ risponde ai media che hanno definito ‘vandalismo’ l’imbrattamento della statua di Indro Montanelli, nei giardini a lui dedicati, durante il corteo dell’8 marzo con della vernice rosa… Ieri – scrivono i Sentinelli, schierandosi con ‘Non una di meno’ – la statua di Montanelli è diventata rosa, a coprire il nero delle cose orribili fatte in vita. Per non dimenticare” (Ansa, 9.3). Ecco, brave: ora, dopo aver oltraggiato un morto che non può rispondervi, fatevi un bagno nella vernice rossa, così forse riuscirete ad arrossire.

Fatti e rifatti. “Sì, mio figlio rapper Larus canta ‘Sono tutto fatto’, ma non parla di sè” (Ignazio La Russa, deputato FdI, corriere.it, 10.3). Parlerà mica del padre?

Verginelli. “Salvini non ha alcun titolo per convocare l’ad della Rai Fabrizio Salini, che dovrebbe dimettersi” (Pierluigi Celli, ex direttore generale Rai, Repubblica, 6.3). Lui invece, quando i Ds lo piazzarono alla Rai, l’aveva portato la cicogna.

Toghe rosso-verdi. “La mozione di Magistratura democratica: ‘Meno carceri e più misure alternative’” (Il Dubbio, 6.3). E più voti al compagno Salvini.

Un pesce di nome Zanda/1. “Volti nuovi e ricambio nel Pd. Ecco i millennials di Zingaretti” (Repubblica, 10.3). “Così cambierà il Pd. Primo passo di Zingaretti: Zanda nuovo tesoriere” (Corriere della sera, 6.3). Ora però vedete di non esagerare con le novità, sennò poi la gente non vi riconosce più.

Un pesce di nome Zanda/2. “Zingaretti deve associare la consapevolezza di quelli che sono stati e sono ancora le personalità della storia e della cultura politica del Pd: Veltroni, Prodi, Gentiloni, Zanda, Calenda, Minniti, Franceschini, Delrio ed altri ancora” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 10.3). E Crispi?

Nostradamus. “Reddito, si parte. Poste e Caf temono l’assalto. Richiesta la presenza della polizia nelle zone più calde” (Corriere della sera, 5.3). “Reddito, i timori di ‘assalto’ alle Poste” (Messaggero, 5.3). “L’assalto al redito di cittadinanza. Poste in allarme. Uffici postali e Caf potrebbero andare in tilt, timori a Roma e al Sud” (La Stampa, 6.3). “Reddito, rischio caos a Poste e Caf” (Messaggero, 6.3). “Un’orda mai vista invaderà Poste e Inps. Pagare bollette e incassare pensioni sarà proibitivo” (Libero, 6.3). “Reddito, partenza nel caos” (Repubblica, 6.3). “Reddito, rischio di resse”, “Caos reddito, allarme delle Regioni” (Corriere della sera, 6.3). “Il reddito parte nel caos” (Giornale, 6.3). “Reddito, niente assalto agli sportelli. I Caf sorpresi dalla bassa affluenza” (Repubblica, 7.3). “L’assalto al reddito parte al rallenty” (Repubblica, 7.3). “Reddito di cittadinanza, si parte senza assalto”, “Reddito, avvio soft, uffici postali e Caf senza file” (Corriere della sera, 7.3). “Reddito, nessuna ressa” (Messaggero, 7.3). “Niente code per il debutto del reddito di cittadinanza. Nessun assalto a Poste o Caf” (La Stampa, 7.3). E chi saranno mai quei coglioni che avevano previsto assalti e code e caos agli sportelli?

Sempre modesto. “Nel mio seggio è venuta a votare Sabrina Ferilli. È ritornata come il figliol prodigo. E io sono l’agnello grasso” (Carlo Calenda, ex ministro Pd, Circo Massimo, Radio Capital, 4.3). Ti piacerebbe: quello della parabola era il vitello grasso.

I titoli della settimana/1. “Il Csm grazia Woodcock e chiude gli occhi su Consip” (Il Foglio, 5.3). “Il Csm decide a metà: per Woodcock solo una censura”, “Woodcock quasi perdonato: solo uno schiaffetto dal Csm” (Il Dubbio, 5.3). E questi sono i garantisti.

I titoli della settimana/2. “Viva i vescovi contro il reddito di pigranza” (rag. Claudio Cerasa, il Foglio, 7.3). “Il reddito di cittadinanza ormai è diventato ‘reddito di delinquenza’” (Libero, 8.3). Giusto. I soldi pubblici è meglio regalarli a Libero e al Foglio.

Addio a Vincent: una vita da leone tra mogli, alcol, droga e incidenti

Bello e dannato lo è stato, Jan-Michael Vincent. Eppure il primo comandamento dei maudit dello spettacolo, quello custodito da True Romance di Tony Scott (1993), non l’ha osservato: “Vivi al massimo, muori giovane e lascia di te un bel cadavere”. Se n’è andato a 73 anni, la gamba destra amputata sotto il ginocchio nel 2012: sì, Vincent ne ha rispettato un terzo. Il primo, il più importante: successo, soldi, droga e incidenti, non s’è fatto mancare nulla, facendo dell’eccesso la propria misura esistenziale.

Ha pagato caro, ha pagato tutto. Per la serie tv che l’ha reso celebre, Airwolf, percepiva 200mila dollari a episodio: un signor cachet ancora oggi, un’enormità negli anni Ottanta. Al fianco del glorioso Ernest Borgnine, Vincent conquista nei panni di Stringfellow (da noi Stradivarius) Hawke, eremita e già temerario collaudatore per conto Cia dell’avveniristico elicottero Airwolf. Per intenderci, Hawke fu per lui quel che il Dylan McKay di Beverly Hills 90210 sarebbe stato dieci anni più tardi per Luke Perry. Dodici episodi per la prima stagione, ventidue la seconda, altrettanti la terza: un bottino formidabile, che Jan-Michael non mette (solo) in cassaforte, ma su per il naso. Cocaina – anche eroina – come non ci fosse un domani, e l’adrenalina della serie non giustifica lo sforzo: Vincent diviene ingestibile, tocca allontanarlo, sicché nella quarta stagione a tenere la cloche è un fantomatico fratello di Stringfellow. Male per lui, che di lì in poi si consegnerà a B-movie e sci-fi di quart’ordine, male anche per Airwolf: in Italia, dove viene trasmessa con il titolo Supercopter, la quarta nemmeno va in onda.

Vincent è deceduto per arresto cardiaco in un ospedale del North Carolina il 10 febbraio scorso, ma la notizia è trapelata solo un mese più tardi: cremato, gli sopravvivono la terza moglie, Patricia Ann Christ, e la figlia Amber. Se l’exploit di Airwolf non l’avrebbe replicato, il suo carnet è tutto fuorché disprezzabile: due nomination ai Golden Globes, per Allucinante notte per un delitto (1971, con Robert Mitchum) e per la miniserie del 1983 Venti di guerra; mostri sacri quali John Wayne e Rock Hudson (I due invincibili), Charles Bronson (Professione: assassino) affiancati senza complessi d’inferiorità; la mascella giusta e lo sguardo aperto per conquistare, in un misto di antagonismo giovanile e, prevalente, prestanza fisica.

Nato a Denver, Colorado, il 15 luglio del 1944, esordio nel film-tv del 1967 The Hardy Boys: The Mystery of the Chinese Junk, fa il praticantato da ribelle in Tribes (1970), Violenza sull’autostrada (1975) e Baby Blue Marine (1976), incrocia Kris Kristofferson in Squadra d’assalto antirapina (1976) e Kim Basinger in Hard Country (1981), ma il ruolo iconico è quello di Matt Johnson nel cult Un mercoledì da leoni di John Milius, anno di grazia 1978. Le spiagge della California, forti venti e mareggiate paurose, pane per le tavole dei surfisti più indomiti: Matt, al pari dei sodali Jack e Leroy, lo è. Siamo nell’estate del 1962, il Nostro cavalca il Vietnam e incarna un superomismo bruciato dal sole: 12 anni dopo, nel 1974, Milius termina l’arco narrativo, e nostalgico, e Vincent è ancora il suo profeta. Nella vita, però, gli va meno bene: problemi, e arresti, per alcool e droga; tre gravi incidenti automobilistici negli anni Novanta, che lo lasciano con tre vertebre cervicali spezzate e la voce irrimediabilmente roca; accuse di violenza, con conseguente aborto, da parte di una ex fidanzata, che ottiene 350mila dollari in tribunale; un ordine restrittivo, ottenuto da un’ex moglie.

 

Corna, istruzioni per l’uso: il triangolo secondo Perec

“L’attentato di Sarajevo” è il primo romanzo di Georges Perec, scritto nel 1957 e finora inedito. Nottetempo lo pubblica ora con la traduzione di Angelo Molica Franco, che ci racconta la genesi dell’opera e il suo rocambolesco ritrovamento.

Parigi, 1956. Un ventenne Georges Perec sul retro di una foto del padre prova a scrivere “C’è del marcio in Danimarca” ma non completa la frase. Ha vent’anni, è uno studente a tempo perso di storia. Ammira Shakespeare (tra gli altri), di cui ha appena letto l’Amleto, e vorrebbe scrivere anche lui qualcosa di grandioso, ma non ci riesce. È in treno, torna dal cimitero militare di Nogent-sur-Seine, dove ha visitato la tomba del padre per la prima volta. Legge il suo stesso cognome sulla lapide: Icek Judko Perec. Anni dopo, grazie alla psicanalisi con Michel de M’Uzan, capirà il perché di quel blocco nella sua ispirazione letteraria (in una lettera del ’57 all’amico Maurice Nadeau lo definisce “un’insormontabile barricata”), che diventerà anche l’incipit di uno dei suoi libri più commoventi, W (1975): “Non ho ricordi d’infanzia”. Eh, già: ebreo, la Storia “con la S di scure” ha falciato la famiglia di Georges. Suo padre al fronte, sua madre ad Auschwitz; a sei anni è orfano e cresce con una zia.

Ma è a vent’anni, mentre soffre la solitudine della sua chambrette a Rue Saint-Honoré e collabora alla Quinzaine Littéraire, scevro di ricordi d’infanzia, che si getta nell’azione della scena parigina: “Esci, agisci, lanciati nel vuoto, sbaglia, fai casini” questo si consiglia. Così, grazie alla cugina Ela conosce un trascinante gruppo di pittori e intellettuali jugoslavi attivi a Parigi. È un giovane che ha sete di imparare, non è ancora l’autore de Le cose (1965 e Prix Renaudot) e La vita, istruzioni per l’uso (1978 e Prix Médicis) né il collega di Raymond Queneau e Italo Calvino all’Oulipo (Opificio di Letteratura Potenziale), così si lascia introdurre in questo manipolo di artisti jugoslavi, in cui spicca la figura di Zarko Vidovi, giovane professore di storia dell’arte di cui diventa subito amico. Accanto a lui, la sua amante Milka Canak. Di Milka, col passare del tempo, Georges si innamora. Si insinua nella coppia, corteggia Milka e rivaleggia con Zarko. E quando la situazione si fa critica, quando cioè i due amanti tornano in Jugoslavia per preservare la loro storia d’amore, Georges non ha dubbi: il 1° agosto arriva a Belgrado. Più che avere Milka, vuole toglierla a Zarko e dimostrare a se stesso di non essere più un ragazzo ma un uomo.

Quest’avventura amorosa, che si incontra a ben scartabellare le biografie su Perec, è narrata in L’attentato di Sarajevo, un inedito che preziosamente l’editore nottetempo scopre, nonché il suo primo romanzo conchiuso; eh, già: di ritorno a Parigi dopo l’avventura jugoslava, il blocco dello scrittore scompare e in “cinquantatré giorni” (così dice) lo scrive, o meglio lo detta a Noëlla Menut, sua vecchia compagna di liceo. Sull’esito della storia tra il protagonista, un “io” che mai si presenta, Branko (un professore) e Mila (la sua amante), come cioè si evolve il triangolo amoroso e soprattutto perché questo romanzo si intitoli proprio L’attentato di Sarajevo, lasciamo alla lettura del romanzo. Ma preme qui raccontare l’epopea di questo dattiloscritto che il ventenne Georges ha appena finito di dettare. Fiero, lo invia a due editori, Seuil e Lettres nouvelles, che lo rifiutano tra gli elogi. E mentre decide di metterlo da parte “almeno per un anno, mi dedicherò a un altro progetto”, lo perde e non ne farà più parola, forse perché quasi si pente di aver così dileggiato il feuilleton ottocentesco con una storia d’amore al confine con la parodia. Verrà ritrovato solo dopo la sua morte (1982) in due differenti versioni. La prima, recuperata dal fondo di un cassetto all’Imec (Institut Mémoires de l’Édition Contemporaine), l’altra ritrovata agli inizi degli anni ‘90 da uno dei pittori jugoslavi conosciuti da Perec, Mladen Srbinovi, che lo fa fotocopiare perché giunga a un erede.

Dal ritrovamento salvifico e dall’incrocio delle due versioni, nasce L’attentato di Sarajevo, che ha in sé un po’ della grandeur tragica di Shakespeare, un po’ dell’ironia di Flaubert e un po’ della noia di vivere de I Vitelloni di Fellini.

“Ho ingurgitato di tutto, gli ‘stellati’ sono spesso un bluff. E ho 5 stalker”

“Ho parcheggiato bene?” Qual è la macchina? “La Punto prugna, era di mia nonna”. Bel colore. “È del 1994, perfetta, e poi per me è solo un mezzo di trasporto. Prendo la multa?”. No, lì va bene. “Tutto questo caos è insopportabile”. Meglio andare a tavola. “Decisamente. Ah, non tocco il vino, non posso e da tempo”. Che è successo? “Già a 12 anni andavo in fraschetta con gli amici, da allora ho mangiato e bevuto troppo, senza regole. Magari tornavo da un allenamento di rugby e mi sparavo dodici supplì per tamponare l’appetito”. Vuoi per lavoro, vuoi per indole, a guardarlo non è difficile crederlo: Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio, è un ragazzone di 35 anni di quasi un metro e novanta per 112 chilogrammi (“ora sto meglio, mi sono sgonfiato, ne ho persi sette…”), ex rugbista con più ossa spezzate che trofei vinti (“mi sono rotto tutto meno l’osso del collo”), un’esperienza non breve in Nuova Zelanda, quindi una passione per i fornelli, tanto da diventare uno degli chef televisivi più amati dal pubblico.

A differenza di altri colleghi celebri, veste in maglietta, mantiene l’accento romano, la parolaccia lo accompagna, è tutto tatuato, quando è possibile affonda le mani nel piatto, a tavola mantiene un ritmo costante, prolungato ed efficace (con lui occhio al proprio piatto), non ha filtri rispetto alle mode culinarie (“oramai se non utilizzi lo zenzero non sei nessuno”) e non teme polemiche con i vegetariani e gli chef stellati.

Da questa sera (ore 21.25 sul Nove) è protagonista della terza serie di Camionisti in trattoria, programma diventato cult, un viaggio tra i posti più sperduti (e spesso) economici d’Italia e d’Europa, “guidato” da chi percorre migliaia di chilometri su gomma, “e uno si rende conto che è possibile mangiare benissimo, anzi da paura, pure con quindici euro”.

Sorride di rado, quando capita utilizza più gli occhi della bocca.

Sui camion in giro per il Continente.

E ho scoperto persone molto differenti rispetto all’immaginario collettivo, gente che legge, si informa, meno scorbutici del previsto, alcuni con un desiderio unico di parlare.

Davanti alla telecamera, si sciolgono.

È la legge di Andy Warhol, alla fine ci cadono tutti per ottenere quei benedetti quindici minuti di celebrità. (Arrivano le prime portate, esce il cuoco, un po’ intimidito, a salutare).

Mette ansia ai colleghi.

Colpa della televisione, dei messaggi che trasmette, di questa voglia di alcuni chef di stare su un piedistallo a giudicare. Non lo sopporto. Quando sono a tavola non spulcio mai nel piatto.

Sulla tv Vissani esprime dei concetti simili.

Rispetto a quell’uomo non nutro un briciolo di stima.

Niente.

Zero, non mi piacciono molti dei suoi atteggiamenti e su di lui non voglio dire altro.

Prima abitudine al risveglio.

Accendo la televisione, mi sintonizzo sui programmi d’informazione e nel frattempo leggo i giornali.

Quali.

Sono sette, ovviamente c’è il Fatto.

Secchione.

Io? Ma se i primi anni di scuola studiavo pochissimo, giocavo quasi solo a rugby, poi a casa mi dedicavo ai Manga giapponesi (fumetti).

Ha dichiarato di essere stato bullizzato.

Sì, ma niente di particolarmente grave: avevo e ho sessantaquattro centimetri di conferenza cranica, quindi al tempo ero solo testa e poco fisico, i ragazzi mi urlavano “capoccione”; alla fine non ne soffrivo, mi rifugiavo nell’indifferenza.

Come mai la Nuova Zelanda?

Un insieme di fattori, mi ero stufato un po’ in generale, in particolare dell’università: ero iscritto a Giurisprudenza ma senza dare nemmeno un esame.

Non studiava?

Quello sì, ma quando mi chiamavano non mi alzavo, non mi piaceva quella liturgia, con tutti appresso ai voleri del professore, ai suoi capricci: magari non si presentava, stoppava all’improvviso gli esami, rimandava. Non ne potevo più. Così per affinità rugbistiche, e non solo, sono partito per la Nuova Zelanda.

I suoi genitori?

Pensavano tornassi dopo due settimane. Comunque mi hanno dato un’educazione rigida…

Quanto?

A letto alle 21.30, anche da grande non potevo tornare dopo mezzanotte, niente motorino, niente cellulare, e quando ne ho avuto uno era un modello da Medioevo.

Giusto?

Li ringrazio.

Il mondo delle star…

Estremamente debole, falso, grottesco, eppure a tutti va bene così, si finge la letizia, il benessere, si cerca di piallare le differenze per mantenere l’equilibrio precostituito. E sì, ancora molti pippano.

Senza appello.

Per fortuna li frequento poco, e non vado quasi mai negli studi, registro in esterna. (È alla quinta portata, con una capacità rara di nutrirsi e parlare).

Buon appetito.

Ho mangiato di tutto e in tutto il mondo, mi sono sfondato, credo di aver ingerito 100 volte quello che un uomo normale consuma nell’intera vita.

Esagerato.

Mica tanto.

Il cane lo ha assaggiato?

Sì, e a volte ricorda il montone, in altre il manzo, comunque è dolciastro…

E poi?

In Islanda e Giappone ho assaggiato la balena.

Ci sono varie campagne a protezione.

Ed è sbagliato: quasi tutti pescano esemplari non in via d’estinzione; in Islanda è proibito andare oltre il numero prefissato, e mai balene incinte.

Greenpeace non la pensa proprio così.

Sono contro la caccia non indispensabile.

Tradotto?

In Groenlandia è fondamentale per le tribù povere dedicarsi alle foche, per loro sono una fonte indispensabile di sopravvivenza; il problema è che sono arrivati i ricchi canadesi o gli statunitensi ad accaparrarsi le pellicce. E non va bene.

Da bambino era già chiara la sua passione?

Sono cresciuto leggendo Airone o National Geographic, e l’obiettivo era quello di diventare veterinario o biologo marino.

Secondo i suoi colleghi è più sano mangiare al ristorante che a casa.

Ma andassero a quel paese: mangiare fuori fotte le persone, lo dicono solo per fare cassa, peccato che la gente ci crede.

Sempre.

Ma no, molti esercizi sono migliorati, il palato del pubblico è cambiato, poi ci sono i clienti che scimmiottano le espressioni sentite nei vari programmi televisivi e allora parlano di “croccante” o “acidità”, o altre formule ridicole.

Non ha ancora aperto un suo ristorante.

Per ora non ci penso proprio, ma nel caso dovrà essere un’osteria con pochi posti, dove cucino per me e poi abbondo per offrirlo agli altri.

Deciso.

Se poi non ti piace, arrivederci.

Programmi di cucina.

Trovo sia da coglioni andare in televisione per gareggiare sul cibo, e non sopporto questa retorica secondo la quale esci migliore da quell’esperienza.

Almeno migliorato.

No, solo più appetibile per alcune logiche di mercato.

È stato mai contattato?

Sei anni fa e avevo posto delle condizioni su ciò che avrei voluto dire.

Questioni economiche?

Macché, sul quel piano sono pessimo, è andata male per tantissimo tempo; se fossi stato un po’ più sveglio, altro che Punto del 1994.

Come impiega i soldi?

Viaggi, alcune donazioni, cibo, gli amici, e niente più; se sei un malandrino puoi mettere i soldi da parte, se stai alle regole non resta quasi nulla; per fortuna non ho vizi.

Fortuna.

Per diventare ricchi è necessario provare piacere nell’accumulo, poi devi essere capace e costante, magari organizzare degli show cooking; in realtà mi rompo subito le palle, e quelle situazioni mi sembrano pure ridicole; i soldi proprio non mi interessano.

Il suo pasto preferito.

Basta pane, salame e formaggio.

Come si giudica da chef?

So il fatto mio.

Punto forte.

Riesco a cucinare con quello che trovo, amo gli avanzi, non sono mai stato uno in punta di mestolo in cerca della dispensa piena per poi proporre piatti frivoli.

Oramai il gioco è quello degli accostamenti folli, spacciati per buoni.

Senza senso, e almeno anni fa c’era la curiosità per la novità, la nobilitazione del cibo, ma visti i tempi miseri, certe idee di cucina diventano quasi offensive: non siamo più nell’edonismo degli anni Ottanta.

Per ottenere una Stella Michelin è necessario rispettare delle regole.

A 360 gradi, ma è solo un riconoscimento per un certo tipo di persone, per dei circoli viziosi d’interesse, un po’ come gli Oscar del cinema.

Impietoso.

Di frequente trionfa chi è più potente o fa squadra: ho provato degli stellati veramente mediocri, gente ossessionata, dei fuori di testa, ma perfetti nell’apparenza, nella cantina, e prendono i prodotti dalle persone giuste…

Timido?

Lo ero e lo sono rimasto.

E davanti alla telecamera?

A mio agio, tanto non mi chiedono altro che essere me stesso, insomma ci sono cascati, in caso contrario non sarei in grado.

Una falsità in cucina.

Il pistacchio di Bronte: ci siete mai stati lì? È un buco di paese, come può soddisfare le esigenze di tutto il mondo? C’è una qualità turca, e altre del Medioriente, che sono stupende, ma tutti appresso a quella leggenda di Bronte.

Il limoncello di Sorrento.

I presunti liquori del dopocena non hanno mai aiutato nessuno a digerire, sono solo una botta di zuccheri perfetti per il mal di testa.

Chi non potrà mai essere?

Uno che appartiene a una lobby, i gruppetti non li reggo.

Vota?

Mai in vita mia, non mi faccio rappresentare da chi non conosco.

Il Made in Italy.

Altra bufala, non può significare per forza “buono” o “di qualità”: siamo invasi dai rifiuti tossici, e parliamo? E non mi riferisco solo alla Campania: ci sono tante, troppe, zone del Paese in cui è consigliabile non toccare i prodotti della terra.

Farinetti ci ha costruito un impero.

E infatti non lo sopporto, quando posso lo attacco, ma è talmente potente da restare intoccabile.

È considerato un sex symbol.

Ne farei volentieri a meno, sono solo rogne.

Esagerato.

La fama può diventare uno stimolo per le follie degli stalker.

Ne ha?

Lo zoccolo duro è composto da cinque donne, oramai rompono da così tanto tempo da conoscerle alla perfezione. Il problema è che io reggo, chi prova a starmi vicino non capisce fino in fondo certe dinamiche.

Spesso attacca Salvini: cosa gli cucinerebbe?

Posso evitare la risposta? Su di lui sarei veramente truce, e siamo pur sempre a tavola… (e addenta l’ottava portata).

Twitter: @A_Ferrucci

Venezuela nel caos Morti per blackout, in strada due cortei

Tredici morti: questa la tragica conseguenza del blackout che ieri ha lasciato al buio almeno l’80% del Venezuela. La mancanza di elettricità, infatti, va avanti da giovedì e avrebbe impedito ai pazienti di un ospedale dello Stato di Monegas di ricevere le cure necessarie, portando al loro decesso, come dichiarato dal medico José Manuel Olivares. Secondo il presidente cubano Miguel Diaz Canel si tratterebbe di “sabotaggio elettrico”, che costituisce “uno sporco atto di terrorismo”. L’assenza di luce ha portato anche a un blocco dell’economia e dei servizi bancari che dura da oltre 48 ore. Questo si aggiunge a due giorni ricchi di tensioni, alimentate soprattutto dalle due manifestazioni parallele organizzate dal governo e dall’opposizione nelle strade del Paese sudamericano: da una parte, infatti, il leader antigovernativo Juan Guaidó ieri ha radunato i suoi sostenitori nelle piazze di Caracas, mentre dall’altra parte il presidente in carica Nicolas Maduro ha convocato una sua manifestazione e ha schierato la polizia in assetto antisommossa sul luogo scelto dal leader dell’opposizione per l’assembramento dei suoi che nella notte di venerdì hanno denunciato l’arresto di tre collaboratori impegnati nella costruzione di un palco. Secondo Maduro, “l’impero degli Stati Uniti, ancora una volta, sottovaluta la coscienza e la determinazione del popolo venezuelano. Vi assicuro che ogni tentativo di aggressione da parte dell’impero troverà una risposta vigorosa dei patrioti che amano e difendono, coraggiosamente, la nostra patria”. Guaidó aveva scagliato la controffensiva su Twitter: “Pensano di spaventarci, ma avranno una sorpresa dal popolo e dalla piazza. Pretendono di prenderci per stanchezza, ma non hanno alcuna chance di contenere un popolo che è determinato a ottenere la fine dell’usurpazione”.

“Memento mori” di Kim a Trump: ricorda l’atomica

C’era da aspettarselo che il nulla di fatto nel Vertice di Hanoi tra il presidente Usa Donald Trump e il leader nord-coreano Kim Jong-un avrebbe portato i suoi frutti bacati, che siano reali o solo effetto della contro-informazione: la delusione è stata forte, per il magnate che sperava un esito da Nobel della Pace, per il dittatore che puntava ad alleggerire le sanzioni e per il Mondo intero che sarebbe stato più sicuro con una penisola coreana denuclearizzata. Fatto sta che la Corea del Nord, dopo 250 giorni da docile agnellino – quelli intercorsi tra i Vertici di Singapore e di Hanoi – starebbe di nuovo preparandosi a lanciare missili: un segnale minaccioso, in violazione delle richieste dell’Onu, come a ricordare all’America e all’Occidente, se mai ce ne fosse bisogno, che Pyongyang ha l’atomica e ha pure i mezzi, magari un po’ rudimentali e non proprio precisissimi – il che li rende ancora più temibili – di recapitarla a destinazione.

La mossa appare in contrasto con la nuova e più urgente priorità della Corea del Nord individuata dallo stesso Kim nello sviluppo dell’anemica economia. In una lettera a una conferenza nazionale del Partito dei Lavoratori, tenutasi in settimana, il leader ha insistito sulla necessità di concentrare gli sforzi per far avanzare l’economia. Il che contrasta con l’investimento di risorse in prove di forza che potrebbero solo condurre al mantenimento, se non all’inasprimento, delle sanzioni dell’Onu. Ma si sa che la coerenza non è un punto di forza di Kim (e neppure di Trump). Recenti immagini satellitari dei siti sensibili nord-coreani polarizzano l’attenzione sulla base chiave di Sanumdong, alle porte di Pyongyang, dove in passato sono stati assemblati razzi e missili balistici intercontinentali, fra cui gli Hwasong-15, e al relativo snodo della linea ferroviaria, che potrebbe servire a trasferire materiale verso Sohae, base satellitare sul confine con la Cina. Le foto sono state però scattate da DigitalGlobe il 22 febbraio, prima quindi del flop di Hanoi a fine febbraio: indicano un’insolita attività di veicoli leggeri e pesanti, vagoni ferroviari, gru e mezzi vari. Il think tank Usa 38 North aveva già segnalato lavori di ripristino dell’operatività dell’impianto, parzialmente smantellato la scorsa estate – un gesto di apertura di Kim verso Trump, nel negoziato sulla denuclearizzazione della penisola –. I lavori di ripristino sarebbero iniziati dopo il nulla di fatto del Vertice in Vietnam.

Jeffrey Lewis, un esperto analista, deduce dalle immagini satellitari che un lancio è imminente: avverrà – dice – utilizzando una tecnologia simile a quella dei missili balistici – attività vietata dall’Onu, perché sia civile che militare –. Lewis riconosce, però, che è impossibile capire se la Corea del Nord si appresti a lanciare un missile o un razzo per mettere in orbita un satellite. Non è neppure escluso che le operazioni rappresentino un tentativo voluto di catturare l’attenzione dei satelliti spia americani e di tenere sulla corda l’intelligence Usa. Un modo di ricordare a Trump che deve ancora fare i conti con lui.

Fiasco Corbyn: se May perde su Brexit, il Labour non vince

La settimana che inizia domani promette di essere la resa dei conti decisiva per Theresa May, che affronta, martedì, una sconfitta quasi certa nel secondo voto parlamentare sul suo accordo con Bruxelles, la successiva probabile richiesta di estensione dell’art.50 e il prevedibile ampliarsi delle fratture fra le varie fazioni dei Tories, suoi riottosi compagni di partito. Una implosione che, se la politica britannica fosse ancora vagamente somigliante alla sua noiosa, pragmatica ed efficiente identità pre-referendum sull’Europa, finirebbe per portare in trionfo l’opposizione laburista.

E invece, povera Albione, il Labour di Jeremy Corbyn se la passa perfino peggio di un partito conservatore ai minimi storici di credibilità.

Il Labour si è lacerato fin dalla travolgente ascesa di Corbyn alla segreteria, nel 2015, che ha spostato la sua identità politica dal centro-sinistra neo-blairiano a posizioni dichiaratamente socialiste: uno smottamento che nel giugno 2016 portò a un tentativo di rivolta dei moderati sventato con il pugno di ferro dal leader. Ma la frattura non si è mai sanata ed è stata ufficializzata, il mese scorso, dalla nascita dell’Indipendent Group, frutto della fuoriuscita dal Labour di 9 parlamentari. Una scissione minima in numeri assoluti, ma pericolosa in termini elettorali, se è vero che la nuova entità ha un consenso elettorale intorno al 14% per cento, tutto nel campo laburista.

Consenso coagulato attorno a due spine nel fianco del Labour versione Jeremy: le accuse di non aver fatto il necessario per sanzionare gli episodi di antisemitismo nel partito e la protratta ambiguità su Brexit.

Sul primo tema, Corbyn si è mosso lentamente. Forse confidando troppo nelle proprie credenziali di dichiarato anti-sionista ma non certo antisemita, il segretario ha lasciato crescere un bubbone esploso lo scorso aprile. Nell’annunciare la sua adesione all’Indipendent Group, la parlamentare laburista ebrea Luciana Berger ha accusato il Labour di antisemitismo istituzionale: e malgrado la veemente autodifesa della segreteria, giovedì scorso l’authority britannica per i diritti umani ha avviato una indagine per verificare eventuali discriminazioni a danno di iscritti o parlamentari ebrei e non ha escluso sanzioni. Quanto a Brexit, nell’ultimissimo dibattito parlamentare il segretario ha chiarito che la povertà e l’ingiustizia sociale sono temi più importanti, e il suo euro-scetticismo sta erodendo la fiducia della maggioranza dei membri del suo partito. Una pressione che lo ha costretto, a malincuore e con molti caveat, a un cauto impegno a favore di un secondo referendum: ma se fosse costretto davvero a sostenere una seconda consultazione perderebbe certamente il sostegno delle aree laburiste favorevoli a lasciare l’Unione, e questo potrebbe costargli la sconfitta ad eventuali elezioni. Una debolezza di cui ha subito approfittato il suo vice Tom Watson, che in un intervento video senza precedenti ha commentato con toni preoccupati e comprensivi la diaspora interna e, subito dopo, ha iniziato i preparativi per la costituzione del Future Britain Group, una cinquantina di deputati di orientamento social-democratico che somiglia molto a un partito nel partito e potrebbe diventare la piattaforma per l’assalto di Watson alla segreteria.

Non a caso, venerdì, il cuore dell’intervento del segretario alla conferenza del Labour scozzese è stato un accorato appello a preservare l’unità del partito. Ma la crisi di identità e di leadership c’è, e si riflette nelle intenzioni di voto: secondo l’ultimo sondaggio YouGov, malgrado 9 anni di austerity, una finora fallimentare gestione della Brexit e quasi nessuna azione politica su altri fronti, oggi il partito conservatore vincerebbe con il 40% dei consensi contro il 31% dei laburisti.

Dov’è Silvia Romano? Silenzi, sciacalli e bufale sulla cooperante rapita

Sono passati 110 giorni dal rapimento di Silvia Romano e per la prima volta, da quando sono cominciati i rapimenti in Africa una trentina d’anni fa, non trapela una parola, un dettaglio. L’ordine impartito dalle autorità italiane è chiaro: “non si paga alcun riscatto”. Al massimo si tenterà un blitz, nel caso ci sia la certezza o almeno una forte probabilità che possa andare a buon fine. Questo però soltanto se verrà individuato il luogo in cui è tenuta prigioniera la ventitreenne milanese rapita a Chakama, nell’entroterra di Malindi, il 20 novembre scorso.

La disposizione di non pagare è stata smentita da “fonti vicine al ministro dell’Interno Matteo Salvini”, ma non è un comportamento molto trasparente utilizzare una formula vaga di questo genere, invece di scrivere a chiare lettere: “Il ministro smentisce…”

Un sopralluogo effettuato nella zona costiera del Kenya svela che le ricerche della ragazza italiana si sono assai diradate. Fino a pochi giorni fa c’erano ovunque posti di blocco ed era perfino impossibile circolare senza essere fermati più volte dai controlli: “Le pattuglie della polizia si vedono ancora in giro ma si muovono svogliatamente e senza una meta precisa – racconta uno degli stringer del Fatto su piazza –. Sembra quasi che si spostino o intervengano solamente se c’è una segnalazione”.

Gli 007 italiani si aggirano ancora per Malindi e all’aeroporto di Nairobi staziona ancora un drappello di nostre teste di cuoio, pronte a intervenire. Ma solo se si dovesse decidere un’azione fuori dai confini del Kenya, le cui autorità non gradirebbero invece un’operazione straniera sul loro territorio. Gli italiani comunque non appaiono essere parte attiva nelle ricerche. Sembra piuttosto che siano lì quasi per giustificare un minimo di interessamento da parte del nostro governo e forse per esercitare una certa pressione sui centri di potere kenioti.

Gli indizi, comunque, sembrano escludere che Silvia Romano sia stata portata in Somalia, magari in qualche accampamento degli shebab, i terroristi islamici che controllato un’ampia fetta di territorio dell’ex colonia italiana. Se così fosse, ci sarebbe già stata una rivendicazione pubblica, come si usa in questi casi. Invece anche da quella parte silenzio.

Intanto, se le bocche delle fonti ufficiali restano cucite, gli sciacalli sono entrati in azione. Con un messaggio diffuso in Kenya subito dopo il rapimento, il 21 novembre, qualcuno ha perfino chiesto un riscatto in bitcoin, la moneta virtuale. Naturalmente un falso, ma è stato anche individuato l’autore, un italiano che vive a Malindi e che voleva prendersi gioco della situazione. Un macabro scherzo, insomma, nella tragedia di questa povera ragazza: c’è qualcuno che vuol divertirsi ingannando, o meglio tentando di ingannare, chi sta cercando alacremente di sbrogliare una matassa intricata e difficile. Un tweet diffuso da una sedicente agenzia di intelligence americana, un mese fa, assicurava che Silvia fosse stata uccisa. Ma non forniva alcuna prova, se non quella “fidatevi di me”. Fatte delle ricerche in proposito, non è emerso alcun elemento certo di ciò che c’era scritto in quel testo.

Purtroppo la rete è piena di persone che si sentono gratificate nello scatenare la propria fantasia e inventare storie inverosimili. Come questa riportata da alcuni giornali kenioti, sebbene con i necessari dubbi e gli indispensabili distinguo: Silvia Romano implicata in un traffico d’avorio.

La notizia nasce perché sembra che alcuni membri della banda di rapitori, appartenenti alla tribù orma di origine somala, fossero stati coinvolti in contrabbando di zanne di elefante. Ma a questo punto si è scatenata la fantasia nostrana: Silvia, durante uno dei suoi viaggi in Kenya, avrebbe comprato dell’avorio assicurando i venditori che l’avrebbe pagato al suo ritorno. Una volta rientrata non avrebbe onorato la promessa ed è per questo che sarebbe scattata la trappola. Ancora: per paura di fare la stessa fine – aggiungono siti meschini ma dotati di gran immaginazione – la mamma non è ancora venuta in Kenya.

Chi conosce la ragazza, come i suoi amici della palestra ZeroGravity a Milano, descrive Silvia come amante degli animali che non si sarebbe mai sognata di comprare un oggetto d’avorio.

Ma ad alimentare il clima di incertezza c’è il comportamento delle autorità italiane, ostinate a mantenere uno stretto riserbo sulla vicenda. Ufficialmente, perché si danneggerebbero le trattative. In realtà non si vuole che l’opinione pubblica sappia cosa fanno e come si comportano le nostre autorità. Se il riscatto chiesto dai rapitori fosse stato pagato immediatamente si sarebbero evitate tante domande sulla sorte di Silvia e, soprattutto, sarebbero state evitate alla ragazza le sofferenze cui di certo è andata incontro.