Tim, Cdp sale all’8,7% Apre la strada alla rete unica con Open Fiber

Prosegue la presa di posizione (e soprattutto di quote) in vista della cruciale assemblea di Tim del 29 marzo: Cassa depositi e prestiti è salita all’8,7% del capitale e presto potrebbe andare a sfiorare il 10%. All’ultima assemblea, nella quale aveva vinto la lista Elliott, la cassaforte dei risparmi postali deteneva il 4,9% di Tim e aveva di fatto preannunciato la sua crescita per avere i diritti di voto nell’assemblea di fine marzo. Con la sua scalata, infatti, Cdp si pone ancor di più come ago della bilancia tra gli americani di Elliott e i francesi di Vivendi in Tim. Ruolo non esattamente disinteressato visto che la Cassa è proprietaria al 50% di Open Fiber, la società pubblica della rete in fibra, mentre Tim è proprietaria della vecchia rete in rame. Con questi numeri, infatti, Cdp è ancora più decisiva nella sfida tra Elliott e Vivendi, dal momento che potrà favorire la costituzione della rete unica, alla quale è favorevole il governo.

Gli schieramenti sembrano, quindi, definiti con Elliott ufficialmente al 9,95%, Cdp che dovrebbe avvicinarsi in fretta a questa quota, Vivendi sempre al 23,7%, ma nella scorsa assemblea era partita con un vantaggio nettamente maggiore.

L’Italia e la Francia, principali perdenti della moneta unica

Lo studio del Center for european policy tedesco indica chiaramente i “vincitori e i perdenti” dell’introduzione dell’euro e l’Italia figura all’ultima posizione subito sotto la Francia. Vincitore assoluto è, invece, la Germania seguita dall’Olanda. Lo studio è apparso lo scorso febbraio e spiega come tra il 1999, anno di introduzione dell’euro, e il 2017, il saldo positivo per la Germania sia stato di 23.116 euro in più per abitante e di quasi duemila miliardi in termini di reddito complessivo. I Paesi Bassi hanno guadagnato circa 21 mila euro per abitante; 346 miliardi nel reddito totale.

Chi ci perde. A perderci, seccamente, l’Italia con un saldo negativo nel reddito pro-capite di 73.605 euro e una riduzione di 4,3 mila miliardi di euro complessivamente. Anche la Francia non ha avuto un conto positivo avendo perduto circa 56 mila euro di reddito pro-capite e 3,6 mila miliardi di euro complessivamente.

Lo studio del Cep indica tra i problemi principali di questo andamento il “fatto che i singoli paesi dell’eurozona non sono stati più in grado di svalutare la propria moneta per rimanere competitivi a livello internazionale, un metodo usato comunemente prima dell’introduzione della moneta unica”. “In particolare – prosegue – Italia e Grecia si trovano di fronte a notevoli difficoltà per non poter svalutare la propria moneta”. Un problema analogo, in realtà, che ha avuto anche la Francia, ma non la Germania che, come dimostrano i suoi poderosi saldi commerciali, ha visto crescere la propria bilancia commerciale e il proprio peso di paese esportatore.

Per poter registrare gli andamenti riportati dallo studio i due autori, Alessandro Gasparotti e Matthias Kullas, hanno utilizzato il metodo del controllo sintetico. “L’andamento reale del Pil pro-capite – spiegano gli autori – può essere messo a confronto con un andamento ipotetico, supponendo che il paese in esame non abbia introdotto la moneta unica”. Vale a dire lo “scenario controfattuale” che indica quello generato “estrapolando l’evoluzione del Pil pro-capite in quei paesi che non aderirono all’euro e che negli anni precedenti avevano segnalato orientamenti economici molto simili a quelli dei paesi dell’eurozona presi in considerazione, il cosiddetto gruppo di controllo”.

Si tratta di un metodo a base statistica che cerca di utilizzare indicatori prelevati da paesi le cui caratteristiche possono essere sovrapposte al paese in esame e quindi replicate statisticamente. Il mix di paesi che costituiscono il controllo sintetico della Germania, ad esempio, è composto da Regno Unito, Giappone, Svizzera e Bahrain; quello dell’Italia e della Francia da Austrialia e Regno unito (con percentuali diverse); quello dell’Olanda da Danimarca, Nuova Zelanda, Singapore e Giappone.

Lo studio contestato. Il metodo è stato fortemente contestato da molti economisti. Michele Boldrin, che insegna alla Washington University di St. Louis, nel Missouri, ha realizzato un video durissimo contro lo studio del Cep parlando di “bufale sovraniste”. Però, per sostenere gli studi che vengono fatti correttamente, ha citato quello del 2015 a opera di Pedro Gomis-Porqueras e Laura Puzzello in cui non solo si utilizza il metodo del controllo sintetico di Abadie, Diamond and Hainmueller a cui si rifanno Gasparotti e Kullas, ma nel quale si perviene allo stesso risultato. Porqueras e Puzzello, infatti, identificano, anche loro, “i vincitori e i perdenti dell’euro”: “Le nostre stime suggeriscono che il reddito pro capite di Belgio, Francia, Germania e Italia sarebbero stati più alti senza l’euro”. La differenza è dunque la Germania. E qui può soccorrere l’identità del Cep, il think tank di Friburgo che si basa sui pensatori dell’ordoliberismo, da Friedrick von Hayek in poi, che ipotizzano un liberismo spinto e supportato dal ruolo forte dello Stato. Nel comitato dei garanti del Cep troviamo l’ex presidente della Repubblica della Germania federale, Roman Herzog, l’ex falco della Bce, Jurgen Stark e, addirittura, Frits Bolkestein, l’economista olandese padre della famigerata direttiva. Nessun sovranismo, ma un pensiero conservatore che tiene molto alla Germania dentro l’euro. I destini tedeschi sono discutibili, i risultati dell’Italia dentro l’euro sembra lo siano un po’ meno.

Autocisterna di latte in fiamme nonostante l’accordo sul prezzo

A menodi 24 ore dall’accordo sul prezzo del latte di pecora, siglato tra pastori e industriali, in Sardegna c’è stato un nuovo assalto armato ad un’autocisterna, data alle fiamme ieri. Due uomini, armati e con il volto coperto, hanno assaltato un camion del latte diretto al caseificio “Fratelli Pinna” di Thiesi, uno dei più importanti della Sardegna. “Hanno piazzato una rete di recinzione davanti alla strada – racconta Raffaele Dore, fratello del titolare del mezzo assaltato in Sardegna -. Erano armati di fucile e pistola, hanno fatto scendere l’autista, gli hanno tolto le scarpe, preso il cellulare, l’hanno fatto sdraiare per strada, hanno rubato il camion e hanno proseguito per circa un chilometro poi hanno bruciato il mezzo e sono scappati. Chiediamo sicurezza, vogliamo una scorta, non possiamo rischiare la vita”, ha detto Dore. “Non sono pastori, ma delinquenti”, ha detto Matteo Salvini. L’intesa raggiunta venerdì prevede 74 cent al litro, con l’impegno di un conguaglio a novembre in base al prezzo di mercato del pecorino. Dopo l’accordo, i pastori hanno fatto trapelare un “cauto ottimismo” in vista del tavolo di filiera del 15 marzo. E intanto la protesta arriva anche in Sicilia, in 200 hanno manifestato nel porto di Catania.

“Raccolti pronti, ma non i lavoratori stranieri”

Uno degli slogan preferiti da chi osteggia l’immigrazione è: “Gli stranieri ci rubano il lavoro”. Eppure i dati della Coldiretti sembrano dire il contrario. La maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, infatti, ha lanciato un allarme: “Il caldo ha anticipato la maturazione del raccolto, che rischia di rimanere nei campi senza l’ingresso in Italia dei lavoratori stagionali”.

La richiesta è che venga approvato quanto prima il Decreto Flussi 2019, sul quale si sta lavorando in questi giorni, contestualmente alla circolare congiunta tra Ministero degli Interni e Ministero del Lavoro che ne fissa i criteri attuativi. Si prevede che i lavori verranno ultimati prima della fine del mese. È importante agire tempestivamente, perchè il provvedimento legislativo (che nasce con l’intenzione di regolare l’arrivo di manodopera dall’estero), fissa le quote massime di migranti non comunitari che possono entrare nel nostro Paese come lavoratori subordinati. Il decreto fissa il numero intorno alle 30mila unità, una cifra molto inferiore rispetto a quella degli anni passati (nel 2011, ad esempio, si arrivò a 100mila e nel 2008 addirittura a 150mila) ma superiore a quella dei lavoratori stagionali arrivati nel 2018: a parità di soglia, sono stati circa 18mila e provenivano soprattutto dai territori del Nord Africa, dall’Albania, dall’India, dalla Serbia, e dall’Ucraina.

La maggior parte ha trovato lavoro come bracciante agricolo: oltre il 25% del settore, in Italia, è basato sulla manodopera straniera, che difficilmente riesce ad essere sostituita. “Gli italiani non vogliono venire in campagna – spiega l’imprenditore ortofrutticolo Alberto Baù – Abbiamo provato ad assumerne, anche tramite l’ufficio di collocamento, ma non c’è stato verso. Forse perché ritengono che sia un lavoro difficile, denigrante o probabilmente non ne hanno così tanto bisogno”.

Baù spiega che nei terreni veronesi ci sono tanti lavoratori provenienti dalla Serbia, dalla Romania, dal Marocco e che evita di andare in affanno grazie a dipendenti di fiducia “ma l’emergenza esiste e si sente – spiega ancora -: i campi hanno bisogno di braccia disposte a lavorare, e senza nuovi immigrati è difficile tirare avanti. Il problema è che noi produciamo soprattutto meloni, fragole: una volta che maturano, se non vengono colti e distribuiti vanno buttati, non è possibile lasciarli fermi per più di qualche giorno”. Chi non ha dipendenti fidati ha molte difficoltà: “Una mia collega mi ha chiamato di recente. È disperata”.

L’imprenditore Marco Tonelli, invece, è un produttore di prugne e ciliege in Emilia Romagna: “Forse perché siamo vicino a una grande città, noi ancora riceviamo qualcuno che si offre di lavorare – racconta -. Fino ad ora, però, sono tutti stranieri. È un lavoro difficile, richiede un notevole sforzo fisico, può capitare di stare ore e ore sotto al sole, e spesso si lavora anche il sabato e la domenica. Le due o tre persone italiane che sono da me si occupano, piuttosto, della vendita al pubblico: è un lavoro più comodo e si fa un orario più bilanciato”. Il lavoro agricolo è duro, ma qualcuno deve pur avere la possibilità di farlo.

La banca fa affari stellari, eppure taglia il personale

Cinquantadue milioni di profitti netti con un balzo del 17% sul 2017; un dividendo da 30 milioni agli azionisti, nessun debito, cassa liquida per 68 milioni e una richiesta di esuberi per 160 dipendenti sui 1200 in forza al gruppo. Una contraddizione stridente, vista così, tra l’ottima salute finanziaria del gruppo Dobank e la necessità, secondo l’azienda, di dover necessariamente dimagrire sui costi. Anche perché le difficoltà sul fronte dei costi annunciate già nel piano industriale lo scorso anno e ribadite ai sindacati nei giorni scorsi con l’avvio ufficiale della consultazione, arrivano dal più grande operatore in Italia sui crediti in sofferenza.

Un business lucroso, come mostra l’andamento dell’intero comparto degli spazzini degli Npl bancari che continuano più o meno tutti (da Cerved a Credito fondiario) a inanellare utili anno su anno. Del resto i compratori dei crediti malati delle banche hanno buon gioco. Le cessioni veloci cui sono costretti gli istituti, sotto i dettami dei regolatori, sono una manna per i fondi specializzati cresciuti come funghi negli ultimi anni. Una crescita di nuovi operatori, ingolositi dalle opportunità, che non annulla il divario tra domanda (ancora scarsa) e grande offerta (abbondante) che rende remunerativo il business dei recuperatori schiacciando al ribasso i prezzi d’acquisto e quindi aumentando la marginalità industriale degli specialisti in Npl. Del resto basta guardare i conti di Dobank. Il gruppo, nato da una costola delle attività di UniCredit nel settore e che ha acquisito il 100% di Italfondiario e controllato fino a un anno fa da Fortress (e passato a inizio del 2018 sotto il cappello del colosso finanziario giapponese Softbank) continua a crescere. E bene. Dobank quotata in borsa a Milano ha visto salire il portafoglio di Npl in gestione da 76 miliardi di valore lordo del 2017 a 82,2 miliardi a fine 2018. I ricavi lordi sono a 233 milioni (+9% sul 2017) con il margine operativo lordo aumentato del 20% nell’ultimo anno a quota 84 milioni. Lo stesso margine lordo vale ora il 35% dei ricavi. Una redditività industriale importante degna di settori oligopolistici. La stessa marginalità ce l’hanno anche i concorrenti: dal Cerved alla Sga pubblica che promette un mol sui ricavi al 35% nel suo piano industriale.

Eppure Dobank ha messo le mani avanti. In una missiva ai sindacati ha ribadito come indifferibili gli esuberi. Parla di esigenze di riorganizzazione e razionalizzazione aziendale e di un mutato scenario di contrazione del business. E cita minori mandati e un obiettivo di asset in gestione che è sotto le aspettative del piano. Non solo, Dobank rinuncerà alla licenza bancaria. Il piano prevede esuberi per 160 dipendenti che scenderanno a 130 visto che nel frattempo sarebbero usciti dal perimetro una trentina di dipendenti per dimissioni o altro. Dimagriranno funzioni di staff e intende chiudere sedi e filiali periferiche tra le quali Brescia, Firenze, Messina, Lecce e perugia. Fin qui l’architrave del piano di taglio del personale considerato in esubero. Ma a giudicare dalla redditività e dalla cassa prodotta, Dobank non pare in condizione di dover ricorrere a tagli. Certo è che mentre chiede ai sindacati di accettare le uscite, premia e molto i suoi manager. Il costo del personale è infatti salito tra il 2017 e il 2018 di oltre 10 milioni, da 83,4 a 94 milioni ma come spiega la stessa Dobank “l’aumento è riconducibile al rafforzamento del Top management e agli incentivi post-quotazione”.

Nel 2017 il solo Cda è costato 2 milioni di compensi fissi; l’amministratore delegato Andrea Mangoni ha incassato 1,68 milioni di compenso fisso, che arriva a 1,9 milioni con la componente variabile. Infine i dirigenti strategici hanno portato a casa 2 milioni di emolumento fisso salito a 2,7 milioni con la parte variabile. Fanno oltre 7 milioni di remunerazione per i vertici del gruppo su 94 milioni di costi dei 1.200 dipendenti totali. Un bel divario.

L’Italia, la Ue, Monti e le banche: un sottovalutato discorso di Visco

Un vecchio adagio dice che niente è più segreto di quel che avviene in Parlamento. Pochi, per dire, avranno ascoltato venerdì alla Camera Ignazio Visco buttare lì – presentando il libro di Pier Carlo Padoan – alcune cose notevoli. Una riguarda il fatale 2011 e il governo Monti: lì, dice il governatore, fu fatto “un errore”, nel senso che “si pensava a un effetto negativo (della manovra, ndr), ma si contava su effetti fiducia che sono mancati” fino al “whatever it takes di Draghi”, il quale “fu preparato da discussioni approfondite sulla necessità di distinguere tra il rischio default e quello di rottura dell’Eurozona: il primo era basso e questo voleva dire che quella misura macro poteva essere evitata”; il secondo “elevato e noi ne abbiamo sofferto gli effetti”. Tradotto: la manovra di Monti non era necessaria, serviva che la Bce salvasse l’euro, cosa che ha fatto in ritardo e solo dopo che l’Italia aveva pagato. Quanto al sistema bancario e alle sue sofferenze, doveva intervenire lo Stato, ma l’Ue ci disse no, che ci si doveva “rivolgere al mercato, che però non esisteva e dove i fondi specializzati avevano obiettivi di profitto del 20-25% e questo portava a riduzioni del valore di libro insopportabili per le banche”. Non solo: nelle crisi bancarie la gestione “è stata sfavorita dall’insieme di nuove regole che abbiamo per vari motivi sottoscritto (bail in, ndr): ora c’è dibattito se abbiamo fatto bene o male, ricattati o non ricattati…”. Ecco, quanto al dibattito il problema – se ha ragione Visco – non è se quello attuale sia corretto, ma se fosse truccato quello degli anni scorsi.

Perché esplode l’algeria (di nuovo)

Ora come allora, all’improvviso l’Algeria vacilla. In queste settimane come nell’ottobre del 1988 folle di algerini scendono in piazza e si riversano nelle strade della capitale. È l’inizio di manifestazioni spontanee che si allargano a tutte le più importanti città.

Unica differenza: allora furono più violente mentre oggi –memori dei 150.000 morti degli anni Novanta – gli algerini manifestano pacificamente. Ma gli slogan sono gli stessi e non risparmiano nessun simbolo dello “Stato-Fln”, il Fronte di Liberazione Nazionale al governo dall’indipendenza del 1962. Ora come allora per gli uomini del potere lo choc è pesante: nessuno pensava alla ripresa della protesta popolare, soprattutto dopo il “decennio nero”. Presi alla sprovvista i dirigenti non sanno come reagire e sono tentati dalla forza. Allora fu un vero massacro: per la prima volta l’esercito del popolo, simbolo della lotta per l’indipendenza nazionale, colpiva gente inerme. Si lacerò allora il velo della “diversità algerina”: l’Algeria socialista, democratica e popolare, paese delle importanti mediazioni internazionali e del “non allineamento”, piombava in un clima da guerra civile.

Ora è un’Algeria diversa: più ricca di quella del 1988 ma più disincantata e pragmatica, segnata a fuoco dalla guerra civile contro i salafiti. Anche allora le sommosse furono precedute da scioperi nella zona operaia e petrolifera. Anche oggi si scende in piazza senza aver ricevuto ordini da nessun partito. Ora come allora si grida tutta l’insofferenza per un regime che non cambia e per una crisi economica permanente, malgrado l’immensa ricchezza petrolifera del paese. Una crisi che non lascia futuro ai giovani.

Ora come allora gli slogan sono identici: prendono di mira la hogra, termine algerino intraducibile che significa allo stesso tempo “corruzione-ingiustizia-abuso di potere-arbitrio-umiliazione”. Secondo i manifestanti –ora come allora – è il “potere” a essere il principale autore della hogra. Il tradimento degli ideali della lotta di liberazione fu denunciato all’epoca; oggi si protesta per la mancata democratizzazione. Ora come allora non c’è lavoro, non si può uscire dal paese se non con grosse difficoltà, non c’è libertà, non c’è speranza, la gente si sente abbandonata.

Allora la scintilla fu la crisi economica. Ora è la ripresentazione (per la quinta volta!) del candidato Abdelaziz Bouteflika alle presidenziali, un presidente stimato ma malato, che non si muove quasi più. Tuttavia il blocco di potere non riesce ad accordarsi sul sostituto. Si tratta di una malattia cronica del potere algerino: un regime collettivo in cui non esiste nessuna possibile “discendenza familiare” o di partito. In questo l’Algeria è diversa da altri paesi simili: comanda un gruppo, di radice Fln in cui si è innestata la presenza degli alti gradi militari e, negli ultimi anni, quella di un pugno di oligarchi economici. Un potere condiviso che a ogni passaggio deve ristabilire l’equilibrio interno.

Il fatto che Bouteflika si ricandidi non è l’espressione di un suo potere personale assoluto ma il frutto di una difficoltà ad individuare l’uomo che prenderà il suo posto garantendo a tutto il gruppo gli attuali privilegi. È successo lo stesso a ogni passaggio di leadership: ricostruire la fiducia collettiva attorno a un nuovo capo è impresa ardua. Ma gli algerini sono stanchi, ora come allora. Nell’88 le loro proteste costrinsero il governo all’apertura: il multipartitismo. Una nuova Costituzione fu votata nel ‘89. I salafiti del Fis (fronte islamico di salvezza) ne approfittarono per insinuarsi nella breccia, vincendo le elezioni amministrative (le prime libere) del giugno 1990. La loro offerta politica era semplice quanto immatura: “l’Islam è la soluzione”. Con tale slogan riempirono piazze e urne, attraendo scontenti e disoccupati. Fecero leva sulla corruzione della classe dirigente e la mancanza di libertà. È il classico metodo dei partiti islamici radicali: rappresentare le istanze di giustizia mostrandosi come onesti e incorruttibili, una forma islamica di populismo.

Nel dicembre del 1991 il Fis partecipò al primo turno delle politiche piazzandosi in forte vantaggio: nemmeno i partiti di sinistra, troppo elitari, riuscivano a intercettare il malcontento popolare. Anche in quel caso la sorpresa fu forte: si credeva di poterli contenere. Subito si diffuse nel Paese il timore che al ballottaggio il Fis potesse raggiungere la maggioranza assoluta, cambiare la costituzione e istituire uno stato religioso. Prima del secondo turno il potere reagì con un auto-golpe che costrinse alle dimissioni il presidente Chadli (anche lui un generale). Il Fis fu dissolto, i suoi leader incarcerati, il Paese messo sotto assedio.

Iniziava così il “decennio nero”, la fase della guerra civile, con una brutale polarizzazione dei due campi, violenze diffuse e alla fine il terrorismo. In mezzo il popolo algerino, preso in ostaggio dalla guerra civile che fece – sono cifre ufficiali – 150.000 vittime, probabilmente molte di più. Mentre il Paese piombava nel caos con un susseguirsi di orribili stragi, la parte laica e democratica degli algerini si divise tra chi sosteneva che i militari erano il male minore e chi sosteneva il dialogo con il Fis.

Nel 1995 Sant’Egidio propose a Roma una mediazione tra partiti e islamisti. Il tentativo riuscì a produrre un accordo ma il potere rifiutò e l’Europa restò a guardare: troppo interesse per il gas e il petrolio. In un paese rovinato ed esangue, il regime alla fine richiamò Bouteflika, escluso anni prima. Il presidente ha molti meriti: accordandosi coi militari ristabilì la pace, perdonò gli islamisti e impose una politica di concordia nazionale che non tutti apprezzarono. Molti sperarono che tale via mediana potesse cambiare il Paese ma la morsa del regime non si è allentata. L’eterno dramma della democrazia algerina (e forse araba) si condensa in un’ambigua scelta tra un potere opaco e oligarchico da un lato, e la possibilità di cadere nelle mani dell’islam antidemocratico dall’altro. Scegliere la prima parte significa cedere al ricatto di un regime che non concede nulla ma la paura della seconda obnubila ogni ragionamento. Allora sembrò a molti che non ci fosse scelta: molti decisero di tacere le proprie aspirazioni democratiche per non finire in una teocrazia. Altri credevano che fosse possibile mantenere l’islam politico all’interno del quadro di istituzioni democratiche. Il dibattito fu feroce e non è mai cessato.

Oggi la vicina Tunisia ha dato una risposta originale nel senso della coabitazione. Tristemente invece l’Egitto è andato nell’altro senso e in Siria si è ripetuto (in modo molto più sanguinario) l’atroce dilemma. Rimane il sospetto che i due schieramenti si nutrano a vicenda. Ad Algeri si corre ai ripari: il clan al potere ha fatto dimettere il direttore della campagna di Bouteflika (un ex premier) e promesso un mandato abbreviato, segno che l’oligarchia “compra” tempo per trovare una soluzione interna. Ma gli algerini sanno che il rischio è che, ancora una volta, nulla cambi davvero.

Certamente la democrazia è disordine, complessità, compromessi: insomma un rischio. Ma se dopo trent’anni (e tanto sangue comunque versato) l’Algeria si ritrova al punto di partenza, forse è il caso di provare a correrlo.

Lega, il tradimento dell’elettorato trasversale sul Tav

“L’Italia ha bisogno di sì, con i ‘no’ non si va da nessuna parte. Quando mi metto in testa una cosa, e ritengo serva agli italiani, agli imprenditori, agli agricoltori, io vado fino in fondo. #Tav”: i commenti a questo post di Matteo Salvini sono la dimostrazione plastica di come incrementare esponenzialmente i propri consensi fino a raddoppiare nei sondaggi sia tanto galvanizzante quanto insidioso. La stragrande maggioranza degli utenti ha commentato mettendosi di traverso al suo interventismo pro Tav, ricordando al leader leghista che le priorità del governo sono altre e che gli accordi contrattuali erano diversi. Ma soprattutto, dalle osservazioni fatte, si evince come coloro che si sentono chiamati a interloquire con un ministro dell’Interno di cui hanno condiviso alcune scelte e dal quale si sentono in buona parte rappresentati, siano molto più variegati di quanto lo fosse lo storico elettorato di riferimento leghista con cui Salvini è abituato a relazionarsi.

“Caro Matteo, hanno ragione i nostri amici stellati: fare la Tav ‘è una cagata pazzesca’. Staccati da quei buoi forzisti e cammina da solo”, gli fa notare qualcuno. E qualcun altro gli fa presente come “queste stronzate le puoi propinare ai tuoi adepti a prescindere, che non sono la maggioranza dei tuoi potenziali elettori. Questi ultimi ci mettono un attimo a cambiare idea e non votarti più”. E molte ancora sono le voci di protesta che si levano dal Sud: “Prima gli italiani vale anche per il Tav. Al Sud siamo isolati dal resto d’Italia. Abbi un po’ di riconoscenza per i meridionali che, immeritatamente, ti hanno votato”. Bastano queste tre risposte per rendersi conto del paradosso a cui stiamo assistendo. La Lega, così abile a svuotare i Cinque Stelle dal di dentro, a utilizzarli come lifting per rinfrescarsi le fattezze, a nutrirsi di quest’alleanza di governo per potersi riscrivere all’anagrafe sotto il nome di “cambiamento”, si trova a vivere quella che negli ultimi mesi è stata la maledizione pentastellata: l’impossibilità di gestire le diverse istanze di un elettorato profondamente eterogeneo e dall’orientamento politico mutevole, pronto a cambiare orizzonti alle prime decisioni che non lo soddisfino. La nemesi insomma per chi, sulla composizione proteiforme dell’alleato e sulle inevitabili contraddizioni che ne sono progressivamente emerse in questi mesi di governo, ha moltiplicato i propri consensi: chi di consenso trasversale ferisce di consenso trasversale perisce.

La spinta a completare la Grande Opera tra le Grandi Opere vuole essere un ammicco al Nord degli amici di sempre, quelli con cui si brindava alla Padania libera con le ampolle sulle rive del Po, ai quattro governatori al bar con cui si voleva cambiare il mondo, ma poi il mondo è cambiato da solo, e che adesso si sentono tanto trascurati tra redditi di cittadinanza, felpe con i quattro mori e selfie con gli arancini. Il guaio è che nel frattempo quel Sud tanto agognato e in parte concupito, le cui esigenze divergono radicalmente dalle priorità liberiste dei nipotini di Alberto da Giussano, si ribella, e minaccia il Capitano di scaricarlo con la stessa velocità con cui l’ha accolto.

Insomma il post-ideologico è quell’epoca in cui chi si ostina a volere la botte piena, vede la moglie andarsi subito a ubriacare altrove. E infatti il nodo Tav tira fuori anche l’insofferenza di molti elettori per l’altra grande ambivalenza leghista: quell’alleanza sul territorio con Forza Italia, il famoso secondo forno, che mette la Lega in apparente posizione di supremazia sui Cinque Stelle, ma che al primo inciampo diventa motivo di sospetto e di diffidenza in tutto l’elettorato conquistato di recente. È il cambiamento, bellezza. Se vuoi far salire tutti sul carro, ti tocca scendere dal Carroccio.

Il digiuno è necessario per tramutare il deserto esistenziale in giardino

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo”. Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano; e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato (Luca 4,1-13).

Il Vangelo di Luca, nella sua essenzialità, ci introduce nella mentalità e nelle pratiche che debbono orientare la Quaresima: Gesù era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla (…) ed ebbe fame.

L’itinerario liturgico quaresimale è una forte esortazione a seguire sul serio Gesù sulla stessa strada che insieme ci porta verso la mèta: la vita, la Pasqua. Come trasformare il nostro deserto esistenziale in giardino? Quale digiuno scegliere? Chi ci asseconderà nel vivere un’autentica purificazione della nostra coscienza? Da quale preghiera potremo attingere forza e costanza per proseguire poi nella rettitudine, nella fedeltà e nella novità di vita ispirate dalla morte e risurrezione di Gesù?

Non è facile allontanare da noi le tante cose che ci distraggono e riconosciute come causa di oscuramento dei nostri giudizi. Giorno e notte, ci sono messe davanti immagini di ogni tipo. Ovunque siamo bombardati da suonerìe di cellulari, ci frastornano opinioni distorte e racconti di malefatte private e pubbliche. Tanto che situazioni di vita di numerosa povera gente e di migranti stessi non ci commuovono quasi più! Per non tacere delle promesse ingannevoli e di oroscopi che tutti ci illudono sul nostro futuro. Come Gesù, lasciamoci guidare dallo Spirito che farà diventare il nostro deserto nel giardino di Pasqua. Comprenderemo che molte delle esperienze sopraddette non sono portatrici di vita piena e di libertà, ma secondo quanto ci insegna Mosè, sono imposizione di una dura schiavitù (Dt 26,6) alla quale, purtroppo, ci sottoponiamo passivamente.

Gesù pratica un digiuno prolungato finché ebbe fame. Quale fame e quali appetiti ci rendono insaziabili? Digiunare, dice Papa Francesco, è passare dalla tentazione di divorare tutto per saziare la nostra ingordigia, alla capacità di soffrire per amore onde colmare il vuoto del cuore. Da chi vogliamo dipendere? La scelta per un cibo sobrio, appetibile, condiviso, che nasce dalla consapevolezza della risposta di Gesù al diavolo: sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ci prospetta l’umile e antica elemosina.

Per resistere alle più subdole e pericolose forme dell’idolatria (l’avere per se stessi, il potere sugli altri, il dominio religioso delle coscienze), è necessario nutrirsi della Parola di Dio: Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore (Rm 10,8). La nostra fragilità, l’insicurezza del digiuno, la preghiera evangelica, l’aiuto fraterno, l’ostilità del deserto ci aiutano a sperimentare quanto assicura l’apostolo Paolo ai cristiani di Tessalònica: la Parola opera in voi che credete.

 

Auto senza pilota, paese senza governo

Due esperimenti sono in corso, ma sono ancora lontani dal poter dire “ce l’abbiamo fatta”. Il primo (trasporti di nuovo tipo, senza pilota) si svolge sempre più spesso su strade sperimentali, e ogni giorno le prove ricominciano. Ci siamo? Si vedrà. C’è promessa ma c’è pericolo, dunque meglio aspettare. Il secondo è una prova più audace: un Paese senza governo.

Dopo elezioni in cui avevano vinto due parti avverse, che solo insieme formavano maggioranza, l’esperimento è partito subito. Ovvero è partito tutto l’apparato che indica presa di responsabilità e comando, attribuzione di gradi, scelta di funzioni, divisioni di compiti e anche indossare divise speciali, compiere riti para-religiosi (per esempio la tessera del “contributo di cittadinanza” mostrata in una ampolla come il sangue di San Gennaro) e attribuirsi oggi il progetto e domani il successo, senza la necessaria attesa e le opportune verifiche. Ma non è partito niente perché nell’autobus del comando sono in corso liti furibonde su alcune cose che riguardano solo coloro che stanno sull’autobus. C’è una apparenza di contrasto ideologico, per esempio lo scontro sul Tav sembra contrapporre l’idea di espandere e quella di restringere il Paese (ma le due posizioni sono difese con furore da due parti che sostengono l’opposto: la Lega è per le frontiere chiuse e il M5S per mantenere un minimo di rapporto col resto del mondo).

Non occorre più ricordare che la grandiosa maggioranza di governo è composta da due parti opposte che hanno lottato, per vincere, l’una contro l’altra e dove, anche dopo un accordo detto “contratto”, infuriano la bulimia della Lega, che si mangia gli “alleati” Cinque Stelle, e la “sindrome di Stoccolma” dei Cinque Stelle, che, attraverso il ministro delle Infrastrutture Toninelli, ha dato a Salvini il regalo dei “porti chiusi”, successo assoluto della Lega che mostra, come un gigantesco cartellone, chi comanda davvero.

Ma tutto ciò avviene nell’autobus fermo di un governo che non sa, non vede, non comunica, non sta andando da nessuna parte e ignora ciò che accade nel mondo, ma anche nei quartieri abbandonati di un Paese sempre più desolato.

È lo stesso Paese che sembra diviso a morte sulla questione di un breve percorso ad alta velocità. Il Paese non c’entra. Quello che conta è l’ostinata ambizione di ciascuna delle due parti per le promesse fatte in campagna elettorale (la sola realtà che ricordano e in cui vivono) e l’orgoglio con cui ciascuna pretende che la sua promessa vinca sull’altra dell’alleato di governo. È possibile che Casaleggio e Grillo abbiano delle loro ragioni (misteriose come le loro nomine) per essere da una parte o dall’altra della celebre galleria che non aggiunge e non toglie nulla all’Italia. Certo non al popolo grillino, che però è chiamato a fare tifo da curva e a combattere fino all’estremo gli alleati leghisti, di cui ha condiviso in ogni dettaglio la crudeltà verso i naufraghi e l’esonero di Salvini da un processo grave. Ma tutta questa drammatica messa in scena con cavalieri in campo e scontri feroci è roba loro, questione di potere.

Ora sappiamo che l’esperimento “Paese senza governo” non è riuscito, e che un Paese fermo può solo impantanarsi un po’ di più ogni giorno. Se ci fosse un patologo in grado di analizzare la strana malattia di un grande Paese di cultura e industria tra i più sviluppati del mondo improvvisamente isolato e immobile, credo che comincerebbe dal notare il tratto più sorprendente: la ricerca accurata, per quasi ogni nomina (salvo errori inevitabili) di persone del tutto incompetenti di ciò che devono fare. Un secondo tratto che si ripete sempre è lo sdegnoso rifiuto di prepararsi, informarsi, documentarsi su impegni annunciati. La fretta di poter cominciare con la carta del reddito di cittadinanza non riguarda i poveri (che nessuno conosce e nessuno sa come rintracciare tanto che si minacciano punizioni per chi fingerà). Lo spettacolo che sta per aprirsi stringe il cuore perché bisognerà perquisire uno per uno ogni povero che si presenterà a ogni sportello, casomai avesse in tasca un piccolo, faticato risparmio.

Poi c’è la tendenza del non governo a non voltarsi indietro, per sapere che cosa è accaduto dopo le sue grandi innovazioni. Sappiamo niente di quota 100? Sappiamo niente di dove siano finiti gli “stranieri” cacciati in strada da case da “sgombrare” (non Casa Pound) e baraccopoli da distruggere? Qualcuno ha visto una vera tessera del diritto di cittadinanza e sa come funziona, una volta nelle mani del cittadino povero? Il fenomeno è strano, promette male e viene raccontato dai media solo per episodi. Non ci resta che aspettare i prossimi, senza troppa fiducia.