Ora come allora, all’improvviso l’Algeria vacilla. In queste settimane come nell’ottobre del 1988 folle di algerini scendono in piazza e si riversano nelle strade della capitale. È l’inizio di manifestazioni spontanee che si allargano a tutte le più importanti città.
Unica differenza: allora furono più violente mentre oggi –memori dei 150.000 morti degli anni Novanta – gli algerini manifestano pacificamente. Ma gli slogan sono gli stessi e non risparmiano nessun simbolo dello “Stato-Fln”, il Fronte di Liberazione Nazionale al governo dall’indipendenza del 1962. Ora come allora per gli uomini del potere lo choc è pesante: nessuno pensava alla ripresa della protesta popolare, soprattutto dopo il “decennio nero”. Presi alla sprovvista i dirigenti non sanno come reagire e sono tentati dalla forza. Allora fu un vero massacro: per la prima volta l’esercito del popolo, simbolo della lotta per l’indipendenza nazionale, colpiva gente inerme. Si lacerò allora il velo della “diversità algerina”: l’Algeria socialista, democratica e popolare, paese delle importanti mediazioni internazionali e del “non allineamento”, piombava in un clima da guerra civile.
Ora è un’Algeria diversa: più ricca di quella del 1988 ma più disincantata e pragmatica, segnata a fuoco dalla guerra civile contro i salafiti. Anche allora le sommosse furono precedute da scioperi nella zona operaia e petrolifera. Anche oggi si scende in piazza senza aver ricevuto ordini da nessun partito. Ora come allora si grida tutta l’insofferenza per un regime che non cambia e per una crisi economica permanente, malgrado l’immensa ricchezza petrolifera del paese. Una crisi che non lascia futuro ai giovani.
Ora come allora gli slogan sono identici: prendono di mira la hogra, termine algerino intraducibile che significa allo stesso tempo “corruzione-ingiustizia-abuso di potere-arbitrio-umiliazione”. Secondo i manifestanti –ora come allora – è il “potere” a essere il principale autore della hogra. Il tradimento degli ideali della lotta di liberazione fu denunciato all’epoca; oggi si protesta per la mancata democratizzazione. Ora come allora non c’è lavoro, non si può uscire dal paese se non con grosse difficoltà, non c’è libertà, non c’è speranza, la gente si sente abbandonata.
Allora la scintilla fu la crisi economica. Ora è la ripresentazione (per la quinta volta!) del candidato Abdelaziz Bouteflika alle presidenziali, un presidente stimato ma malato, che non si muove quasi più. Tuttavia il blocco di potere non riesce ad accordarsi sul sostituto. Si tratta di una malattia cronica del potere algerino: un regime collettivo in cui non esiste nessuna possibile “discendenza familiare” o di partito. In questo l’Algeria è diversa da altri paesi simili: comanda un gruppo, di radice Fln in cui si è innestata la presenza degli alti gradi militari e, negli ultimi anni, quella di un pugno di oligarchi economici. Un potere condiviso che a ogni passaggio deve ristabilire l’equilibrio interno.
Il fatto che Bouteflika si ricandidi non è l’espressione di un suo potere personale assoluto ma il frutto di una difficoltà ad individuare l’uomo che prenderà il suo posto garantendo a tutto il gruppo gli attuali privilegi. È successo lo stesso a ogni passaggio di leadership: ricostruire la fiducia collettiva attorno a un nuovo capo è impresa ardua. Ma gli algerini sono stanchi, ora come allora. Nell’88 le loro proteste costrinsero il governo all’apertura: il multipartitismo. Una nuova Costituzione fu votata nel ‘89. I salafiti del Fis (fronte islamico di salvezza) ne approfittarono per insinuarsi nella breccia, vincendo le elezioni amministrative (le prime libere) del giugno 1990. La loro offerta politica era semplice quanto immatura: “l’Islam è la soluzione”. Con tale slogan riempirono piazze e urne, attraendo scontenti e disoccupati. Fecero leva sulla corruzione della classe dirigente e la mancanza di libertà. È il classico metodo dei partiti islamici radicali: rappresentare le istanze di giustizia mostrandosi come onesti e incorruttibili, una forma islamica di populismo.
Nel dicembre del 1991 il Fis partecipò al primo turno delle politiche piazzandosi in forte vantaggio: nemmeno i partiti di sinistra, troppo elitari, riuscivano a intercettare il malcontento popolare. Anche in quel caso la sorpresa fu forte: si credeva di poterli contenere. Subito si diffuse nel Paese il timore che al ballottaggio il Fis potesse raggiungere la maggioranza assoluta, cambiare la costituzione e istituire uno stato religioso. Prima del secondo turno il potere reagì con un auto-golpe che costrinse alle dimissioni il presidente Chadli (anche lui un generale). Il Fis fu dissolto, i suoi leader incarcerati, il Paese messo sotto assedio.
Iniziava così il “decennio nero”, la fase della guerra civile, con una brutale polarizzazione dei due campi, violenze diffuse e alla fine il terrorismo. In mezzo il popolo algerino, preso in ostaggio dalla guerra civile che fece – sono cifre ufficiali – 150.000 vittime, probabilmente molte di più. Mentre il Paese piombava nel caos con un susseguirsi di orribili stragi, la parte laica e democratica degli algerini si divise tra chi sosteneva che i militari erano il male minore e chi sosteneva il dialogo con il Fis.
Nel 1995 Sant’Egidio propose a Roma una mediazione tra partiti e islamisti. Il tentativo riuscì a produrre un accordo ma il potere rifiutò e l’Europa restò a guardare: troppo interesse per il gas e il petrolio. In un paese rovinato ed esangue, il regime alla fine richiamò Bouteflika, escluso anni prima. Il presidente ha molti meriti: accordandosi coi militari ristabilì la pace, perdonò gli islamisti e impose una politica di concordia nazionale che non tutti apprezzarono. Molti sperarono che tale via mediana potesse cambiare il Paese ma la morsa del regime non si è allentata. L’eterno dramma della democrazia algerina (e forse araba) si condensa in un’ambigua scelta tra un potere opaco e oligarchico da un lato, e la possibilità di cadere nelle mani dell’islam antidemocratico dall’altro. Scegliere la prima parte significa cedere al ricatto di un regime che non concede nulla ma la paura della seconda obnubila ogni ragionamento. Allora sembrò a molti che non ci fosse scelta: molti decisero di tacere le proprie aspirazioni democratiche per non finire in una teocrazia. Altri credevano che fosse possibile mantenere l’islam politico all’interno del quadro di istituzioni democratiche. Il dibattito fu feroce e non è mai cessato.
Oggi la vicina Tunisia ha dato una risposta originale nel senso della coabitazione. Tristemente invece l’Egitto è andato nell’altro senso e in Siria si è ripetuto (in modo molto più sanguinario) l’atroce dilemma. Rimane il sospetto che i due schieramenti si nutrano a vicenda. Ad Algeri si corre ai ripari: il clan al potere ha fatto dimettere il direttore della campagna di Bouteflika (un ex premier) e promesso un mandato abbreviato, segno che l’oligarchia “compra” tempo per trovare una soluzione interna. Ma gli algerini sanno che il rischio è che, ancora una volta, nulla cambi davvero.
Certamente la democrazia è disordine, complessità, compromessi: insomma un rischio. Ma se dopo trent’anni (e tanto sangue comunque versato) l’Algeria si ritrova al punto di partenza, forse è il caso di provare a correrlo.