Bilanci segreti e strani affari: tutti i misteri del Bambin Gesù

L’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma è un’eccellenza della sanità in termini di prestazioni e di ricerca, ma è assai più difficile dire se lo sia anche per la qualità dell’amministrazione: il fatto che sia di proprietà del Vaticano e operi in territorio italiano genera una serie di opacità che il Fatto ha cercato di dissipare.

I FONDI PUBBLICI. Il Bambino Gesù riceve ogni anno dalle Regioni 192,3 milioni di euro (dato 2018) come corrispettivo per le prestazioni sanitarie a beneficio degli iscritti al servizio sanitario nazionale. Questa è solo una parte del denaro pubblico italiano che finisce al Bambino Gesù del Vaticano. C’è pure un fondo da 50 milioni di euro che lo Stato assegna alla struttura. Perché? La spiegazione è vaga e non argomentata: “Per le riconosciute caratteristiche di specificità ed innovatività dell’assistenza”, recita la legge di Bilancio 2009 che rende perpetuo il fondo. A sua volta, la norma rimanda a una legge del 2004 che stanziava 50 milioni senza troppe spiegazioni.

Per effetto dei tagli lineari del 2010, quei 50 milioni sono poi diventati 43,5. Comunque parecchi, cui si aggiungono 2,7 milioni per le prestazioni a favore di cittadini stranieri dell’Unione Europea o di altri Paesi con cui l’Italia ha accordi e altri 1,3 milioni per i minori stranieri. L’ospedale può ambire, inoltre, a una buona parte dei 9 milioni assegnati nel 2018, ma non ancora ripartiti, per le cliniche sanitarie “anche private accreditate, riconosciute a rilievo nazionale e internazionale per le caratteristiche di specificità e innovatività nell’erogazione di prestazioni pediatriche”. Al conto si sommano anche 1,6 milioni per cinque progetti di “ricerca finalizzata” e 330 mila euro per l’ammodernamento delle attrezzature scientifiche.

I CONTI. Come usa questi soldi il Bambino Gesù? La struttura è presieduta da Mariella Enoc, nominata nel 2015 da papa Francesco dopo le dimissioni di Giuseppe Profiti, che ha ricoperto l’incarico per 7 anni. Jorge Mario Bergoglio aveva confermato Profiti per un altro triennio, ma il manager ha lasciato in anticipo. Era stato anche coinvolto nello scandalo per la ristrutturazione col denaro della Fondazione del Bambino Gesù dell’appartamento in Vaticano dell’ex segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Nel 2017 Profiti è stato condannato a un anno dal Tribunale della Santa Sede per abuso d’ufficio.

Il principale collaboratore di Enoc è Ruggero Parrotto, ex dirigente di Poste, molto vicino all’ex ministro Tiziano Treu, oggi capo del Cnel. Il Fatto ha domandato all’ufficio stampa se l’avvento di Parrotto abbia spinto – come riferiscono fonti interne –l’ospedale a rivolgersi spesso allo studio legale del prof. Treu e per quali cifre. La risposta non ha chiarito il valore delle consulenze, ma ha spiegato che “lo studio ha aiutato l’ospedale nella preparazione di pareri e accordi di collaborazione scientifica internazionale sul tema delle terapie geniche e oncologiche”.

Enoc e Parrotto rispondono alla Santa Sede, nello specifico al segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Al ministero della Salute italiano devono mandare soltanto uno schema sintetico di bilancio per mantenere lo statuto di Ircss (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) e alla Regione Lazio il bilancio completo per la convenzione. Per tutti gli altri, però, il bilancio resta un segreto ben custodito. Da qualche anno, sul sito dell’ente, c’è un “bilancio sociale” ricco di colori e figure, in cui la parte sui conti è più che essenziale: si legge che i ricavi 2017 sono stati 322,2 milioni, i costi 313,4, quindi il margine operativo (Ebitda) è positivo e pari all’8,8 per cento, ma il risultato netto è negativo perché vanno aggiunti al conto “ammortamenti e risultato della gestione finanziaria”, e così si arriva a -10 milioni.

Registrare una perdita aiuta sicuramente a evitare che qualcuno possa chiedere una riduzione dei fondi pubblici all’ospedale. I vertici promettono che “il nuovo percorso virtuoso avviato a partire dal 2015 proseguirà nei prossimi anni nell’ottica di garanzia di veridicità, trasparenza, intellegibilità e comparabilità anche a beneficio di tutti gli interlocutori, nazionali ed internazionali, a supporto dei flussi di finanziamento funzionali all’attività di ricerca e assistenza”.

LE PERDITE. Sulla trasparenza, in effetti, c’è ancora da lavorare. In fase di approvazione del bilancio 2016, il Bambino Gesù ha deciso di cambiare principi contabili. È passato dallo standard Ias, quello più diffuso per i bilanci civilistici, a uno praticamente sconosciuto ai commercialisti italiani: Ipsas, uno standard internazionale usato per le amministrazioni pubbliche. Si potrebbe aprire un dibattito se l’ospedale vaticano sia da considerarsi un’amministrazione pubblica, ma se la vedranno i suoi vertici con il ministero della Salute di Giulia Grillo i cui uffici spiegano al Fatto che “l’ultimo bilancio esaminato applicava i principi Ias”. Eppure la modifica è un po’ strana perché con l’occasione del cambio di principi contabili, il Bambino Gesù ha rivisto a posteriori addirittura i conti del 2015. Secondo quanto hanno rivelato al Fatto fonti interne, quel cambio di criteri contabili ha permesso di ridurre le perdite contabilizzate negli anni 2015-2017 di 55,2 milioni di euro, attingendo a fondi di riserva usati per tamponare il rosso dell’esercizio (8,3 milioni nel 2015, 24,5 nel 2016 e 22,4 nel 2017). “Si tratta di una stima scorretta e priva di fondamento, i nuovi criteri contabili non hanno introdotto alcun beneficio, ma hanno adeguato l’ospedale alle regole di contabilità usate a livello internazionale”, replicano dall’ufficio stampa del Bambino Gesù. A parte che gli Ias precedenti sono criteri contabili molto più utilizzati, anche a livello internazionale, degli Ipsas, resta impossibile verificare quanto l’ospedale afferma perché è impossibile consultare i bilanci. Sul sito non è più disponibile neppure il bilancio sociale 2015, non c’è alcun documento redatto con i vecchi criteri contabili e restano le scarne cifre col metodo Ipsas.

I revisori. L’ospedale ribatte che si tratta di un segno di grande trasparenza vantare un bilancio certificato dalla società di revisione Deloitte, una scelta volontaria e non obbligata dalla legge. La certificazione, però, ha una postilla: “Vale limitatamente alla sottoposizione del bilancio al Consiglio di amministrazione”. Vuol dire che all’esterno del Cda il documento “non vale”? Per l’ufficio stampa “è una frase standard negli incarichi di revisione volontaria”. Resta il fatto che quel bilancio non è consultabile. E che – secondo quanto risulta al Fatto – anche i bilanci precedenti erano certificati, dallo studio di commercialisti romani Ciccioriccio. Sulla base delle fatture che il Fatto ha ottenuto, l’incarico di revisione a Deloitte è costato 41 mila euro per il 2017. Ma non è l’unico rapporto con Deloitte, c’è almeno una seconda fattura di luglio 2018 da 15 mila euro per servizi diversi dalla revisione, cioè “attività di riconciliazione del libro cespiti” (controllare che i beni iscritti a bilancio esistano davvero e abbiano il valore indicato). Un incarico che non configura un conflitto di interessi, ma che indica un rapporto che va oltre la mera certificazione indipendente del bilancio.

Gli immobili. Poi ci sono le strategie immobiliari di cui nel bilancio sociale non c’è traccia. Il 14 giugno 2018 monsignor Mauro Rivella va dal notaio Paride Marini Elisei a firmare un atto di acquisto di una palazzina color ocra, di ampia metratura e da tempo in disuso, di viale di Villa Pamphili a Roma, ai civici 84 e 100. Rivella è il segretario dell’Apsa, l’organismo vaticano che amministra il patrimonio immobiliare, allora affidato al cardinale Domenico Calcagno. Il monsignore va su mandato del Bambino Gesù che ha chiesto all’Apsa di comprare la palazzina e allargare le proprie attività, oltre alle sedi nel centro della capitale di Gianicolo e San Paolo fuori le mura e sulla costa di Palidoro e di Santa Marinella.

Quel complesso immerso nel verde, circondato da alberi dal fusto sottile, di proprietà della Provincia di Roma, era in vendita dal 2011 per 45 milioni di euro. I dirigenti di Bnp Real Estate, il fondo di valorizzazione immobiliare della banca francese, hanno organizzato per anni aste che sono andate deserte, l’ultima nell’autunno 2017. Per Bnp è un sollievo trovarsi di fronte un cliente risoluto e, soprattutto, liquido. Apsa completa l’operazione da 40 milioni di euro (inclusa Iva) con un bonifico finale di 36,7 milioni e consegna la palazzina al Bambino Gesù. Nel contratto di acquisto non si menzionano mediatori o parti terze, ma l’ospedale del Papa, proprio per l’immobile di viale di Villa Pamphili, ha saldato tre fatture a Ad Tesciuba per un totale di circa 1,5 milioni di euro, la cifra non viene confermata o smentita né dal Bambino Gesù né da Elio Tesciuba, azionista di maggioranza, amministratore della piccola società di “consulenza gestionale e pianificazione aziendale” fondata nel febbraio 2018.

Tesciuba è un imprenditore, titolare di numerose aziende, investe nello sviluppo tecnologico sanitario e, una decina di anni fa, ha creato un gruppo che “facilita” i rapporti scientifici tra Italia e Israele. È anche presidente di Progettiamo autonomia robotics, la società che ha inventato “ReWalk”, uno strumento per la riabilitazione motoria che il Bambino Gesù ha utilizzato nel 2015 per una sperimentazione. Che servizio Ad Tesciuba ha fornito all’ospedale vaticano e perché viene scelta? Il Bambino Gesù sostiene che ha coinvolto Ad Tesciuba per fronteggiare una situazione di emergenza e per la “consolidata esperienza nel campo di Elio Tesciuba”: “Si è ritenuto opportuno avvalersi di un supporto consulenziale esterno senza il quale, stante la complessità della procedura, non saremmo riusciti a portare a termine l’acquisto nei tempi necessari. La società Tesciuba ha provveduto, tra le altre cose, alla perizia in ordine alla fattibilità del cambio di destinazione d’uso dell’immobile e all’utilizzo del sottosuolo, all’acquisizione di tutta la documentazione necessaria (verifica della titolarità, rilievi planimetrici, analisi catastale ed urbanistico-edilizia, due diligence tecnico amministrativa, ecc…). Con le sole risorse interne non ce l’avremmo mai fatta”.

Sentito dal Fatto, Tesciuba rivendica con orgoglio il lavoro per il Bambino Gesù e sottolinea la strepitosa efficienza dei tecnici dell’ospedale, ma rivela pure che lui ha segnalato l’immobile alla direzione dell’ospedale tra l’ottobre e il dicembre 2017, perché vicino al Gianicolo, e ha seguito la transazione dal primo giorno all’atto dal notaio. Dopo una rapida riflessione – nel frattempo, per curiosa coincidenza, Tesciuba apre la sua nuova società in febbraio – il 2 e il 23 marzo l’Apsa paga un acconto di 3,3 milioni di euro a Bnl per l’offerta vincolante. Altri tre mesi, e Rivella chiude l’affare. Oggi la palazzina ospita 150 dipendenti e forse entro il 2020 sarà inaugurato il settore sanitario.

Zedda apre a M5S: “Dobbiamo dialogare, la destra mi fa paura”

In Sardegna si alza un’altra voce nel Partito democratico che chiede il confronto con il Movimento Cinque Stelle, quella di Massimo Zedda, sindaco di Cagliari dimissionario dopo la candidatura – e la sconfitta, malgrado il discreto risultato – a presidente della Regione. Zedda, che sarà il leader dell’opposizione di centrosinistra nel nuovo consiglio regionale sardo, lancia un appello ai grillini dell’isola: “A mio parere ci si dovrebbe rivolgere ai gruppi dirigenti del M5S perché mi preoccupa moltissimo per il futuro della Sardegna la vittoria del centrodestra con questa articolazione che non ha al suo interno una presenza forte di elementi moderati, ma una fortissima di elementi di estrema destra”. “Ringrazio chi mi sostiene e chi mi chiede di fare il sindaco – ha aggiunto Zedda – ma questa battaglia contro il centrodestra si deve fare in Consiglio regionale. Siamo pronti a sfidare il centrodestra e io sarò con voi”. Le modalità delle sue dimissioni da sindaco sarà decisa nei prossimi giorni. Se Zedda si dimetterà subito consentirà al Comune di andare a elezioni a maggio, in concomitanza con le europee. Altrimenti lascerà il posto alla reggente, la sua vice Luisa Anna Marras fino alla fine della consiliatura, nel 2021.

“Sta per arrivare un nuovo ’68 ma il Pd parla solo agli anziani”

“Guardi, io e lei siamo due anziani. Possiamo dircelo con più aplomb? Due persone mature”.

È vero, Carlin Petrini, e non mi offendo se lei lo dice. Ma, aplomb o non aplomb, che cosa c’entra con le sorti della sinistra italiana e del Pd?

C’entra, eccome. Io sono contento per le primarie e per il loro risultato, per la vittoria di Nicola Zingaretti che ho votato. Avevo anche capito per tempo che ci sarebbe stata una buona partecipazione. C’è vita a sinistra, lo hanno già ripetuto in tanti: non è nemmeno più originale dirlo. Io sono più prudente e parlo invece di una felice sorpresa. Ma c’è un problema…

Quale?

Le persone mature, appunto. Ho fatto la coda al seggio, ma di giovani ne ho visti pochi. Qui sta la questione: la sinistra in Italia, ma credo anche in molte altre parti d’Europa, non riesce più a intercettare le nuove generazioni. E questo proprio mentre sta accadendo qualcosa di straordinario tra i giovani. Qualcosa che, non voglio esagerare, assomiglia al ‘68, ma forse addirittura con qualche certezza in più, e con uno scenario molto più ampio: l’Europa, le Americhe, l’Africa. Mi ascolti: io giro il mondo, ho le antenne di Slow Food e di Terra Madre: sento che sta accadendo qualcosa di completamente nuovo.

Di che cosa sta parlando? Una visione o cose concrete?

Di Greta Thunberg, la ragazza svedese di 16 anni che chiede al parlamento del suo Paese, a quello europeo e ai grandi della Terra di fare qualcosa per l’ambiente, contro il cambiamento climatico. Venerdì prossimo, il 15 marzo, i giovani si fermeranno in tutto il mondo per il suo “Fridays for future”. Sarà una mobilitazione dai contorni inimmaginabili e durerà nel tempo, si ripeterà: meditate su quei “venerdì” indicati al plurale e sulla parola “futuro” che sta nello slogan.

Quindi Nicola Zingaretti ha fatto bene a dedicare la sua vittoria a Greta?

Ma certo e chi sostiene il contrario è uno sciocco. Però non basta. Il Pd in Italia può svolgere una supplenza politica: intercettare le generazioni che la pensano come Greta. Qui un partito verde non c’è, come accade invece in Germania o in altri Paesi europei dove quella realtà rosicchia consensi alle socialdemocrazie. Il Partito democratico può occupare quello spazio vuoto che brevemente, in un recente passato, è stato accudito dagli stessi Cinquestelle. Però bisogna rendersi conto dell’eccezionalità di questo movimento nuovo che si sta costruendo da solo e dal basso.

Qui in Italia, invece, e soprattutto in Piemonte, si parla molto di Tav. E con tante contraddizioni proprio sui temi ambientali. Non crede?

Io non voglio dire che il problema del Tav sia inutile. Ma deve essere chiaro che è pressoché irrilevante davanti alla questione planetaria che il nuovo protagonismo della Thunberg, e di quelli come lei che aderiranno ai prossimi “Fridays for future“, pone a tutti noi. Insomma, non c’è proporzione: il dramma dei cambiamenti climatici è veramente epocale e non possiamo accettare che la politica non lo affronti.

Qualche consiglio per gli acquisti, a Zingaretti?

Non credo sia difficile. A questi ragazzi non la racconti più spiegandogli di sondaggi, di flussi elettorali, usando i soliti escamotage della politica politicante. Le ho detto prima che questo che sta per capitare è forse ancora più netto di quel ‘68 che io e lei abbiamo vissuto. Noi, allora, pretendevamo di cambiare tutto, ma eravamo confusi, non sapevamo bene che cosa volevamo e dove saremmo finiti. Greta e gli altri, invece, hanno qualcosa di concreto, di già ben definito: cercare di salvare il mondo dalla distruzione provocata dal cambiamento climatico e dall’inquinamento. E quello dei prossimi venerdì non sarà un conflitto generazionale tra di noi e quelli che verranno. Lo è tra noi e quelli che ci sono già, che hanno appena 16 anni come la Thunberg, ma che capiscono più di noi ciò che di disastroso può capitare alla Terra.

Anche Zingaretti è una persona matura come noi due. Non le sembra di chiedergli un po’ troppo?

Intanto ha fatto la sua dedica a Greta e non è una cosa da poco. Poi, vede, c’è la saggezza. Siamo entrambi cuneesi e conosciamo quel vecchio detto del nostro dialetto: “Se i giovani conoscessero, se i vecchi potessero ancora fare…”. Nel momento del passaggio definitivo dall’epoca analogica a quella digitale, dovremmo invece rovesciarlo così: “Se i vecchi conoscessero le novità, se i giovani che le conoscono potessero agire …”: se vuoi fare politica, se vuoi trovare i giovani, devi aggiornarti su quelle piazze che si preparano a difendere il mondo dalla distruzione, capire chi sono i nuovi leader.

Operativamente, che cosa dovrebbe fare Zingaretti?

Stare a fianco di quel movimento, sin da venerdì 15 marzo. Per dire: “Io sono qui”. Una svolta intellettuale: quella che accetta di conoscere le cose che i giovani sanno già, per poter consentire loro di fare qualcosa.

Mi ha colpito che lei indichi il tema dell’ambiente come un terreno contendibile al M5S. Oggi, nel Pd, sono tutti contrari a qualsiasi dialogo con i Cinquestelle. Lei è d’accordo? Vale solo il codice della contesa?

Io capisco che la contingenza del governo giallo-verde generi certe chiusure. Non si può essere aperti a chi ti insulta, a chi crea sistematicamente il clima dell’insulto. Ma il dialogo resta un valore, su alcuni problemi e su alcune posizioni io credo che non solo si debba dialogare, ma che addirittura ci sia il dovere di dialogare. Prendendo anche atto di una situazione: mi sa che per un po’ di tempo, forse lungo, se vorremo tornare a governare, dovremo farlo alleandoci con qualcun altro. Con le nostre sole forze non siamo in condizioni di guidare il Paese: e le scelte possibili non sono molte.

Asilo occupato: sit-in per Appendino dopo le minacce

Centinaia di personedavanti al Palazzo Civico di Torino, uniti dallo slogan: “Forza Chiara, siamo con te, non mollare”. Il riferimento è alla sindaca Chiara Appendino, alla quale i manifestanti hanno voluto dimostrare solidarietà dopo le minacce che la prima cittadina ha ricevuto nei giorni scorsi, a causa dello sgombero dell’asilo occupato di via Alessandria. Anche numerosi nomi noti hanno preso parte al presidio, come il senatore 5S Alberto Airola, il candidato alla presidenza della Regione Piemonte Giorgio Bertola, il vicesindaco Guido Montanari, il presidente della Sala Rossa Francesco Sicari, insieme ai consiglieri comunali della Città metropolitana e delle Circoscrizioni. Era presente anche l’esponente radicale Silvio Viale e il vicepresidente del Comitato diritti umani del Consiglio regionale Gianpiero Leo, e con essi i rappresentanti dell’Associazione per la riqualificazione del quartiere Aurora, dove si trova l’asilo sgomberato. “Sono commossa – ha commentato la sindaca – perché è una dimostrazione di affetto non dovuta e che non mi aspettavo. Noi andiamo avanti ad amministrare la città: il terzo anno del mandato è il momento in cui si iniziano a vedere i frutti del lavoro fatto”.

Cigno o tricolore? Calenda twitta il simbolo

In attesa di misurare finalmente la sua effettiva consistenza elettorale, l’ex ministro Carlo Calenda esiste soprattutto su Twitter. È lì che – attivissimo – pubblica manifesti, lancia movimenti, propone alleanze, organizza cene, intesse trattative. Anche la sua lista “Siamo europei” per ora esiste per lo più su giornali e social network, ma dovrà essere collocata nello scacchiere del centrosinistra zingarettiano per le elezioni di fine maggio. Come, non si sa.

Nel frattempo però Calenda sta lavorando al simbolo. E mostra al popolo – di Twitter, chiaro – i primi bozzetti. Nei modelli presentati il tema è chiaro: sfondo blu e stelle gialle di richiamo alla bandiera Ue, tricolore italiano e nome della lista. I disegni sono così così, le reazioni per lo più negative: una delle bozze somiglia drammaticamente al logo della vecchia lista di Lamberto Dini “Rinnovamento italiano”. Ma il sagace dibattito che si scatena sulla bacheca dell’ex ministro è (in un certo senso) imperdibile.

Calenda, che deve avere molto tempo a disposizione, risponde a tutti. C’è chi contesta i colori, ma l’ex ministro non arretra: “Il blu è europeo. È una foto non un vettoriale”. C’è chi gli dice che i simboli sono proprio brutti, ma Calenda è uomo di sostanza: “Ricordatevi che non deve essere fighetto ma semplice e visibile sulla scheda”. C’è chi piazza la sagoma di un uccello bianco sopra alla bandiera italiana, qui Calenda si esalta: “Con il cigno. Perfetto!”. C’è chi gli contesta – ed è il giornalista di Repubblica Luca Bottura – che il tricolore è ribaltato e sembra la bandiera ungherese, Calenda incassa: “Era un invito subliminale ai sovranisti”.

Su quest’ultima osservazione però si crea una profonda spaccatura nell’auditorio calendiano. Un confronto che va avanti per decine e decine di messaggi, con toni anche piuttosto gravi. Alcuni sono convinti che il verde vada invertito col rosso, altri che il tricolore sia corretto così: “Lo vede anche un cretino che non è una bandiera appesa dall’alto”, “No, va bene. è verticale e sventola, per questo non è diritta”, “Dove sta scritto che le 3 bande possono stare in orizzontale? Nella Costituzione non c’è niente”. Bottura è implacabile, serissimo: “Sta scritto nel regolamento ufficiale sull’esposizione della bandiera”. Un altro utente si inalbera: “A Bottù.. Ecchecazzo! Dipende dal verso che lo vedi.. Se vai da sinistra a destra il verso è giusto”. Il giornalista è definitivo: “La bandiera va esposta col verde sopra. Poi se vi piace così, sticazzi. Segnalo che Calenda, che aveva chiesto commenti, mi ha dato ragione. Abbracci”.

Si potrebbe rimanere persi in questa ipnotica discussione per ore, senza annoiarsi mai, ma si deve andare oltre. Qualcun altro segnala una questione interessante: Calenda – che si è iscritto al Pd il giorno dopo le elezioni per poi chiederne lo scioglimento il giorno dopo ancora – ha appena fatto da scrutatore alle primarie ma lancia una lista tutta sua. Il nostro ha ancora la risposta pronta: “Si tratta di simboli per lista unitaria da aggiungere agli altri, non di fondazione di partito indipendente. Non sia mai”. Non sia mai.

Sognando Bruxelles tra crediti, palloncini e primarie da 3 turni

Come risarcimento agli aspiranti candidati che dalla mattina sentono parlare di Horizon2020, di procedimenti legislativi, di changemakers e dell’immancabile blockchain, alle 7 della sera arriva un po’ di relax. O almeno così doveva essere. Gianluigi Paragone, ormai mattatore indiscusso delle kermesse 5 Stelle, sale sul palco mettendo per terra un maglione alla sua destra e uno zaino alla sua sinistra. Schiarisce la voce e comincia a simulare una partita di calcio tra ragazzini. C’è la porta improvvisata, le prevedibili discussioni sui tiri immaginari che non si capisce se sono goal o no (“Alto!”, “No, è dentro”, “No, è all’incrocio dei pali”) e perfino l’arrivo del “Giacomone” di turno, il ripetente grande e grosso che col suo verdetto decide l’esito della partita e tutti stanno zitti. Paragone fa sorridere, la platea ha i telefonini in mano e riprende lo spettacolo. Finalmente, dicevamo, un po’ di relax.

Ma tempo qualche minuto e “Giacomone” si trasforma nel gigante del web a cui stiamo consegnando i dati delle nostre vite, la partita di calcetto senza regole diventa la metafora del mondo digitale senza regole, a Paragone scappa pure una mezza paternale sull’homo videns di sartoriana memoria che, nella versione aggiornata dal senatore M5S, è colui che immortala tutto e non capisce niente. Il relax se n’è andato a farsi benedire, i telefonini alzati pure.

D’altronde, il Villaggio Rousseau che ha aperto ieri a Milano è una scuola per gli aspiranti candidati del Movimento alle elezioni europee. E i seminari sono “crediti formativi” che servono ad aumentare le possibilità di finire nella lista che li porterà a Strasburgo e a Bruxelles: un po’ di fatica (e di paura) si può pure sopportare.

Davide Casaleggio, anima della due giorni milanese, lo sa e al solito si concede poco: un rapido saluto all’inizio, un intervento sulla Rousseau Open Academy e molto tempo passato chiuso nella saletta “Montanelli”, adibita a suo ufficio volante e scortata da due bodyguard di nero vestiti davanti alla porta.

C’è tanta gente venuta qui per trovare il suo posto al sole. E così per accedere alla prova del 26 maggio stavolta hanno messo dei paletti veri. O almeno questo è il senso delle nuove, rigidissime, regole che porteranno alla scelta dei candidati europei.

Delle origini è rimasto l’elogio del sogno, qui rappresentato dai palloncini che, nella narrazione dei Casaleggio, sono da sempre il simbolo della collaborazione e dell’aiuto reciproco. Attaccati al filo ci sono piccoli biglietti lasciati da chi è passato di lì. C’è chi chiede “Più Movimento e meno partito”, chi invita a “credere nel futuro ma arrendersi davanti all’evidenza”, chi si augura “che non sia un sogno al vento”, chi è certo: “La felicità è sempre più vicina”, chi avverte: “Vi teniamo d’occhio”.

Ma il futuro, almeno quello prossimo, è fatto più che altro di primarie a triplo turno che ancora non si sa bene quando cominceranno. Il primo scoglio sarà il voto su base regionale; i primi dieci saranno ammessi al secondo turno, in cui voteranno tutti gli iscritti della circoscrizione; poi se il capo politico cambia il capolista è previsto un terzo passaggio per ratificare la scelta. La novità di questa consultazione, infatti, è che Luigi Di Maio potrà decidere di mettere ai vertici della lista non necessariamente il più votato dalla base, ma o uno con meno consensi o addirittura un esterno che non è passato dalle prime due fasi della selezione.

Spiega Eugenio Casalino, solo omonimo del più famoso Rocco, ex consigliere regionale in Lombardia e ora tra i papabili per Bruxelles: “Siamo passati dal modello artigianale delle graticole ad uno molto più strutturato, che valorizza non soltanto il curriculum dei candidati ma anche il loro attivismo: la partecipazione a Rousseau, il volontariato in questi ‘villaggi’, le esperienze amministrative garantiranno posizioni più alte sia nella lista dei candidati messa al voto degli iscritti, sia in quella elettorale. Insomma, quello che si presenta alle elezioni non è più uno squadrone all’arrembaggio ma un gruppo molto più ordinato”.

Un discorso più o meno condiviso anche da chi tenta il secondo mandato in Europa, come la parlamentare Ue uscente Eleonora Evi, convinta che questo “bis” potrà essere decisamente più proficuo visto che adesso si sta lavorando per costruire un gruppo “più coeso” insieme alle altre formazioni europee che “aderiranno al manifesto in 10 punti che abbiamo proposto”. E pazienza se di mezzo c’è anche l’estrema destra polacca e se i greci difficilmente supereranno la soglia del 4 per cento. Direbbe Paragone: per adesso all’homo videns, che in questo caso è Luigi Di Maio, bastano le foto.

Meloni: “Mi candido per unire il Ppe con i populisti e la Le Pen”

Giorgia Melonisi allinea a B. e Salvini: per le prossime elezioni europee, il suo obiettivo sarà “un’alleanza che va dai popolari ai populisti passando per i conservatori”.

Lo dichiara all’Intervista di Maria Latella su SkyTg24, aggiungendo che sta lavorando al progetto di un nuovo centrodestra unito: “Dobbiamo riuscire a costruire una maggioranza diversa, che va dal Partito popolare europeo – che necessariamente dovrà spostarsi più a destra – ai conservatori e gruppo che fa riferimento a Matteo Salvini e a Marine Le Pen”.

La presidente di FdI si dichiara anche disponibile a candidarsi, se il partito lo richiede: “Lo faccio volentieri. Io sono un soldato, mi metto disposizione, anche in tutti i collegi”. E Berlusconi? “Non è un pupazzo nelle nostre mani, ma Forza Italia ha dei problemi, che nonostante siano gestibili a livello locale si acuiscono per la campagna delle Europee. Berlusconi dice che non voterà l’epurazione di Orban, ma fanno sempre quello che vogliono quelli del Ppe. L’Europa è l’argomento più divisivo tra di noi”.

“No, non ci sarà la crisi: Matteo deve mangiarsi B. e cambiare la Lega”

“Matteo Salvini è molto più bravo di me, su questo non ci sono dubbi”.

In molti lo pensano, non soltanto Bobo Maroni.

Ed essendo molto più bravo realizzerà il sogno di Umberto Bossi: tenere a battesimo il partito egemone che copra e inglobi tutta l’area di centrodestra. Lui sarà lo speaker dei sovranisti italiani e quella cosa lì nascerà a maggio.

Quindi figuriamoci se pensa alla crisi di governo.

Per tornare da Silvio Berlusconi?

Dalla padella alla brace.

Finché c’è Silvio ed esiste Forza Italia lui starà alla larga. Figurarsi se si inguaia la vita mettendosi a fare accordi e a negoziare seggi col centrodestra. Con Salvini non esiste più né il centro né la destra. Soltanto, come detto, un’area sovranista che raccolga (in ordine sparso) la moltitudine. E proprio domani ne avremo una conferma.

Domani?

Il Consiglio federale della Lega, a quel che so, deciderà il commissariamento di tutte le sue strutture federali del partito. Bisogna preparare la rivoluzione, bisognerà cambiare da cima a fondo.

Cambieranno anche il nome?

Non mi stupirei di vedere sulla scheda elettorale per le Europee un nome nuovo, anche se non mi sembra per il momento attuale la questione. Salvini ha comunque già cambiato i colori, da verde a blu senza tumulti di piazza.

Lei è ancora iscritto alla Lega?

Altroché!

Ma non è mai stato amico di Salvini.

Gli ho appena fatto gli auguri per il compleanno. Rapporti altalenanti ma corretti, come sempre.

Maroni è sembrato quasi fuggire dalla politica. Ha lasciato la Lombardia, dov’era governatore, e si è dato agli affari.

Bisogna saper cambiare aria quando viene il tempo. Trent’anni di politica, con le responsabilità che mi sono preso, devono bastare.

Altrimenti si fa la fine di Formigoni.

Lì è l’ego che ti fa schiantare contro il muro.

Anche il suo ego non era male.

L’ho tenuto sotto controllo.

Formigoni si è fregato da solo.

Ho fatto costituire parte civile la Lombardia. Vengono prima le istituzioni, poi le amicizie. Naturalmente mi spiace del carcere.

A proposito di amicizie: dei 49 milioni di euro che la Lega deve allo Stato lei ne sa qualcosa? È stato segretario dopo Bossi e prima di Salvini, qualche soldino l’avrà visto passare.

In quel processo per mia decisione la Lega si era costituita parte civile. Bisognava tutelarla. Salvini ha revocato la costituzione e la Lega è stata condannata. Ha compiuto un atto di riguardo verso il fondatore, ma la scelta non è stata coronata dal successo.

Lei voleva fare il partito del nord, per ora fa i fatti suoi.

Sono avvocato, curo gli interessi e le relazioni di alcune aziende.


Public relations man. Come Blair!

Il paragone mi onora.

E del partito del nord che ne è?

Il nord sta soffrendo questo governo: non gli piace, non gli dà risposta. Al nord sono pragmatici e gli imprenditori sono abituati a votare per convenienza. Io sento che non gli sta convenendo più tanto tifare Lega. Avverto insoddisfazione profonda perché la flat tax è una cosuccia inguardabile. Il Tav non si fa, le bretelle stradali pedemontane sono bloccate. E langue la concretizzazione dell’autonomia.

Il nord sbotta.

Il nord scappa se Salvini non comprende che delle risposte sono urgenti. L’autonomia deve portarla a casa. Io firmai insieme a Zaia e a Bonaccini (presidenti di Veneto ed Emilia Romagna, ndr) l’intesa con il precedente governo. Noi dobbiamo essere padroni a casa nostra.

Ma Salvini ha nazionalizzato la Lega: meno Padania, più Lucania.

Infatti.

I sondaggi sono con lui.

Oggi i voti spariscono in cielo come le nuvole quando c’è tramontana. Li vede i 5S? Dodici mesi fa avevano la pancia piena. E adesso? Zac! Dimagriti da far spavento.

Viva la Padania.

Chi produce ricchezza ha diritto di beneficiarne. L’accordo è chiaro, si firmò un contratto con Gentiloni e devono rispettarlo.

Quindi Salvini fa bene a non far cadere il governo.

Certo, perché non vorrà mai accordarsi con Berlusconi.

Siamo di nuovo alla padella e alla brace. Quale delle due?

Per adesso la padella.

Ancora per qualche mese.

Irrobustire le gambe, dare sostegno, slancio ed energie nuove al grande progetto sovranista.

Lei che fa, lo spettatore?

Sono solo consigliere comunale di Varese. Da qui partii e qui sono ritornato.

Compleanno senza regalo: Salvini cede la mano sul Tav

Il momento migliore della giornata è quando Franco Baresi, l’unico che secondo Matteo Salvini può fregiarsi del titolo di Capitano, gli regala la maglia del Milan numero 6. Siamo all’Hotel Principe di Savoia di Milano, ora di pranzo, dove il ministro dell’Interno è l’ospite d’onore della festa per il suo 46esimo compleanno con 250 persone organizzata dall’associazione Amici della lirica e dalla sua presidente, Daniela Javarone. Che a un certo punto lo chiama sul palco: “Ora Matteo ci chiarirà due questioni importanti: il Tav e l’autonomia regionale…”. “Qualcosa di più semplice…?”, risponde Salvini con un sorriso appena abbozzato.

Per il leader della Lega è una giornata positiva a metà, perché sull’alta velocità, con lo slittamento dei bandi, è la Lega ad aver fatto un passo indietro rispetto ai 5 Stelle. “Nessuno vince o perde, siamo al governo perché vincano gli italiani”, commenta a festa finita il leader leghista, masticando un po’ amaro. Avrebbe preferito una soluzione diversa, ma sul Tav stava per saltare il governo e questo, dice, non era possibile. “Non c’è nessuna crisi in vista, agli italiani regaliamo 5 anni di governo, ci sono cose troppo importanti da fare”. E poi sull’opera: “Io sono disponibile a tutto. Nel contratto si parla di revisione, si può cambiare e modificare, ma io resto convinto che si debba fare per collegarci col resto d’Europa”.

Chi ci ha parlato lo descrive tranquillo, sollevato. Per il leghista l’importante era superare l’impasse e consentire all’esecutivo di andare avanti, così da portare a casa titoli importanti come legittima difesa e quota cento, per andare alle Europee con più fieno in cascina. Anche lui è consapevole che la soluzione trovata è un mezzo pasticcio, un posticipare il problema a medio termine (6 mesi) e che sull’argomento le differenze coi 5 Stelle restano tutte. “Noi siamo per le grandi opere, loro per sistemare l’esistente. Approcci diversi che per ora possono convivere”, fa sapere una fonte leghista.

Ma sul Tav vale anche un altro discorso. Secondo Salvini, alla luce delle chiacchierate fatte con i dirigenti che gli raccontano cosa si muove al Nord, l’importanza dell’opera è molto sentita in Piemonte. Nelle altre regioni lascia indifferenti. E non susciterebbe nell’elettorato leghista una rivolta, anche nelle urne, come invece accadrebbe con un aumento di 3 punti dell’Iva. “I nostri elettori ci verrebbero a prendere a casa con i forconi”, dicono dal partito padano.

Da qui la decisione di abbozzare sul Tav. A dover essere scongelato ora però è il rapporto con Di Maio, mai così freddo dalla nascita dell’esecutivo. Ma almeno nel giorno del compleanno è arrivata una tregua: il leader dei Cinque Stelle non ha dimenticato di fargli gli auguri. Per Salvini sono arrivati anche quelli telefonici, molto graditi, da parte di Giuseppe Conte. E quelli rituali di Silvio Berlusconi.

Trump avverte l’Italia: “Non appoggi Pechino sulle infrastrutture”

Com’era prevedibilea Washington non hanno gradito l’annuncio di Giuseppe Conte, secondo cui – durante la visita a Roma del presidente Xi Jinping di fine mese – Italia e Cina firmeranno “un accordo quadro” sul progetto della cosiddetta “nuova Via della Seta”: “È un importante progetto di connettività infrastrutturale che propone una grande disponibilità da parte della Cina a coltivare lo scambio commerciale e a proporsi come attore globale in campo economico e commerciale”, ha detto il premier venerdì. Ovviamente, qualunque ampliamento della zona di influenza di Pechino è vista con sospetto dagli Stati Uniti, specialmente se riguarda un Paese Nato. E infatti puntualmente ieri è arrivato “l’avvertimento” da parte di Donald Trump, via Twitter secondo lo stile della casa: “L’Italia è un’importante economia globale e una grande destinazione per gli investimenti. Non c’è bisogno che il governo italiano dia legittimità al progetto di vanità cinese per le infrastrutture”, ha scritto Garret Marquis, assistente speciale del presidente Usa e portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale.