I pasdaran del buco sbroccano: Tajani, Chiamparino e gli altri

La Letteradi Conte a Telt che ha bloccato a metà i bandi per il Tav ha scontentato assai i fautori dell’opera. Il governatore del Piemonte, Sergio Chiamparino (Pd), parla di “una roba da Repubblica delle banane”: “Se i bandi non partono senza se e senza ma, il governo vada in Parlamento e si assuma le sue responsabilità. Se non è in grado di farlo, se ne vada a casa”. Pro-tunnel anche il segretario del partito Nicola Zingaretti: “Sulla Tav un pasticcio indecente e un danno immenso alla credibilità dell’Italia. Così si distrugge la fiducia”. Fuori dalla grazia di dio anche Forza Italia: “Oltre la codardia c’è solo l’indecenza: il premier Conte ne è la incarnazione – infierisce Giorgio Mulè, portavoce dei gruppi parlamentari – Conte parli la lingua della chiarezza piuttosto che rifugiarsi in uno squallido discorso indegno del suo ruolo”. Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, pensa già al referendum: “Raccoglieremo le firme: la Tav è un’infrastruttura necessaria. Il governo ha deciso di non decidere e non decidere significa isolare il nostro Paese e perdere centinaia di milioni di euro e lavoro”.

Conte: “Ho scritto già a Francia e Ue, i dati sono chiari”

“Sono un po’ stanchino, direttore, non mi faccia lavorare ancora…”. È la serata di ieri, quando chiamiamo Giuseppe Conte. E lo troviamo piuttosto provato: pare che abbia dormito pochino, nelle ultime tre notti. Ma insistiamo per avere qualche chiarimento e precisazione. Soprattutto sulla coda velenosa del suo post di ieri su Facebook che accompagna lo scambio di lettere con Telt (la società italo-francese aspirante costruttrice del Tav): quella sulle “pressioni” di “gruppi di potere” e “comitati d’affari”.

Si riferiva a qualcosa o a qualcuno in particolare?

Quel mio riferimento a pressioni di comitati d’affari e gruppi di potere non si riferiva a nessun episodio specifico, anche se capisco che – senza che io lo volessi – possa aver destato qualche curiosità. Ho voluto solo ribadire con forza la correttezza e il rigore del metodo che ho seguito in questa come in tutte le altre mie scelte di governo. Io, quando decido, mi isolo da tutto e da tutti per non farmi condizionare. Quindi no, nessuna cordata imprenditoriale è venuta a farmi pressioni. Ma chiunque volesse sollecitarmi qualcosa deve sapere verrebbe respinto con perdite.

Cosa la soddisfa di più, nell’accordo con Telt sui bandi del Tav, oltre all’avere spento per ora i fuochi di crisi del suo governo?

Mi ha molto soddisfatto la risposta di Telt, che conferma come si possano avviare le dichiarazioni di interesse senza far partire i bandi di gara per alcuni mesi, senza il rischio di penali o di altri oneri per lo Stato e senza perdere gli eventuali finanziamenti europei, che servirebbero solo se l’opera andasse avanti. Ora viene il difficile: convincere Francia e Commissione Ue delle nostre buone ragioni illustrate dall’analisi costi-benefici, che indica una perdita di 7-8 miliardi per tutti e tre, non solo per l’Italia.

Ha già preso contatti con le controparti?

Sì, ne parlerò quanto prima con il presidente della Commissione Juncker e col presidente francese Macron. Stamane (ieri, ndr), mentre scrivevo a Telt, ho avvertito di questa interlocuzione sia Juncker sia Macron trasmettendo la lettera a Telt e chiedendo di incontrarli per avviare un processo decisionale condiviso. Che sarà complicato, ma che sono fiducioso di portare a buon fine. L’impresa appariva ancor più difficile quando incombeva la procedura d’infrazione Ue, e ce l’abbiamo fatta a sventarla. Perciò sono ottimista anche sul Tav. Macron lo vedrò già al prossimo Consiglio europeo (fissato il 21 e 22 marzo, ndr).

Lei è sempre stato No Tav?

Niente affatto. Prima di prendere in mano il dossier Tav, davvero non avevo alcuna opinione in materia, anche se per miei studi e formazione sono un grande appassionato di blue economy, e voglio dare come premier una spinta forte all’economia circolare, alla decarbonizzazione e a modelli più avanzati di sviluppo anche in tema di trasporti: noi governanti dobbiamo essere custodi del pianeta, non dispersori di risorse. Ma sul Tav non avevo studiato nulla e dunque non ero né pro né contro. Anzi, a furia di sentir dire che il Tav era in pieno corso, che gli scavi erano in stadio avanzato, iniziavo a pensare che tanto valesse completare l’ultimo tratto mancante. Ho anche ricevuto una nutrita delegazione di imprenditori e amministratori pro Tav. E li ho ascoltati senza pregiudizi. Poi, cominciando a studiare, mi son reso conto che i bandi dell’opera vera e propria non erano neppure partiti. E ho iniziato a dubitare della sua utilità, tanto più che deve ancora iniziare.

È stata l’analisi costi-benefici di Ponti & C. a convincerla?

Le dico di più: non mi è bastata neppure quella. Così ho chiamato Di Maio, Salvini e Toninelli a Palazzo Chigi, con i tecnici dell’analisi del Mit e quelli contrari della Lega. E mi son portato dei miei esperti, per essere il più informato e imparziale possibile. Ho iniziato il vertice da agnostico e ho assistito allo stress test che l’analisi del governo subiva da Salvini e dai suoi. Se non avesse retto, avrei detto sì a Salvini e no a Di Maio, anche se sapevo che avrei messo in grave difficoltà i 5Stelle. Ma io ho l’obbligo di decidere ciò che è meglio per gli italiani, non per i 5Stelle.

E poi cosa è successo?

Alla fine l’analisi ha retto bene allo stress test. E allora ho avvertito tutti i presenti che nessuno deve permettersi di dirmi: l’analisi regge, ma la buttiamo nel cestino perchè l’opera va fatta lo stesso senza discuterne. Ma come: abbiamo parlato per cinque mesi agli italiani dell’analisi costi-benefici e poi la cestiniamo? Sarebbe una presa in giro e io non sono un pagliaccio. Ecco il metodo: finchè ci sarò io a Palazzo Chigi, non permetterò a nessuno di deviare le mie decisioni per ragioni di parte, ideologiche o affaristiche. È l’unico metodo che può garantire i soldi e gli interessi dei cittadini italiani.

Il M5S rifiata: “Teniamo” e Di Maio attacca Salvini

All’ora di pranzo, nella pancia di un albergo nel centro di Milano colmo di banchetti, un nugolo di Cinque Stelle si blocca. Incollano tutti gli occhi agli smartphone, perché piovono le agenzie sulle lettere tra Conte e Telt, e il post della sottosegretaria Laura Castelli che celebra “il rinvio di sei mesi dei bandi” per il Tav. Pochi attimi, una girandola di sguardi, poi il capogruppo Stefano Patanuelli parla con una voce che racconta la fatica: “Va bene, così il gruppo terrà”.

Ed è il verbo che riassume tutto per il Movimento, tenere. Il senso che risuona anche dentro il Villaggio Rousseau, la due giorni di incontri e “laboratori” nel nome della piattaforma dei Casaleggio, il cuore web dei 5Stelle, insomma una vetrina. Ma le notizie di scampato pericolo dalla Roma dei Palazzi avvolgono tutto. E nell’hotel il convitato di pietra è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’avvocato che si è studiato norme e cavilli e poi ha scritto a Telt. Con una prima versione, quella pubblicata sul sito del Sole 24Ore, che prevedeva l’avvio di bandi con la clausola della revoca entro sei mesi.

Ma la bozza piaceva molto a Matteo Salvini e per nulla a Luigi Di Maio. E allora è stata cestinata, e sostituita dalla lettera che ieri ha messo una toppa alla voragine. Un pannicello caldo che comunque sposta più lontano la notte, ovvero la fine del governo e l’esplosione del M5S. E non avrebbe potuto evitarla neppure il capo politico Di Maio, che invece ora rivendica “il grande successo, perché è stato rispettato il contratto di governo”. E sono sillabe da derby con Salvini, da capo che si rivolge al ministro dell’Interno come a un discolo che la stava facendo grossa: “Questo Paese ha bisogno di un po’ di tranquillità, dire ‘vediamo chi ha la testa più dura’ è folclore, non è quello che ci chiedono gli italiani”. Ed è lo specchio del gelo con Salvini, con cui il capo del Movimento non si sente da giorni. Tra loro è tregua, armata. Ma intanto Di Maio ha potuto respirare assieme ai fedelissimi con cui si era trincerato a Roma. Come la torinese Castelli, entrata in Parlamento da No Tav e destinata dal capo alle trattative con Telt, da tempo. E con un altro sottosegretario Stefano Buffagni, che venerdì aveva evocato i fantasmi, parlando di “crisi già aperta”. Ma che nel frattempo spingeva per la mediazione con il via libera alle manifestazione di interesse, e poi si vedrà. E alla fine l’esecutivo è rimasto in piedi. Come il M5S. Almeno in Parlamento, perché da Torino arrivano scricchiolii. Non a caso Conte venerdì mattina aveva telefonato alla sindaca Chiara Appendino, per illustrarle il possibile punto di caduta, e capire se lei e i consiglieri comunali lo ritenessero potabile. Ed era arrivato un sì. Però ora dal Comune giungono segnali plumbei. Perché è vero, la capogruppo Valentina Sganga vede il bicchiere mezzo pieno: “La formula tecnica trovata è una via per arrivare a quello che chiedevamo, cioè lo stop ai bandi. Avremmo preferito che le manifestazioni d’interesse non fossero pubblicate, e vigileremo”.

Però tre consiglieri, Maura Paoli, Damiano Carretto e Daniela Albano, non si fidano. E fanno sapere di voler “analizzare la scelta mediante un confronto con i componenti della commissione tecnica sull’opera e con il movimento No Tav”. Mentre un veterano come il senatore Alberto Airola rimane freddo: “I lavori sono stati bloccati, però avremmo potuto osare di più con la Lega”. Invece da Milano una big come Paola Taverna apprezza, e morde: “Il rinvio era il massimo che si potesse ottenere. E se la Lega vuole fare il Tav, se lo faccia con Berlusconi”. Poi c’è lui, il presidente della Camera Roberto Fico, che anche ieri aveva ricordato come il no alla Torino-Lione fosse identitario per il M5S. In serata però con i suoi ha definito la mediazione di Conte “un buon risultato”. Con praticità.

Tav, Lega e 5Stelle si prendono 6 mesi per capire che fare

Il braccio di ferro interno al governo sulle gare Tav, con la Lega favorevole e i Cinquestelle contrari, è stato – per ora – risolto così: lunedì non partiranno le gare d’appalto con i capitolati, ma sarà avviata soltanto una prima fase di invito alle imprese a presentare candidature. Senza impegni di spesa per lo Stato italiano, che intanto aprirà una trattativa con la Francia e con l’Unione europea.

Ad annunciare questa soluzione è stato ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Ho inviato una lettera alla Telt, società incaricata della realizzazione della Torino-Lione, invitandola ad astenersi, con effetti immediati, da qualsiasi ulteriore attività che possa produrre ulteriori vincoli giuridici ed economici per lo Stato italiano con riguardo ai bandi di gara”. Senza perdere, però, “i finanziamenti europei già stanziati”. Cioè almeno 300 degli 800 milioni che l’Unione europea si dice pronta a mettere a disposizione in questa fase per la Torino-Lione.

Nel frattempo, annuncia Conte, si inizierà a “ridiscutere integralmente questo progetto”, interloquendo “con la Francia e con l’Unione europea alla luce delle più recenti analisi costi-benefici da noi acquisite”.

Nella lettera al presidente di Telt, Hubert du Mesnil, e al direttore generale, Mario Virano, Conte scrive: “Vi invito ad astenervi, con effetti immediati, da ogni ulteriore azione che possa produrre, a carico dello Stato italiano, vincoli giuridici di sorta. In particolare, Vi invito a soprassedere dalla comunicazione dei capitolati di gara, al fine di evitare che soggetti terzi possano formulare offerte per la realizzazione dell’opera, condizionando, per tale via, le libere, definitive determinazioni che il mio governo si riserva di assumere nel prossimo futuro”. Insomma: niente “impegni di spesa gravanti sull’erario italiano”, ma anche niente rischi di perdere “gli stanziamenti finanziari posti a disposizione dall’Unione europea”.

Telt risponde a stretto giro, con una lettera inviata a Conte, al primo ministro francese Edouard Philippe e ai ministri dei Trasporti dei due Paesi, Danilo Toninelli ed Elisabeth Borne: “Abbiamo previsto che il Consiglio d’amministrazione fissato per l’11 marzo 2019 autorizzi la Direzione a pubblicare gli avis de marchés (inviti a presentare candidatura) relativamente agli interventi dei lotti francesi del tunnel di base”. Valgono 2,3 miliardi di euro, una bella fetta del costo totale, 9,63 miliardi.

“La società Telt”, dice il presidente Conte, “mi ha confermato che i capitolati di gara non partiranno senza l’avallo del mio governo e del governo francese e che, al momento, si limiteranno esclusivamente a svolgere mere attività preliminari, senza alcun impegno per il nostro Stato”.

Nella lettera di Telt c’è però una riga velenosa. Dopo aver fatto riferimento a due lettere inviate dalla società ai due ministri dei Trasporti il 18 dicembre 2018 e il 21 febbraio 2019, Virano e du Mesnil scrivono: “A nome del Consiglio d’amministrazione, confermiamo quanto già proposto nelle lettere summenzionate”. “Confermiamo”: cioè facciamo ora quello che già avevamo proposto di fare fin dal dicembre scorso. Così contraddicono Conte, che rivendica invece di aver cambiato lo scenario, imponendo una prima fase, la richiesta di manifestazione d’interesse, senza gara d’appalto, che una volta partita è difficile da fermare ed è ora rinviata a una seconda fase.

I punti “confermati”, secondo Telt, sono due: uno, “avvio della prima fase di candidatura (invito alle imprese a presentare candidature) sottoponendo la successiva fase di trasmissione dei capitolati per la presentazione delle offerte al preventivo avallo dei due governi”; e, due, “inserimento nei suddetti inviti dell’esplicito riferimento alla facoltà per la Stazione appaltante in qualunque momento di non dare seguito alla procedura, senza che ciò generi oneri per la stazione appaltante, né per gli Stati”.

Fin qui i fautori del Tav sostenevano che il lancio delle gare era comunque revocabile, in forza del codice francese degli appalti. Autorevoli giuristi rispondevano che il rischio di contenziosi era invece altissimo: “I motivi che farebbero venir meno i contratti nei confronti dei terzi, in caso di stop unilaterale”, scriveva la Commissione tecnica Torino-Lione al sindaco di Torino Chiara Appendino, “potrebbero non integrare il contenuto di un nuovo motivo di interesse generale (ai sensi del diritto francese) bensì un fatto illecito idoneo a dar luogo a pretese risarcitorie nei confronti del Promotore e, in via di rivalsa, nei confronti dello Stato italiano”.

Ora la clausola della gara “senza seguito” (cioè revocabile), su richiesta di Conte viene scritta chiara fin nei bandi. Resta comunque un margine di pericolo: “È una clausola giuridicamente difficile da far valere”, sostiene il professor Sergio Foa, docente di Diritto amministrativo all’Università di Torino, “che può scattare solo se ci sono sopravvenienze di interesse pubblico non prevedibili al momento della pubblicazione del bando, oppure per cause di forza maggiore”. Domani il consiglio d’ amministrazione di Telt lancerà i bandi. Conte avvierà trattative con Emmanuel Macron e Jean-Claude Juncker. Tra sei mesi, passate le elezioni europee, si tireranno le conclusioni di questa vicenda.

Il Bando del Buco

La partita del Tav non è affatto finita, anzi è appena cominciata. Ma l’analisi costi-benefici degli equilibri giallo-verdi segna, almeno per oggi, bel tempo per i 5Stelle e nuvole sparse sulla Lega. È bastato che Di Maio&C. evocassero per la prima volta la crisi di governo e Salvini è subito tornato a cuccia, retrocedendo dal tonitruante “nessuno stop ai bandi” dell’altroieri al “farò di tutto perchè il Tav si faccia” di ieri. L’ipotesi di nuove elezioni, che lo riporterebbero fra le grinfie putrescenti di B. e scatenerebbero il “liberi tutti” nell’aula del Senato nel voto sul processo Diciotti, l’ha spaventato a morte, ha scoperto il suo bluff e l’ha indotto a più miti consigli. Il che dimostra che si poteva votare l’autorizzazione a procedere senza danni collaterali. Perché anche il tracimante Salvini, quando incontra un argine, si ferma. Da ieri è ufficiale che il voto non terrorizza solo il M5S declinante nei sondaggi: anche Salvini non lo vuole prima di aver portato a casa qualcosa di utile (il Dl sicurezza e l’Illegittima difesa non fregano niente a nessuno) e sa che il ritorno ad Arcore gli costerebbe 7-8 punti nei sondaggi, senza contare chi gli dà fiducia perché sta al governo e potrebbe revocargliela se lo rovescia. Intendiamoci: sul Tav nessuno ha ancora vinto né perso, anzi la strada per cancellare l’orrendo buco è tutta in salita, essendo su questo il M5S in minoranza in Parlamento e pure in Consiglio dei ministri: il che, dovendo rivedere 4 trattati internazionali e 5 leggi italiane, è un bell’handicap. Tra qualche mese dunque, dopo le elezioni regionali ed europee, il dilemma si riproporrà tale e quale, e allora bisognerà uscire con un sì o un no secco al Tav. Tutto dipenderà, ancora una volta, dall’abilità di Conte nella trattativa con i francesi (mai del tutto convinti sull’opera) e con la Commissione europea (l’attuale e la nuova).

Poi c’è l’analisi costi-benefici dell’interesse nazionale, che oggi segna un punto a favore di chi non vuole sperperare miliardi pubblici in un’opera inutile e inquinante, e uno a sfavore della Banda del Buco e dei suoi portaborse politico-mediatici. Il merito del blocco dei bandi a costo zero va a Giuseppe Conte: il premier – come aveva previsto ieri Antonio Padellaro – ha smentito ancora una volta i suoi detrattori che lo dipingevano come un re travicello, un burattino nelle mani dei due vice, un prestanome che esegue ordini altrui. E ha fatto ciò che aveva promesso giovedì in conferenza stampa: ha deciso da solo, riuscendo là dove persino i 5Stelle – quasi rassegnati alla crisi di governo e alla caduta della giunta Appendino – disperavano che ce l’avrebbe fatta.

Anche ieri i giornaloni sfornavano le loro balle quotidiane. Il “ritorno delle madamine torinesi”: quattro gatte. L’”analisi Pro Tav di Ponti all’Ue” (non è di Ponti, non riguarda il Tav e contiene solo i benefici senza i costi). L’”Italia isolata in Europa” (contro il Tav ci sono pure i Verdi europei e la presidente della commissione Trasporti dell’Europarlamento). E soprattutto l’annuncio del via libera di Conte ai bandi di gara per i 2,3 miliardi del Tav vero e proprio (il buco nelle Alpi), con una “clausola di dissolvenza”: cioè il solito inchino dei 5Stelle a Sua Maestà Matteo. Del resto era stato il Corriere, sabato scorso, a “rivelare” il “sondaggio segreto” che aveva convinto un Di Maio “folgorato sulla tratta Torino-Lione” a calarsi le brache, “abbattere uno dei totem del Movimento”, “tornare indietro” e addirittura “dire sì alla Tav”, perchè “la stragrande maggioranza degli elettori grillini è favorevole all’opera”. Intanto Massimo Franco spiegava che “l’epilogo appare segnato” con una truffa del neo-Sì Tav Di Maio ai suoi elettori: “Fingere che la scelta finale sia del solo premier, innalzato strumentalmente a decisore supremo; e togliere dall’imbarazzo non tanto Matteo Salvini ma l’altro vice, Luigi Di Maio, che altrimenti dovrebbe spiegare al M5S un ‘sì alla Tav’, per quanto riveduta e corretta”. Invece Conte ha detto no. Ha bloccato i bandi in attesa di ridiscutere tutto con Francia e Ue. E ha costretto i costruttori Telt a sbugiardare i giornaloni che, senza bandi subito, vaneggiavano di “penali” e fondi europei “perduti” o “da restituire” per 300 milioni (o 800, massì abbondiamo!). Tutte balle: i bandi per ora non partono; per non perdere ora i fondi Ue (ovviamente inutili in caso di cancellazione del Tav) – scrive Telt a Conte – basta un generico e non vincolante “invito alle imprese a presentare candidature”; e se poi i bandi spariranno per sempre, l’Italia non ci rimetterà un euro grazie all’“inserimento nei suddetti inviti dell’esplicito riferimento alla facoltà della Stazione Appaltante in qualunque momento di non dare seguito alla procedura senza che ciò generi oneri per la Stazione Appaltante stessa, né per gli Stati”. Cioè si potrà tornare indietro sul Tav a costo zero, cosa impossibile se si fosse seguito il diktat peloso della Lega di far partire i bandi per poi, eventualmente, revocarli.
Oltre alle questioni contabili, ambientali e politiche, c’è anche il versante etico. E Conte ieri l’ha messo giù così: “Lavoriamo in piena trasparenza perché non ci lasciamo condizionare dalle pressioni opache di gruppi di potere o comitati di affari. Fino a quando questo Governo sarà in carica, per quanto mi riguarda, sarà così. Sempre”. Quali gruppi di potere e comitati d’affari hanno fatto pressioni? Il premier, da noi interpellato, ci ha risposto che non si riferiva a soggetti o a episodi specifici, ma intendeva semplicemente chiarire il suo “metodo”, affinchè chi ha orecchi per intendere intenda. Meglio così. In un Paese serio sarebbero le opposizioni le prime a porgli la domanda. Ma in Italia le opposizioni sono parte attiva di quei gruppi di potere e comitati d’affari: quindi conoscono già la risposta.

“Ciao Pino, con te se ne va un artista geniale”

Pino Caruso, 84 anni, è morto l’altroieri a Roma. La Sicilia è vestita a lutto per l’attore comico palermitano. Dall’isola Caruso era arrivato a Roma senza un soldo e col sogno di fare l’attore, negli anni 60. Al cinema ha lavorato con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. In Rai, è stato un re del varietà dagli anni 70, col regista Antonello Falqui. La gavetta invece è il cabaret del Bagalino, a Roma in vicolo di Campanella, dove recita col giovane Enrico Montesano. “Nel ‘68, dopo lo spettacolo a teatro, andavamo insieme alla stazione Tiburtina, salivamo sui vagoni notte e ci svegliavamo a Milano per registrare il varietà Rai Che domenica amici, condotto da Raffaele Pisu”.

Vi conoscevate da una vita…

E mi chiedo perché non abbia mai condotto un programma. Siamo il Paese dove trionfano gli ignoranti e lui non è stato valorizzato come meritava.

Soffriva o si sentiva sottovalutato dalla televisione?

Non lo so, ma immagino che non faccia piacere. Però aveva sublimato la delusione con la scrittura: ha ricevuto l’apprezzamento di Enzo Biagi. Forse doveva raccogliere di più. Troppi meritevoli sono dimenticati, e questo abbassa il livello generale della società. Ma ormai è la mela sana che va tolta dal cestino.

Torniamo alle origini del Bagaglino.

Altri tempi, era un teatro di parola. In scena non c’era nulla, solo una luce e un microfono; 150 persone ammassate sotto il mento degli attori. Lì dovevi far ridere per forza. Eravamo gli stand-up comedian di ieri.

Pino faceva ridere?

Era geniale. Lo andavo a vedere quando ero un giovane attore che sognava di fare strada. Lui recitava con Oreste Lionello, in una gara tra fenomeni. I suoi monologhi erano esilaranti, ogni tanto indossava il cilindro parodiando Petrolini. Oppure, quando andava a braccio, il più delle volte parlava della Sicilia e dell’Italia.

Le raccontava mai storie della vita sui set, con Lando Buzzanca o Ciccio e Franco?

Pino non raccontava aneddoti, preferiva argomenti importanti. Era una persona divertente, ma esercitava la sua ironia su argomenti seri. Il titolo di un suo libro recita: “Il senso dell’umorismo è l’espressione più alta della serietà”.

Con Pino di cosa parlavate?

Dell’Italia, spesso. Lui non era rassegnato ma disprezzava i politici. Si chiedeva come faccia il Paese a stare ancora in piedi, con quelli al comando. Un altro titolo di un suo libro esprime il suo pensiero: “Se si scopre che sono onesto, nessuno si fiderà più di me”.

L’ultima volta che l’ha sentito?

Un mese fa mi ha spedito suoi scritti via email: mi ha detto di farne ciò che voglio e lo farò. Di sicuro lo citerò, anche se non si usa più. Con Pino parlavamo anche dei comici copioni.

Strega, ben 57 libri da leggere in dieci giorni: com’è possibile?

Cinquantasette libri in dieci giorni. Da leggere, soppesare e scegliere.

Peggio che dimagrire sette chili in una sola settimana.

I votanti del Premio Strega devono prendere dodici titoli dal mucchio dei libri presentati dagli Amici della Domenica, ovvero da loro stessi, in molti mugugnano ma per Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci, come per un Giuseppe Conte, il superlativo è d’obbligo.

“Sarà un anno bellissimo”, aveva detto il presidente del Consiglio a dispetto della recessione e così anche per il custode del più importante premio letterario, la prospettiva – a dispetto di ogni recensione – è rosea: “Sono sicuro che sarà un Premio Strega bellissimo”.

Deputato a sovrintendere lo svolgimento del Premio Strega, Petrocchi fissa per domenica 17 marzo a Libri come, a Roma, la data per conoscere la stanca dozzina che andrà a concorrere per la serata finale al Ninfeo di Valle Giulia e però giusto ieri, su facebook, mette le mani avanti e sfotte gli àpoti.

Sempre che gli àpoti sappiano di essere tali se già nei primi commenti sulla bacheca di Petrocchi, in tanti – verosimilmente acculturati per essere ammessi tra i suoi amici – chiedano lumi sulla stranissima parola.

E dunque, àpoti? “Quelli che non la bevono, copyright Prezzolini”, risponde gentilissimo Petrocchi ma la tenzone (che è spinosa, per gli equilibri degli ottimati, più di qualunque Tav per i fragili nervi del governo) è già aperta: “Li aspettavo. Sono arrivati. Sono quelli”, scrive il direttore della Fondazione Bellonci, “che non la bevono. Non è possibile leggere in dieci giorni cinquantasette libri, dicono. Hanno ragione. Studi scientifici serissimi dimostrano che per compiere l’impresa è necessario rinunciare ad attività essenziali come il sonno, la nutrizione e la cura degli affetti, per tacere degli ordinari impegni di lavoro. E anche facendo a meno di tutto questo… Secondo tali illustri e talvolta illustrissimi àpoti, chi sceglie le opere candidate a un premio letterario vive in letargo undici mesi e mezzo su dodici, per poi ridestarsi un bel giorno di marzo ancora all’oscuro vuoi dei libri letti e commentati nelle settimane precedenti da migliaia di persone, vuoi di quelli proposti al premio un mese e mezzo prima della scadenza. Magari fosse così… To sleep, no more… to sleep, perchance to dream…”.

Tra gli àpoti si palesa Christian Raimo. Scrittore e militante di ogni parte più che giusta, Raimo, lascia traccia di sé in bacheca: “So io. Non è una domanda polemica. Ma una questione vera. Cosa vuol dire leggere oggi”.

È lui, dunque, ma a Stefano Bon, scrittore, che scherza e dice – “Che poi lo sanno tutti che mica li leggono… è già tutto deciso…” – il direttore rifila una botta gergale degna del Pasticciaccio. “…anfatti!”, gli risponde, ed è un dare alle polveri (absit iniuria verbis per Petrocchi, autore de La Polveriera) nella minuta santabarbara della letteratura.

Cinquantasette libri in dieci giorni, quindi. La questione è nell’insormontabile problema di attraversare tutte quelle pagine giusto adesso che le librerie – come la IBS Libraccio di Roma – si sono attrezzate per la nemesi: “Usato mai sfogliato, sconto 40%”.

Avvistato, tra i titoli, il molto recensito e molto visto in tivù Ho imparato di Enrico Letta (edizioni Il Mulino), per tacere però – per carità di Patria – di tanti titoli del catalogo Solferino ma Raimo ha ragione nel sottrarre vis polemica alla sua domanda perché tutto quel leggere, ormai, anche al di là del Premio, neppure bello che stampato è subito sbolognato.

Svapora nella fuffa la stessa cerchia letteraria e nulla può la buona volontà, il sacrosanto proposito di farsi parte attiva nella letteratura quando già mettere il naso in una libreria, scorrere i titoli in vetrina, procura sconforto soprattutto a chi ancora studia e a chi chiede arte, poesia e genio al proprio tempo.

Sarà certo un bellissimo recensire la dozzina dello Strega, ma resta il fatto che la gnagnera, quella di un Che Tempo che fa, per capirsi – il magazzino madre di tutto l’usato mai sfogliato – sommerge tutto e che la recessione della qualità si certifica con quel che passa il convento delle monachelle narranti.

Non è altro che un gioco di società, il Premio Strega, e tale è già dalla definitiva laurea che Dino Risi gli conferisce nel 1963 con un Vittorio Gassman en travesti nell’episodio La Musa de I Mostri.

Post Scriptum

Non ho più osato votare allo Strega da quando ho visto passarmi sotto il naso – per doverosa lettura – manualetti d’apologetica perbenista sciué sciué per interposta narrativa. Cinquantasette libri in dieci giorni, dunque. Anfatti!: tutti sfogliati, presto sbolognati.

“Sì, Così divento L’Eroe”. Da “Gomorra” al cinema

Sotto alcuni aspetti Salvatore Esposito sembra una fiction vivente, negli Stati Uniti sarebbe il perfetto testimonial dell’occasione della vita, della rinascita, un self made man sotto il Vesuvio; dalla periferia di Napoli, cazzotti e boss, quindi minacce e figli di quei boss, ad attore, personaggio, luci e riflettori internazionali, tutto grazie “alla mia ambizione e a una famiglia in grado di regalarmi basi solide”. E la stessa ambizione lo ha portato prima a conquistare il ruolo centrale in Gomorra, e poi parti da protagonista al cinema, come ne L’eroe, in uscita il 21 marzo (è un giornalista marginalizzato per punizione, spedito in provincia e all’improvviso alle prese con un caso di sequestro).

Ambizioso, quindi.

Assolutamente, però conscio dei miei limiti, e con gli anni sono riuscito a capire dove poter spingere e dove lasciar perdere.

È natura.

Anche quando lavoravo da McDonald’s.

Quanto tempo?

Mica poco, dai 18 ai 24 anni, grazie a quei soldi potevo sollevare la mia famiglia da un problema.

Cresciuto in periferia.

Padre barbiere e madre casalinga.

Insomma, McDonald’s.

Dove riflettevo sul mio futuro, su cosa volevo realmente puntare; dove ho capito quanto è fondamentale dare un ordine alla propria vita, e la parola magica diventa “priorità”.

La sua.

Diventare attore. Quando l’ho detto a mio padre, lui serafico e deciso mi ha guardato negli occhi e ha pronunciato la formula magica: “Va bene, però devi puntare alla luna, così mal che vada ti troverai a camminare tra le stelle”.

Così è stato.

Be’, se penso da dove sono partito.

Dove?

Sono cresciuto per strada, lì il clima a volte è alla Gomorra, i soldi possono diventare facili, ma è solo apparenza, l’illusione è sovrana, e i parametri sballati.

I suoi amici?

Quelli di allora?

Sì.

Alcuni non sono finiti benissimo. Era veramente semplice perdersi.

Per lei, no.

E qui potrei entrare in polemica con le solite accuse rivolte a Gomorra o ad altre serie del genere…

L’accusa è quella di creare dei pessimi miti.

Appunto, ed è una stupidaggine: la mia vita è l’emblema di quanto conta la famiglia, mentre è semplicistico puntare il dito sull’arte.

Insomma…

Nel napoletano spesso mancano le necessarie risorse alle forze dell’ordine, lo Stato è assente, solo che un discorso del genere è complicato da accettare e poi da affrontare, per tutti è più semplice gridare allo scandalo.

Un classico.

L’altro giorno riguardavo il manifesto della prima stagione di Gomorra: a parte me sono morti, e ovviamente male, tutti gli altri personaggi. Questo è il messaggio, non altro.

Com’era da adolescente.

Di carattere simile a oggi, poi non studiavo troppo, non mi serviva, bastava stare attento in classe e assorbivo.

Nel suo libro ha raccontato di alcuni problemi con gli altri ragazzi.

Come può accadere in quel contesto, dove in alcune zone la legge di Darwin è maggiormente accentuata.

Si è scontrato con i figli dei boss.

Qualche schiaffone l’ho mollato.

Senza timore.

I figli dei boss si muovono con un atteggiamento tronfio, con l’aura non propria, solo il riflesso dei genitori; chi si ribella diventa un incontrollabile, li spiazza, e in quel caso ho capito una legge di vita: il potere del sovrano è dato dai sudditi.

Si difendeva.

È sopravvivenza verso il rischio di sopraffazione.

Ne “L’Eroe” si cimenta pure con una scena di sesso…

Ed è meno complicato e imbarazzante di quanto pensassi o temessi: sotto eravamo vestiti.

Si piace?

In genere sì, però cerco sempre la complicità del regista e dello sceneggiatore per capire meglio i ruoli.

I riflettori per lei?

Il prezzo da pagare è sulla privacy inesistente o quantomeno ridotta all’osso, quindi nessuna intimità con la famiglia o la propria compagna, ma va bene così, è giusto.

Vista anche la fama internazionale…

Ancora mi stupisco.

Davvero?

Una volta a Los Angeles mi sono trovato di fronte a Ellen Pompeo (storica protagonista di Grey’s Anatomy) e mi conosceva. Chiaro? È bellissimo rendersi conto che una serie televisiva italiana è in grado di competere con i migliori prodotti esteri.

Si cimenterà mai con la regia?

Non lo so, sto ancora imparando come si fa l’attore, e sono mestieri molto differenti, dove è necessario guardare la complessità del progetto.

Insomma, lei chi è?

Alla fine? Uno fortunato e caparbio.

La caduta dell’ultima roccaforte, nella regione di Deir el-Zor: fine del Califfato?

Un tempo era un vero e proprio Stato, tra Siria e Iraq: una superficie, quella dell’Islamic State, che alla sua massima espansione, nel 2015, contava 270 mila kmq (quasi quanto l’Italia) e una popolazione di 11 milioni di abitanti. La resistenza degli ultimi combattenti dell’Isis, stimati tra 1.000-1.500 unità secondo fonti curde, si sta consumando nel villaggio di al-Baghouz, nella regione di Deir el-Zor, in un fazzoletto di terra raccolto intorno al fiume Eufrate. I report che giungono dal fronte indicano che nell’area di Baghouz siano stati radunati circa 10 mila civili, usati dai jihadisti come scudi umani. Attualmente sembra siano in corso trattative per il rilascio degli ostaggi tra cui, secondo fonti libanesi non confermate, potrebbe esserci anche Padre Dall’Oglio, il gesuita scomparso in Siria nel 2013. Nelle ultime ore, infatti, del migliaio
di combattenti e fiancheggiatori dell’Isis ancora presenti a Baghouz, in circa 800 si sarebbero arresi. L’offensiva finale al Califfato era partita circa sei mesi fa, nella terza fase dell’offensiva di terra portata avanti dalle Forze Democratiche Siriane-Sdf (prevalentemente milizie curde Ypg, combattenti arabi, yazidi, cristiano siriaci e assiri), sul confine tra Siria e Iraq, nelle zone rurali a Est di Deir el-Zor. La città di Deir el-Zor rimane uno degli emblemi della guerra in Siria: dal 2013 fino allo scorso settembre, la città era stata assediata da miliziani jihadisti e dell’Isis, mentre l’esercito siriano è riuscito a resistere giorno per giorno.

la vita sospesa: l’occhio nella guerra in siria

Quando nel 2016 mi recai per la prima volta in Siria e vi rimasi per oltre un mese, visitai le campagne circostanti la città di Tartous.

Quel paesaggio di struggente bellezza aveva un che di inquietante.

All’inizio non seppi dire cosa fosse.

Erano le immagini dei martiri.

Campeggiavano in ogni villaggio, fuori da ogni casa. Erano i volti dei soldati del SAA (Syrian Arab Army), dell’esercito siriano, morti in guerra. Uno, o anche più di uno, al di fuori di ogni abitazione. Ragazzi di età compresa tra i 18 e i 30 anni uccisi, in molti casi trucidati, dalle milizie ribelli. C’erano dei muri in cui queste effigi erano affisse a centinaia: un’intera generazione decimata.

Tartous e gli sfollati “interni”

Sempre nella zona di Tartous visitai un centro per IDPs-Internally displaced people: gli sfollati interni. Dalle nostre parti si faceva un gran parlare dei rifugiati che scappavano dalla guerra, ma nessuno si stava occupando dei milioni di sfollati interni che, a lasciare il proprio Paese, non ci pensavano minimamente.

Nessuno all’epoca volle comprare le mie immagini: mi rispondevano che la cosa interessante era la rotta balcanica dei rifugiati.

La realtà era che la stragrande maggioranza dei siriani veniva sfollata dai luoghi dei combattimenti e alloggiata in strutture governative. E, non appena le condizioni lo consentivano, veniva loro permesso di ritornare alle loro case.

Spesso, a causa degli intensi combattimenti, quelle case non esistevano più. Come, ad esempio, ho visto accadere nella parte vecchia di Homs.

Idlib e la bottega di George

Idlib per settimane è sembrata essere il centro del mondo. Sulla linea del fronte di Idlib ho visitato i villaggi di Skelbieh e di Mahardeh, a maggioranza cristiana.

Ho conosciuto dei membri delle milizie del NDF-National Defence Forces, combattenti volontari che hanno imbracciato le armi per difendere i loro villaggi dalla minaccia jihadista.

Poche settimane prima del mio arrivo, colpi di mortaio sparati dalla città di Idlib avevano quasi distrutto una scuola e diverse abitazioni. I segni erano ancora evidenti.

George, un combattente del NDF, si divide tra una postazione di artiglieria e la sua bottega di sarto. Comanda una piccola postazione dotata di due pezzi di medio calibro (uno addirittura risalente alla Prima guerra mondiale) e, appena finito il servizio, salta sulla motocicletta per recarsi a bottega e riprendere a cucire e tagliare: ricomincia da dove aveva finito il giorno prima.

Deir el-Zor e quei bravi ragazzi

Dalla provincia di Idlib mi sono spostato nella città di Deir el-Zor.

Ho ricevuto il permesso eccezionale di visitare la sponda Est dell’Eufrate appena liberata dalla presenza dell’Isis. In quell’area si è combattuto fino a pochissime settimane fa, ma la situazione appare quasi sotto controllo. È come se tutto fosse “sospeso”.

La presenza di militari dell’Esercito arabo siriano è massiccia così come quella dei check-point, data la possibile presenza di cellule dormienti e il rischio di attentati con autobombe.

Ho potuto seguire da embedded la vita di questi soldati in prima linea, di fronte alle postazioni curde del SDF-Syrian Democratic Forces e alla base americana situata nei pressi: ho dormito con le truppe al fronte, documentato la loro vita quotidiana, sentito dalla loro viva voce i racconti dell’assedio.

Visi giovani di bravi ragazzi, strappati troppo presto dai loro studi o dalle loro attività per combattere una guerra all’ultimo sangue durante un assedio che è durato quattro interminabili anni.

Non c’è stata scelta per nessuno, l’alternativa era vivere o morire.

Le foto di quei giorni riportano visi scavati, occhi stanchi, barbe lunghe, divise logore. Estati a 50°, immersi in nuvole di zanzare portatrici di leishmaniosi.

Alì, uno di loro, è il ragazzo della porta accanto: magro, buone maniere, parla sussurrando. A vederlo non riesci a immaginare che abbia trascorso quattro anni all’inferno. Eppure c’è la memoria del suo cellulare a testimoniare tutto.

Le macerie, i colpi di artiglieria, la paura dei cecchini, gli ordigni disseminati ovunque. E poi le ferite: non si trova un soldato, che abbia combattuto durante l’assedio, a non aver riportato almeno una cicatrice per una pallottola o una scheggia di granata.

Questi ragazzi girano per la città salutati da tutti come eroi.

Un funzionario del World Food Programme, in missione in città, mi ha raccontato di quando, durante l’assedio, rifornivano la città di cibo sganciando gli aiuti umanitari dal cielo. Gli ho chiesto se qualche media internazionale si fosse rivolto all’agenzia per avere informazioni sullo stato della città in quel periodo. La sua risposta è stata: nessuno. Ci chiedevano solo di Raqqa dove operavano le forze della coalizione a guida Usa. E ha aggiunto: nessuno di noi è libero di comunicare coi media; o meglio si può parlare ma, se si dice qualcosa non concordato in anticipo, il rischio è quello di essere rimossi da tutti gli incarichi.

Raqqa versa in condizioni catastrofiche e non è ancora stata resa sicura, Deir el-Zor è quasi completamente sicura e i cittadini hanno già iniziato a farvi ritorno e a riaprire le loro attività. Persino sulla sponda Est dell’Eufrate le attività hanno cominciato a riaprire.

Sopravvivere alla guerra

Ma a te, che non c’eri, che non hai udito quelle urla strazianti, che non hai visto i corpi mutilati degli amici con i quali fino a cinque minuti prima scherzavi, che non hai sentito il fischio prima e poi il rumore dell’esplosione, che non sei stato costretto a privare un altro essere umano della vita, cosa devo dire?

La guerra colpisce i civili, ma prima ancora distrugge la vita dei soldati: di quelli che cadono in battaglia, di quelli che rimangono mutilati, di quelli che sopravvivono. Almeno apparentemente.