Dollari & petrolio: perché l’America azzanna Caracas

Lo scontro tra il governo degli Stati Uniti e il Venezuela ha quasi raggiunto la soglia dell’intervento armato, e se questo non avverrà sarà solo perché l’attuale barbaro assedio all’economia del Paese è in grado di ottenere lo stesso risultato.

Ma esistono varie zone d’ombra, a mio avviso, sulle motivazioni della furia americana. Non è scontato che essa sia soltanto il riflesso condizionato di una potenza aggressiva, che dal 1945 in poi è intervenuta 67 volte all’estero per rovesciare governi non graditi.

Proprio nel loro cortile di casa, l’America latina, e da un paio di decenni a questa parte, gli Stati Uniti hanno tollerato governi di sinistra anche radicale senza inviare i marines e senza far assassinare dalla Cia leader politici, ministri e presidenti. Il Brasile di Lula, l’Argentina di Kirchner, il Cile di Bachelet e perfino la Bolivia di Morales sono più volte arrivati ai ferri corti con il Grande Fratello senza subire violazioni di sovranità e senza subire il tentato assassinio economico riservato al Venezuela.

Certo, il “pericolo socialcomunista” ha avuto il suo peso nel far scattare l’ assalto contro il Venezuela di Chavez-Maduro. Ma ciò non basta a spiegare un’animosità Usa contro un Paese della regione che non si vedeva dai tempi del Cile di Allende, cui spesso viene paragonato.

Ci vuole di più. E il fattore aggiuntivo può ben essere la voglia delle élite americane di afferrare finalmente in Venezuela la preda agognata, sfuggitagli in Russia negli anni 90, e in Iraq e Libia dopo: le riserve di un grande produttore di idrocarburi da aggiungere alle proprie per fronteggiare più serenamente le traversie del mondo post-americano.

Questa è un’idea che è presente da qualche tempo nella mente di Trump. Secondo l’ex direttore dell’Fbi, McCabe, Trump ha dichiarato nel 2017 che era venuto il tempo di muovere guerra al Venezuela. E non per soccorrere il suo popolo affamato dal malgoverno comunista, ma perché “è pieno di tutto quel petrolio e sta nel nostro cortile di casa”.

Lo stesso Trump aveva criticato Obama nel 2011 perché si era fatto fregare a non pretendere metà del petrolio libico in cambio della collaborazione degli Usa al rovesciamento di Gheddafi.

Il fattore petrolio convince più di quello “comunista” per spiegare la foga antivenezuelana dello ‘Zio Sam’. Essa si sarebbe scatenata anche contro un governo di colore politico diverso, se risoluto a esercitare la sua piena sovranità sulle proprie risorse naturali.

Ma il quadro va completato mettendo in luce un’ulteriore, poco conosciuta, matrice di ostilità: la sfida all’egemonia del dollaro lanciata da Chavez-Maduro proprio all’alba di un processo di de-dollarizzazione dell’economia mondiale. La decisione del Venezuela di evitare l’uso del dollaro nelle compravendite di petrolio e di creare un sistema di scambi con l’estero, il Sucre, basato su una criptomoneta, il Petro, garantita dal suo petrolio e da altre risorse, ha toccato il nervo scoperto della finanza americana. E ne ha scatenato la collera.

Il dollaro, infatti, è l’ultimo pilastro della potenza americana visto che l’altro, il possesso della forza armata più temibile del pianeta, ha fatto fiasco quasi ovunque dal Vietnam in poi ed è diventato fonte di indebitamento e di discordia con alleati e clienti.

L’ipersensibilità del capitale finanziario che domina gli Stati Uniti verso ogni minaccia, anche in fieri, al suo sistema nervoso centrale composto di biglietti verdi, è comprensibile. E ciò perché il dollaro – nonostante sembri godere di ottima salute, rimanendo il mezzo di pagamento e il bene rifugio di gran lunga più importante del mondo – è insidiato ogni giorno di più da una sfida che ha iniziato ad animare le relazioni internazionali.

L’attacco alla sua centralità è palese da parte russa e iraniana, semi-coperta da parte della Cina e del gruppo dei Paesi Brics, ed è sottintesa nel caso dell’Unione europea, titolare dell’unica alternativa matura al biglietto verde: l’euro. E per questo sorvegliata a vista dagli Stati Uniti.

Wall Street, Tesoro e governo Usa sono consapevoli che i tempi del tramonto del loro impero dipendono da quelli dell’egemonia del dollaro, e sono pronti a usare ogni arma per preservarla.

Non importa, perciò, quanta strada avrebbe fatto la decisione di Saddam Hussein di usare l’euro invece del dollaro nelle transazioni del petrolio iracheno. O quanto fosse fondato il progetto di Gheddafi di creare una moneta africana per lo stesso scopo. E neppure conta la modestia del volume attuale degli scambi non-dollarizzati tra Cina, Iran, Russia, India e adesso anche Turchia e Unione europea.

La de-dollarizzazione è un pericolo mortale. I suoi segnali vanno soffocati sul nascere. Come? Nel caso di Paesi relativamente marginali e non dotati di armi atomiche, perché disarmati in precedenza dall’Onu come l’Iraq o convinti ad abbandonare i programmi nucleari come la Libia, si può andare per le spicce. L’Iraq è stato invaso perché non aveva l’atomica.

Nel caso dell’Iran – potenza di medio rango in via di de-dollarizzazione che produce petrolio senza dipenderne integralmente e in grado di acquisire in tempi brevi l’atomica – occorre più cautela. L’ideale è spingere il Paese a disarmare e poi colpirlo e ri-dollarizzarlo. Come si tenta di fare adesso, sempre dal lato Usa, ma con il disaccordo del resto del mondo.

Contro Russia e Cina c’è poco da fare. Soprattutto ora, dopo che i due Paesi hanno sviluppato un’intesa commerciale, politica e militare che rende la somma delle loro capabilities (territorio, popolazione, industria, armamenti e tecnologie) superiore a quella degli Usa. Ma entrambi sono ancora deboli dal lato finanziario, e non hanno ancora deciso di lanciare una sfida al dollaro congiunta e a tutto campo.

La strategia qui consiste nell’isolarli il più possibile, ritardando la nascita di un ordine mondiale multimonetario, dove la valuta americana non può più essere usata come un arma di dominio globale.

Quanto all’Unione europea, la minaccia euro alla supremazia del dollaro si è sgonfiata poco dopo la creazione della moneta unica. Il suo peso nelle transazioni globali è sceso dal 30% delle origini al 20% attuale. Per i padroni della finanza mondiale è sufficiente mantenere l’attuale frattura tra Ue e Russia perché l’euro resti dove si trova.

Questo scenario aiuta a spiegare perché gli Stati Uniti si sono avviati verso la soluzione finale contro un Paese che ha avuto l’ardire di sfidarli su tutto, valuta inclusa. Valuta che viene avvolta oggi intorno al collo del Venezuela perché tutti sappiano che dopo la Libia, l’Iraq e l’Iran, chi di dollaro ferisce di dollaro rischia di morire.

Manafort e il processo diventato uno show

È la condanna più pesante finora pronunciata nei procedimenti collaterali al Russiagate, l’inchiesta sui contatti nel 2016 tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino. Ma è una condanna decisamente mite, rispetto alle richieste dell’accusa: Paul Manafort, l’ex manager della campagna del magnate, sconterà in prigione 47 mesi, poco meno di quattro anni, per frode bancaria.

Protagonista assoluto dell’udienza verdetto il giudice T.S. Ellis III, 79 anni. All’epoca del Wes, la legge a ovest del Pecos era Roy Bean, eccentrico proprietario di saloon nella Contea di Val Verde in Texas, auto proclamatosi giudice e divenuto una leggenda della giustizia di frontiera. All’epoca del Russiagate, T.S. Ellis III è la legge a sud del Potomac, il fiume che lambisce Washington e che separa Distretto di Colombia e Virginia: il giudice in aula si comporta da “Cesare nella sua Roma” – la definizione è del New York Times – e adatta la legge alle sue convinzioni e, soprattutto, alle sue percezioni. Del processo a Manafort, il giudice Ellis ha fatto un vero e proprio show giuridico e mediatico: nominato dal presidente Reagan giudice federale nel Distretto di Alexandria, cittadina coloniale che sta di fronte a Washington, sull’altra riva del fiume, lungo la strada che conduce a Mount Vernon, dov’è la casa di George Washington, il giudice ha modi spicci ed è intransigente e intollerante più con i procuratori e gli avvocati che con gli imputati.

Manafort, poi, gli si è presentato davanti l’altro giorno, irriconoscibile rispetto all’uomo di potere che era, ben vestito e sicuro di sé, un po’ gigione e un po’ piacione: su una sedia a rotelle, dimesso, persino trasandato nella sua divisa da carcerato verde marcio (sta già scontando la sua pena).

Quando ha chiesto di parlare, Manafort si è detto “umiliato”, si è lamentato per lo stato di salute e ha ricordato la sua famiglia: ha chiesto compassione, ma non ha chiesto scusa per i suoi reati e non se n’è assunto la responsabilità. Il giudice, in un certo senso, gli ha dato retta, stimando “eccessiva” la pena tra i 19 e i 24 anni chiesta dall’accusa; anche se lo ha rimbrottato per il suo atteggiamento.

Il fatto che T.S. Ellis III sia stato mite non ha però consolato il magnate presidente: Donald Trump dice di “stare male” per il suo sodale della campagna 2016, che il 12 è atteso da un altro verdetto e stavolta rischia fino a dieci anni. E, già che c’è, Trump ne profitta per twittare l’ennesima falsità: dal caso Manafort – scrive – non emerge nessuna collusione con la Russia, ma la caccia alle streghe continua ed è un male per il nostro Paese. Il magnate si riferisce sia all’inchiesta del Russiagate condotta dal procuratore speciale Robert Mueller sia all’indagine a tutto campo avviata alla Camera dai democratici. Ma il processo a Manafort non aveva nulla a che vedere con le collusioni della squadra di Trump con il Cremlino: il manager era a giudizio per avere violato le regole della sua attività di lobbista. I risultati dell’inchiesta sul Russiagate saranno, invece, depositati presto da Mueller.

Le cronache dalla Casa Bianca sono essenzialmente giudiziarie, in queste ore: c’è Michael Cohen, l’ex legale di fiducia, che chiede gli arretrati al magnate; e c’è Stormy Daniels, la pornostar, che perde una causa contro Trump a Los Angeles. In attesa di occuparsi di Cina e di dazi, il presidente deve pure gestire le dimissioni del responsabile della comunicazione Bill Shine: nessun giallo, pare, ma solo un cambio di casacca. L’ex top manager di Fox sarà il regista della campagna presidenziale 2020.

 

Caracas al buio, per Maduro è “tutta colpa degli americani”

Il buio non ha preso con sé i problemi del Venezuela. Non li ha cancellati, al contrario, li ha ingigantiti. Il black-out che ha colpito la rete elettrica di Caracas e di gran parte del territorio venezuelano non è stato ancora risolto e le conseguenze si sono subito fatte sentire costringendo il governo a sospendere le attività lavorative e a chiudere le scuole per tutta la giornata di ieri. Se anche l’esecutivo non avesse preso queste misure, ben pochi si sarebbero presentati a lavoro o in aula visto che non solo la metropolitana della capitale ma anche i treni che collegano le città principali sono bloccati.

I servizi telefonici e il collegamento a Internet funzionano invece in modo intermittente ma la mancanza di garanzie ha fatto desistere molti dall’intraprendere iniziative di natura professionale che richiedessero l’uso della rete. Secondo il quotidiano El Nacional i primi problemi nell’erogazione dell’energia elettrica si sono registrati intorno alle 16.56 di giovedì (le 21.56 in Italia) a Caracas e in venti dei 23 Stati che compongono la federazione venezuelana. Si tratta insomma di un black-out serio ed estremamente diffuso che il regime venezuelano ritiene essere di natura dolosa. Lo stesso Maduro ha accusato, come sempre, gli Stati Uniti di aver cominciato “la guerra elettrica contro il popolo venezuelano”.

Il ministro dell’Energia, Luis Motta Dominguez, dopo aver annunciato che in circa tre ore la situazione si sarebbe risolta, ha dovuto constatare che la situazione è più grave di quanto si fosse stimato. Poco dopo la mezzanotte (le 5 del mattino in Italia), scrive il portale d’opposizione La Patilla “c’è stato un primo tentativo di riportare la luce a Caracas, ma è durato solo cinque minuti e poi la capitale è tornata al buio”.

Il ministro della Comunicazione, Jorge Rodriguez, ha detto da parte sua che l’erogazione di energia elettrica era stata ristabilita “al 100%” negli Stati di Monagas, Anzoategui e Nueva Esparta, ma è stato smentito quasi immediatamente su Twitter dai residenti. Telesur, emittente di fede madurista, ha sottolineato che “il paese ha subito un attacco di settori dell’estrema destra, appoggiati da dirigenti politici imperialisti”. Nel pomeriggio di ieri Maduro ha scritto un tweet dai toni roboanti, come è nel suo stile, in cui annuncia che “questa guerra sarà sconfitta. Niente né nessuno potranno sconfiggere il popolo di Bolivar e Chavez. Massima unità dei patrioti!”. Alla denuncia di sabotaggio ordito dagli Usa ha risposto con un altro tweet il Segretario di Stato americano Mike Pompeo. “Il black-out che ha colpito vaste aree del Venezuela e soprattutto la capitale Caracas e la devastazione di cui soffrono ogni giorno i venezuelani non dipendono dagli Stati Uniti, non dalla Colombia, non da Ecuador, Brasile, Europa o alcun altro Paese. La mancanza di elettricità e la fame sono il risultato dell’incompetenza del regime di Maduro”. E ha aggiunto: “Niente cibo, niente medicine. Ora niente elettricità. Il prossimo passo, niente Maduro. Le politiche di Maduro non portano altro che oscurità”. Ma non è affatto detto che il prossimo passo sarà l’uscita di scena di Maduro, come auspica Pompeo, perché l’esercito venezuelano è ancora fedele all’erede di Chavez. Il rientro in Venezuela del leader dell’opposizione, Juan Gaidò – il 23 gennaio scorso si è proclamato presidente ad interim – avvenuto lunedì scorso, inoltre non ha impresso una svolta alla situazione come molti venezuelani speravano, e altri temevano.

Belgrado, la rivolta dimenticata

Urla Belgrado: “Per il futuro del Paese siamo qui”. Nuovi giorni di rabbia in Serbia. Centinaia di migliaia da quattro mesi protestano per le strade della Capitale contro il presidente Aleksandr Vucic. “Uno di cinque milioni”, dice il loro striscione. Il battesimo a questo movimento l’ha dato il presidente stesso, quando ha sfidato l’anima ribelle del Paese: “Non mi dimetterei nemmeno se manifestassero cinque milioni di persone”. Per rispondergli, i giovani hanno invaso le strade con trombe, tamburi, fumogeni e sotto le finestre del Parlamento hanno urlato: “Ladro, dittatore Vucic, vattene, dimettiti”.

Il 23 novembre 2018 cinque uomini in passamontagna hanno tentato di uccidere il leader del partito d’opposizione di sinistra Borko Stefanovic, che il giorno dopo mostrava la sua camicia sporca di sangue al Paese. In poche ore quel pezzo di stoffa è diventato un’icona da sventolare come un vessillo per chiedere giustizia per tutti: per l’omicidio insoluto del politico Oliver Ivanovic, ucciso a Mitrovica nel 2018, per la libertà dei giornalisti intimiditi e per la fine della violenza contro gli oppositori del governo. Mentre Belgrado già si sollevava, cinque uomini della cerchia di Vucic sono stati arrestati per il tentato omicidio di Stefanovic. “Il silenzio del mondo su ciò che sta accadendo qui mi rende nervoso. Il governo è un parassita della popolazione”. Queste sono le parole di chi crede che “la Serbia dalla sua storia non ha imparato”. L’attore Bronislav Trifunovic è saltato dal set dei film al palco della piazza. Tra gli incappucciati molti artisti: “Se devo vivere quest’incubo, sono felice di farlo con voi” ha detto lo scrittore Marko Vidojkovic. Miodrag Simovic, uno degli organizzatori del movimento, tuona: “Vucic, sei il simbolo della manipolazione, corruzione, nepotismo del paese”. Oltre al presidente, nel mirino c’è il suo alfiere Dragan Bujosevic, direttore generale della RTS, servizio televisivo pubblico serbo, simbolo del controllo del potere sull’informazione prigioniera della propaganda.

È la rivolta dei giovani sognatori universitari e dei loro mentori. La lettera aperta dei cattedratici di Belgrado e Novy Sad è stata firmata da 1243 accademici di tutto il paese: “Abbiamo il dovere del libero pensiero, del rispetto dei diritti civili, oggi abbiamo l’obbligo di alzare la voce”. Dai banchi dei libri agli scranni: i deputati dell’opposizione boicottano le istituzioni e si uniscono alla piazza. La protesta è trasversale come i cartelli che agita: c’è la croce ortodossa e la bandiera polacca di Solidarnosc. Kosovo è una memoria che ritorna, un pezzo della vecchia mappa e “su quella terra, che è serba, deve decidere la piazza, non Mosca o Bruxelles”. Accanto alle teste bionde e brune sfilano i capelli bianchi, quelli che giovani lo sono stati negli anni delle proteste contro Milosevic, di cui Vucic era ministro dell’informazione. Oggi è sotto il suo governo che si minacciano i giornalisti.

Alto quasi quanto il soffitto della casa dell’amico che lo ospita, con 70 anni sulla schiena ancora dritta, il giornalista investigativo Milan Jovanovic ha tutto quello che gli rimane sul divano: un paio di vestiti, un libro e la promessa che continuerà ad indagare sul furto dei fondi pubblici del circolo di Vucic. Il 12 dicembre scorso la sua casa è stata attaccata con le molotov, rimane il video del fuoco che la divora e il suo scheletro triste. Jovanovic si è svegliato appena in tempo per scampare alla morte tra le fiamme: “Il responsabile è il presidente, le parole sono diventate pericolose, chi le usa perde la testa, io ho quasi perso la mia”.

Anche se la strategia del governo è quella del far finta di niente, adesso ci sono due presidenti a Belgrado: quello vero, leader del partito dei conservatori progressisti del Sns al potere, e la sua caricatura, il fantoccio che ogni sabato agitano in aria i manifestanti, con i suoi stessi occhiali e il naso di Pinocchio.

Burattino o burattinaio, Vucic tira i fili della politica balcanica nella regione, sospesa tra l’abbraccio di Mosca e quello della Nato.

Furbo ma strategicamente fragile, il presidente è il Giano a capo della piramide del potere, che dice si ai fratelli russi, per poi voltarsi a ovest verso Bruxelles e contraddire le promesse appena fatte, in cambio di sorrisi, affari, fondi, europei e americani, che fa sempre buon viso, ma non si sa più a quale gioco.

Isola dei famosi: L’ultimo spettatore tiri lo sciacquone

Due generazioni di Vip a confronto nell’osceno siparietto visto sull’Isola dei Famosi, quando Fabrizio Corona, nel ruolo di Jago, si è rivolto a Riccardo Fogli sostenendo di avere le prove del tradimento di sua moglie. Emaciato, stralunato, barbuto, simile al Funari ultima maniera, Fogli era il ritratto del Vip dei bei tempi andati, vissuto nella convinzione che la fama porti solo popolarità. Ferino come un killer di suburra, la Cappella Sistina tatuata sui bicipiti, Corona gli dimostrava il contrario, ormai tra i famosi vige la legge della giungla, l’ultimo stadio dei “morti di fama” è il cannibalismo. Lo ha pure teorizzato: “Se decidi di partecipare a un reality, devi accettare di mettere in piazza la tua vita privata”. Non si poteva essere più chiari: i reality sono diventati le cloache dove ogni bassezza è consentita, anzi, benvenuta. Dove ci si spreme le meningi per architettare le peggiori umiliazioni. Forse non tutto il raccapriccio vien per nuocere. Si parla di punto di non ritorno; a Mediaset, dove Pier Silvio vagheggiava “un Canale5 solo reality”, sono cadute delle teste. Aldo Grasso giustamente ha detto che non basta dissociarsi. Vale per le “opinioniste” Alda D’Eusanio e Alba Parietti, ma vale anche per il pubblico. Quando un programma è alla canna del gas si chiama Corona, lo spurgatore liquido, infatti l’Isola lo ha chiamato perché sta alla canna del gas. Adesso tocca a noi spettatori; di non volere più certi orrori bisogna dimostrarlo col telecomando.

Mail Box

 

Perché la Chiesa non vuole il reddito di cittadinanza

Non capisco perché ci si meravigli della posizione della Cei sul reddito di cittadinanza. Nel vangelo è scritto: “Avrete sempre i vostri poveri con voi” e la beneficenza è sempre stata tradizionalmente un terreno di scontro tra lo Stato e la Chiesa; uno di quegli ambiti attinenti ai cosiddetti temporalia quae ad spiritualia pertinent, nei quali la Chiesa non accetta volentieri concorrenze di provenienza laica. Anche se Di Maio pensa che si tratti addirittura di una nuova forma di “Welfare”, la misura che viene (impropriamente) chiamata “reddito di cittadinanza” è percepita, senza troppe sottigliezze, come una forma particolarmente arzigogolata e complessa di beneficenza pubblica, ed è quindi del tutto logico che vada a restringere gli spazi di operatività della beneficenza cattolica e delle IPAB controllate dal clero, creando quindi un allarme del tutto comprensibile, anche se politicamente, biasimenvole nella CEI.

Emilio Zecca

 

Il Tav per il Movimento è come la Resistenza per la Costituzione

Nel Contratto si parla di ridefinire i lavori del Tav. Il problema è quindi da individuare nei termini del patto stipulato a suo tempo, cioè che cosa si sono veramente detti a quel tavolo M5s e Lega. Qui si misura inoltre la capacità di dirigere il MoVimento di Di Maio.

Se ha concordato solo un’ambigua ridiscussione dell’opera, allora si tratta di un errore sia tattico – non aver chiarito la propria posizione in modo esplicito – sia strategico, perché il movimento No-Tav è per il M5s ciò che la Resistenza è stata per la nostra Costituzione e Repubblica.

Se invece siamo di fronte a un capovolgimento dell’accordo da parte di Salvini, allora l’unica soluzione per Di Maio è la crisi di governo, se non vuole fare la fine della defunta sinistra sempre trasformista e voltagabbana.

Vincenzo Magi

 

Sull’opera di Caravaggio ha ragione Montanari

Ha ragione Montanari: “Le Sette Opere di Misericordia” di Caravaggio deve rimanere dov’è. Da abbonati della prima ora, anzi, dell’anteprima siamo molto contenti che il professor Montanari scriva sul nostro giornale.

Giovanna Niccoli e Massimo Duranti

 

Se cade il governo saranno dolori per gli italiani

Se cade il governo saranno dolori per tutti, soprattutto per gli italiani che vi hanno votato!!!

Pensateci bene!!!

Grazie e Cordiali saluti. Rinaldin Franco

 

L’unica via d’uscita è “parlamentizzare” la crisi

O crisi o divisi. Sia il M5S che la Lega sono ormai davanti a questo bivio sul tema del Tav. Giocate (quasi) tutte le carte del rinvio, ora hanno fuori dal palazzo elettori e pubblica opinione che vogliono una decisione chiara. Quindi è crisi? Non è detto, perché c’è un deterrente che agisce a favore del governo: nessuno vuole essere incolpato di averlo fatto cadere, perché questa scelta danneggia il Paese e brucia consenso proprio alla vigilia delle europee.

L’unica via d’uscita è “parlamentizzare” la crisi. Ovvero, portare in aula la votazione sul trattato internazionale Tav e provocare la sua scontata conferma, visto che a suo favore oltre a Lega e destra, c’è anche il Pd, mentre i 5Stelle possono contare solo su forze minori. Così, Salvini potrebbe intestarsi la vittoria e i grillini vantarsi della “gloriosa sconfitta”, che li vedrebbe soccombenti ma non remissivi; anzi, incuranti – come si legge nelle lapidi – della preponderanza di forze del nemico.

Massimo Marnetto

 

Alta velocità, i pericoli dietro a un referendum

Siamo certi che facendo un referendum consultivo sul Tav gli italiani voterebbero per il sì? Vorrei ricordare che anche l’altro Matteo, il Renzi, pensava la stessa cosa sulle sue riforme costituzionali. Sappiamo bene com’è finita. Matteo Salvini fa lo sbruffone dichiarando, con il compiacimento della stampa, che quando lui si mette in testa una cosa la si fa, che non accetta più le perdite di tempo, e gonfia il petto garrulo. Di Maio e il M5S si stanno comportando bene, hanno fatto bene a ribadire il no al Tv e ai bandi telt. A questo punto devono uscire dall’angolo e ribaltare il tavolo. Hanno tutti contro, partiti, stampa, mondo della finanza e delle imprese. Gli intellettuali e gli ambientalisti sono scomparsi come la neve al sole. Si può anche fare un confronto con l’Europa e la Francia, ma servirà solo a prendere tempo e ad arrivare alle elezioni Europee in difesa e balbettanti, con un Salvini all’attacco e che presenterà il conto subito dopo. In Parlamento non ci sono i numeri. Corriamo il rischio di ritrovarci, da qui a poche settimane o mesi, un governo di centro-destra, Salvini premier e il Tav. L’unico modo che rimane per bloccare questo progetto politico che lor signori vogliono, e di cui il Tav è solo una scusa, è appellarsi ai cittadini italiani. Fare una campagna elettorale su questo argomento e rimettere al centro dell’azione politica i tempi dello sviluppo sostenibile. Ecco perché secondo me il premier Conte dovrebbe proporre come soluzione di mediazione un referendum nazionale e in attesa del suo esito bloccare i bandi Telt.

Pino Tassi

“Nuova via della seta”. La tela di ragno della Cina, “trappola” dorata

 

Si parla diffusamente in questi giorni delle opportunità che la Cina offre all’Europa con l’accordo sui collegamenti commerciali attraverso la così detta “nuova via della seta”. L’impressione è che, come sempre quando si parla di Cina, i vantaggi economici possano nascondere trappole di altra natura, come la tenuta dei rapporti con i partner storici come gli Stati Uniti. Insomma, è per l’attuale governo un’occasione per sganciarsi dalle tradizionali dipendenze atlantiche o un rischio di sbilanciarsi e finendo con il rinunciare a legami consolidati? Chi lascia la via vecchia…

Gianni Levato

L’Italia viene considerata capofila dei Paesi dell’Unione europea nell’accordarsi con Pechino per il mega-progetto (900 miliardi di dollari di investimenti previsti) che dovrebbe avvicinare l’Asia all’Europa. È polemica di queste ore l’annunciata – e poi congelata – firma del Memorandum of Understanding con il presidente cinese Xi Jimping che arriverà tra due settimane a Roma. Nell’immaginario i rapporti tra il nostro Paese e l’ex impero sono improntati al bello fin dai tempi di Marco Polo, dove alle meraviglie della tecnica si univano i vantaggi del commercio. Poi, per trovare una più conveniente via per gli scambi asiatici che non fosse quella impervia della seta (dai bachi che vennero clandestinamente importati in Europa) Cristoforo Colombo s’imbatté nell’America. Ed è proprio l’America che si frappone ora – più geopoliticamente che fisicamente –tra nuove e più strette intese commerciali dell’Italia (e di altri Paesi europei) con la Cina. L’America di Trump, come già quella di Obama, guarda al Pacifico con più attenzione di quella riservata all’Atlantico (e in queste settimane si sta sbrogliando il complesso accordo che dovrebbe superare i dazi indetti da Washington contro Pechino). Ma non vede di buon grado che la Cina la aggiri flirtando con governi e grandi enti pubblici e/o privati europei con prospettive multimiliardarie. L’innegabile vantaggio di fare affari con la Cina, come sanno bene i governanti africani, è che Pechino non chiede certificati di buona condotta e ciò che promette mantiene. In Europa però è chiaro che fare affari con il regime consumo-comunista di Pechino sottintende spesso una cessione parziale di sovranità, che può arrivare a esser assai invasiva come nel dibattuto caso globale Huawei-reti 5G (sul quale 5Stelle e Lega non sono concordi). Difficile pensare che in ogni affare che portano a termine i cinesi ci guadagnino meno del partner scelto.

Stefano Citati

Se la telepolitica

“Intorno all’istituzione del talk-show si crea una comunità; si tratta però di una comunità ossimorica, una comunità di individui uniti solo dalla loro autosegregazione e autoindipendenza”.

(da La società sotto assedio di Zygmunt Bauman – Laterza, 2005 – pag. 181)

 

Quanta gente d’ora in poi non comprerà più volentieri le cucine Scavolini, dopo l’imperdonabile gaffe di Lorella Cuccarini che in una puntata di Otto e mezzo su La 7 ha avuto l’improntitudine di dichiarare che “in Italia non si votava da dieci anni”? Verosimilmente più telespettatori di quanti invece potrebbero essere stati colpiti in modo favorevole da quella improbabile e maldestra apparizione televisiva. “Una stupidaggine”, “cretinate”, come ha riconosciuto poi lei stessa. Si dà il caso, però, che la Cuccarini sia stata per vent’anni testimonial della “cucina più amata dagli italiani”, in quanto showgirl, cantante, attrice, conduttrice televisiva e radiofonica. E proprio in virtù della sua immagine e del suo ruolo mediatico, ha partecipato a quell’infausto talkshow.

Sono gli inconvenienti della telepolitica, gli effetti della politica-spettacolo. Un frullatore televisivo in cui si dicono abitualmente cose serie o importanti e, appunto, stupidaggini o cretinate. Dipende in primo luogo dagli ospiti, dalla loro competenza e della loro capacità comunicativa. Perciò l’errore, più che della Cuccarini, è stato di chi l’ha invitata a parlare di politica in quella sede, sfruttando il suo “potere mediatico” per catturare magari l’attenzione dei telespettatori e fare audience. Una scelta, insomma, al limite del sessismo. Ancor più discutibile da parte di una conduttrice esperta e impegnata qual è senz’altro Lilli Gruber, ancorché griffata Armani e ingioiellata Vhernier come si legge nei titoli di coda.

Che cosa volevate che dicesse l’avvenente signora Cuccarini, seduta al “tavolo rotondo” in mezzo a due autorevoli giornalisti come Paolo Mieli e Massimo Giannini? E infatti, secondo i resoconti della trasmissione e le successive precisazioni diffuse dalle agenzie di stampa, ci ha rivelato di essere diventata sovranista dopo essere stata democristiana, in un Paese che – secondo lei – non avrebbe esercitato il diritto di voto per dieci anni, prontamente corretta dalla conduttrice e dagli altri ospiti. Una figuraccia per una ex testimonial alla quale un marchio così domestico e rinomato ha affidato per tanto tempo la propria immagine e la propria credibilità.

Può anche darsi che, in qualche anfratto dell’immaginario collettivo, quell’incauta sortita abbia prodotto nell’immediato un effetto di amplificazione mediatica. Ma c’è da dubitare che alla lunga un incidente del genere, accaduto su una tv commerciale che vive di pubblicità, non si ripercuota negativamente sulle scelte dei consumatori più avveduti e consapevoli. D’ora in avanti, quel brand rischierà di essere associato a quella gaffe.

Un altro conto, evidentemente, è far parlare la “vox populi”, il cittadino comune, il classico uomo della strada. In quel caso, si cerca di rappresentare più o meno efficacemente l’opinione popolare, magari contrapponendo chi la pensa in un modo e chi in un altro. Ma il minimo che possa accadere invitando una showgirl a un talkshow sulla politica è che la malcapitata confonda la sovranità popolare, sancita solennemente dall’articolo 1 della Costituzione, con il sovranismo che è ben altro concetto. E soprattutto, che rischi così di confondere le idee ai telespettatori meno attenti e avvertiti, facendo politica per fare spettacolo senza neppure rendersene conto.

“difesa: la legge pd era migliore” “no, era pessima”

Nell’editoriale di mercoledì, il direttore Travaglio sostiene che la legge sulla legittima difesa appena approvata dalla Camera non si distingue da quella approvata sempre a Montecitorio dal Pd nella scorsa legislatura. “Trova le differenze”, è il titolo del pezzo. Posso provare a individuarne qualcuna? La prima è quella fondamentale: la legge Salvini scardina principi costituzionali, di civiltà giuridica e convivenza civile. Lo fa con un semplice avverbio che lo stesso Travaglio cita solo incidentalmente: “stabilisce sempre a priori la proporzionalità tra difesa e offesa nel caso d’intrusione”. Ma questa è una cosa enorme che manda in soffitta ogni proporzionalità tra offesa e reazione difensiva, calpestando principi costituzionali e civili. Che di fatto rende legittima la difesa anche quando un ladro fugge e qualcuno gli spara alle spalle, quando sta all’interno di una proprietà, di un giardino… Questa enormità non c’era nella legge che approvammo nel 2017. È vero, venne introdotto il concetto di “grave turbamento” per cercare di aiutare il magistrato a interpretare meglio la reazione difensiva, tenendo ancor più conto dello stato emotivo dell’aggredito. Per questo nel testo venne sottolineato l’orario notturno, ma solo come elemento per sottolineare che di notte le difese e la percezione non sono identiche a quelle delle ore diurne. Ma quelle norme valevano, ovviamente, h24… L’altra novità che introducemmo (ero Capogruppo Pd in Giustizia) era quella del risarcimento delle spese legali nei confronti di un cittadino che, indagato per avere reagito e magari ferito o ucciso un ladro, fosse stato archiviato o assolto: un segnale verso persone che certamente subiscono un trauma e reagiscono. Ma nella nostra legge quel “sempre” non c’era. Sta qui una radicale differenza di impostazione, di visione, di concezione della sicurezza, che per noi è da tutelare, non da sfruttare per propaganda. Per questo non credo proprio che si possa parlare di analogie. Quel “sempre” rappresenta oltre che una aberrazione, anche un messaggio drammatico, pericoloso. Un invito implicito a reagire comunque, tanto la difesa è sempre legittima. Ad armarsi, mettendo a rischio davvero la sicurezza di tante persone fragili. E quella di tutti, visto che con più armi in giro aumenta a dismisura la possibilità di tragedie. Nelle audizioni tenute in Commissione hanno sostenuto queste cose, all’unisono, associazioni di magistrati e avvocati, esperti e accademici. Una trentina di parlamentari 5 stelle, sia pure con modalità non eclatanti, si sono rifiutati di votare questa legge pericolosa. Solo FI si è abbarbicata a Salvini. Per questi motivi, di testo e contesto, il Pd sostenne le norme del 2017 e si è radicalmente opposto a queste di oggi. Sì, anche di contesto: quelli erano tempi in cui si introduceva nell’ordinamento il reato di tortura. O le Unioni civili. Oggi diritti civili e umani sono coperti dalle felpe.

*Deputato Pd

 

 

Le impressionanti analogie fra la legge del Pd e quella della Lega sulla illegittima difesa le ho documentate testualmente nel mio articolo e i lettori possono giudicarle. Se “la legge Salvini scardina principi costituzionali, di civiltà giuridica e convivenza civile”, faceva altrettanto quella approvata dal Pd nel 2017 alla Camera. Il punto grave non è quel “sempre” aggiunto dalla Lega all’articolo 52 del Codice penale: perché è una semplice e inutile ridondanza in un articolo che già fissa principi e condizioni validi per sempre e per tutti (come se, al “Vietato parlare al conducente”, si aggiungesse “sempre”). L’ha spiegato Edmondo Bruti Liberati a Repubblica:

quel “sempre” è “una delle promesse più ingannatorie. I casi opposti ed estremi di evidente ‘difesa legittima’ o di evidente ‘eccesso colposo’ non esistono. Sarà sempre necessario aprire un’indagine: esame del luogo, consulenza balistica, ricostruzione delle posizioni rispettive delle persone coinvolte, autopsia. Farlo comporta necessariamente l”atto dovuto’ dell’iscrizione e l’informazione di garanzia per l’esercizio dell’esercizio di difesa”. Dunque non è vero, come scrive Verini, che quel sempre

“rende legittima la difesa anche quando un ladro fugge e qualcuno gli spara alle spalle”. Il punto più grave è un altro: quello che la Lega ha copiato dalla legge Pd. E cioè il “grave turbamento” che dovrebbe giustificare chi spara per offendere e non per difendersi (h 24 come vuole la Lega, di notte come voleva alla Camera il Pd, che poi promise di rimediare in Senato cancellando il ridicolo riferimento alle tenebre). È giusto invece che lo Stato paghi le spese legali ai cittadini indagati e poi prosciolti o assolti per essersi difesi legittimamente. Ma questa non è una “differenza” fra la legge del Pd e quella della Lega: lo prevedono entrambe.

Marco Travaglio

Don Ciotti e quei razzisti a sinistra

In questi giorni, il silenzio di voci radicali e libere che opprime il discorso pubblico italiano, specie a sinistra, è lacerato da un piccolo libro di don Luigi Ciotti: Lettera a un razzista del Terzo millennio (Edizioni del Gruppo Abele, 6 euro). Un dialogo serrato – dolce, fermo e argomentatissimo – che si rivolge a un interlocutore che immagino giovane, povero e senza lavoro. E sedotto dalle idee e dalla retorica di Matteo Salvini, pure mai nominato.

Mai come in questo caso saranno gli incontri diretti e personali (quelli preferiti da Ciotti) a dirci quanti di questi destinatari saranno raggiunti, e messi in crisi, dal limpido e forte argomentare del libro.

Ma questo libro ha altri due destinatari impliciti, non meno rilevanti: uno è l’immensa zona grigia, impoverita di denaro e di cultura, che non è razzista, ma non è insensibile alle retoriche razziste. E l’altro è, con ogni evidenza, il vertice politico del sedicente ‘fronte dei buoni’, in primo luogo la classe dirigente del Partito democratico che ha appena provato a riverginarsi nella narrazione mediatica che ha ‘montato’ sulla bella manifestazione di Milano le primarie del giorno successivo.

Se il Pd e i governanti di centrosinistra – da Prodi a Renzi e a Zingaretti – sono un destinatario, il messaggio loro riservato assomiglia a un cazzotto nello stomaco. Se dovessi dare un sottotitolo al libro, infatti, scriverei – parafrasando la Arendt –: “La continuità del male”. La indicibile verità che Ciotti dice è che anche il centrosinistra (e ben prima dell’avvento di un Renzi comodissimo capro espiatorio) ha fatto politiche razziste, e culturalmente generatrici di razzismo. Un argomento esplosivo per chi marcia a Milano ostentando la propria coscienza pulita.

Tracciando la genealogia del decreto Sicurezza, Ciotti allinea le leggi che hanno contribuito “a dare diritto di cittadinanza al razzismo”: ebbene, la prima di esse non porta il nome di un politico fascista, ma quelli di Livia Turco e Giorgio Napolitano (1998). Da allora, i migranti non hanno goduto più degli stessi diritti dei cittadini. I neri – di questo si tratta – diventarono per legge diversi dai bianchi: e l’autore di quella legge divenne presidente della Repubblica. E questo giudizio, in bocca a don Ciotti, guasta il maquillage con cui il Pd prepara una campagna elettorale contro i razzisti.

Ancora. In un passaggio lucidissimo e coraggioso, Ciotti scrive che “il culmine dell’ipocrisia, con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza e cerca di darsi rispettabilità e credibilità, sta nell’affermazione ‘aiutiamo i migranti a casa loro’”. Qua si guarda in faccia non Salvini in sé, ma “Salvini in me”, per riprendere una celebre espressione coniata per Berlusconi, e usata da Antonello Caporale nel suo libro dedicato al “ministro della paura”. E cioè la diffusione di quella retorica che va sotto l’etichetta di “non sono razzista, ma…” (per usare il titolo di un altro libro legato al nostro argomento, quello di Luigi Manconi e Federica Resta). Fatto è che il più autorevole uomo pubblico che ha usato quel nascondimento è l’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, che nel suo libro del 2017, scrive: “Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro”.

Se è don Ciotti a dire che il “culmine dell’ipocrisia con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza” si è toccato nelle parole e nel pensiero del più autorevole leader del campo ‘dei buoni’, chiunque può rischiare di capire che, in tema di razzismo, la politica italiana mainstream si divide in cattivi e altri cattivi.

È un’affermazione importante: perché se vogliamo davvero combattere il razzismo, bisogna avere il coraggio di guardarlo in faccia per quello che è. Il coraggio di questo piccolo, importante libro.