speciale 8 marzo

 

In tutto il mondo Scioperi e cortei

Manifestazioni in tante città e un grande corteo organizzato a Roma dalla rete “Non una di meno”: l’8 marzo è stato celebrato con scioperi ed eventi, in Italia come in altri 70 Paesi del mondo. Al centro delle rivendicazioni i diritti di genere e la lotta contro le violenze: i femminicidi sono in calo, ma nel 2019 in Italia si contano comunque già 11 donne uccise, 9 delle quali in ambito familiare-affettivo.

Sergio Mattarella “Mai più schiave”
Ieri il presidente Mattarella ha ricevuto al Colle le donne vittime del traffico della prostituzione. Ascoltando le loro storie, come Stefania, arrivata dalla Bulgaria 17enne con una promessa di lavoro, torturata e costretta a prostituirsi. E rendendo loro omaggio. “Gli uomini che approfittano del loro corpo sono complici di un crimine. La legge Merlin è stata tappa nel cammino di liberazione”.

In Svezia Greta la donna dell’anno
In Svezia la donna dell’anno è una 16enne: è Greta Thunberg, l’attivista che si batte contro i cambiamenti climatici. Nel sondaggio del quotidiano Aftonbladet è finita davanti alla leader dei democratici-cristiani, Ebba Busch Thor, oltre a nomi famosi della tv e dello sport. “È incredibile ed è la conferma che ciò che cerco di portare avanti fa la differenza”, il suo commento.

Calcio usa Discriminazione salariale
La Nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti fa causa alla Federazione per discriminazione: la squadra è una delle più forti al mondo, ha vinto molto più della maschile (compresi gli ultimi Mondiali e Olimpiadi). Eppure continua a essere pagata meno dei colleghi uomini. Per questo nell’azione legale le campionesse chiedono salari più alti e un diverso trattamento medico, sanitario e professionale. Ansa

Si temeva un matrimonio combinato in Bangladesh, ma N. ora è tornata a casa

L’aereo con la diciassettenne di origini bengalesi, sparita da Ancona alla fine dello scorso gennaio, ha toccato il suolo italiano nella tarda serata di giovedì. Poche ore e la ragazza varcava di nuovo la soglia di casa sua, nel cuore del quartiere multietnico del capoluogo marchigiano. Il fatto che la vicenda si sia risolta in maniera positiva proprio l’8 marzo, il giorno dedicato alla donna, è soltanto una coincidenza, seppur evocativa. Niente matrimonio combinato, solo un allontanamento in forma precauzionale, pare, dovuto a problemi caduti di recente addosso alla giovane a causa di un suo coetaneo e connazionale. Un particolare della storia emerso durante i giorni di assenza della giovane, anche se il timore di fondo era proprio legato a una decisione forzata dei genitori di riportare la figlia nel Paese d’origine. In queste settimane il Garante dei Diritti dei Minori delle Marche, Andrea Nobili, ha intrattenuto contatti con i vertici della comunità bengalese, la più numerosa ad Ancona, per far sì che la storia non si trasformasse nell’ennesima sparizione di un’adolescente.

Il grande interesse delle istituzioni alla fine potrebbe aver giocato un ruolo decisivo, facendo pressione soprattutto sul padre della ragazza, l’unico membro della famiglia rimasto in Italia. Ora la ragazza tornata a casa, sta bene e al personale dell’ufficio dell’Ombudsman (difensore civico) e dei servizi sociali del Comune di Ancona avrebbe detto di non aver subìto alcuna costrizione e di aver trascorso giorni sereni a Dacca, la capitale bengalese. Di fatto non avrebbe escluso, addirittura, la possibilità di un ritorno in Bangladesh, ma resta da valutare il peso della famiglia sulle sue dichiarazioni. Tra meno di un mese la giovane compirà 18 anni e a quel punto potrà assumersi tutte le responsabilità del caso. Fino ad allora, tuttavia, rientrerà a scuola, un istituto professionale del capoluogo, forse già da oggi o da lunedì.

Convenzioni scadute, fuori tutti. Il Comune “sfratta” anche la Casa delle Donne

Ieri l’Associazione Terni Donne ha combattuto una battaglia politica. Le attiviste della Casa delle donne ternana, l’unica in Umbria, hanno portato in piazza “La casa (r)esiste” contro la decisione del Comune di mettere a bando gli spazi dove si svolgono attività sociali, tra cui la loro sede. “Noi facciamo politica per le donne, evidentemente a loro non va bene” sostengono le volontarie. La loro protesta rientra in quella del comitato “Beni comuni” che riunisce i 14 centri sociali e centri anziani a cui l’amministrazione ha dato l’ultimatum: entro il 31 marzo tutti devono lasciare gli spazi per cui sono scadute le convenzioni. Per le quali – novità – è previsto un affitto.

L’interrogativo sul destino della Casa delle donne resterà ancora sospeso perché la loro convenzione scade il 31 dicembre 2019 e non è stato ancora emesso un bando per gli spazi del centro. Le attiviste comunque non ci stanno: “Se dobbiamo pagare un affitto, scegliamo noi a chi. Ma sarebbe un paradosso fare attività sociali in uno spazio privato e non in uno pubblico”. Le loro critiche non si fermano qui: “Il Comune nei bandi non specifica la destinazione degli spazi, che potrebbero finire a chi ha interessi commerciali. Noi siamo volontarie e anche creditrici per quasi 14mila euro nei confronti del Comune”. Gli ultimi giorni della vicenda sono stati complessi. Le attiviste sono state, prima, invitate a lasciare i locali poi, dopo il passo indietro dell’amministrazione, il hanno partecipato il 4 marzo ad un’audizione in Consiglio comunale dove si votava la proposta dell’opposizione di un incontro tra l’assessore al Welfare Marco Cecconi e le volontarie. Il voto è saltato perché un consigliere della maggioranza, favorevole ma pressato per esprimersi contro l’atto, ha abbandonato l’aula. L’assessore Marco Cecconi si è trincerato dietro un “non rilascio dichiarazioni”, ma lunedì ci sarà un nuovo incontro.

Scuole chiuse a Tamburi. Mamme in lotta contro i veleni portano i bimbi in piazza

Disegnano, leggono seduti per terra su teli colorati davanti al Palazzo di Città. Sono i bambini del quartiere Tamburi, oltre 700, che non possono studiare perché le loro scuole sono state chiuse per inquinamento. Sono i figli delle mamme che dopo aver messo i lucchetti ai cancelli della direzione di ArcelorMittal con il cartello “oggi vi chiudiamo noi” continuano a lottare. A loro non importa se ArcelorMittal, come dichiara, rispetta la prescrizione Aia (autorizzazione integrata ambientale). Loro sanno, come certifica l’Arpa, che la quantità di veleni – pur rientrando nei parametri di legge – non garantisce la salute. Un fatto documentato anche dal tavolo tecnico tenutosi in Prefettura: durante la gestione ArcerolMittal l’inquinamento è aumentato arrivando a +195% di IPA (idrocarburi inquinanti) che, oltre a essere cancerogeni, sono stati considerati – da studi scientifici condotti sui bambini – responsabili di danni al neurosviluppo correlati a riduzione del quoziente di intelligenza e ai disturbi dell’attenzione. La soluzione resta la chiusura dell’area a caldo (cokerie e impianto aglomerizzazione) sostituendola con la decarbonizzazione che però sostiene Mittal non potrà essere praticata finché non scenderà il prezzo del gas per poter produrre acciaio senza rinunciare al profitto.

“Non abbiamo città, non abbiamo Stato – spiegano le mamme di Taranto –. Siamo apolidi, privati del diritto di vivere normalmente, prigionieri in casa nostra. Siamo carne da macello, vittime sacrificali tollerabili in un’analisi costi/benefici. Siamo importanti per l’intera nazione eppure noi ed i nostri figli non valiamo assolutamente niente nè per chi l’ha governata, nè per chi la governa oggi” . Durante il sit-in, una delegazione delle mamme è salita in Comune, ha incontrato il sindaco Melucci per chiedere il riesame dell’Aia per ottenere prescrizioni più restrittive e il fermo degli impianti inquinanti sotto sequestro con facoltà d’uso e hanno ricevuto l’assicurazione che le 44 classi di Tamburi saranno trasferite nella scuola Dante del centro città con una navetta gratuita.

Lucia, che fu strangolata e dimenticata. Alla ragazzina un funerale dopo 64 anni

“Cu fu?” Leo Milazzo, un siciliano emigrato a Londra, qualche anno fa pubblicò un libro in inglese ma dal titolo siciliano. La traduzione è una domanda che i cittadini di Montedoro, piccolo paesino di mille abitanti in provincia di Caltanissetta, ancora oggi si pongono: “Chi è stato?”. In maniera romanzata il libro racconta una storia vera accaduta quel 6 gennaio 1955, che nessuno ha dimenticato: 64 anni fa la cittadina si macchiava di un omicidio: una tredicenne, Lucia Mantione, veniva strangolata da un assassino al quale non è mai stato associato un volto. Oggi il caso acquisterebbe presto la ribalta nazionale, con trasmissioni dedicate all’omicidio, allora però ben presto tutto si dissolse in una bolla di sapone. Neanche la Chiesa volle dare la benedizione alla piccola, strangolata quasi sicuramente per aver rifiutato di cedere a un atto sessuale, come si pensò subito dopo aver scoperto il corpo quasi svestito in un casolare abbandonato delle campagne nissene. A oltre mezzo secolo di distanza, il 6 gennaio scorso la piccola ha visto finalmente celebrato il funerale che le era stato negato all’epoca: “Al tempo – racconta Calogero Messana, storico e blogger del luogo – chi moriva di morte violenta, come accadeva ai minatori, non aveva diritto ad alcun rito, e in modo assurdo la piccola Lucia, morta in modo violento, ha avuto lo stesso trattamento”. Messana e suo fratello Federico, giovanissimi al tempo dell’omicidio, non hanno dimenticato la storia della famiglia Mantione, portando avanti le ricerche su un caso che fu archiviato immediatamente senza alcun colpevole. Dopo essere riusciti, con l’impegno dei nipoti e della precedente amministrazione comunale, ad assicurare un funerale alla ragazza uccisa, adesso vogliono ricostruire la vicenda attraverso una ricerca di documenti, raccogliendo il favore degli abitanti oggi ancora presenti: “Io ho fatto delle ricerche all’archivio di Stato, ma lì i documenti versati dalla Procura di Caltanissetta arrivano fino al 1954”, racconta. “Neanche i carabinieri hanno alcun documento sul caso, poiché questi sono stati distrutti qualche anno dopo. Ora attraverso i giornali dell’epoca stiamo ricostruendo la storia, cercando sempre di avere altre testimonianze”. La comunità, in prima linea i nipoti, pretendono giustizia e intanto vogliono custodire la memoria di Lucia. Per questo i due fratelli chiedono all’amministrazione comunale per la costruzione di un piccolo loculo, più visibile rispetto a quello esistente. Oltre a continuare a cercare le risposte di quel giallo mai risolto: “Probabilmente le indagini potevano toccare qualche persona importante – conclude Messan –, in un paese dove l’omertà era ben presente: la ragazzina proveniva da una famiglia di contadini e se chi l’ha uccisa era un potente, nessuno lo avrebbe mai additato come assassino”.

Tiziana Cantone e le altre

Che cos’è La diffusione, in Rete, di video e di immagini hard private, da parte di un ex partner per esempio, senza il consenso dell’altro interessato, quasi sempre una donna. Oggi potrebbe comportare un reato grave anche in Italia – è già tale in 34 Stati Usa e in Germania, Gran Bretagna e Israele – secondo una proposta di legge presentata del Movimento 5 Stelle per mano della senatrice Elvira Evangelista, che sta ottenendo adesioni bipartisan. Questo tipo di illecito potrebbe essere punibile con “la reclusione da uno a cinque anni e la multa da 927 a 2 mila euro” e, nel caso di morte della persona offesa, “la reclusione, per gli autori, andrebbe dai 6 ai 12 anni e la multa da 10mila a 80 mila euro. Con la proposta M5S non sarebbero punite solo le persone che pubblicano immagini o video privati (senza consenso), ma anche coloro che li diffondono. Per questi, pena e multa sarebbero ridotte della metà rispetto a quella comminata ai responsabili di un’azione considerata da molti “paragonabile a una vera e propria violenza sessuale”.

Sabrina vince la battaglia contro il ricatto hot sul web

C’è una giovane ragazza abruzzese, Sabrina, a cui noi donne, tutte, dovremmo essere grate. Perché Sabrina – senza soldi, senza un lavoro stabile, senza la certezza di uscire incolume dalla battaglia che tre anni fa ha intrapreso nei tribunali – ha ottenuto uno dei più grandi risultati in tema di azioni giudiziarie riguardanti il revenge porn in Italia. Ed è una sentenza importante quella emessa dal Tribunale di Roma, perché chiarisce un passaggio importante: è vero che non esiste una legge specifica sul “revenge porn”, ma chi diffonde foto o video intimi di una persona senza il suo consenso, risponde comunque davanti alla legge per i reati di diffamazione, violazione della privacy, stalking, a seconda dei casi e della gravità dei fatti. E la storia di Sabrina è spaventosa e emblematica di come un ex fidanzato possa pianificare e mettere in atto la distruzione psicologica e la reputazione di una donna.

Sabrina si innamora di P. T. nel 2014. Lei ha 32 anni e vive in una cittadina abruzzese, lui ne ha 10 in più e vive a Roma. Sembra un grande amore, ma un giorno lui non approva i metodi educativi di Sabrina col suo cane e la picchia. Sabrina va al pronto soccorso, ma non lo denuncia. Si lasciano per un po’, ma poi P., come tutti i “narcisisti-maligni” tipo, la implora, pentito, di tornare insieme. Iniziano una convivenza in casa di lui. Sabrina trova un lavoro in palestra, P. ha lavori saltuari e molto tempo per controllarla. La accusa di flirtare con i colleghi, la insulta con epiteti vari, la cronometra quando va a fare la spesa, le controlla computer e telefono e, naturalmente, ricomincia con le botte. A fine agosto 2005 lei non ce la fa più e si licenzia. È iniziata la distruzione dei suoi spazi, della sua libertà, della sua autostima. Sabrina però è una tosta, per cui a settembre lo lascia e torna in Abruzzo. Da quel momento inizia l’inferno. P. inizia a tempestarla di telefonate perché le vuole restituire i suoi effetti personali, ma Sabrina vuole evitare ogni contatto, ha paura. Un giorno il fratello trova vestiti e oggetti di lei nel giardino, buttati oltre la recinzione. P. è andato a casa sua, in Abruzzo, per farglieli trovare lì, bagnati con della candeggina e semi-distrutti. Iniziano quelle “condotte vessatorie – scrive il giudice nella sentenza di primo grado – che rivelano un programma criminoso volto a causare in Sabrina un disagio continuo, incompatibile con le normali condizioni di vita e teso, dunque, a ledere l’integrità fisica e morale della stessa”.

Il primo segnale di quella che diventerà una delle azioni di revenge porn più odiose mai documentate in Italia è un messaggio che le arriva contemporaneamente dal cellulare del suo ex, da un numero sconosciuto e da un falso profilo Facebook. “Ti rovino, ho foto e video tuoi, ti sputtano sul web con conoscenti e parenti come mai si è visto nell’era digitale”. P. mantiene la promessa. Poco dopo nasce un profilo fb col nome e cognome di Sabrina la cui foto profilo è quella di Sabrina che fa sesso col suo ex. Con quel profilo, P. chiede l’amicizia ad amici, parenti e conoscenti di lei. Poi, non contento, apre un altro profilo fb in cui mette foto e video intimi di Sabrina, il suo indirizzo email, di casa con pure le coordinate di Google maps. E contatta amici, colleghi, parenti, perfino il fratello di lei. Accompagna quelle foto con frasi quali “Assatanata cinofila”, “Stava col c… in bocca del cane ‘sta laida”, “Succhiatrice di peni canini”, “Se qualcuno la vuole contattare e scoparsela abita in via…”. Poi, essendo un assiduo frequentatore di alcune pagine fb note per aver diffuso foto e file privati di ragazze inconsapevoli come “Welcome to Favelas”, quelle foto finiscono in quei gruppi fb. La diffusione è capillare.

Per lungo tempo Sabrina è il primo risultato su Google cercando “donna nuda”. Le scrivono migliaia di ragazzi, non solo italiani, facendole proposte sessuali. Alcuni vanno sotto casa sua. Sabrina è devastata dalla rabbia e dalla vergogna ma reagisce. Deposita ben cinque denunce archiviando con meticolosità ogni singola prova che lo incastri. Non ha un euro per pagarsi un avvocato, ma si rivolge al centro anti-violenza della sua zona e ottiene il patrocinio gratuito. Per lui c’è il divieto di avvicinamento. Ha paura che P. si vendichi, ma non molla.

P. viene rinviato a giudizio: il 27 ottobre 2016 inizia il processo di primo grado. Dopo numerose udienze, a fine 2018, il giudice condanna P. a 4 anni di reclusione per maltrattamenti, atti persecutori, diffamazione aggravata, sostituzione di persona, lesioni personali, più 5 anni di interdizione dai pubblici uffici (per giunta, P. è pregiudicato quindi se la condanna sarà confermata andrà in carcere per un po’). Inoltre P. è condannato a risarcire il danno con un provvisionale di 20mila euro e a rimettere le parti avanti al giudice civile per la successiva liquidazione. Fino a poco prima della condanna, P. continuava a fare lo sbruffone su Facebook, convinto della sua assoluzione. E invece lo attendono due gradi di giudizio tutti in salita. Nel frattempo, Sabrina è diventata campionessa di una disciplina di difesa personale. Ha le sue medaglie, accanto alla medaglia più importante e sofferta: quella di chi non si è rassegnata alla brutalità di un uomo vendicativo e ha preteso giustizia. E se mai sarà approvata la legge sul revenge porn, quella legge dovrebbe chiamarsi “Legge Sabrina”.

Passeggino travolto da camion in fuga: gravissimo il bimbo

Un camion in fuga lanciato ad alta velocità, l’autista ubriaco al volante che perde il controllo, un passeggino con dentro un bimbo travolto: la tragedia è successa ieri nel tardo pomeriggio a Marostica, nel Vicentino, il piccolo è stato subito portato in ospedale ed è in gravissime condizioni. Il mezzo stava trasportando alcuni bancali in legno, probabilmente nel tentativo di sfuggire a un controllo della polizia locale ha accelerato ma ha perso il controllo in curva, urtando un muretto di un’area verde nei pressi della quale c’era la famiglia composta dai due genitori, il bimbo nel passeggino e il fratellino di 4 anni. È stato proprio il più piccolo ad avere la peggio, sbalzato fuori dal passeggino e scaraventato violentemente a terra, è stato subito portato in ospedale. Ferita anche la mamma, illesi padre e l’altro figlio. Dopo lo scontro, l’autista ha provato a fuggire ma è stato fermato dai carabinieri e portato in questura, mentre il padre tentava di avventarsi su di lui. Secondo alcune testimonianze era in evidente stato di ebbrezza.

Il pm su Cucchi: “La perizia segreta finì ai carabinieri”

Nel processo in corso sulla morte di Stefano Cucchi continuano a essere riesumati vecchi atti capaci di smentire le versioni che l’Arma dei carabinieri metteva nero su bianco nelle settimane successive la morte del geometra di 31 anni, secondo uno schema che per la Procura di Roma aveva un solo obiettivo: salvare la reputazione dell’istituzione. La nota in cui il Comando provinciale dei carabinieri affermava che non vi erano percosse sul corpo del ragazzo, né un nesso di causalità tra le lesioni e la morte, raffigurava infatti una realtà diversa rispetto a quella contenuta nei primi accertamenti effettuati dal medico legale, il dottor Dino Mario Tancredi.

È il documento che, ieri, il sostituto procuratore Giovanni Musarò ha chiesto di depositare al processo ora in corso a cinque carabinieri, tre accusati del pestaggio. La richiesta non è stata accolta dal Tribunale. Si tratta di una relazione preliminare che il dottore incaricato di effettuare l’autopsia sul corpo di Cucchi aveva consegnato in Procura – che in quel momento aveva un fascicolo per omicidio contro ignoti – il 30 ottobre del 2009. Quell’atto così fu allegato al fascicolo già secretato quindi non sarebbe stato a disposizione dei familiari della vittima, né dei militari dell’Arma. Eppure la nota datata 1 novembre 2009, e firmata dall’allora comandante provinciale dei Carabinieri Vittorio Tomasone (non coinvolto nel processo nè in altre indagini), faceva riferimento proprio a quella relazione, contenuta nel fascicolo ancora “segreto” del pm. Inoltre nella nota interna all’Arma si sottolineano conclusioni diverse da quelle sostenute dal dottor Tancredi. Se il medico ricorda la presenza di fratture vertebrali sul corpo del ragazzo, senza tuttavia affermare a quando risalgano, i militari scrivono invece che la frattura “sembrerebbe riferita a un periodo significativamente antecedente il momento dell’arresto”. Il dottore riferisce inoltre che “non ricorrono criteri tali da poter distinguere se le lesioni occorse nel caso in esame siano tutte di natura accidentale, ovvero tutte o in parte direttamente o indirettamente eteroprovocate, oppure se dette lesioni siano espressioni di caduta in qualche modo eteroindotta”. E quindi, secondo quanto riporta la relazione medico legale preliminare, la morte del giovane “appare riconducibile ad insufficienza cardiocircolatoria acuta”, ma per risalire alle causa certa occorre un approfondimento tramite una consulenza collegiale.

Questo aveva scritto il medico legale Tancredi. Invece nella nota dei carabinieri è scritto che quei primi risultati parziali non rivelavano segni di percosse e non attribuivano “le cause del decesso a traumi”. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato il pm Giovanni Musarò ieri in aula.

Oltre dieci anni fa, quella relazione preliminare del medico è stata allegata, passando quasi inosservata, ad un’ampia consulenza collegiale depositata solo il 7 aprile 2010, che però arriva a conclusioni simili a quelle contenute nella nota dei carabinieri. Per il pm Musarò si tratta di carte false. Per questo ha chiesto di revocare dal processo le testimonianze dei vecchi periti, perché ritiene che la prima consulenza medico legale su Stefano Cucchi “è stata farlocca (…). Il precedente processo è stato giocato con un mazzo di carte truccate, ora il mazzo è nuovo”.

Ieri in aula è stato sentito come testimone Paolo Unali, all’epoca dei fatti comandante della Compagnia Casilina. Il maggiore tra le altre cose ha parlato del mancato foto-segnalamento. Una circostanza che non fu mai discussa nelle riunioni che i carabinieri organizzarono all’indomani della morte del ragazzo: “C’erano operanti, un comandante provinciale, due di compagnia” e altri graduati, ha ricordato il pm chiedendo se qualcuno avesse fatto domande in merito al foto-segnalamento. “Non mi sembra”, ha risposto Unali. Una circostanza invece è chiara nella mente del maggiore: “Ricordo di essermi complimetato con il piantone per aver chiamato il 118”.

Ieri erano stati chiamati a deporre in aula anche l’ex comandante dei Corazzieri del Quirinale Alessandro Casarsa, il Tenente colonnello Luciano Soligo e il capitano Tiziano Testarmata. Ma una volta in aula hanno preferito avvalersi dei diritti concessi dal loro status di “indagati in procedimento connesso”. Infatti sono tutti indagati nelle inchieste bis che ora sta svolgendo la procura di Roma. “Intendo avvalermi della facoltà di non rispondere e non acconsento a essere ripreso dalle telecamere”, hanno detto. Per il pm, è un “silenzio assordante dei testimoni”.

Concita non cita il collega Augias

Concita non lo cita ma ce l’ha proprio con lui: Corrado Augias, vicino di stanza e di rubrica a Repubblica. Ieri sul giornale dei De Benedetti, Concita De Gregorio ha scritto un commento sull’8 marzo e sulla discriminazione femminile anche nelle redazioni dei giornali e delle trasmissioni tv. Le è successo pure quando ha lavorato per il servizio pubblico: “D’altra parte – scrive – in Rai quando ho preso il posto e poi l’ho di nuovo ceduto a chi mi ha preceduta e seguita nel medesimo orario, sulla medesima rete, nel medesimo compito ho avuto un ingaggio inferiore della quarta parte di quello del mio omologo. La metà della metà”. Non è difficile indovinare di chi stia parlando: Corrado Augias conduce Quante storie, un programma di attualità e cultura dedicato ai libri. in onda dal lunedì al venerdì alle 12:45 su Rai3. Esattamente lo stesso orario, lo stesso canale e lo stesso argomento del programma letterario condotto dalla De Gregorio (si chiamava FuoriRoma) fino al ritorno di Augias. Dunque, senza mai farne il nome, Concita si lamenta sulle pagine di Repubblica del trattamento salariale di un collega di Repubblica che le ha fatto le scarpe in Rai. Da Augias ci si aspetta, a questo punto, almeno un mazzo di mimose.