C’è una giovane ragazza abruzzese, Sabrina, a cui noi donne, tutte, dovremmo essere grate. Perché Sabrina – senza soldi, senza un lavoro stabile, senza la certezza di uscire incolume dalla battaglia che tre anni fa ha intrapreso nei tribunali – ha ottenuto uno dei più grandi risultati in tema di azioni giudiziarie riguardanti il revenge porn in Italia. Ed è una sentenza importante quella emessa dal Tribunale di Roma, perché chiarisce un passaggio importante: è vero che non esiste una legge specifica sul “revenge porn”, ma chi diffonde foto o video intimi di una persona senza il suo consenso, risponde comunque davanti alla legge per i reati di diffamazione, violazione della privacy, stalking, a seconda dei casi e della gravità dei fatti. E la storia di Sabrina è spaventosa e emblematica di come un ex fidanzato possa pianificare e mettere in atto la distruzione psicologica e la reputazione di una donna.
Sabrina si innamora di P. T. nel 2014. Lei ha 32 anni e vive in una cittadina abruzzese, lui ne ha 10 in più e vive a Roma. Sembra un grande amore, ma un giorno lui non approva i metodi educativi di Sabrina col suo cane e la picchia. Sabrina va al pronto soccorso, ma non lo denuncia. Si lasciano per un po’, ma poi P., come tutti i “narcisisti-maligni” tipo, la implora, pentito, di tornare insieme. Iniziano una convivenza in casa di lui. Sabrina trova un lavoro in palestra, P. ha lavori saltuari e molto tempo per controllarla. La accusa di flirtare con i colleghi, la insulta con epiteti vari, la cronometra quando va a fare la spesa, le controlla computer e telefono e, naturalmente, ricomincia con le botte. A fine agosto 2005 lei non ce la fa più e si licenzia. È iniziata la distruzione dei suoi spazi, della sua libertà, della sua autostima. Sabrina però è una tosta, per cui a settembre lo lascia e torna in Abruzzo. Da quel momento inizia l’inferno. P. inizia a tempestarla di telefonate perché le vuole restituire i suoi effetti personali, ma Sabrina vuole evitare ogni contatto, ha paura. Un giorno il fratello trova vestiti e oggetti di lei nel giardino, buttati oltre la recinzione. P. è andato a casa sua, in Abruzzo, per farglieli trovare lì, bagnati con della candeggina e semi-distrutti. Iniziano quelle “condotte vessatorie – scrive il giudice nella sentenza di primo grado – che rivelano un programma criminoso volto a causare in Sabrina un disagio continuo, incompatibile con le normali condizioni di vita e teso, dunque, a ledere l’integrità fisica e morale della stessa”.
Il primo segnale di quella che diventerà una delle azioni di revenge porn più odiose mai documentate in Italia è un messaggio che le arriva contemporaneamente dal cellulare del suo ex, da un numero sconosciuto e da un falso profilo Facebook. “Ti rovino, ho foto e video tuoi, ti sputtano sul web con conoscenti e parenti come mai si è visto nell’era digitale”. P. mantiene la promessa. Poco dopo nasce un profilo fb col nome e cognome di Sabrina la cui foto profilo è quella di Sabrina che fa sesso col suo ex. Con quel profilo, P. chiede l’amicizia ad amici, parenti e conoscenti di lei. Poi, non contento, apre un altro profilo fb in cui mette foto e video intimi di Sabrina, il suo indirizzo email, di casa con pure le coordinate di Google maps. E contatta amici, colleghi, parenti, perfino il fratello di lei. Accompagna quelle foto con frasi quali “Assatanata cinofila”, “Stava col c… in bocca del cane ‘sta laida”, “Succhiatrice di peni canini”, “Se qualcuno la vuole contattare e scoparsela abita in via…”. Poi, essendo un assiduo frequentatore di alcune pagine fb note per aver diffuso foto e file privati di ragazze inconsapevoli come “Welcome to Favelas”, quelle foto finiscono in quei gruppi fb. La diffusione è capillare.
Per lungo tempo Sabrina è il primo risultato su Google cercando “donna nuda”. Le scrivono migliaia di ragazzi, non solo italiani, facendole proposte sessuali. Alcuni vanno sotto casa sua. Sabrina è devastata dalla rabbia e dalla vergogna ma reagisce. Deposita ben cinque denunce archiviando con meticolosità ogni singola prova che lo incastri. Non ha un euro per pagarsi un avvocato, ma si rivolge al centro anti-violenza della sua zona e ottiene il patrocinio gratuito. Per lui c’è il divieto di avvicinamento. Ha paura che P. si vendichi, ma non molla.
P. viene rinviato a giudizio: il 27 ottobre 2016 inizia il processo di primo grado. Dopo numerose udienze, a fine 2018, il giudice condanna P. a 4 anni di reclusione per maltrattamenti, atti persecutori, diffamazione aggravata, sostituzione di persona, lesioni personali, più 5 anni di interdizione dai pubblici uffici (per giunta, P. è pregiudicato quindi se la condanna sarà confermata andrà in carcere per un po’). Inoltre P. è condannato a risarcire il danno con un provvisionale di 20mila euro e a rimettere le parti avanti al giudice civile per la successiva liquidazione. Fino a poco prima della condanna, P. continuava a fare lo sbruffone su Facebook, convinto della sua assoluzione. E invece lo attendono due gradi di giudizio tutti in salita. Nel frattempo, Sabrina è diventata campionessa di una disciplina di difesa personale. Ha le sue medaglie, accanto alla medaglia più importante e sofferta: quella di chi non si è rassegnata alla brutalità di un uomo vendicativo e ha preteso giustizia. E se mai sarà approvata la legge sul revenge porn, quella legge dovrebbe chiamarsi “Legge Sabrina”.