Il Corridoio 5 che non c’è: cantieri e dubbi dappertutto

Sono passati sei anni da quando Luca Rastello e Andrea De Benedetti, autori del libro Binario morto, viaggiarono lungo il “mitico” Corridoio 5 alla ricerca della sostanza dell’opera. Prendendo atto che quel corridoio non esisteva. Non esistevano i lavori, le tratte ad alta velocità, l’idea di un rapido e immaginifico collegamento da Kiev a Lisbona.

Oggi il Corridoio 5 non esiste più nemmeno nel nome: si chiama Corridoio Mediterraneo e al posto di Lisbona, dopo il ritiro del Portogallo dal progetto, si è inserita Algericas, sul bordo più meridionale della Spagna. Nemmeno Kiev esiste perché il progetto si ferma ai confini dell’Ucraina. In mezzo tante strade, ferrovie, porti, collegamenti marittimi, vie fluviali interni, esistenti e in corso di ristrutturazione con nessuna opera che possa somigliare al “cuore” del progetto, il simbolo della politica del nostro tempo.

Il corridoio dovrebbe essere lungo circa 3000 chilometri e, come spiega il rapporto della Commissione europea redatto dalla responsabile del progetto, Iveta Radicova, ex primo ministro della Slovacchia, ha nella Lione-Torino la sua “sezione-chiave”. E qui appare chiaro che il tratto in cui si realizza il maggior danno ambientale è proprio quello italo-francese. Le proteste ambientaliste ci sono tra Marsiglia e Perpignan, a Budapest e in Slovenia, ma nulla a che vedere con gli effetti di quei 57 chilometri di tunnel da cui sembrano dipendere le sorti dell’Europa.

Solo che si tratta di un’Europa poggiata su un asse, quello est-ovest, che resta fuori da quella che fu chiamata la “Banana blu”, l’area della megalopoli europea che si estende da Londra a Genova e poi ampliata all’area berlinese. E lungo quest’asse non c’è una linea ad alta velocità tutta continua che non si ferma mai.

In Spagna, paese convinto del progetto, perché trovandosi all’esterno occidentale ha tutto da guadagnare da più rapide comunicazioni con il resto d’Europa, la linea tra Algericas e Barcellona doveva essere completata nel 2016 e ora viene annunciata per il 2025. Sul sito El corredor mediterraneo si può leggere lo stato dell’arte delle 14 tratte che, nei progetti spagnoli, servono a spezzare la “Spagna radiale” che ruota attorno a Madrid e costruire una “Spagna circolare” che possa giovarsi anche della linea mediterranea. Che però ha come problema principale la sostituzione dello scarto iberico (da 1668 mm) con quello internazionale da 1435 e su cui può viaggiare l’Alta velocità.

Arrivati in Francia siamo in alto mare tra Narbonne e Perpignan e tra quest’ultima e Montpellier. A Lione siamo ancora agli “studi” per quanto riguarda l’eliminazione del “collo di bottiglia” rappresentato dalla città. Oltre Torino si va a singhiozzo fino a Trieste con lavori in costruzione, per piccole tratte, e studi in corso.

In Slovenia si è di nuovo in alto mare. La tratta tra Koper e Divaca è stata oggetto di referendum lo scorso maggio, fallito per mancanza di quorum, però il dibattito se farla o meno è ancora in corso. In Slovenia si affaccia già un nodo che poi occupa il dibattito in Ungheria e cioè su quale direttrice conviene investire di più. La Slovenia è a ridosso di Trieste che sta per diventare un porto strategico per la Cina favorendo un traffico che, una volta raccolte le merci via Mediterraneo, punta al Corridoio verso il Baltico e quindi l’asse Nord. Ed è a quella direzione che guarda Budapest, dove i lavori non si sa quando finiranno. Però, lo scorso dicembre sono stati siglati due accordi per la costruzione con capitale cinese di una linea ad alta velocità fra Budapest e Belgrado. L’obiettivo è poi estenderla fino alla Macedonia e alla Grecia.

C’è infine la Croazia beneficiaria, fino al 2018, di 364 milioni di finanziamenti europei (l’Italia ne ha avuti 570, mentre la Francia 437) dove lo stato dei lavori definito dal rapporto della Commissione segnala “studi in corso” e lavori di ammodernamento. Anche qui l’Alta velocità ancora non c’è.

Le spese e il costo totale

Se non verranno fermati lunedì prossimo I bandi di gara che dovrebbero essere pubblicati da Telt, il soggetto promotore incaricato dai governi di Italia e Francia di realizzare la nuova Torino-Lione, hanno un valore pari a 2.3 miliardi di euro e riguardano gli interi lavori di scavo del tratto francese del ‘tunnel di base’ lungo 57.5 km e a due canne. Fanno parte di un appalto unico, ma diviso in tre lotti, che è “congelato” dal luglio scorso quando c’è stata un’accelerazione dopo mesi di ritardi. Il costo totale del tunnel, per due terzi in territorio francese, grava molto più sull’Italia che sulla Francia. È di 9,6 miliardi, l’importo complessivo a carico di Roma è di 5,5 miliardi, mentre quello della francia è di 4 miliardi. La spesa si riduce dal momento che l’Ue finanzierà l’opera per un importo di circa il 40%. Finora del tunnel non c’è praticamente nulla, se non scavi geognostici, che dal lato francese costituiscono l’embrione del futuro traforo. Per questi, e per studi e progettazione, finora sono stati spesi circa 1,4 miliardi. La quota italiana dei costi già sostenuti, complessivamente pari a circa 740 milioni, è stata finanziata con 402 milioni di euro di risorse statali e 328 milioni di euro di risorse Ue.
I bandi Telt di lunedì riguardano sono la parte più consistente dell’insieme di 81 lotti, pari a 5,5 miliardi di euro e previsti in 12 cantieri. Se non dovessero essere lanciati, ha fatto sapere la Commissione Ue in una lettera inviata al cda di Telt, si perderanno subito 300 milioni del nuovo finanziamento Ue 2015-2019, che ammonta a 813 milioni.

La Banda del Buco: ditte fallite e i soliti noti di Tangentopoli

Lavorare per il Tav non porta benissimo, si racconta in Valle di Susa. Tutte e tre le aziende locali impegnate nella Torino-Lione sono fallite: la Geomont di Bussoleno, la Martina e la Lazzaro di Susa. Anche le imprese più grandi che hanno partecipato ai primi appalti non sono messe benissimo: la Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, ha chiesto il concordato preventivo. Condotte è in amministrazione straordinaria. Sta meglio il gruppo Gavio, che controlla il 36,5 per cento di Sitaf (al 51 per cento di Anas) che ha lavorato per lo svincolo di Chiomonte (88 milioni di euro) e altre commesse (per un totale di 93 milioni). Sitaf – ironia della sorte – è la diretta concorrente del tunnel ferroviario, visto che gestisce il traforo autostradale del Fréjus.

L’impresa Pizzarotti di Parma (già tra i protagonisti di Tangentopoli, come Gavio, Cmc e Condotte) era nei consorzi che hanno realizzato le discenderie di Saint-Martin-la-Porte e di Villarodin-Bourget/Modane, in territorio francese. In quest’ultima, Pizzarotti ha sostituito Condotte, che aveva fatto una parte dei lavori. Cmc, con altre imprese, ha scavato invece le gallerie geognostiche di Saint-Martin-la-Porte, in alleanza con Cogeis, che ha poi lavorato anche alla discenderia di La Praz. Sul versante italiano, Cmc e Cogeis, insieme a Geotecna, hanno realizzato la galleria di La Maddalena, a Chiomonte, un lavoro da 126 milioni di euro. In totale, finora sono stati fatti lavori per 1,4 miliardi: 211 milioni per studi e indagini, il resto per le tre discenderie e la galleria geognostica sul lato francese (totale: 16 chilometri). Sul lato italiano, la galleria della Maddalena (7 chilometri). Dei soldi usciti finora, ben 789 milioni sono stati dati in concessione a Sncf, la società delle ferrovie francesi, per la realizzazione del tratto ferroviario all’aperto in Francia, che però è lungo meno di 4 chilometri. Infatti Sncf di quei 789 milioni ne ha spesi finora solo 2. A impegnare i soldi è stata Telt, la società dei governi italiano e francese.

Lunedì, se Telt darà il via ai bandi, ci sarà la vera partenza del Tav: saranno lanciate le due gare per l’intero tratto francese del tunnel di base, 45 dei 57,5 chilometri totali, del valore di 2,3 miliardi. Una bella fetta dei 9,6 miliardi di euro che è il costo totale del supertunnel.

I lavori della Torino-Lione eseguiti finora sono solo una piccolissima parte di quelli necessari per completare l’opera. Eppure sono riusciti ad attirare più volte l’attenzione della Procura di Torino. Indagini per fatti di corruzione e qualche infiltrazione mafiosa. Nel 2011 sono stati condannati per turbativa d’asta, in primo grado, Paolo Comastri, l’ex direttore generale della Lyon-Turin Ferroviaire (Ltf, la società poi sostituita dalla Telt), e l’allora responsabile della direzione costruzioni, Walter Benedetto. Insieme a loro era stata coinvolta anche Maria Rosaria Campitelli, di Mm Metropolitana milanese. La turbativa d’asta riguardava il tunnel che doveva essere scavato a Venaus (poi non realizzato). A scoprire gli interessi illeciti intorno allo scavo del tunnel geognostico italiano è poi arrivata l’inchiesta “San Michele” del Ros carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia di Torino. Tra i tanti fatti emersi, l’estorsione ai danni dei proprietari di una cava a Sant’Antonino di Susa commessa da Gregorio Sisca, condannato in via definitiva per mafia, per conto di Giovanni Toro, imprenditore condannato per concorso esterno mafioso, che aveva preso in affitto la cava e voleva mantenerne il controllo: “Noi dobbiamo stare lì perché è lì dentro che nei prossimi dieci anni arrivano 200 milioni di euro di lavoro”, diceva Toro, intercettato. “La torta non me la mangio da solo. Me la divido con te e ricordati queste parole, che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità”.

Toro, preoccupato per le proteste dei No Tav, nella primavera 2011 diceva al telefono: “Se arrivano i No Tav, con l’escavatore ci giriamo e ne becchiamo qualcuno… E col rullo gli vado add… cioè salgo io sul rullo e accelero. Se non ti togli ti schiaccio”. Toro era in rapporti anche con un imprenditore di Susa, Ferdinando Lazzaro, a cui diceva, sui lavori nel cantiere di Chiomonte: “Prendiamo tutto noi”.

Lazzaro, titolare della Italcoge e della Italcostruzioni, ha poi patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta ed è stato condannato (in primo grado) a 1 anno e mezzo per turbativa d’asta: fallita la sua Italcoge, per continuare a svolgere i lavori preliminari del cantiere di Chiomonte aveva fatto un accordo col curatore fallimentare e aveva presentato un’offerta per aggiudicarsi l’affitto di un ramo della sua azienda. Dall’inchiesta del Ros erano emersi anche i suoi contatti con la politica e con i Sì Tav. In un’informativa del 2012 si legge: “Sono emerse aderenze di Lazzaro con personaggi politici e della pubblica amministrazione”, a cui chiedeva aiuto per licenze e autorizzazioni. Tra questi, Antonio Ferrentino, consigliere regionale del Pd, ex sindaco No Tav passato al fronte dei favorevoli.

Il 17 settembre 2012, Lazzaro contatta addirittura Paolo Foietta, oggi commissario straordinario del governo per l’asse ferroviario Torino-Lione e allora dirigente dell’area territorio e trasporti della Provincia di Torino. Secondo i carabinieri, Foietta avrebbe garantito “il suo interessamento per addivenire a una soluzione della vicenda” che riguardava la ditta di Lazzaro: “Allora mi faccia una mail”, diceva Foietta a Lazzaro, “se mi mette anche il nome specifico del funzionario con cui avete avuto rapporti mi è più utile, così vedo di evitare giri”. Lazzaro ha replicato di aver sempre operato lecitamente: “Le gare del Tav le ho vinte regolarmente e senza alcun aiuto, tantomeno quello di Esposito o Rettighieri”. Si riferiva a Stefano Esposito, ex senatore del Pd, e Marco Rettighieri, ex direttore generale di Ltf.

Ci sono state anche quattro interdittive antimafia. Tra queste, una per i gestori del bar Gritty di Bardonecchia, che forniva la colazione agli operai del cantiere Tav: un bar con una storia, perché apparteneva alla sorella e ai nipoti di Rocco Lo Presti, il boss della ’ndrangheta le cui attività portarono al commissariamento del Comune nel 1995, prima amministrazione del nord sciolta per infiltrazioni mafiose. Lo Presti “utilizzava il bar Gritty per incontrare i propri interlocutori”. Interdittive anche alla Romea di Bologna, fornitore di carburante, in cui aveva lavorato un nipote di Totò Riina. E alla Torino Trasporti, il cui titolare è parente di un personaggio condannato nel processo antimafia “Minotauro”.

Chi tocca i Renzis muore

L’altro giorno il Csm ha assolto il pm Henry John Woodcock dalle accuse più gravi e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura (bloccandogli la carriera) per la più lieve. Ha stabilito che la sua condotta – e quella della collega Celeste Carrano – nell’inchiesta Consip fu ineccepibile: sia quando decise di non inquisire il renziano Vannoni e dunque di interrogarlo come testimone (con l’obbligo di dire la verità), anziché come indagato (con la facoltà di mentire), perché queste sono scelte insindacabili del pm; sia quando lo interrogò senz’alcun tipo di pressione (Vannoni sosteneva che invece le sue accuse a Lotti gli fossero state estorte con minacce e il Pg della Cassazione aveva preso per buona la sua parola, peraltro smentita da tutti i testimoni e rivelatasi una balla). Dunque tutte le accuse di complotto lanciate per due anni da Renzi e dai suoi sottopancia finiscono definitivamente nel cesso. La censura riguarda un aspetto che con le indagini Consip non c’entra. Quando i pm di Roma indagano il cap. Gianpaolo Scafarto del Noe di vari falsi dolosi per alcuni errori nel rapporto investigativo su Consip, Woodcock riceve una telefonata da Liana Milella di Repubblica.

I due si conoscono da tempo e, come spesso accade fra cronisti giudiziari e magistrati (o avvocati), parlano off record, con l’intesa che nulla sarà pubblicato. Woodcock, che non ha mai rilasciato interviste, non le svela alcun segreto d’indagine: si limita a dirle che a suo avviso il capitano ha commesso sbagli in buona fede, e non per incastrare i Renzis. È la stessa conclusione a cui giungerà la Cassazione, che farà a pezzi le accuse di falso a Scafarto. La Milella conferma di aver tradito il patto di sangue stretto con Woodcock per l’ansia dello scoop e le pressioni del suo direttore Calabresi: inserì alcune sue frasi con la formula usata dai retroscenisti (“dice Woodcock ai suoi colleghi”). Quel mattino Woodcock va da Fragliasso per dirgli che la Milella non ha parlato con i “colleghi”, ma con lui in un colloquio che doveva restare riservato. Il che dovrebbe bastare a dimostrare la sua buona fede. Fragliasso invece denuncia Woodcock, in base alle sue stesse parole, al Pg della Cassazione. Il quale avvia l’azione disciplinare non solo sulle accuse di Vannoni, ma pure su 4 rilievi relativi alla non-intervista: il pm non doveva interferire con l’indagine romana; non doveva parlare con la giornalista; doveva avvertire subito il suo capo; e non doveva ingannarlo consigliandogli di parlare con la Milella per ribadire la regolarità dell’indagine, quasi a volersi coprire le spalle.Ora il Csm ha stabilito che Woodcock non interferì nell’indagine romana e poteva parlare con la giornalista senz’avvertire il capo (sennò sarebbero guai per quasi tutti i magistrati). Ma l’ha censurato per il presunto inganno. La sua difesa ricorrerà in Cassazione per fargli cancellare pure quella macchiolina (molto pesante ai fini della carriera). Noi siamo ammirati da cotanto zelo contro un pm che da vent’anni indaga su destra, centro e sinistra, senza la protezione di alcuna corrente, sempre assolto in 17 procedimenti disciplinari nati quando a Potenza scoperchiava i malaffari del centrosinistra, quando a Napoli incastrava B. per la compravendita di senatori e apriva il fascicolo che avrebbe portato a Milano e Genova alle condanne dei vertici della Lega per i 49 milioni rubati. Poi, per sua sventura, s’imbatté nel nome Renzi: indagando sull’imprenditore Romeo, scoprì che parlava di babbo Tiziano col faccendiere toscano Carlo Russo; poi il renziano Luigi Marroni gli confessò di aver strappato le microspie dagli uffici Consip su soffiata di Lotti, Vannoni, Del Sette, Saltalamacchia. E, al 18° procedimento disciplinare, s’è beccato la censura per le conseguenze di un’intervista mai rilasciata.
Ora attendiamo con ansia notizie dal Pg della Cassazione su un altro pm incappato in guai simili, anzi per aver detto a una giornalista cose ben più pesanti. È il romano Mario Palazzi, che ereditò con Ielo l’inchiesta Consip, poi indagò e infine archiviò Woodcock e Federica Sciarelli, accusati di una criminale triangolazione di fughe di notizie col nostro Marco Lillo. Il 22 febbraio 2018 Annalisa Chirico pubblica sul Foglio queste frasi di Palazzi (mai smentite) sull’inchiesta appena archiviata su Woodcock-Sciarelli: “Non vedo l’ora di tornare a occuparmi degli Spada a Ostia. So’ più semplici perché in quel caso sai chiaramente chi sono i buoni e chi i cattivi. Qui invece è un verminaio senza fine. Abbiamo acquisito una valanga di materiale probatorio, stiamo lavorando con il pettine fino… Abbiamo riscontrato la triangolazione delle utenze telefoniche tra Woodcock, Federica Sciarelli e Marco Lillo, abbiamo battuto questa pista ma senza individuare elementi sufficienti”. Diversamente da Woodcock, il pm romano parla di una sua inchiesta violando il doveroso riserbo. Poi dice cose non vere: non esiste alcuna triangolazione Woodcock-Sciarelli-Lillo, ma solo una telefonata di Lillo alla Sciarelli per sapere se Woodcock fosse a Roma, senza che poi la Sciarelli chiamasse Woodcock e richiamasse Lillo (il famoso triangolo con due lati). Infine parla di “verminaio senza fine”, roba da rimpiangere quei bei criminali del clan mafioso Spada, a proposito di due innocenti, Woodcock e Sciarelli, archiviati con tante scuse perché non hanno fatto nulla (ma per lui è solo perché la “valanga di materiale probatorio” non è “sufficiente”). Ora, siccome l’azione disciplinare è obbligatoria, siamo certi che il Pg della Cassazione l’abbia avviata o stia per avviarla anche per le dichiarazioni di Palazzi alla Chirico. Sennò Woodcock e la Milella potrebbero credersi più importanti e montarsi la testa.

L’immagine deve eccitare i sentimenti

Nell’era dell’esposizione del sé sui social e nella tv trash, si assiste come a una gara per chi produce una nuova breccia sul muro già mezzo diroccato del buon gusto: profili social per neonati dagli improbabili nomi faunistici, coming out e litigi in diretta tv e poi corpi sempre più magri, muscolosi o rifatti. Eppure, l’attrazione che tali fenomeni (cioè, tali manifestazioni dell’esistere) esercitano è indubbia e ha a che fare con i sentimenti di tutti. Sorvolando una spiegazione da psicologi della domenica sull’ammirazione che sfocia in imitazione, il linguaggio dell’arte può chiarire meglio cosa decreta il seguito di una tale esibizione dell’immagine: è l’affetto.

Già il vescovo bolognese Gabriele Paleotti nel testo Discorso intorno alle immagini sacre et profane (1582) scrive che le immagini, più delle parole, “servono a muovere gli affetti delle persone”, o ancora meglio, “all’eccitazione dell’affetto”. Lo illustra bene la mostra “Dipingere gli Affetti. La pittura sacra a Ferrara tra Cinque e Settecento” (a cura di Giovanni Sassu, al Castello di Ferrara fino al 26 dicembre). Le pale d’altare e i quadri devozionali qui esposti dovevano da un lato raccontare la carità verso i bisognosi in cui si impegnavano gli istituti religiosi guidati da illuminati filantropi, tra cui spicca Magherita Gonzaga d’Este, ma dall’altro eccitare la pietà dei fedeli affinché facessero delle donazioni. Adesso, dire che la Gonzaga fosse un’influencer d’antan sarebbe dir troppo, ma l’esatto scopo delle opere commissionate per il conservatorio di Santa Margherita a Ferrara da lei voluto (ove venivano accolte donne e fanciulle abbandonate, dette zitelle) era influenzare alla benevolenza chi guardava. Perfetto è l’esempio de Il martirio di Santa Caterina (1611) di Ippolito Scarsella, detto Scarsellino, in cui il sentimento di immedesimazione con lo smarrimento delle fanciulle dipinte in basso è totale, come pure in Madonna in gloria con le sante Barbara e Orsola venerate dalle zitelle (1586) di Giuseppe Mazzuoli.

Ma dipingere gli affetti significava anche dare alla religione una forma nella quale il fedele potesse riconoscersi, come testimonia il ciclo pittorico di 17 tele Storie di San Giovanni Battista (1630) in cui il pittore cremonese Giuseppe Caletti racconta ed enfatizza con tono fiabesco i momenti e i tormenti della vita del santo.

Che lo storytelling dei sentimenti di oggi tra selfie e pianti in tv sia, dunque, la nuova generazione (o la de-generazione) dei buoni sentimenti di ieri?

Dentro il cuore di Delal e Aniya che decidono il proprio destino

Capita che nel 2019 le storie delle proprie coetanee possano illuminare la condizione femminile più di qualsiasi trattato femminista. Potrebbe capitare anche a voi, ragazze, leggendo Dentro il cuore di Kobane il racconto di Delal e Aniya: due amiche quindicenni la cui sfida in Siria per diventare donne passa per la guerra, le rovine del proprio Paese fermo al tempo in cui a decidere delle vite delle donne erano gli uomini. Da padre a marito, spesso coetanei, come nel caso di Delal, costretta a sposare un uomo che neanche conosce, molto più grande di lei e violento. O dal lutto alla lotta, come nel caso di Aniya che sotto il fuoco dei miliziani dello Stato islamico ha perso sua sorella e alla sua coetanea si aggrappa per non rischiare di perdere un altro pezzetto di vita. Se il racconto delle giovani di Kobane – seppure amaro – è delicato e appassionato, lo svolgimento accompagna la lettrice nelle gioia della ribellione al destino che apparentemente condanna tutte, dalla Siria all’Europa, ad adattarsi a ciò che gli altri hanno deciso per te. Primo comandamento di Delal: “Me la caverò, ci aiuteremo le une con le altre”. Buon 8 marzo a Kobane come a Roma, “cittadine dei due mondi”, come vorrebbe Aniya.

 

Per capire fino in fondo se stessi l’unico modo è rinunciare a vivere

La conoscenza, fin dal morso della mela, implica peccato ma anche libertà, l’essere umano smette di essere un giocattolo di Dio quando sceglie di ribellarsi al suo comandamento e preferisce il turbamento della consapevolezza ai piaceri dell’obbedienza. C’è però un limite a questa emancipazione: quando l’uomo inizia a cercare di conoscere se stesso. Pur con tutti i suoi limiti, Sigmund Freud, oltre un secolo fa, ha dimostrato che non possiamo conoscere davvero noi stessi perché ci sono strati diversi, barriere, auto-inganni. E la psicanalisi è un percorso lungo e indiziario che, con l’aiuto di una guida, può (forse) aiutare a superare questi ostacoli alla conoscenza interiore, così da raggiungere problemi profondi e risolverli, o almeno capirli. Marc-Anthoin Mathieu, in uno straordinario fumetto orizzontale di grandi vignette mute accompagnate da didascalie essenziali, spinge questo percorso all’estremo. Otto l’uomo riscritto è un artista che ha lavorato tutta la carriera sul tema del doppio. Dopo la morte dei genitori scopre un baule in cui ci sono le registrazioni in tempo reale dei suoi primi sette anni di vita (era la cavia di un esperimento): il doppio per eccellenza è un’altra versione di se stessi. Si chiude in casa e inizia a guardare, osserva un bambino sconosciuto cercando di trovare i semi di quello che poi sarebbe diventato. Una tale ricerca ha però un prezzo elevato: Otto smette di uscire, tutta la sua creatività viene assorbita dall’osservazione, dalla tessitura di fili che collegano ciò che è stato a ciò che sarà. E così, inseguendo la conoscenza assoluta di ciò che qualcuno chiama anima, Otto si perde, si distacca dal mondo, la vita prosegue ma lui non ne è più parte.

Traffico di diamanti e mafia nigeriana: torna Amalia Pinter, cronista all’antica

Roma caput mundi del crimine. Meglio, invisibile punto di convergenza di affari internazionali della ferocissima Ascia Nera, la mafia nigeriana, e di faccendieri sudamericani, specialisti nel traffico dei diamanti. E poi Palermo, la Siena del Palio, i ghetti al Sud, tra Puglia e Campania, dove vengono reclusi i migranti di colore. Ritorna Amalia Pinter, la tenace cronista del Vero Investigatore, quotidiano della Capitale, e ancora una volta il lettore si trova immerso in una realtà tutta da raccontare. Nel primo libro, Pinter si trovò alle prese con una figura sconosciuta, quella del logista, un professionista che pianificava soggiorni all’estero anche per obiettivi non proprio leciti.

Stavolta invece, la giornalista si cala nei tanti lati oscuri dell’immigrazione . Uno dei protagonisti è “Bambino” nigeriano sbarcato a Fiumicino e che finisce dritto a Regina Coeli, l’antico carcere romano. L’uomo è un affiliato, suo malgrado, dell’Ascia Nera e ha un tesoro in bocca. Le otturazioni nascondono diamanti. E qui si arriva a Dom Ezequiel Alves, riccastro brasiliano che nasconde un clamoroso segreto nelle miniere in patria. È lui il meticcio del titolo di questa seconda avventura di Amalia Pinter, personaggio inventato da Federica Fantozzi, già giornalista parlamentare dell’Unità. E il merito principale di Fantozzi è appunto quello di cavare dall’attualità un intreccio di grande impatto con molti dettagli sconosciuti o poco noti. Nel Meticcio, Pinter si dibatte anche tra la crisi del suo quotidiano e una consulenza a tutti gli effetti con il suo amico poliziotto, Alfredo Pani. E soprattutto si trova sempre sul luogo del delitto. Una vera arte.

 

 

Il favoloso mondo di Amélie ricorda Hitchcock

Le parole sono pietre. I verbi, macigni. Rotolano dentro di noi, ingigantendosi a ogni rivoluzione, fino a travolgere ogni cosa. Il verbo che muove tutto e tutto distrugge è “to crave”. Un “sasso”, nel XII secolo – “pregare, implorare, supplicare”; una “pietra” nel XIV – “desiderare, volere, bramare”; un “macigno” nel XX – “avere un bisogno disperato di” – quando travolge Claude, Dominique ed Épicène – padre, madre e figlia – protagonisti di I nomi epiceni (che possono indicare sia un uomo che una donna) di Amélie Nothomb , dramma dell’incontro tra i due parenti più prossimi: odio e amore.

“Quel verbo sono io”, dichiara Épicène, che si laureerà con una tesi sull’evoluzione della parola. “È il verbo della mia vita – le confesserà suo padre, poco prima di morire – ma non lo conoscevo. Eppure ne ho esplorato il senso in lungo e in largo”. La trama? Per ammissione degli stessi protagonisti, guardandola a posteriori, è “davvero scontata”. Ed è bene che sia così. Il senso della letteratura, come della vita, non è nella trama. Identica per tutti, almeno nei suoi tratti essenziali. È nel significato. O nell’assenza di significato. Ma, soprattutto, nell’indagine – acuta, originale, rivelatrice – di ciò che muove chi trama. Il seme, non il frutto. Seme dell’amore o del non-amore. Seme dell’odio. Della vendetta, in questo caso. Vendetta doppia – uomo/donna; figlia/padre – e smisurata. Smisurata nel grado della follia: rendere la vita un inferno (“l’assassinio è troppo rapido” e non “abbastanza crudele”) o toglierla, senza avvertire alcun rimorso e provando, anzi, “un’allegria indicibile”. Smisurata nella durata: vent’anni una; covata dall’età di undici anni, l’altra. Smisurata negli esiti: un “completo fallimento”, quella del padre (“la cosa davvero terribile non è essere infelici, ma che la nostra infelicità non abbia nessun senso”); una “vittoria sbalorditiva”, quella della figlia.

Con una lingua gelida, affilata e millimetrica come lama di bisturi, Amélie Nothomb dà vita a una vicenda hitchcockiana nel glaciale fluire e crescendo della tensione, shakespeariana nella potenza ingovernabile di passioni da eroi elisabettiani, e “microscopica”, nel senso che viviseziona le coscienze, le dispone sul vetrino, le osserva e ne descrive gli spasmi. Niente mezze misure. Niente orpelli. Niente alibi. Anime nude e crude. Onorevolmente cattive o perfettamente buone, come avrebbe chiesto Machiavelli.

Nessuno spazio alla vergogna. Nessuna pietà per i rimorsi, buoni solo a tacitare le coscienze dei vigliacchi. Male e bene così come devono essere: grandi, totali, senza ritorno. Per questo la collera di Claude, abbandonato con agghiacciante cinismo dalla sua Reine, non passa. Esiste il verbo incollerirsi ma non il suo contrario, nota acutamente la Nothomb. “Perché la collera è preziosa, protegge dalla disperazione”. E per questo l’amore di Dominique, strumento e vittima di vendetta, non svanisce. Malgrado menzogna, tradimento e manipolazione del marito le abbiano impedito di essere protagonista della sua vita, lei non riesce a non amare l’uomo che ha solo finto di amarla. Unico risarcimento la benedizione della figlia: “Sii fiera di aver amato, mamma. La persona che ama è sempre la più forte”.

 

La Trilogia femminile di Malosti riparte dalle eroine ottocentesche

La “Trilogia Malosti” è uno spettacolo uno e trino: si compone, infatti, di tre storie ben distinte, con tre protagoniste forti e indipendenti, ma allo stesso crea un unicum omogeneo, mescolando la tragedia, l’anticonformismo, la ribellione e (perché no?) anche un pizzico di femminismo, considerando che racconta le storie di tre donne e debutta proprio oggi, 8 marzo, per poi rimanere 11 giorni al Teatro Torlonia. Attraverso l’interpretazione di Irene Vivaldi, prenderanno corpo le parole di Henry James in Giro di vite (dall’8 al 10 marzo), di Camillo Boito in Senso (dal 12 al 14 marzo) e infine di Tolstoj in Anna Karenina (dal 15 al 17 marzo). Una selezione che attinge unicamente alla letteratura Ottocentesca, ma narra vicende che possono essere considerate ancora attuali. Perché?

“Sono figure – spiega il regista – legate a scelte d’amore molto forti, assolutamente non convenzionali, e se vogliamo anche assolutamente scorrette, che ci restituiscono tre figure di donne ribelli, estranee a ogni stereotipo. Le ho seguite appassionatamente e da vicino, ma senza giudicarle, né dal punto di vista politico né da quello morale. È semplicemente un campione di umanità che viene svelato. Probabilmente la trilogia dell’Ottocento continuerà con una del Novecento: sono sempre stato molto interessato all’universo femminile, anche se non ho la pretesa di capirlo. È una sorta di avvicinamento, di studio, di presa d’atto”.

Il contributo che quest’opera può dare è importante. Soprattutto considerando che spesso nel mondo dell’arte sussiste ancora un elemento di discriminazione sessista.

“Questo è vero, ma semplicemente perché il mondo dell’arte non è un universo a sé, bensì rispecchia la società nel suo complesso. È una cosa innegabile, ma sono fiducioso che le cose miglioreranno e cambieranno in futuro: ad esempio a Torino, dove lavoro (dirigendo il Teatro Piemonte Europa), abbiamo due assessori alla cultura donne, e questo lascia ben sperare. Si stanno pian piano abbattendo muri e categorie”.