Avanti un altro Pirandello, che – di questa stagione 18-19 – è il must have: I giganti della montagna diretto da Gabriele Lavia, che conclude così un suo ideale trittico dopo i Sei personaggi e L’uomo dal fiore in bocca.
Sostenuto dal Nazionale di Toscana, insieme con lo Stabile di Torino e il Biondo di Palermo, lo spettacolo vanta un grande sforzo produttivo, dallo sfarzo scenografico al robusto cast: affiancano, infatti, il capocomico Lavia ben ventidue interpreti, attori ma anche musicisti, mimi e danzatori.
La trama è onirica: una sgangherata compagnia di giro, guidata dalla contessa-primattrice Ilse, viene accolta in una villa incantata, “La Scalogna”, abitata da un mago-regista, tal Cotrone, e dal suo ensemble di straccioni. Cotrone è un tipo bizzarro, metà stregone e metà ciarlatano, metà uomo e metà fantasma: dice di essersi “fatto turco per il fallimento della poesia della cristianità” ed è colui – da indicazioni dello stesso regista – “che vive rifugiato o emarginato nella propria illusione che il teatro, cioè la poesia originaria, possa essere il luogo assoluto, lontano dai bruti giganti (forse noi stessi!)”.
A lungo meditato, scritto nel 1933 ma mai concluso, I giganti della montagna è considerato il testamento spirituale di Pirandello: anche per questo, come ogni testamento che si rispetti, è “fatto della stessa sostanza dei sogni”, nel solco, pure, della sempiterna tradizione drammaturgica che si interroga su vita e (è) sogno, sull’illusion comique, sulle trappole per topi, sulla grande magia e via così. È sempre la stessa storia: è realtà o recita? È verità o finzione? È veglia o sonno? È aldiquà o aldilà? Ma no, è un gioco, direbbero Cotrone, Pirandello e qualsiasi altro esperto di arte drammatica: basta crederci, proprio come i bambini.
L’allestimento è ricco – anche di trovate – e sfarzoso: dalle magniloquenti scene di Alessandro Camera (bellissimi il teatro diroccato e i sipari sghembi) agli sgargianti costumi di Andrea Viotti, dalle spumeggianti luci di Michelangelo Vitullo alle eloquenti musiche di Antonio Di Pofi, e poi le maschere e poi le coreografie e poi i movimenti di scena e poi gli ingressi che sfruttano tutto lo spazio, perfino la platea, a ricordare ogni volta il gioco del teatro-nel-teatro… La mole dei lavori in corso, in palcoscenico, è tanta, ma non sempre ben concertata: i gridati, la grinta e la rissosità di alcuni interpreti sfuggono alla conduzione del Lavia regista, ma soprattutto sono poco allineati rispetto alla recitazione del Lavia attore.
Il testo, indubbiamente, non aiuta, pieno com’è delle solite zavorre novecentesche di Pirandello (e la maschera e il volto e la psicologia e la sofistica…), compreso quel suo certo gusto per il torbido, le corna, la gelosia, i suicidi, i problemi della carne dall’ombelico in giù. Vana, infine, se non inattuale, è la speranza di un teatro-fortino, ultima roccaforte dell’umanità. O forse solo dei fantasmi, per chi ancora ci crede.