Ergastolo ostativo: non sia annacquato il testo attuale

Il 10 dicembre, su La7, don Luigi Ciotti ha fatto affermazioni tanto nette quanto necessarie. Ha detto che le forze politiche sulle mafie si sono accomodate per la normalizzazione. E ha detto che la normalizzazione è un alibi che uccide le persone e la democrazia e che umilia i magistrati e gli esponenti delle forze dell’ordine, che contro le mafie hanno combattuto e sono morte. Ma la normalizzazione mortifica anche chi lotta ancora, chi si impegna allo spasimo per contendere al potere mafioso quei pochi spazi di libertà rimasti, nel meridione d’Italia, ma soprattutto al Nord, dove le mafie si sono ben insediate da molti anni nelle fessure dell’economia legale, come don Ciotti ha giustamente sottolineato.

È allora importantissimo attirare l’attenzione sul lavoro silenzioso, ma faticoso, che la Commissione giustizia della Camera sta portando avanti sull’ergastolo ostativo (proposte 1951 e abbinate). Come i lettori ricorderanno, una sciagurata ordinanza della Corte costituzionale (la n. 87 del 2021) ha messo in mora il Parlamento su un meccanismo voluto da Giovanni Falcone per rendere più efficace il contrasto delle mafie. Gli ergastolani per i reati di mafia potevano accedere ad alcuni benefici penitenziari solo se collaboravano con la giustizia. Con una motivazione per molti aspetti paradossale, la Corte costituzionale ha ritenuto questo meccanismo – ispirato all’incontrovertibile dato d’esperienza che l’adesione alle cosche mafiose è una scelta di vita irreversibile – illegittimo.

Secondo la Corte, una chance diversa dal pentimento deve essere offerta anche ai mafiosi, nonostante abbiano commesso i più efferati delitti e nonostante che tutti (diconsi tutti) i processi di mafia attestino che il mafioso lo è per la vita e che la sua rieducazione è sostanzialmente impossibile, con l’unica eccezione della fattiva collaborazione con la giustizia.

Lo stesso 10 dicembre, presso la Commissione giustizia, è scaduto il termine per presentare emendamenti al testo base della proposta di legge che disciplinerebbe nuovamente l’ergastolo ostativo, dando però ampi poteri al giudice di sorveglianza (cosa che Falcone non voleva, perché preferiva il governo della legge a quello degli uomini). Ma tant’è. Allo stato attuale del testo, è affermato – in sintesi – che i benefici penitenziari possono essere concessi dal giudice all’ergastolano mafioso anche in mancanza di pentimento solo se vi sia il parere positivo del Procuratore nazionale antimafia e se risultino dati certi che conducano a escludere ogni residuo collegamento del condannato con la cosca di appartenenza e l’impossibilità che una nuova banda possa ricostituirsi. È anche previsto che – a ogni modo – prima della concessione dei benefici, il colpevole abbia risarcito i danni e scontato una parte significativa della pena.

Voglio esprimere ai parlamentari che portano avanti questo lavoro il mio sostegno più convinto: dobbiamo vigilare affinché il testo di legge vada in porto e non sia annacquato.

 

 

Buono sciopero a tutti: il conflitto è benvenuto

La proclamazione di otto ore di sciopero generale per quest’oggi ha suscitato nei benpensanti uno scalpore inusitato, dal sapore talmente vetusto da richiamare in molti fra noi i versi del compianto Paolo Pietrangeli: “Che roba contessa, all’industria di Aldo/ Han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti/ Volevano avere i salari aumentati/ Gridavano, pensi, di esser sfruttati”.

Verrebbe da dire che questo impulso di disapprovazione in cui s’è riunita la ex “grande stampa”, di fronte a una scelta sindacale accusata di “lesa maestà”, ha di per sé il pregio di riportarci con i piedi per terra: torna a manifestarsi la centralità del lavoro, la protesta di piazza non resta appannaggio dei no-vax e dell’estrema destra.

Lo sciopero generale di otto ore è un evento raro, indica una situazione grave. Solo quattro volte la Cgil l’ha indetto da sola, altre tre, come oggi, insieme alla Uil. L’ingiustizia sociale che lo motiva si riassume in poche cifre. In Italia cinque milioni di lavoratori percepiscono un salario inferiore ai 10 mila euro lordi l’anno. Tra disoccupati e inattivi si contano quattro milioni di persone. Tre milioni sono i precari, 2,7 milioni i part time involontari. Fate la somma e poi, se volete, pensate a quanti hanno smesso di votare. Non basta. Il Censis ha elaborato dati Ocse da cui si deduce che siamo l’unico Paese industrializzato in cui, negli ultimi 30 anni, le retribuzioni sono calate (del 2,9%). Un arretramento che neanche in Grecia e in Spagna si è verificato. Francia e Germania hanno visto crescere i redditi da lavoro di oltre il 30%.

Si obietterà che questa retrocessione del lavoro in Italia ha molti colpevoli, non ultimi i sindacati. Ma è evidente che di fronte al dramma della pandemia Covid, e con la dotazione eccezionale degli oltre 200 miliardi del Pnrr, dal Governo dei Migliori era lecito attendersi un impegno ben diverso a favore di chi sta pagando più duramente gli effetti della crisi. Invece si è imboccata la solita strada dei benefici a pioggia che avvantaggiano in proporzione i redditi medi e alti, escludendo anche il più timido provvedimento di redistribuzione della ricchezza; e rinunciando a inasprire l’azione di contrasto all’evasione fiscale. Non a caso la rottura fra i sindacati e il governo si è consumata sulla riforma delle aliquote fiscali, cioè sul patto di cittadinanza e di giustizia sociale senza cui la convivenza democratica rischia di soccombere, vittima di lacerazioni e disuguaglianze crescenti.

Ancora ieri, per la seconda volta in pochi giorni, Dario Di Vico ha attaccato sul Corriere della Sera i promotori dello sciopero, colpevoli di riproporre “l’antico paradigma del conflitto capitale-lavoro”. Per la verità, l’accusa è rivolta a una non meglio precisata “gauche italiana” (sic) “pervicacemente affezionata a una centralità del conflitto capitale-lavoro”. Non so davvero dove l’abbia trovata, questa sinistra italiana tardo-operaista. Preoccupati dei fragili equilibri di governo, non uno dei ministri, e neppure i segretari del Pd e di LeU, se la sono sentita di prendere posizione a favore della protesta sindacale. Quanto al M5S, continua a ricercare i consensi perduti facendosi paladino di agevolazioni e superbonus generici, buoni per tutti i gusti.

Se la sinistra negli ultimi 30 anni si fosse concentrata per davvero sul conflitto capitale-lavoro, chissà, forse non avremmo conosciuto la decurtazione delle buste paga e il dilagare del lavoro povero. A furia di considerare disdicevole, anziché fisiologico, il conflitto sociale, il sindacalismo confederale in molti settori si è visto soppiantare dal sindacalismo autonomo e corporativo. A furia di criticare i vincoli dei contratti nazionali, sta diffondendosi la piaga di accordi aziendali viziati dal caporalato e dalla violazione sistematica dei minimi retributivi.

Si sa, parlare di soldi suona volgare. Difatti la questione salariale, benché esplosiva, compare solo di sfuggita nell’agenda politica. Per mostrarsi aggiornati, come Di Vico, bisogna sostenere che il conflitto capitale-lavoro “ha trovato nel sistema delle relazioni industriali una buona regolazione”. Lo abbiamo constatato, dalla Fca all’Ilva. Così come abbiamo verificato i benefici del jobs act. Altri sarebbero i conflitti su cui il sindacato doveva intervenire: i giovani e le donne penalizzati, l’inserimento degli immigrati, la riconversione ambientale. Perché prendersela sempre con i padroni e il governo? Siamo nel Terzo millennio!

Lo sciopero di oggi ha un’indubbia natura politica. Ma non certo perché osa, per una volta, incrinare l’unanimità di consensi al governo Draghi, bensì perché riporta i sindacati a occuparsi di tasse e salari, chiedendo di avere voce in capitolo sulla destinazione dei fondi Pnrr e ignorando il ricatto di chi lo descrive ostile ai giovani, alle donne, agli immigrati e all’ambiente.

 

La genialata del Papa per fermare la crisi delle vocazioni dei preti

Mancano i preti. Nell’ultima domenica di novembre, durante una messa delle 9, un giovane sacerdote di Torino è stato preso a pugni dal parrocchiano cui non aveva impartito l’assoluzione il giorno prima. La brutalità dell’aggressione, ripresa col cellulare da un chierichetto e diffusa online il giorno stesso, ha richiesto l’intervento dei vertici della Chiesa italiana, che hanno punito l’energumeno con cinque anni di PaterAveGloria da recitare ad alta voce dentro un’Esselunga, di fronte ai surgelati.

Le busse ai preti; gli effetti della pandemia; un sistema ecclesiastico di incentivi ritenuto non più sufficiente; e la pervasività del porno su internet; sono i motivi che rendono sempre più difficile l’avvicinamento al sacerdozio da parte degli adolescenti. Secondo Pino Vidal, ex-sacerdote ora sposato con la sua perpetua rumena, già Miss Bucarest 1985, c’è bisogno di nuovi approcci: “Il sacerdozio è un’esperienza sana e formativa, e un modo istruttivo di occupare il proprio tempo, ma bisogna anche capire che i ragazzi d’oggi sono diversi da quelli della nostra generazione. Parlare di sacrifici può essere frainteso. Occorre incuriosire. La rosa è una fanerogama, il Papa è un vertebrato: comincerei da qui”.

La “crisi delle vocazioni”, come viene chiamata, sta creando molti problemi nelle parrocchie. Dal 2018 a oggi, l’Associazione Clero Italiano (Aci) ha perso 523 sacerdoti; ma sono anni che nei seminari di molte Regioni latitano nuovi iscritti. Con la ripresa delle messe in presenza dopo la lunga sospensione da pandemia, gli effetti del mancato ricambio generazionale si stanno notando. Da qualche mese, in Valle d’Aosta le messe sono celebrate dalla sagoma in cartone di un prete con cd audio incorporato, per mancanza di personale. In Lombardia, un po’ per bisogno e un po’ per dare un segnale a tutto il settore, è stato chiesto aiuto ai preti in pensione, ben felici di avere qualcosa da fare invece che passare il tempo nella Casa del Clero a guardare l’ennesima replica del tenente Colombo. La ripresa delle attività, però, ha reso evidente un altro fatto: durante la pandemia, centinaia di fedeli hanno perso l’abitudine di recarsi in chiesa, e preferiscono seguire la messa in tv. Questo smart working riduce la necessità di preti, e forse, chissà, un giorno solo il papa celebrerà l’unica messa del pianeta, trasmessa da tutte le tv del globo in diretta da S. Pietro, e le chiese ormai inutili verranno vendute alle multinazionali: il Duomo di Milano sarebbe un McDonald’s incredibile, San Pietro un hub Amazon perfetto.

Bergoglio, nel frattempo, cerca di rinserrare le fila sacerdotali con un’iniziativa definita “storica” da L’Osservatore Romano. Attraverso una modifica del Codice di Diritto Canonico, verrà consentito al fedele di frequentare la messa sia come parte del gregge che come pastore (il cosiddetto “doppio tesseramento”), previo corso di avviamento al sacerdozio. L’Osservatore Romano ha definito il doppio tesseramento “un momento cruciale” per la categoria: “L’idea di avere un prete che ha fatto il fedele è un salto culturale. In questo modo non sarà più visto come l’uomo nero, ma come un compagno di giochi: ne beneficeranno sia le messe che i fedeli”. Resta il problema dell’attrattiva e degli incentivi. Il corso di formazione è gratuito. Dopodiché inizia la cosiddetta gavetta, dove per anni si dice messa ricevendo rimborsi sommari (30 euro per trasferte entro i 50 chilometri, escort e droga esclusi). Come spiega Vidal, “per tutti i presbiteri oggi in servizio, dire messa è stato spesso solo un hobby impegnativo, segnato da sacrifici non sostenuti dall’esterno e motivati esclusivamente dalla passione: la stessa che ora però sembra non bastare più”.

 

Ehrman faceva le domande giuste, ora sono passate di moda

Si celebra Riccardo Ehrman che con la domanda giusta fece cadere il Muro di Berlino. “Da quando entreranno in vigore le nuove norme?”, chiese. “Per quanto ne so, subito”, rispose, forse senza pensarci troppo, il portavoce del regime della Germania dell’Est. Subito migliaia di persone si affollarono ai varchi incontro alla libertà. Ehrman era il corrispondente dell’agenzia Ansa, e il suo preciso dovere consisteva nel cercare le notizie, trovarle e poi trasmetterle in fretta. Perché l’Ansa non pubblica opinioni, sermoni, non fa polemiche (casomai le accende), non divaga, non parla in prima persona: racconta ciò che avviene, punto. Senza agitarsi, senza strillare perché se la notizia c’è canta da sola. Vero è che la domanda giusta necessita della risposta giusta. Ma non sempre, anzi quasi mai, noi giornalisti ci troviamo di fronte uno Schabowski in grado di cambiare il corso della Storia.

Prendiamo la nostra politica dove le conferenze stampa sopravvivono come reperti di un cerimoniale stanco. Soppiantate dai retroscena che sono l’anticristo dei fatti accertati: virgolettati senza un nome, sospesi sulle nuvole delle dicerie, dei figli di nessuno che possono dire quello che vogliono (o ciò che si preferisce dicano). Tanto chi può smentire? La critica abituale è che manca la seconda domanda quando spesso è la prima a essere occultata in una matrioska involuta di subordinate e relative che si perde per strada e alla fine non si capisce più cosa si voleva chiedere. Se poi c’è la diretta televisiva, l’importante è non mollare il microfono per dare modo ai parenti e alla fidanzata di ammirarti.

A Ehrman furono sufficienti otto parole e un punto di domanda per essere portato in trionfo dai berlinesi. Inutile meravigliarsi perciò se capita che le risposte siano evasive, generiche, vaghe, sfuggenti: delle non risposte a delle non domande. Altro che news, vuoi mettere certe saporose fake news?

Il “lodo”, il “kapò”, Telekom e B. “più uguale degli altri”

2003, 20 maggio. Nuova intimidazione del governo Berlusconi ai pm dei suoi processi. Su input del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, quello della Giustizia Roberto Castelli sguinzaglia un’altra ispezione alla Procura di Milano per farle le pulci sulle spese (parcelle per consulenti tecnici e perizie, costi delle intercettazioni, cancelleria, timbri ecc.): anche questa si chiuderà accertando la piena correttezza dei magistrati.

29 maggio. Il pm Ilda Boccassini chiude la requisitoria del processo Sme-Ariosto con le richieste di condanna per tutti gli imputati (tranne Berlusconi, che è stato stralciato). Ferruccio de Bortoli è costretto a lasciare la direzione del Corriere della Sera dopo un lungo braccio di ferro con gli avvocati del premier e con Previti. Negli stessi giorni la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Telekom Serbia (la compagnia telefonica di Belgrado acquistata dalla Stet nel 1999 sotto il governo Prodi) estrae dal cilindro un noto truffatore, tale Igor Marini, consacrandolo a “supertestimone” di presunte tangenti versate dal regime di Milosevic a Prodi, Fassino, Dini e altri politici del centrosinistra.

3 giugno. Su richiesta degli imputati Berlusconi e Previti, parte la terza ispezione straordinaria di Castelli contro il pool di Milano, stavolta per mettere le mani sul fascicolo n. 9520/95 che contiene gli atti delle indagini sulle “toghe sporche” non ancora approdate a processo e che Previti e Berlusconi pretendono di conoscere. Essendo coperto da segreto investigativo, i pm rifiutano di consegnarlo agli imputati. Ma l’ingegner ministro, sdegnato contro una Procura che tiene segreti gli atti segreti, vuol capire il perché. L’ispezione finirà con un altro buco nell’acqua.

5 giugno. Il Senato approva il “lodo” Maccanico-Schifani che sospende i processi a carico delle cinque più alte cariche dello Stato, cioè del premier (unica carica dello Stato sotto processo). Per dargli priorità, viene inserito come emendamento nella legge Boato (Marco, ex lottatore continuo eletto nei Verdi): quella che estende l’immunità parlamentare alle intercettazioni “indirette” e impone ai giudici di chiedere l’autorizzazione a procedere alle Camere anche per le conversazioni indirette, cioè captate su telefoni di non parlamentari che parlano con parlamentari (così si salveranno da imbarazzanti intercettazioni Dell’Utri, Cuffaro, Berlusconi, Martinat, Luigi Grillo, Miccichè, Vincenzo De Luca, D’Alema, Latorre).

11 giugno. Il Senato licenzia definitivamente un’altra legge ad personam: quella sul patteggiamento allargato, che consentirà agli imputati di sospendere i loro processi per 45 giorni per valutare se patteggiare la pena in fase dibattimentale. Previti la userà subito per allungare i tempi del processo Sme/ Ariosto.

17 giugno. Secondo round delle dichiarazioni spontanee del premier al processo-stralcio Sme-Ariosto. Berlusconi si proclama “un cittadino un po’ più uguale degli altri perché ho avuto i voti”. In totale, nelle due tappe, ha parlato per due ore e ha raccontato un’ottantina di bugie sul caso Sme.

18 giugno. La Camera approva definitivamente la legge Maccanico-Schifani. I processi a Berlusconi sono sospesi finché l’imputato non uscirà da Palazzo Chigi. Ciampi firma in meno di 24 ore: giusto in tempo per impedire alla Boccassini di iniziare la requisitoria e chiedere la condanna del premier. Il Tribunale solleva un’eccezione di incostituzionalità della norma dinanzi alla Consulta, poi congela il processo-stralcio al Cavaliere. In quello principale, Previti approfitta dei 45 giorni concessi dal nuovo patteggiamento allargato: non per patteggiare, ma per far slittare la sentenza a dopo l’estate e comunicare, alla fine, che non patteggia.

1° luglio. Berlusconi debutta a Strasburgo, nell’aula del Parlamento europeo, come presidente di turno dell’Ue dando del “kapò nazista” al capogruppo socialista, il tedesco Martin Schulz, che ha osato evocare i suoi conflitti d’interessi. Poi insulta come “turisti della democrazia” tutti gli eurodeputati che lo contestano per quelle inaudite parole.

8 agosto. Il Tribunale di Milano deposita motivazioni della sentenza sul doppio scandalo Imi- Sir/Mondadori, definito dai giudici “il più grave caso di corruzione della storia d’Italia e non solo”. Per neutralizzarne l’impatto, la commissione Telekom Serbia interroga per tutta l’estate il truffatore Igor Marini, intanto arrestato per le sue menzogne, e ne diffonde le calunnie a Prodi, Fassino e Dini (nomi in codice “Mortadella”, “Cicogna” e “Ranocchio”).

4 settembre. Altra figuraccia mondiale di Berlusconi: in un’intervista al britannico The Spectator, definisce i magistrati “tre volte matti e antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. E riabilita Benito Mussolini: “Non ha mai ucciso nessuno, anzi mandava la gente in vacanza al confino”.

5 dicembre. Il centrodestra approva definitivamente la legge Gasparri per salvare Rete 4. Nel 2002 la Consulta ha dichiarato incostituzionali le proroghe concesse dalla legge Maccanico e disposto che l’emittente berlusconiana venga “spenta” sull’analogico terrestre ed eventualmente trasferita sul satellite entro il 31 dicembre 2003. Ma la Gasparri aggira la sentenza della Corte, consentendo a tutte e tre le reti Mediaset di continuare a trasmettere sull’analogico terrestre, e persino di aumentare a dismisura la raccolta pubblicitaria.

16 dicembre. Ciampi non firma la Gasparri e la rispedisce al Parlamento per vari profili di incostituzionalità. Mancano due settimane allo spegnimento di Rete 4. Gasparri, o chi per lui, appronta subito un decreto salva-Rete 4 per prorogare la scadenza di altri mesi, in attesa di modificare la legge appena bocciata: è il decreto 352/ 2003, firmato dal premier Berlusconi, unico beneficiario, che esce dall’aula del Consiglio dei ministri mentre quelli lo approvano all’unanimità. Ciampi, malgrado l’evidente mancanza dei requisiti di necessità e urgenza, lo spudorato conflitto d’interessi e la manifesta incostituzionalità di un decreto che neutralizza due sentenze della Consulta, stavolta firma. Il 2003 si chiude con due condoni (quello edilizio e la proroga dello scudo fiscale del 2001) e con una norma bipartisan infilata nella Finanziaria per riportare in servizio il giudice Corrado Carnevale, dimessosi dopo la condanna in appello per mafia e poi assolto dai suoi ex colleghi della Cassazione, che per l’occasione hanno modificato la loro stessa giurisprudenza. Firmata da Santanchè (An), Maccanico (Margherita), Mastella (Udeur), Villetti (Sdi), Boato (Verdi) e votata da tutti i partiti (Ds esclusi), la norma stabilisce che l’“ammazza-sentenze” che insultava Falcone e Borsellino e annullava le condanne per mafia potrà restare in servizio ben oltre l’età pensionabile (75 anni), recuperando gli anni perduti. Nel 2006 Carnevale rientrerà in Cassazione per restarci fino al 2013, quando avrà 83 anni.

(14 – Continua)

Verdini consigliori del genero Salvini: come bruciare Silvio per lanciare Pera

Si muove, anche se felpatamente. Gli arresti domiciliari – sebbene scontati nella lussuosa villa di Pian de’ Giullari, sulle colline di Firenze – gli impongono una certa discrezione. Non sono più i tempi dei gemelli d’oro esposti in bella mostra nel salone Garibaldi del Senato, dei parlamentari presi a braccetto per convincerli a sostenere il capo (“Oh, stai con noi?”) e della Maybach da mezzo milione su cui viaggiava per il centro di Roma (la scorta non si azzardava a guidarla per non ammaccarla). Epperò Denis Verdini non ha certo smesso di fare politica. Per un vampiro dei conti parlamentari come lui, l’elezione del presidente della Repubblica è come una ciotola di sangue fresco. Non ci può rinunciare. Per questo si muove. Fa telefonate, consulta gli amici di una vita, chiama e viene chiamato dai parlamentari. Ma soprattutto fa il doppio gioco.

Perché se da una parte ad Arcore si sono sentiti rassicurati dall’ex macellaio di Fivizzano sul fatto che i numeri per Silvio “ci sono”, “usciranno”, “30 parlamentari del Misto verranno fuori al momento giusto”, dall’altra Verdini tesse la sua tela con Matteo Salvini. Da ex sherpa di Silvio, Verdini vuole diventare il suocero d’Italia ergendo Salvini a kingmaker del Colle. E dunque trama con il leader della Lega. Tra lunedì e martedì Salvini ha avviato le sue consultazioni ufficiali per il Quirinale. Ben pubblicizzate e quindi inutili. Nel frattempo però ne sta facendo altre, che non rivela a nessuno. Tra queste c’è anche quella in famiglia. Perché nei giorni scorsi, raccontano fonti ben informate, il leader della Lega ha chiamato al telefono il suocero Verdini, padre della fidanzata Francesca. Quest’ultimo, che anche se da lontano conosce a menadito le dinamiche parlamentari, gli ha spiegato che la candidatura di Berlusconi dovrà resistere fino a gennaio e nel frattempo ha consigliato al leader della Lega di muoversi su altri tavoli. Esporre Berlusconi per nascondere altri nomi. Quando si capirà che il leader di Forza Italia non ha i numeri, è la tesi di Verdini, il centrodestra potrà mettere sul piatto un altro profilo da eleggere al quarto scrutinio nel caso in cui Draghi rimanesse a Palazzo Chigi. Per esempio il suo amico Marcello Pera, che negli ultimi mesi è diventato uno dei più ascoltati consiglieri di Salvini, sabato scorso è stato applauditissimo dalla platea di Atreju (“Qui mi sento a casa” ha detto lui) ed è molto stimato anche da Matteo Renzi che, proprio a margine del dibattito, ha avuto un colloquio con il filosofo di Lucca. Il leader di Italia Viva, subito dopo, ha detto ai microfoni: “Gli ex presidenti delle Camere hanno una carta in più”.

Lo standing, Pera, ce l’avrebbe pure: ex presidente del Senato, ex esponente di peso di Forza Italia, conoscitore dei Palazzi romani. Ma di fronte a lui ha due ostacoli: difficilmente potrebbe raccogliere voti nel centrosinistra ed è osteggiato dal suo ex leader Berlusconi che lo descrive come “noiosissimo”. Ma Verdini vuole provarci lo stesso.

E per eleggere un presidente di centrodestra serve anche che i tre partiti maggiori – Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia – si appoggino a una quarta gamba centrista guidata da Renzi. È in questa prospettiva che nei prossimi giorni nascerà il gruppo unico composto da Coraggio Italia (partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro) e Italia Viva. Un pacchetto da oltre 70 parlamentari che diventerebbero preziosi per il Colle.

Raccontano che tra gli artefici di questo gruppo ci sia anche Verdini, che da mesi sta facendo da trait d’union tra i due Matteo. Tant’è che lunedì, nel colloquio con Toti, proprio Salvini (che finora era stato scettico) ha dato il suo via libera all’operazione di fusione tra i due gruppi. Ieri il presidente della Regione Liguria ha negato che su questo progetto ci siano frizioni con il sindaco di Venezia Brugnaro e dato un indizio sull’accelerazione dei tempi per il nuovo gruppo centrista: “Spero che si possa passare a un’ulteriore fase ampliativa del movimento al centro – ha detto ieri Toti – È un disegno di aggregazione su cui sono disposto a sacrificare nomi e poltrone”. Sabato si vedrà con Renzi e dopo il faccia a faccia partirà il nuovo progetto. Per contare sul Quirinale.

La barzelletta di B. “patriota”: “Pacificare e non demonizzare”

Basta “demonizzare l’avversario”, ci vuole un “bipolarismo maturo” in cui l’avversario è “un interlocutore e non un nemico da distruggere”. Silvio Berlusconi si muove sulle uova: si guarda bene dall’annunciare in maniera esplicita la propria candidatura al Colle, ma manda messaggi di pacificazione mentre i suoi collaboratori lavorano per lui. Come a dire: mettiamo da parte le vecchie acrimonie, posso essere il presidente di tutti.

Dopo la fuga all’ultimo minuto dall’intervista con Bruno Vespa, ieri Berlusconi ha scelto la presentazione del libro di Gianfranco Rotondi (La variante Dc, Solferino) per lanciare un appello in vista del voto per il Quirinale. Niente domande, solo un collegamento telefonico in cui Silvio ha letto una lettera rivolta a Rotondi, elogiato per il suo impegno nel portare avanti “i valori della Dc”. Secondo Silvio, dal 1994 in poi l’Italia ha vissuto “un bipolarismo immaturo, perché basato sulla demonizzazione dell’avversario, considerato non come un interlocutore, ma come un nemico da distruggere”. Ma adesso, “grazie al governo Draghi”, le cose possono cambiare: “Ci sono le condizioni per tornare a un bipolarismo fondato sul rispetto per l’altro e sul comune senso di appartenenza alla Nazione, alla Patria, alla sua Costituzione, alle sue istituzioni democratiche”. Un rimando quindi anche al concetto di “patriota” evocato giorni fa da Giorgia Meloni nell’identificare il profilo del prossimo presidente. E se per Beppe Sala, presente al dibattito assieme a Peter Gomez e Alessandro Sallusti, l’elezione di Berlusconi “è un’operazione difficile”, il direttore de ilfattoquotidiano.it è più possibilista: “Non è così impossibile, se si incartano e la destra è compatta gli mancano una cinquantina di voti”. Stessa tesi di Rotondi, che sogna l’elezione di B. e poi una grande riforma che porti al presidenzialismo. Silvio ci crede e per questo calibra ogni uscita pubblica.

Così ha annullato la presentazione del libro di Bruno Vespa, che si doveva tenere ieri pomeriggio al Tempio di Adriano a Roma. Motivazione filtrata da Arcore: qualche linea di febbre. In realtà, Berlusconi non poteva rispondere ad alcune domande che il conduttore di Porta a Porta aveva mandato nei giorni scorsi al suo staff. Quesiti non particolarmente scomodi, ma che comunque avrebbero obbligato l’ex premier a esporsi sulla corsa al Colle: “È vero che vuole candidarsi?”, “Come si vedrebbe al Quirinale?”, “Sta davvero convincendo i parlamentari a votarla?”. Domande scottanti a cui Berlusconi non voleva rispondere. Dopo una trattativa col suo staff che aveva chiesto a Vespa di eliminare i quesiti e dopo il diniego del giornalista, il leader di Forza Italia ha deciso di dare forfait. Mandando Vespa su tutte le furie: “Arcore spiegherà il motivo” ha detto il giornalista. Di spiegazioni convincenti, però, non ne sono ancora arrivate.

“Mancavano elementi per decidere, in aula 5S contro Renzi e Cesaro”

Tre senatrici su tre del M5S si sono astenute nella Giunta delle immunità sul caso di Matteo Renzi. Ma se si parla di autogol o cortocircuito a Maria Domenica Castellone, capogruppo dei 5Stelle a Palazzo Madama, lei reagisce: “Io mi fido moltissimo delle nostre tre parlamentari, che in quella giunta sono di fatto delle giudici: la giunta è un vero e proprio tribunale, e i giudici decidono leggendo atti e documenti”.

Come è possibile astenersi su una vicenda come quella della fondazione Open? C’è sconcerto anche tra i parlamentari.

Il voto di martedì era inatteso e noi non avevamo concordato una linea con le nostre commissarie in giunta, che è un organo tecnico del Senato. Le colleghe hanno ritenuto di trovarsi di fronte a un pastrocchio giuridico, tanto che avevano chiesto di acquisire documenti importanti, ma la loro richiesta è stata respinta. Poi si è votato, ma non certo sull’immunità.

Il nodo è politico e le vostre senatrici sono delle elette.

In Aula il M5S esprimerà una posizione politica, che non può certamente essere quella di salvare Renzi. In Giunta le colleghe hanno ritenuto di non essere in grado di decidere per mancanza di elementi. Loro non si regolano in base a sentimenti di antipatia o simpatia.

Intanto Renzi esulta e attacca i pm. Brutto, no?

Non c’è nulla da esultare, ci sarà il voto in Aula.

Secondo la senatrice Elvira Evangelista c’è stata una “strumentalizzazione politica” del caso. Concorda?

Vedo un attacco perenne al M5S, che si è astenuto perché, lo ripeto, il voto senza i documenti necessari è stato una farsa.

In Giunta è stata anche respinta la richiesta di arresti domiciliari per il forzista Cesaro con i no di centrodestra e Iv e l’astensione di tutti gli altri, compresi voi 5Stelle. Altre prove di alleanza per il Colle tra Renzi e le destre?

Queste prove sono in corso da tempo ed è il nodo centrale di quanto accaduto ieri. Settimane fa, il centrodestra e Iv avevano votato contro il parere del governo sul decreto capienze, andando contro anche un ministro di FI.

Scrive Giuseppe Conte che i politici devono difendersi “nei processi o non dai processi”, e vale “per Renzi come per Cesaro”. In definitiva, in giunta avete sottovalutato i ricaschi politici?

Questa espressa da Conte è da sempre la visione del Movimento, e nel voto in Aula sarà ben manifesta.

Lei sta lavorando alla manovra. Palazzo Chigi non stravede per il vostro superbonus, giusto?

Stiamo incidendo. Quest’anno per le poche risorse a disposizione, 600 milioni, insistiamo su macro-temi condivisi da tutta la maggioranza: superbonus, scuola, bollette, Reddito di cittadinanza, sisma. Verranno presentati emendamenti comuni e abbiamo lavorato moltissimo sul superbonus, puntando al superamento della soglia Isee e del limite della prima casa. Ma si punta anche all’estensione alle Rsa e alle onlus.

Si parla di 3 miliardi e 800 milioni contro il rincaro delle bollette. Ma è solo una pezza, no?

Quella cifra è l’obiettivo a cui dovremmo arrivare. Dopodiché serve una soluzione strutturale sul tema, e oggi anche Draghi lo ha detto in Aula.

Il premier deve restare dov’è?

Certo. A noi è costato tantissimo far nascere questo governo, che deve completare la campagna vaccinale e attuare il Pnrr. L’80% delle norme sul piano deve passare dal Parlamento: non è concepibile neanche un mese di pausa dei lavori.

La Giunta dell’impunità: ecco i salvati dalla Casta

La regola numero uno è fare melina, traccheggiare e se non basta lavorare di fino: fatto sta che in Parlamento, quando si tratta di votare sulle grane giudiziarie di deputati e senatori, si viaggia con il freno tirato e sempre con qualche asso nella manica. Pur di accordare lo scudo dell’immunità che salva dai processi Lorsignori persino quando insultano sui social. Figurarsi quando i magistrati chiedono misure cautelari o di poter utilizzare le intercettazioni che inguaiano deputati e senatori: lì prevale sempre la cautela estrema, ma più spesso la mandrakata.

Un esempio? La Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama, per dire, si è inventata persino la immunità parlamentare retroattiva pur si salvare dal processo Gabriele Albertini e sì, come ha poi certificato la Consulta, che non era ancora senatore quando aveva coperto di accuse infamanti il magistrato Alfredo Robledo. E che dire dell’assist servito su un piatto d’argento alla leghista Cinzia Bonfrisco? Sempre il Senato ha deciso che aver favorito in ogni modo un’azienda, che poi l’aveva generosamente ricompensata, rientrava nel libero esercizio delle sue prerogative parlamentari, altro che reato.

L’ultimo regalo è però quello a Matteo Renzi per il quale la Giunta ha agito in tempi record, tre sedute appena – tale era la fretta – per mettere nero su bianco che i pm che gli contestano il finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta su Fondazione Open, hanno sviato l’indagine violando le sue prerogative e quelle del Senato tutto. Che dunque per lui intende sollevare un conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta dove sotto processo sarà l’operato dei magistrati proprio com’era fin dal principio nel disegno del leader di Italia Viva. Stesso servigio che, a maggior ragione dopo il sì a Renzi, ora pretende per sé pure Carlo Giovanardi che è già a processo per fatti gravissimi: stando alle accuse, pur di ottenere dai funzionari della prefettura di Modena che una ditta sua amica in odore di ’ndrangheta, come si è poi scoperto, potesse lavorare alla ricostruzione post-terremoto, avrebbe fatto fuoco e fiamme minacciando di usare persino le sue conoscenze al Viminale.

La Giunta, intanto, due giorni fa, ha già salvato Giggino ’a Purpetta, al secolo Luigi Cesaro , che ha invece alle calcagna i magistrati di Napoli che lo accusano di concorso in associazione di tipo mafioso e corruzione elettorale: per i magistrati partenopei avrebbe dato un “un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo alla conservazione, all’operatività e al rafforzamento” del clan Puca favorendone gli affari e l’infiltrazione nel Comune di Sant’Antimo, comune natìo del senatore forzista e dei suoi fratelli con lui coimputati: la Giunta ha respinto la richiesta dei domiciliari perché “il pericolo di reiterazione del reato non è ravvisabile sia perché il senatore Cesaro è incensurato sia perché i fatti sono risalenti nel tempo”.

Ha dunque eccellenti motivi per ben sperare anche l’altro senatore azzurro Marco Siclari: ha fatto in tempo a essere processato e condannato dal Tribunale di Reggio Calabria a cinque anni e quattro mesi con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso in scambio elettorale politico-mafioso grazie al quale ha conquistato lo scranno nel 2018. Ma i suoi colleghi non hanno avuto ancora mezzo minuto di tempo per decidere sulla richiesta di arresto inoltrata al Senato il 20 febbraio 2020.

E che fine ha fatto dal 2019 la richiesta di autorizzazione della Procura di Milano nei confronti all’ex potentissimo sottosegretario leghista Armando Siri, accusato di aver ricevuto dalla Banca di San Marino mutui a tasso di strafavore? La pratica non è mai stata calendarizzata per il voto definitivo dell’aula del Senato. La Giunta invece continua a rinviare sulla richiesta di autorizzazione per l’uso di intercettazioni formulata a settembre dalla Procura di Roma dove Siri è a processo con l’accusa di essersi dato da fare, in cambio della promessa di una mazzetta, per favorire Paolo Arata, l’imprenditore in affari con il re dell’eolico Vito Nicastri considerato uno dei finanziatori di Matteo Messina Denaro. Guanti bianchi anche per il leghista Roberto Marti inseguito dall’accusa di tentato abuso di ufficio, falso ideologico aggravato e tentato peculato per aver favorito illecitamente l’assegnazione di una casa popolare al fratello di un boss. I magistrati di Lecce si sono rivolti alla Camera (dove era eletto all’epoca dei fatti contestati) a febbraio 2019 per chiedere l’autorizzazione a usare talune intercettazioni compromettenti: dopo mesi e mesi per stabilire di chi fosse la competenza a decidere la pratica è passata al Senato che solo a maggio 2021 ha emesso il suo verdetto: sono state autorizzate solo le intercettazioni per lui meno compromettenti, perché le altre sono state ritenute illegittime. Motivazione? I magistrati non potevano non sapere che intercettando i suoi sodali sarebbe inevitabilmente finito nella rete delle captazioni pure lui.

Alla Camera, Barbara Saltamartini, della Lega, indagata per aver insultato un giornalista, ha scampato il processo nonostante non vi fosse alcun aggancio tra le sue parole e la sua attività parlamentare. I suoi colleghi di Montecitorio hanno stabilito che lo scudo per lei dovesse valere lo stesso, perché non era certo colpa sua se in quel periodo la Camera era chiusa, causa crisi di governo. Quisquilie se paragonate al caso di Diego Sozzani di FI.

I magistrati che lo stanno processando per l’affare “Mensa dei poveri” (un sistema di mazzette, appalti, nomine pilotate e finanziamenti illeciti che ha lambito i massimi vertici della Regione Lombardia), si sono visti respingere la richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni e pure la richiesta di arresto. Prima i deputati hanno fatto secche le intercettazioni ché le captazioni tramite trojan installato sul telefono di Nino Caianiello (ex coordinatore di Forza Italia a Varese che per l’inchiesta ha già patteggiato 4 anni e 10 mesi di condanna) “sono prevalentemente effettuate in un bar abitualmente frequentato dal deputato Sozzani”. Risultato? Sono inutilizzabili perché ritenute non casuali. Ma non è tutto: la Giunta aveva almeno dato semaforo verde alla richiesta di arresto, tale era la mole di indizi a suo carico, ma poi la mandrakata l’aveva fatta l’aula al momento del voto definitivo. Quando con il favore del voto segreto in 309, nove avevano detto no all’arresto lasciandolo a piede liberissimo.

Poi c’è il caso di Cosimo Ferri. È già stato graziato dalla Giunta per le autorizzazioni, che ha impallinato la richiesta che aveva fatto il Csm per poter utilizzare le intercettazioni di Perugia del Palamaragate onde potergli almeno mettere una nota sul registro disciplinare, laddove per gli stessi fatti i suoi colleghi magistrati che con lui si erano apparecchiati all’hotel Champagne c’hanno rimesso la carriera. Ora manca solo l’aula e poi nessuno potrà più fargli niente.

Bollette, Draghi apre: “Tassare i big”. Rinviato lo stop al mercato tutelato

Per la maxi-stangata che si abbatterà su famiglie e imprese nel primo trimestre del nuovo anno non c’è più niente da fare. Il governo ha stanziato, a fatica, 3,8 miliardi che basteranno a contenere di appena un terzo gli aumenti, fino al 45%, con aiuti mirati solo per le famiglie più bisognose. Il premier Mario Draghi ha ripetuto alla Camera e al Senato, in vista del Consiglio europeo di oggi e domani, che il governo negli ultimi sei mesi ha già previsto otto miliardi. Ma che non si potranno continuare a trovare altre risorse per tutelare famiglie e imprese, “perché la crisi energetica è un fenomeno strutturale e non temporaneo”. In altre parole si dovranno fare i conti con le incognite dei prossimi mesi (i rapporti tra Russia e Ucraina e le sorti del gasdotto North Stream 2) guardando all’Europa. Gli schieramenti sono tracciati: Italia, Francia e Spagna chiedono una regolamentazione dei prezzi e stoccaggi comuni del gas, ma Germania, Austria, Danimarca e Olanda, che usano molto carbone, si dicono contrarie. “Noi siamo quelli che paghiamo di più per i mix di energia, le tecnologie impiegati, le condizioni di partenza e per la scelta di alcuni Paesi di rifiutare di bloccare gli investimenti sul carbone”, ha detto Draghi.

Insomma, una partita complicata, anche se di tempo non ce n’è molto per evitare che anche nei prossimi mesi le bollette massacrino gli italiani. Il premier l’ha lanciata così: “Arriveremo a un momento in cui anche le grandi aziende energetiche dovranno dare una mano sul caro bollette”. Un’apertura che per il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è però assai lontana. “Eni ed Enel dovrebbero stringere la cinghia per non far pagare troppo la bolletta? Sono due aziende a dimensione mondiale, è probabile che arriverà il momento in cui anche loro dovranno dare una mano”, ha detto.

La tassazione degli utili miliardari per attutire i rincari delle bollette, è la strada seguita dal governo di Pedro Sanchez in Spagna, che a settembre ha introdotto una tassa temporanea sugli extra-profitti realizzati dalle società energetiche che punta a incassare 2,6 miliardi. Ma a metà ottobre gli amministratori delegati dell’italiana Enel, Francesco Starace, della danese Orsted, della svedese Vattenfall e della portoghese Edp hanno scritto una lettera comune alla Commissione Ue e agli Stati membri per respingere l’ipotesi di estendere le misure introdotte da Madrid. La missiva conteneva un avvertimento contro “misure politiche miopi” che rischiano di minare la fiducia del mercato e ostacolare la transizione verde. Secondo i quattro manager, la tassazione potrebbe costare più di 5,5 miliardi alle loro società: “Una misura sproporzionata e mal concepita”, scrivevano. Ma per i pochi grossi operatori italiani che controllano il mercato le brutte novità non finiscono: un emendamento al decreto Recovery presentato da M5S fa slittare per l’ennesima volta di un anno, al primo gennaio 2024, la fine del mercato tutelato per evitare che le famiglie finiscano per pagare di più.

Intanto il prezzo del gas corre e traina quello dell’elettricità. Se il primo da gennaio è aumentato di oltre il 170% in Europa, su base annua, un raddoppio dei prezzi della corrente all’ingrosso da 50 a 100 euro/megawattora implicherebbe che i consumatori Ue pagherebbero fino a 150 miliardi in più. La povertà energetica è rilevante: la percentuale di chi dice di non potersi permettere di riscaldare casa va dal 30,1% in Bulgaria all’11,1% in Italia.